DeVinis n. 91 Gennaio-Febbraio 2010

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Anno XVII - n. 91 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Gennaio / Febbraio 2010

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

Non perdiamo

tempo

di Terenzio Medri

opo 18 anni di onorato servizio la legge 164/1992 sul vino italiano, con qualche “se” e con qualche “ma”, sta per andare in pensione. Il nuovo decreto legislativo sulla tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche ha l’ambizioso obiettivo di mettere ordine nel settore forse più prestigioso dell’agroalimentare italiano, rinnovando il testo legislativo più importante in materia enologica, per certi versi ancora attuale e non del tutto applicato, adeguandolo alle innovazioni introdotte dalla nuova Ocm. Secondo noi la novità più eclatante di questa legge risiede nei controlli sulla qualità del prodotto che verranno affidati a un soggetto esterno e non saranno quindi più effettuati dai Consorzi. Questo tutelerà i produttori onesti e, almeno sulla carta, eviterà casi come quelli a cui abbiamo purtroppo assistito recentemente. Ecco, questa terzietà dei controlli, a nostro avviso, è una garanzia non solo per i consumatori, ma anche per le oltre 250 mila aziende che dovranno applicare questa normativa. Per loro il lato positivo è costituito anche dalla “sburocratizzazione” di determinati comparti e dalla semplificazione di numerose procedure. Detto questo dobbiamo tuttavia aggiungere che il percorso del decreto non è in discesa e che il testo non è ovviamente definitivo. Dopo il sì del Consiglio dei ministri la riforma ha già incassato il via libera dalla Conferenza Stato-Regioni. Poi si dovrà confrontare con il Parlamento passando al vaglio delle Commissioni competenti di Camera e Senato. Da qui tornerà a Palazzo Chigi, dove i ministri dovranno approvarla definitivamente. Dopo tutti questi passaggi ci sarà la promulgazione del Presidente della Repubblica. Gli ostacoli non mancano: le modifiche hanno ricevuto apprezzamenti ma anche critiche, quindi ci saranno ulteriori cambiamenti. In più se l’attuale ministro delle Politiche agricole dovesse lasciare la sua carica per un’altra destinazione, occorrerà verificare se il nuovo titolare del dicastero continuerà a percorrere la strada di Zaia. Noi ovviamente ci auguriamo di sì perché in tali questioni, importanti per i produttori, per l’immagine delle nostre eccellenze nel mondo e per la tutela dei consumatori, non bisogna perdere tempo. Dopo il lungo e prezioso lavoro di concertazione con le parti sociali, con la filiera e con le regioni sarebbe veramente un peccato.

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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVII gennaio-febbraio 2010 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Roberto Pizzi, pubblicita@sommeliersonline.it tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Andreolassi Renato, Ennio Baccianella, Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Pinuccio Del Menico, Elisa della Barba, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Salvatore Giannella, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Valentina Pillot, Paolo Pirovano, Edilio Rusconi, Lorenzo Simoncelli, Daniele Urso, Franco Ziliani. Fotografie | Per l’articolo Per l’articolo Per l’articolo Per l’articolo Per l’articolo Per l’articolo

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Sommario

Gennaio / Febbraio 2010

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A tutela delle denominazioni

IN

ARRIVO UNA NUOVA LEGGE

12 IL

Stappare una bottiglia on-line

MERCATO ENOLOGICO SU INTERNET

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Il vino protagonista

PUNTUALE

19

ARRIVA LA

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IN TERRA PIEMONTESE

VERTICALE A CASA

RAINOLDI

La vite accarezzata dal vento

CHÂTEAUNEUF-DU-PAPE,

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COSÌ IL MIO CUORE, ACCECATO DAI TUOI OCCHI, FELICE AFFONDA NEL DENSO CALICE, AMORE (HERMAN HESSE) L’ULTIMO BACIO DATO A GIULIETTA DA ROMEO (1823) FRANCESCO HAYEZ OLIO SU TELA, CM 291 X 202 TREMEZZO (CO), VILLA CARLOTTA

A

VITTORINO ANDREOLI

Vino e scuola Fiere

LO

Birra

ALMA

DIVINO LOUNGE

Turismo Olio

UNA DENOMINAZIONE STORICA

Le “Parole Maestre” contro lo sballo

L’INTERVISTA

32 56 62 68 70 72 76 96 98

VINITALY

La Valtellina in un bicchiere

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All’interno

EDIZIONE DEL

Tra le colline del Roero

DEGUSTAZIONE

UNA

44.MA

I

ALLA

SAPORI DELLA

AIS

CON I SOMMELIER DEL FUTURO

MIA

DI

RIMINI

COSTA BLANCA

FA L’UOMO CHE ABITA IL TERRITORIO

QUELLI

Distillati Acqua

E

UN

DELLA TERRA DI MEZZO

LA

GRAPPA, BANDIERA ITALIANA DEI DISTILLATI

BENE PREZIOSO DA NON SPRECARE

Sullo scaffale Io non ci sto!

LE

NOVITÀ EDITORIALI

QUALE

FUTURO PER IL VINO ITALIANO?


Legislazione

Una nuova

legge tutelerĂ le denominazioni 8


LA 1992

LEGGE

164

DEL

VA IN SOFFITTA: VIA LIBERA DAL

CONSIGLIO

DEI MINISTRI

AL CODICE CHE RIORDINA E SEMPLIFICA LE NORMATIVE AGRICOLE IN SOLI ARTICOLI.

155

ENTRERÀ

IN

VIGORE IN PRIMAVERA ED È ADEGUATA ALLA NUOVA

ORGANIZZAZIONE

COMUNE DEL MERCATO VITIVINICOLO

di Paolo Pirovano l sistema enologico italiano si appresta ad affrontare il suo futuro con un quadro di regole rinnovato e più aderente alla realtà vitivinicola della Penisola. Il Consiglio dei ministri ha infatti dato l’ok al codice agricolo che riordina e semplifica le normative agricole in soli 155 articoli e alla nuova legge sulla tutela delle denominazioni di origine e le indicazioni geografiche dei vini adeguata alla nuova Ocm comunitaria, l’Organizzazione comune del mercato vitivinicolo. Il nuovo decreto legislativo sulla «Tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini» modifica la legge 164 del 1992 per adeguarla alle profonde innovazioni apportate dalla nuova Ocm vino, ma anche per tenere conto delle attuali esigenze degli operatori e delle nuove sfide dei mercati. In particolare, il nuovo decreto legislativo ha lo scopo di preservare e promuovere l'elevato livello qualitativo e di riconoscibilità dei vini a denominazione di origine e di indicazione geografica, di ridefinire il ruolo del Comitato nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche dei vini (che sarà anche pressoché dimezzato nei suoi componenti, passando da 40 a 18), di assicurare strumenti per la trasparenza del settore vitivinicolo e la tutela dei consumatori e delle imprese rispetto ai fenomeni di contraffazione, usurpa-

I

L Il ministro Luca Zaia

zione e imitazione, di perseguire il massimo coordinamento amministrativo tra il ministero delle politiche agricole e le regioni, di individuare le sedi amministrative e gli strumenti di semplificazione amministrativa in ordine agli adempimenti procedurali a carico dei produttori vitivinicoli, con la novità annunciata dal ministro Zaia dello Sportello unico, di rivedere sia il sistema dei controlli e sia il sistema sanzionatorio. In particolare, i controlli saranno affidati a enti terzi e non più ai Consorzi. Le novità principali si trovano negli articoli 3, 12, 13 e 14. L'articolo 3 (classificazione delle Denominazioni di origine e delle Indicazioni geografiche) sottolinea che, pur nel rispetto delle indicazioni comunitarie, si è salvaguardato il sistema piramidale di classificazione della legge 164/1992 e pertanto viene ribadito che le menzioni specifiche tradizionali italiane 'Denominazione di Origine controllata e garantita’ (Docg), 'Denominazione di origine controllata’ (Doc) e 'Indicazione geo-

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Legislazione grafica tipica’ (Igt) costituiscono il fulcro della corrispondente classificazione italiana. L'articolo 12 (Schedario viticolo) introduce una sostanziale semplificazione degli adempimenti procedurali a carico dei produttori attraverso la sostituzione degli strumenti attualmente gestiti dalle Regioni (Albo vigneti Do-elenco vigne Igt) con l'unico strumento dello Schedario viticolo comunque gestiti dalle Regioni. Nell'articolo 13 (Controlli e vigilanza) si dispone che il controllo delle denominazioni protette e indicazioni geografiche viene affidato per la totalità delle sue fasi a un unico soggetto, individuato dai produttori della Do e/o Ig e che sarà l'unico titolato all'attività di controllo. L'articolo 14 (modalità di rivendicazione delle produzioni, riclassificazione, declassamenti) prevede infine un'unica denuncia di produzione annuale che annulla l'attuale decuplicazione della denuncia delle uve Do e Igt alle competenti Camere di Commercio. Il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia ha sottolineato in particolare «la rivoluzione che semplificherà la vita ai contadini» che giunge dal codice agricolo e che pone

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l'Italia all'avanguardia nel panorama agricolo mondiale, al pari della vicina Francia dove il codice ha già dimostrato di ben funzionare in termini di efficienza amministrativa. «Un'occasione unica di riorganizzazione e semplificazione – ha commentato Zaia – Così i nostri agricoltori avranno un sorta di vademecum da tenere in tasca che comprende tutta la normativa relativa all'attività agricola». Zaia ha evidenziato la taglia snella del nuovo codice, frutto anche di un lavoro di soppressione di una quarantina di leggi inutili, obsolete o abrogate. In passato – ha ricordato Zaia – i tentativi di definire dei codici per il settore erano naufragati e l'ultima proposta del 2006 constava di 11 libri e 960 articoli. Il codice – ha spiegato il ministro – già esaminato e approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, passerà al vaglio delle Commissioni parlamentari e delle associazioni di categoria, per poi sottostare all'approvazione definitiva del Consiglio dei ministri e arrivare agli agricoltori entro primavera. Ma anche il comparto vitivinicolo che, come ha ricorda-


to Zaia, conta 506mila aziende e un fatturato industriale di 10,9 miliardi di euro, avrà un nuovo quadro normativo che favorirà l'attività dei produttori e tutelerà al meglio la qualità. Dopo 18 anni la legge 164 va dunque in soffitta: «Questa nuova legge – ha spiegato Zaia – presenta una novità di portata storica: sarà infatti un soggetto terzo a decidere sulla qualità dei vini e non più i Consorzi. Se un provvedimento simile fosse stato varato tempo addietro, casi come quello del Brunello non sarebbero accaduti». Il ministro ha anche sottolineato come la nuova normativa «dia un taglio a norme e burocrazia inutili» con l'istituzione dello Schedario viticolo che semplifica le procedure a carico degli operatori e la previsione di un'unica denuncia di produzione annuale. Secondo il direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli, «aver eliminato i lacci e laccioli della burocrazia è un passaggio storico e consentirà ai professionisti di dedicare più tempo alla produzione e alla commercializzazione».


Vino e Finanza

online

È il futuro del vino di Lorenzo Simoncelli

PUÒ L'E-COMMERCE ATTENUARE I MORSI DELLA CRISI CHE HA COLPITO IL MONDO DEL VINO?

A

DIECI ANNI

DALLA PRIMA ENOTECA ONLINE I BILANCI DEI PROTAGONISTI ITALIANI

M I migliori siti di vendita

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anno appena terminato ricco di avvenimenti (crisi economica, Nobel per la Pace a Barack Obama, etc.) e ricorrenze storiche (vent’anni del Muro di Berlino e di Piazza Tienanmen), ha segnato anche i quarant’anni del web. Uno strumento, che dal ‘69 a oggi ha modificato il nostro agire quotidiano. In particolare il 2009 è stato anche il decimo compleanno della new economy, comparto vittima alla sua nascita di una forte speculazione, pagata poi con la bolla delle dot.com, ma che oggi è uno dei pochi a dare ancora segnali di vitalità e ad avere grosse potenzialità di investimento. Basti pensare che nell’annus horribilis dei mercati finanziari una sola società è stata quotata a Piaza Affari: la Yoox, compagnia che fa della vendita online di griffe di moda il suo business. Ma come hanno affrontato l’avvento del web il vino e la finanza? Hanno sfruttato tutte le possibilità della rete? E soprattutto può il commercio elettronico essere il volano della ripresa per un mercato vinicolo che sta soffrendo non poco? Mai come in questo caso vino e finanza sono così distanti. I numeri, infatti, parlano chiaro. Secondo la Borsa Italiana 15 mila persone quotidianamente cliccano sul proprio conto online e 500 mila risparmiatori lo fanno almeno una volta al mese. Stime che tendenzialmente dovrebbero aumentare vista la crescita progressiva dei conti correnti online, che hanno toccato già quota 11 milioni. Di questi naturalmente non tutti fanno operazioni di Borsa, ma il trading online ormai è sempre più frequente e gli investitori fai da te spuntano come funghi. Titoli di Stato, future ed Etf i prodotti più cliccati, il tutto spesso attraverso operazioni intraday, cioè fatte nell’arco della giornata.

L’

III MANCA LA TECNOLOGIA Per il vino invece la strada è ancora lunga e in salita. La frequenza di acquisti nelle enoteche online è decisamente inferiore rispetto alle operazioni di trading


di Borsa, in particolar modo in Italia. Volumi d’affari diversi e situazione tecnologica del nostro Paese giustificano il tutto. Secondo i dati dell’Internet Word Stats, aggiornati a settembre 2009, la percentuale di penetrazione del web tra la popolazione italiana è una delle più basse d’Europa, solo il 51,7%, contro il 69,3% della Francia e il 65,9% della Germania, per un totale di circa 23 milioni di visitatori al mese. Inoltre le aziende presenti in rete non superano il 66%. A un ritardo di know how tecnologico, intrinseco nella nostra popolazione, va aggiunto una diffusione della Adsl ancora insufficiente, e una rete wireless che va a singhiozzo. Tutti fenomeni che sommati alla scarsa diffusione della carta di credito e alla tipica necessità italiana di toccare con mano l’oggetto da acquistare, fanno sì che il nostro Paese sia uno degli ultimi nella diffusione dell’e-commerce e in particolare nel settore del vino. Esempio lampante di questa arretratezza è E-bay, il più popolare sito di commercio online al mondo, che mensilmente in Italia fa registrare 6 milioni di operazioni concluse, di queste solo 46 mila (0,13%) sono legate al vino (dati Nielsen). III I MIGLIORI SITI DI E-COMMERCE ENOLOGICO SONO AMERICANI Ulteriore conferma della scarsa penetrazione nel nostro Paese del canale telematico come modello distributivo sono i recenti risultati dell’e-performance barometer, strumento ideato nel 2007 dal prof. Grégory Bressolles del Bem (scuola di management) di Bordeaux, per classificare i migliori siti di e-commerce enologico nel mondo. L’Italia rappresentata da una sola realtà, wineshop.it, è molto lontana dal podio, occupando la 18esima posizione, esattamente come due anni fa. La speciale classifica, infatti, è giunta alla sua seconda edizione (2007 e 2009) e anche quest’anno ha visto la compagine americana sui gradini più alti del podio. I siti wine.com e winechateau.com sono risultati i più completi e i più efficaci, alle loro spalle vinatis.com, portale francese che ha guadagnato tre posizioni rispetto al 2007 (vedi a fianco la tabella dei primi 28 siti di vendita online di vino al mondo) e che ha ottenuto la prima posizione sul mercato transalpino dopo aver spodestato Nicolas.com. Sette i criteri di valutazione del barometro elettronico sulle pagine virtuali: dettagli delle informazioni, semplicità di utilizzo, sicurezza del sito e protezione della privacy, varietà dell’offerta, livello di personalizzazione e interattività, design e attendibilità. Oltre a questo ranking, il Bem ha realizzato anche un’indagine, che ha visto interessati 3mila internauti di sette diversi Paesi, per delineare il profilo degli acquirenti di vino online. Secondo i risultati il 67% sono uomini, superiori ai 35 anni (60%), con ruoli nella classe dirigente (20%). Il 78% di questi compra almeno cinque bottiglie all’anno su Internet, impiegando circa 17 minuti a operazione, e la motivazione principale che li spinge all’acquisto è fare un buon pranzo con gli amici. Una buona percentuale si rifornisce di etichette abbastanza costose e la gran parte di questi possiede una cantina personale. Il 73% arriva a siti di e-commerce tramite motori di ricerca, il 35% digitando direttamente l’indirizzo, mentre il 36% è un’abituale frequentatore tanto che ce l’ha tra i preferiti. Alta rimane comunque la fetta di clientela (69%) che non è riuscita a soddisfare facilmente le sue esigenze. «E’ un mercato in rapida espan-

Emanuele Nenna, L amministratore delegato di Viniamo.it

Andrea Gatti, pioniere dell'e-commerce enologico e ad di Wineshop.iti M

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Vino e Finanza

La home page di Viniamo L

sione», afferma Grégory Bressolles, professore di marketing del Bem di Bordeaux, «con ritmi di crescita annui pari al 30%, nonostante abbia già una sua struttura consolidata è ancora molto giovane e quindi pieno di potenzialità». III TRA NUOVI PROTAGONISTI E STRATEGIE FUTURE Dimostrazione della continua espansione l’aumentare degli attori protagonisti sul mercato con una torta così rappresentata: 32% venditori di vino, 24% acquirenti occasionali, 18% commercianti di vino, 16% vendita diretta e 10% vendita su specifica richiesta e-mail. Cruciali le strategie adottate dai proprietari dei singoli domini per attirare il maggior numero possibile di visitatori: il 68% privilegia le parole chiave, il 39% si concentra sulla comparazione dei prezzi con gli altri indirizzi concorrenti, il 14% investe su un affinato motore di ricerca, il 10% punta sul back office e il 25% investe sulla praticità dell’home page. Bisogna ora vedere quanto il mercato impiegherà ad affermarsi definitivamente, anche se le stime del 2008 lasciano ben sperare. Un fatturato globale che ha raggiunto i 3,6 miliardi di euro, che significa che il 3% delle vendite di vino avviene ormai tramite canale telematico. Come mai dunque in Italia il commercio enologico online non riesce a decollare? Come si stanno comportando le principali aziende vitivinicole? E soprattutto quali competitor si spartiscono il mercato? Bisogna capire, infatti, come mai ogni sera migliaia di persone si sfidano in rete a colpi di poker d’assi e invece gli abituali consumatori del nettare di Bacco non passano un quarto d’ora del loro tempo a scegliere una bottiglia in un’enoteca online. A quanto sembra tra operazioni di Borsa e mosse di poker online è l’adrenalina del rischio a tenere incollati gli internauti alle tastiere dei Pc. III LA REALTA’ ITALIANA Degli scenari futuri e delle difficoltà presenti ne abbiamo parlato, come sempre in esclusiva, con alcuni dei princi-

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pali protagonisti che operano nell’e-commerce enologico, settore di nicchia, ma ricco di competizione e con grandi prospettive di crescita. «Purtroppo Internet è entrato con molto ritardo nelle nostre vite», commenta Angelo Bandinu, responsabile di everywine.biz, enoteca online nata nel 2001, che oggi gestisce circa 4mila ordini, «e tutt’oggi le connessioni non sono ancora del tutto ottimizzate, soprattutto in alcune aree. Questo, unito alla mancanza di investimenti, soprattutto all’inizio (1999) ha allontanato le grandi aziende vitivinicole che non vedevano nella rete un possibile bacino di clientela; negli ultimi due/tre anni si stanno organizzando, ma il divario con gli altri siti stranieri è notevole e ci vorrà molto tempo per colmarlo». C’è da dire che a parte rare eccezioni, Santa Margherita, Donnafugata e il gruppo Duca di Salaparuta-Vini Corvo-Cantine Florio, la maggioranza delle aziende produttrici di vino continuano a vedere la rete come uno strumento accessorio per comunicare i propri prodotti e il proprio marchio. In generale, molti portali sono ancora semplici siti vetrina, con una grafica spesso poco accattivante e con tecnologie ormai superate. Come mai il mondo del vino sembra snobbare le potenzialità offerte dalla rete? «Quando siamo andati al Vinitaly a presentare per la prima volta il nostro sito ai produttori», spiega Andrea Gatti, amministratore delegato di wineshop.it, pioniere dell’e-commerce enologico nel 1999 e primo dei siti italiani dell’e-performance barometer, «sapevano a mala pena cosa fosse Internet, oggi invece ogni settimana riceviamo campionature da tutt’Italia, poi una volta assaggiati, selezionamo quelli che ci interessano e li proponiamo sui nostri scaffali virtuali». «La mentalità degli italiani, al contrario dei tedeschi, non è mai stata abituata alla corrispondenza», prosegue l’amministratore delegato di wineshop.it, «un esempio lampante è il fallimento di Postalmarket, bisogna educare il pubblico a questa maggiore comodità, dimostrata dall’alta percentuale di apprezzamento dei clienti dopo il primo acquisto». «È un mercato molto complesso e di nicchia», analizza


Una pagina di EveryWine con i dettagli di un prodotto

Emanuele Nenna, amministratore delegato di viniamo.it, l’ultimo sito nato nell’e-commerce dedicato al vino, «inoltre al contrario di quanto si possa pensare il nostro è un Paese con una buona cultura enologica, ma il consumo quotidiano non è sempre di qualità. Bisogna dunque orientarsi verso una precisa fascia di clientela che desidera comodità e qualità». Visto che voi siete gli ultimi arrivati e avete potuto studiare le esperienze precedenti dei vostri competitor che cosa vi caratterizza rispetto agli altri negozi online? «Abbiamo cercato di abbattere la mancanza di un luogo fisico dove vedere e acquistare le etichette», risponde l’amministratore delegato di viniamo.it, «attraverso la riproduzione virtuale di un’enoteca sulla nostra home page, dove è possibile osservare, ruotare e toccare quasi con mano la bottiglia selezionata». La maggior parte delle grandi firme del vino sembra essere molto restia ad affiancare ai normali metodi di distribuzione anche quello telematico. Perchè? «I grossi produttori si trovano davanti a diverse problematiche che li ostacolano all’ingresso nel mercato online», spiega Angelo Bandinu, responsabile di everywine.biz, «non hanno una grossa offerta in termini di numero di etichette, 30/40 prodotti potrebbero risultare insufficienti per un cliente, devono fare i conti con la rete di vendita già esistente e infine modificare la logistica che per il web è completamente diversa a cominciare dagli imballaggi». Altrimenti bisogna creare un prodotto ad hoc acquistabile solo in rete, come ha fatto Ornellaia, la famosa azienda vitivinicola toscana che produce il Masseto, che ha creato circa tre mesi fa Variazioni in rosso. L’etichetta al primo giorno di commercializzazzione ha fatto registrare ottimi risultati con ben 99 bottiglie vendute, la prima alle otto di mattina. Quando si dice che anche il marchio ha la sua parte. III SEMPRE PIU’ ONLINE IL VINO DEL FUTURO Quali dunque le strategie future di alcuni dei protagonisti di questo settore? Su che cosa bisognerà puntare per aumentare quote di mercato? «Il nostro obiettivo per il 2010 è raggiungere le 5/6 mila richieste», annuncia Emanuele Nenna, amministratore delegato di viniamo.it, «con una media di 8 bottiglie per ordine. Soprattutto cercheremo di avere un catalogo in movimento, con sempre nuove proposte e prodotti trasversali, principalmente italiani, che vadano dai 6 ai 200 euro a bottiglia. Inoltre per ridurre il costo finale dell’utente bisognerà cercare di far abbassare le spese per la spedizione, che influisce per il 30% sul valore complessivo della merce». «Realizzeremo un nuovo sito più accattivante per luglio 2010», afferma Angelo Bandinu, responsabile di everywine.biz, «un piano fedeltà per i clienti più assidui e allargheremo il negozio virtuale anche alla birra». «Continueremo a privilegiare il rapporto prezzo-qualità», sottolinea Andrea Gatti, amministratore delegato wineshop.it, «cercando di far conoscere i piccoli produttori, oltre a continuare a siglare accordi con importanti aziende vitivinicole come quello appena concluso con Castello di Volpaia». Inizia dunque un nuovo anno, che difficilmente potrà essere peggiore di quello appena trascorso sia per la finanza che per il mondo del vino, ma non illudiamoci, la ripresa sarà lunga e faticosa e non sfruttare nuovi canali di vendita (e-commerce) offerti dalla tecnologia sarebbe masochistico. Quindi giocate meno a poker e comprate qualche bottiglia in più, rigorosamente online.

15


Vinitaly

Il

vino

prima di tutto IN

APRILE A

TORNA

44

VERONA

VINITALY

CHE DA

ANNI RAPPRESENTA

UN APPUNTAMENTO DA NON PERDERE PER OPERATORI DEL SETTORE ED ENOAPPASSIONATI

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usiness, promozione, informazione, sono queste le parole d’ordine del 44.mo Vinitaly, in programma dall’8 al 12 aprile 2010 a Verona. Da sempre piattaforma di incontro tra offerta e domanda, il più grande salone internazionale dei vini potenzia i servizi alle imprese per supportarle nell’attuale momento di crisi congiunturale e prepararle a cogliere le opportunità che si apriranno con la ripresa economica. Manifestazione fieristica prima al mondo per dimensioni, Vinitaly rappresenta dal 1967 un evento irrinunciabile per gli operatori di settore, sempre aperto alle innovazioni e pronto ad accompagnare lo sviluppo di un comparto che è diventato il miglior ambasciatore del Made in Italy nel mondo, il rappresentante d’eccellenza del sistema agroalimentare di qualità. Per l’edizione 2010 Vinitaly si presenterà come “il mondo che amiamo” (“the world we love”): il vino prima di tutto, ma anche la qualità, il territorio, l’ambiente e la sua tutela, gli uomini e le loro sfide, i borghi e la loro storia. Vinitaly è tutto questo: il luogo dove ogni anno chi ama questo mondo si incontra. Nella scorsa edizione gli espositori sono stati oltre 4.200, distribuiti su una superficie che, grazie al piano di ampliamenti degli ultimi anni, ha superato i 92.000 metri quadrati. Oltre 151.000 gli operatori professionali presenti, dei quali più di 45.000 provenienti da 112 Nazioni. Tutto orientato per creare contatti con le cantine espositrici presso gli stand, nei workshop di degustazione, organizzati grazie alla rete di delegati che Veronafiere ha in 60 Nazioni, o direttamente attraverso incontri diretti (1.100 nel 2009) programmati tramite il Buyers Club. Come al solito l’Ais, presente con il suo stand, sarà la grande protagonista della rassegna veronese. Anche quest’anno appuntamenti tradizionali andranno di pari passo con alcuni eventi innovativi: il Tasting Ex...Press, con i vini internazionali presentati dalle grandi testate di settore; il Taste & Dream, le grandi verticali dei tesori dell’enologia italiana; il Trendy oggi, Big domani, la selezione delle aziende del futuro su cui investire; il Food & Wine Pairing, lo spazio dei giovani ristoratori europei in cui vengono abbinati piatti della tradizione continentale e vini italiani d'eccellenza; I Viaggi di Gulliver, alla ricerca dei vini di nicchia di qualità dei Paesi europei; I “giovani leoni”, 10 top produttori europei per i prossimi quarant’anni di enologia mondiale; il Ristorante d'Autore, con le grandi performance dei migliori chef italiani; la Cittadella della Gastronomia, in cui scoprire la migliore cucina regionale italiana. Un calendario ricco e vivace proseguirà anche al di fuori del quartiere fieristico: nel palazzo della Gran Guardia, in Piazza Bra, accanto al municipio di Verona, si svolge Vinitaly for You, l’enoteca serale con musica dal vivo dedicata agli appassionati del buon bere. Insomma, è proprio il caso di dirlo, ce ne sarà veramente per tutti i gusti! «La manifestazione è stata presentata e promossa in tutte le tappe del Vinitaly World Tour – ha sottolineato Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere – perché bisogna continuare a ragionare nell’ottica di un’espansione dei consumi a livello mondiale, fornendo ai nostri clienti quella prospettiva di medio-lungo periodo che è fondamentale per non perdere ter-

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reno rispetto ai competitor internazionali. Come fiera siamo consapevoli del nostro ruolo e per questo stiamo lavorando alla preparazione di un’edizione di Vinitaly molto attesa dagli operatori». Nonostante la necessità delle imprese di operare economie di scala, infatti, l’evento si conferma in linea con il 2009 per numero di partecipanti e addirittura nuove aziende chiedono di prenderne parte. Nell’edizione 2010 avrà luogo il 18.mo Concorso Enologico Internazionale. Le iscrizioni si sono aperte a gennaio e da quest’anno, oltre ai Premi Speciali Vinitaly Nazione e Gran Vinitaly, viene istituito il Premio Speciale Vinitaly Regione. I produttori, inoltre, potranno stampare e applicare alle partite dei vini vincitori di medaglia etichette o bollini riportanti la distinzione “Concorso Enologico Internazionale 2010”, così da valorizzare sul piano commerciale l’importante riconoscimento alla qualità raggiunta. In contemporanea a Vinitaly si ripresentano gli appuntamenti con Sol, Agrifood Club ed Enolitech. Sol è l’evento in cui scambiare esperienze professionali, incontrare i leader del mercato e i buyer nazionali ed esteri. La 16.ma edizione del Salone Internazionale dell’olio extravergine di qualità potenzia la sua vocazione commerciale, sviluppando ulteriormente il Buyers Club. Sempre più richiesta la partecipazione ad Agrifood Club, vetrina dell’eccellenza del Made in Italy, che presenta una selezione di aziende dell’agroalimentare italiano, privilegiando la qualità degli espositori per soddisfare gli operatori e i visitatori più esigenti. Insostituibile opportunità di mercato per le aziende espositrici è infine Enolitech, giunto alla 13.ma edizione. Strumento di promozione internazionale dedicato ai mezzi tecnici per la filiera del vino e dell’olio, la cantina e il frantoio, la manifestazione è un momento di confronto e dialogo con tutti gli operatori che vogliono aggiornarsi e acquistare strumenti e tecnologie all’avanguardia.

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Degustazioni

Roero, splendida terra da vini di Franco Ziliani

QUESTA

ZONA

COLLINARE È PIÙ

LEGATA ALL’ARNEIS MA I PRODUTTORI SI STANNO ADOPERANDO PER VALORIZZARE ED ESALTARE ANCHE IL

NEBBIOLO

i sarebbero moltissime cose da dire sui vini del Roero e su come vanno le cose, enoicamente parlando, in questa bellissima zona sulla sinistra del fiume Tanaro in provincia di Cuneo in Piemonte. Poiché ho avuto, grazie alla preziosa collaborazione dell’Enoteca Regionale del Roero (http://www.enotecadelroero.it/) di Canale d’Alba e del suo presidente Luciano Bertello, l’occasione di poter fare lo scorso settembre un’ampia degustazione dei vini della denominazione, concentrando l’attenzione sui vini simbolo, i bianchi a base Arneis e il Rosso a base di Nebbiolo conosciuto come Roero, e considerando il campione di vini proposto, oltre 100, tutti degustati alla cieca nel corso di un’intera giornata, piuttosto probante e in grado di consentire di avere un quadro sufficientemente chiaro di orientamenti e stili, ho deciso di dividere l’analisi in due parti. Su questo numero di DeVinis la degustazione, con il più ampio numero possibile di vini (21 Roero Arneis e 18 Roero di diverse annate) rimandando un discorso più ana-

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litico su come vada il vino del Roero, quali siano pregi e limiti dei bianchi e soprattutto del terzo grande Nebbiolo albese, il Roero, che sta ancora pensando “cosa fare da grande” e sta finalmente mettendo a fuoco un’identità personale, dimenticando il confronto con quegli altri Nebbiolo, Barbaresco e Barolo, che stanno dall’altra parte del Tanaro e che sono altra cosa, perché espressione di altri terroir, a un articolo che all’epoca della pubblicazione di questo articolo sarà già stato pubblicato e potrete leggere nello spazio delle news del sito Internet dell’Ais www.sommelier.it. Per il momento l’identità di questa bellissima zona collinare, splendida da visitare, è più legata all’Arneis che al Roero, ma sono persuaso che progressivamente i produttori metteranno a fuoco uno stile che valorizzi maggiormente ed esalti le caratteristiche di eleganza, la fragranza aromatica, la piacevolezza (e non la banalità, perché si possono dire cose importanti anche con un linguaggio più semplice e meno involuto) del Nebbiolo di questa area.

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Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE L

Langhe Arneis 2008 Inprimis Ghiomo Colore paglierino verdognolo, naso molto caratteristico, con fiori e fieno secco in evidenza, ampio e fragrante. Al gusto apre su una leggera nota di mandorla e nocciola, con bell'allungo incisivo e nervoso, bel nerbo, e vena acido salata con finale lungo e persistente.

ROERO 2008 Roero Arneis 2008 Matteo Correggia Media intensità di colore, ma naso ben secco, preciso, incisivo, di grande profondità complessità freschezza e sale, con note di fiori bianchi, fieno, erbe aromatiche, agrumi, mandorla e nocciola e una nitida vena salata minerale a costituire un insieme ampio e fragrante. La bocca è molto diretta, pulita, asciutta, con lunga verticalità, grande sale e nerbo, il vino ha equilibrio, energia, dinamismo, bella persistenza lunga, ben secco e deciso e con una grande coerenza tra naso e bocca.

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Roero Arneis 2008 Pace Colore paglierino di media intensità, brillante e traslucido, naso molto secco incisivo nervoso, con fiori e fieno secco, erbe aromatiche e leggera nota dolce di miele d'acacia e buccia d'agrumi, molto ampio fragrante ed elegante. Al gusto bella consistenza cremosa del frutto, sviluppo ampio, rotondo succoso, di notevole densità e lunghezza, pieno largo ma senza sacrificare la freschezza e una bella vena acida che ravviva la materia, con chiusura su una bella nota di mandorla precisa.

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Roero Arneis 2008 Giacomo Vico Colore paglierino scarico tendente al verdognolo, brillante e traslucido, naso fitto complesso e intrigante, con note di pesca bianca, fiori bianchi, leggera vena agrumata e accenno sapido minerale. Bocca di buon impegno, con notevole estrazione di frutto succoso vivo, bellissima vena acido sapida che regala nerbo lungo e preciso, con interessante dinamismo e sviluppo e finale su una nettissima nota di mandorla.

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Roero Arneis Tenuta 2008 Cà du Russ Bella intensità di colore, naso vivo fragrante giocato su note floreali e fieno, con leggero accenno agrumato. Bocca ampia e incisiva, molto ricco di sale e grande carattere con un retrogusto preciso che ricorda bene la nocciola fresca e la mandorla leggermente tostata, splendida acidità e dinamismo, molto giovane e ben fatto. Roero Arneis Cayega 2008 Tenuta Carretta Colore paglierino molto scarico tendente al verdognolo, naso molto fitto e fragrante con nitide note di fiori bianchi, accenno di pesca limoncella e cedro, ampio sapido nervoso di buona eleganza e nerbo bocca di notevole complessità. Grande materia viva e succosa, con frutto rotondo e carnoso, ottimo allungo, energia e sviluppo, ottima vena acido sapida che regala una lunga persistenza. Roero Arneis Bric Castelvej 2008 Domenico Gallino Colore paglierino verdognolo di bella intensità e luminosità, naso molto secco, asciutto deciso e incisivo, bel bouquet denso e complesso con accenni di pesca bianca e pera, di fiori bianchi e agrumi. Bocca molto ricca, piena, che conferma il carattere ben secco del vino, con eccellente allungo e grande nerbo acido che spinge e sostiene un finale lungo e vivo. Roero Arneis Camestri 2008 Marco Porello Colore paglierino brillante traslucido e luminoso, naso intensamente agrumato e secco, con bella vena di mandorla e nocciola leggermente tostata, pesca gialla, un filo di pera williams e anice, bocca di buona complessità molto asciutta e precisa, con acidità nervosa e retrogusto che richiama la mandorla e la nota di anice, molto lungo, vivo scattante, di grande personalità. Roero Arneis 2008 Valdinera Paglierino scarico che tende al verdognolo, naso molto secco diretto preciso con una bella vena agrumata, accenni di frutta esotica, di fiori bianchi e frutta secca (soprattutto nocciola) di bella precisione e pulizia. Al gusto largo, ampio ma verticale, con grande freschezza e dinamismo e lunga vena acida, con presenza succosa del frutto, energia e personalità con finale lungo incisivo ben secco, con spiccata vena di mandorla. Ancora molto giovane e fresco.

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Roero Arneis 2008 Negro Lorenzo Media intensità di colore, naso espressivo e originale, con note di fiori e fieno, frutta secca, accenni agrumati e un qualcosa che richiama il pan tostato con una leggera speziatura. La bocca è asciutta senza concessioni, il gusto diretto, molto lungo e verticale con un finale vivo e nervoso scandito da una bella acidità e da una nota di mandorla molto precisa. Vino di bell’equilibrio, energia e piacevolezza. Roero Arneis Vigna La Brina 2008 Barbero’s Paglierino di bella vivacità e brillantezza, naso molto vivo, complesso e ben secco su note di fiori e fieno secco di montagna, con note di frutta secca, accenno leggero di miele, pesca bianca e leggera, vena agrumata di notevole freschezza e fragranza. Al gusto bell'allungo preciso, secco, nervoso, ricco di “sale”, con acidità perfettamente calibrata, e sviluppo lungo e verticale molto equilibrato. Roero Arneis 2008 Olivero Antica Cascina Conti di Roero Bella vivacità e intensità di colore, naso dall’espressione precisa, ricco e complesso, con fiori bianchi, agrumi e una leggera vena di miele, fieno e frutta secca. Al gusto bella nota secca incisiva nervosa che spinge e scandisce il ritmo del vino, non molto largo, ma preciso, molto persistente con chiusura su una nota di mandorla e nocciola molto piacevole. Roero Arneis 2008 Enrico Serafino Grande brillantezza e vivacità del colore, naso fresco fragrante incisivo di bella ampiezza e pulizia, con fieno secco, fiori bianchi leggero accenno agrumato, frutta secca e una bella nota sapida minerale di grande nitidezza e nerbo aromatico. Bocca di bella compostezza, il vino si allarga progressivamente preciso, saldo con bello sviluppo e verticalità e finale molto salato e incisivo dove dominano mandorla e sale. Roero Arneis 2008 Bric Cenciurio Colore di notevole intensità rispetto alla media, un paglierino oro intenso, naso piuttosto secco al primo impatto, incisivo, con note di fiori e fieno, accenno di miele e frutta secca, che si apre progressivamente ampio, largo, di bella suadenza e cremosità, con pesca gialla e agrumi in evidenza. La bocca è ricca, piena, salda ben costruita ancora con qualche leggera spigolosità e un'acidità che spinge precisa, con una vena di mandorla finale. Roero Arneis 2008 Careglio Bellissima brillantezza e luminosità, con una vena splendente, naso molto secco e preciso giocato su fiori e fieno secco, con vena sapido agrumata nervosa e leggero accenno minerale salato. Attacco elegante, coerentemente secco, diretto e incisivo, con acidità che spinge un frutto ancora nervoso e “croccante” e finale verticale, preciso di gran nerbo.

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Roero Arneis 2008 Filippo Gallino Bella vivacità e intensità di colore, un bel paglierino squillante e luminoso, naso ampio, caldo, preciso e fragrante di nitida definizione e ampiezza, con note di fiori e fieno secco, agrumi, bella vena tra la menta e le erbe aromatiche, bocca molto secca precisa e incisiva, ma un po’ carente di energia e articolazione, anche se molto coerente e piacevole. Finale ben secco senza concessioni e ruffianerie.

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Roero Arneis Luet 2008 Cascina Val del Prete Colore non molto intenso, ma brillante e vivo, naso molto diretto, preciso scattante con note di fiori e fieno secco, un ricordo di erbe aromatiche, fiori bianchi, agrumi e una leggera speziatura. Bocca precisa, scattante, asciutta, molto compatta si allarga abbastanza ricca e piena con una bella persistenza e un finale lungo e caldo di interessante sapidità e freschezza.

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Roero Arneis San Michele 2008 Deltetto Media intensità di colore, paglierino scarico metallico, naso sottile preciso con note citriche molto evidenti, acidità nervosa, molto secco con vena di frutta secca che domina. Bocca di buona articolazione non larga, ma lunga salata precisa di grande nerbo e scatto, con finale lungo e molto secco con equilibrio e piacevolezza.

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Roero Arneis Anterisio 2008 Cascina Chicco Colore paglierino di media intensità traslucido e metallico, naso di bella fragranza e sapidità, netti gli agrumi e i fiori bianchi, con una leggera vena speziata e di anice e un finale leggermente dolce che richiama il miele d'acacia. La bocca è piena, salda compatta molto asciutta, di bella ampiezza, con finale lungo e continuo su una nota ben secca e precisa di buona personalità e carattere.

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Degustazioni

ROERO ARNEIS ANNATE DIVERSE Roero Arneis 2004 Cornarea Colore paglierino oro di grande intensità e bella luminosità, naso ampio, caldo, succoso, con note di pesca nettarina, miele, frutta candita, erbe aromatiche e leggera speziatura e accenno di zafferano. Al gusto il vino mostra ancora una bella solarità e dolcezza di stampo mediterraneo, una personalità ricca, piena, succosa, con acidità ben calibrata, timbro salato e nervoso e ancora un notevole equilibrio e una bella dolcezza d’espressione.

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Roero Arneis 1983 Cornarea Colore splendido, un paglierino oro brillante, luminosissimo, multi riflesso, si propone con un naso affumicato e intensamente minerale, ancora con una grande freschezza, cremoso vivo, leggermente speziato, con note di miele, incenso, spezie orientali, note terziarie di sottobosco e di zafferano. In bocca perfetta continuità con la nota minerale, ancora con grande ricchezza di sapore, acidità nervosa che spinge ancora con grande allungo, energia e vitalità. Vino di sorprendente integrità e personalità.

ROERO 2007 Roero 2007 Audinaggio Cà Rossa Bella intensità di colore, molto “nebbiolosa”, naso fitto, leggermente dolce quasi cremoso con polpa fruttata rotonda e succosa, leggero accenno di note selvatiche di sottobosco ed erbe aromatiche, e un accenno speziato e pepato. In bocca fresco, vivo, nervoso ben sapido, piuttosto lungo ed equilibrato, con bellissima vena acida che spinge ottima persistenza e finale terroso. Roero 2007 Torretta Porello Naso di bellissima dolcezza di frutto, ben polposo quasi “croccante con note selvatiche, di rosa passita, con accenno di tabacco e spezie orientali e leggera speziatura con ampia tessitura e consistenza quasi cremosa che richiama il cacao e la cipria. In bocca é fresco, nervoso e succoso, con vivace spinta acida, solido sostegno tannico, nerbo salato lungo persistente, di grande piacevolezza.

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Roero 2007 Srü Monchiero Colore rubino violaceo brillante di media intensità, naso aperto, molto succoso e dolce, con note di ciliegia, prugna, sottobosco e leggerissima speziatura, con accenni vagamente terrosi cioccolatosi e di menta di bella fragranza. Al gusto bell'attacco diretto e incisivo, con acidità che equilibra e bilancia bene una materia ricca, un tannino ben sottolineato. Vino pieno e persistente, di bella ampiezza, con carattere minerale spiccato, ancora molto giovane ma già di salda costruzione e personalità.

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Roero 2007 Correggia Matteo Rubino granato di media intensità, con lucentezza e vivacità nel bicchiere, naso molto diretto e carnoso di bella espressione floreale, fragrante, aperta e viva con note di prugna e liquirizia in evidenza. Salato vivo nervoso al gusto, non ha grande ampiezza e larghezza ma preciso nerbo sapido, ben sottolineato il corredo tannico, con ampia trama finale su note terrose di liquirizia e spezie.

ROERO 2006 Roero 2006 Monpissano Cà Rossa Bella vivacità di colore, un rubino granato molto luminoso, mostra un naso di bella eleganza succosa, con note di ribes e lampone, un accenno di prugna e rosa passita. Bocca di bella freschezza, sapida nervosa con allungo e scatto, il vino è salato, ricco di sapore, con finale lungo e nervoso di grande piacevolezza. Roero 2006 Morra Rubino vivo di grande intensità e profondità, naso fitto multistrato denso e carnoso, con note di prugna secca, ciliegia, liquirizia, sfumature terrose e di grafite e fine speziatura. Al gusto bella consistenza di frutto succosa e rotonda senza spigoli, con saldo corredo tannico, materia ricca e multistrato, ma bella freschezza e sapidità e chiusura lunga e persistente con netta componente di liquirizia. Roero 2006 Cantina del Nebbiolo Colore rubino granato squillante luminoso di grande bellezza, naso fresco, vivo, diretto succoso, con bella dolcezza del frutto (ciliegia più prugna), sfumature di erbe aromatiche e grafite, accenno di tabacco e cuoio il tutto in una cornice cremosa di bella freschezza e sapidità, con dolcezza di espressione. Vino non di grande ampiezza, ma vivo salato verticale, con acidità che spinge. Roero 2006 Olivero Antica Cascina Conti di Roero Colore rubino violaceo intenso, naso denso e carnoso di ampia tessitura e fittezza, su note di prugna, sottobosco e liquirizia e accenni minerali di notevole compattezza. Bocca di grande impegno, con materia succosa e polpa, saldo sostegno tannico vivo e ben sottolineato. Il vino ha scatto e slancio, pluridimensionalità, con finale sapido terroso minerale molto vivace e un’acidità che spinge.

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Roero 2006 Nizza Silvano Rubino violaceo intenso vivacissimo brillante, con leggera unghia granato, naso fitto, con accenno di liquirizia, cacao, rosa passita, rosmarino, cipria, di bella eleganza e fragranza e un certo sale. Bocca viva sapida, con frutta succosa e croccante, bellissimo corredo tannico non aggressivo ben bilanciato dall’acidità, con freschezza, piacevolezza, eleganza; vino pieno di sapore che invita a bere. Roero 2006 Enrico Serafino Colore rubino violaceo vivo, molto brillante, naso carnoso dolce e suadente di bella cremosità, con frutta succosa, sfumature di erbe aromatiche, una leggera speziatura e striature minerali di liquirizia e sottobosco di grande fragranza e freschezza. Si conferma sapido e di bellissima freschezza al gusto, con allungo dinamico di grande energia, corredo tannico non aggressivo e salda tessitura, finale pieno di energia scattante di grande ricchezza di sapore.

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Roero 2006 Mai Vist La Contea Colore rubino violaceo di buona profondità ma brillante, naso intrigante misterioso e autunnale, con note di sottobosco e selvatiche, leggera nota di pepe nero, ginepro e prugna secca, con alcol leggermente in eccesso. Bocca piena succosa di buona costruzione, saldo sostegno tannico, lungo pieno e terroso con grande ricchezza di sapore e finale su nota di liquirizia. Ancora molto giovane con qualche spigolosità di troppo ma di sicuro carattere.

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Roero 2006 Careglio P. Rubino violaceo di grande brillantezza e luminosità, naso fitto, un po' misterioso su note selvatiche con un leggero eccesso di legno. Bocca di buona ricchezza, saldo il corredo tannico non aggressivo, pieno, vellutato, caldo e suadente, giovane con buon potenziale di evoluzione. Roero 2006 Braja Deltetto Bella intensità cromatica, naso molto fitto, denso e caldo su note selvatiche speziate pepate e una certa presenza, non ancora ben assorbita, del rovere. La bocca è ricca, piena massiccia estrattiva, ma senza esagerazioni, con una buona acidità che ravviva la materia anche se il finale é ancora leggermente spigoloso e astringente. Roero 2006 Prachiosso Negro Colore molto intenso, naso molto selvatico, leggermente aggressivo, su note tostate, con leggera speziatura e vena di grafite, bocca piena, succosa di buon impegno e rotondità del frutto. Vino già pronto, diretto, manca un po' di scatto e dinamismo, con una sola dimensione, ma con una sua indubbia piacevolezza che porta a bere.

ROERO 2005 Roero 2005 Meo A. Viglione Bellissima intensità di colore, rubino granato, naso di bella espansione e carnosità del frutto, con note di ribes, melograno, accenni di carne grigliata, cuoio, chiodi di garofano, accenni di spezie orientali di bella finezza che chiudono su sfumature di tabacco biondo. Bocca piena, ricca e succosa, con tannini terrosi e vellutati, salda tessitura, finale saporito su note di polvere di cacao e terra, con acidità che spinge ancora.

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Roero 2005 Castelletto Riserva Malabaila Rubino granato di bella vivacità e brillantezza, naso fitto suadente e “autunnale”, con accenni di foglie secche e funghi, di catrame, tabacco, cuoio, sottobosco e leggera speziatura e liquirizia. Bocca di buona freschezza, integrità e consistenza con salda struttura tannica, acidità che spinge e finale vivo e terroso pieno di sapore.

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Roero 2005 Rolfo Colore rubino di bella densità e vivacità, naso vivo e succoso su toni di ciliegia e prugna ben matura, sfumature di liquirizia ed erbe aromatiche di notevole intensità, fragranza e freschezza. Bocca sapida, viva e nervosa, di buona integrità e piacevolezza, ancora con un’apprezzabile dolcezza di frutto e un'acidità nervosa che spinge e dà energia e verticalità al vino.

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Roero 2005 Palliano Riserva Ceste Colore rubino violaceo di media intensità, naso dolce carnoso e succoso di bella definizione con note di ciliegia, prugna e ribes, accenno di sottobosco e mazzetto odoroso con una fragranza floreale molto apprezzabile. Al gusto non ha grande ampiezza e larghezza ma è vivo, preciso, sapido, nervoso, con una bella spina acida e un finale lungo salato e minerale.

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La verticale

La

perla

di Alessandro Franceschini el numero di novembre/dicembre del 2007 avevamo dedicato ampio spazio a una verticale di 10 annate (1959, 1975, 1983, 1985, 1986, 1989, 1990, 1994, 1995 e 1997) del Valtellina Superiore Inferno dell’azienda Rainoldi di Chiuro. A più di due anni di distanza, Giuseppe “Peppino” Rainoldi, patron dell’azienda e il giovane nipote enologo Aldo hanno voluto replicare quell’interessante pomeriggio trascorso nel tentativo di leggere l’evoluzione del nebbiolo valtellinese in dieci tappe. Questa volta è stato il Sassella a diventare protagonista, all’interno delle cantine dell’azienda, di una verticale di otto annate (1956, 1975, 1983, 1985, 1989, 1990, 1997 e 1999).

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L Decantazione del Valtellina Superiore Sassella del 1956 24

Oggi, come due anni fa, non sono mancate le sorprese o le conferme, ma soprattutto è rimasto inalterato l’incredibile fascino che forse solo un’uva come il nebbiolo sa regalare, specie se messa di fronte alla prova del tempo: una capacità di viaggiare nel tempo e soprattutto di leggere il territorio come poche altre varietà sono in grado di fare in modo analogo e con gli stessi, emozionanti, risultati. Se l’Inferno copre circa 64 ettari di territorio posizionati sui terrazzamenti posti a est di Grumello tra i comuni di Poggioridenti e Tresivio, con la sottodenominazione della Sassella (circa 150 ettari vitati) dobbiamo indietreggiare e posizionarci appena prima di Sondrio lungo la vallata che da ovest procede verso est. Quest’area si estende fra il comune di Castione Andevenno e il territorio a ovest di Sondrio. Suoli rocciosi, levigati dall’azione dei ghiacciai quaternari, poco profondi che di conseguenza fanno sì che il nebbiolo da queste parti patisca più che altrove annate calde e siccitose. Al tempo stesso, benché sia arduo e difficile addentrarsi in una possibile mappatura delle singole zone a maggior vocazione all’interno della Sassella, è rilevante notare come a seconda della diversa altimetria cambino età di maturazione dell’uva e quindi sfumature olfattive nei vini. Differenze che diventano particolarmente percettibili anche con piccoli spostamenti tra un vertiginoso terrazzamento e l’altro, come è tipi-


della

Valtellina co osservare attraversando il paesaggio valtellinese. A questo proposito, per chi volesse farsi un’idea precisa di cosa significa viticoltura eroica, fuor di metafora e al netto dell’enfasi che si è soliti utilizzare quando si parla di vigne di montagna, merita una segnalazione il bellissimo volume: “Pietre Allineate. Terrazzamenti, vite e vino in Valtellina” di Jacopo Merizzi e Antonio Boscacci (Casa Editrice Stefanoni di Lecco, I edizione novembre 2008), ricco di descrizioni sulla cultura e la viticoltura locale, ma soprattutto di grandi foto panoramiche che rendono bene l’idea di cosa significhi essere viticultore da queste parti. Delle cinque sottodenominazioni della valle, la Sassella è probabilmente quella più conosciuta e commercialmente riconoscibile in Italia così come nei mercati internazionali: il nome deriva dalla chiesetta della Sassella (da sasso o rupe) ed è posizionata su un promontorio che prende proprio questo nome. Qui, tra il piccolissimo centro abitato di Triasso e la chiesetta della Sassella si trova un’incredibile dedalo di terrazzamenti a picco e vigneti che ben fotografano quella che è una delle caratteristiche principali della viticoltura della valle: il frazionamento della proprietà. In Valtellina, infatti, quasi il 70% dei vigneti degli 800 iscritti all’Albo, è di proprietà di privati (0,4 ettari la superficie media in conduzione) che in seguito conferiscono le uve a quel restante 30% composto da produttori. 25


La verticale

LA DEGUSTAZIONE Una sala tra volte in pietra e vecchi millesimi adagiati alle pareti all’interno della cantina dell’azienda Rainoldi: questa la cornice della degustazione di 8 annate di Sassella, prelevate dalla riserva personale che Giuseppe Rainoldi conserva gelosamente e implementa di anno in anno proprio per poter verificare la durata nel tempo dei suoi nebbioli. Un lungo percorso tra concezioni di viticoltura e di cantina diverse passando tra tre generazioni di casa Rainoldi: due vini meritano una sottolineatura particolare, per tenuta da una parte e completezza dall’altra. Il Sassella 1956 ha, in effetti, stupito il gruppo di quasi 20 persone invitate alla degustazione: solitamente serpeggia un’aspettativa particolare, quando si aprono bottiglie che hanno così tanti anni sulle spalle. Come Peppino Rainoldi ha più volte sottolineato, questo vino “è figlio di una viticoltura d’altri tempi, impensabile oggi”. Si imbottigliavano, infatti, vini con livelli di acidità che oggi sarebbero giudicati improponibili da qualsiasi viticultore. Proprio questa caratteristica, spina dorsale di tutti i grandi vini che ambiscano a vincere la sfida del tempo, è risultata l’arma vincente per sorreggere una trama tannica oramai risolta e un corpo lieve, ma affatto sfibrato come ci si poteva attendere. Scansando la retorica che spesso accompagna le degustazioni di vecchi millesimi nonché l’enfasi che a volte porta a giudicare con eccessiva magnanimità bottiglie con più di cinquant’anni sulle spalle, magari già in definitiva parabola discendente, in questo caso ci siamo trovati di fronte a un vino realmente emozionante per integrità, nerbo e progressione nel corso delle ore successive la sua decantazione. Con un salto di 34 anni, il millesimo del 1990, grande non solo qui in Valtellina, ha coniugato con una perfetta sintesi ciò che ci si aspetta da un grande nebbiolo: eleganza nei profumi, sottile equilibrio e una persistenza di grande classe. Si ringrazia la famiglia Rainoldi per la nuova e gentile ospitalità e la delegazione Ais di Sondrio per aver curato tutti i singoli e delicati dettagli di questa piacevole cavalcata nel tempo del Sassella.

Sassella 1956 Una beva mostruosa, una capacità di progredire, cambiare e reggere l’ossigenazione dopo ore dalla sua decantazione, quasi disarmante. Incisivo, fine, nitido, senza alcuna nota ossidativa da farsi perdonare, come sarebbe stato prevedibile e giustificabile. Stupefacente il colore: aranciato vivo con sfumature ancora granate, quasi si fosse cristallizzato nel buio della cantina di Chiuro, dalla quale non si è mai mosso. Un’esplosione immediata di spezie orientali, note di cuoio e un campionario di agrumi di grande suadenza e in continua evoluzione nel bicchiere. Un pilastro acido in bocca, probabilmente difficile da apprezzare quando fu commercializzato, forma quello scheletro duro a morire che ha fatto sì che questo Sassella si presenti ancora in condizioni smaglianti dopo 53 anni dalla vendemmia. Ma non c’era solo acidità, come capita spesso con campioni molto vecchi: tannini ovviamente risolti, ma una compostezza, un equilibrio e una persistenza da vero vino di razza, in grado di poter far affermare che può avere ancora del futuro in bottiglia.

Sassella 1975 Come per l’Inferno, anche per la Sassella questa fu probabilmente l’unica annata da salvare del decennio degli anni Settanta. Un timbro agrumato, come per il ’56, ma note decisamente più stanche e un’ossidazione che sale col passare dei minuti nel bicchiere. Cenni di rabarbaro, una buona speziatura fine, un frutto di lamponi con ancora una sua vivacità, ma al tempo stesso svariati sentori verdi non particolarmente integrati nell’architettura del vino. In bocca la vivacità della parte acida è ancora ben presente, così come il tannino, decisamente risolto, ma che non manca di far sentire ancora la sua grana di piacevole tessitura. Se ha senso paragonarlo al campione precedente, spicca ancora di più l’incredibile vivacità e “gioventù” del millesimo del 1956, con un corpo più magro rispetto a questo campione degli anni Settanta, ma nel suo complesso più vivo e scattante.

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Sassella Riserva 1983 E’ stato il campione più problematico da degustare e valutare vista la difettosità di uno dei due campioni aperti. Nel 1981 Rainoldi comincia a produrre una riserva di Sassella e questo campione di due anni successivi colpisce per la vivacità delle note fruttate e floreali: i lamponi e il ribes e in successione le viole connotano il quadro olfattivo insieme a cenni di orzo e tisana. Anche in questo caso non mancano un nerbo acido e un tannino di buona compostezza che sorreggono agevolmente la beva. Col passare dei minuti tende a virare verso note più evolute, emergono note più “cotte” e brodose.

Sassella Riserva 1985 Il millesimo più timido ad aprirsi, quanto al tempo stesso tra i più fini, sottili e delicati dell’intera batteria. Delicate note di anice, menta e liquirizia, un frutto di more e lamponi cremoso e delicatamente maturo, cenni di rosmarino e caramella mou. In bocca gli manca forse un po’ di lunghezza e persistenza, ma non lesina certamente in freschezza, setosità della trama tannica e un corpo sottile, dritto e di bella fattezza. Tiene bene la prova del bicchiere e dopo tre ore sfodera note balsamiche, minerali e agrumate insieme.

Sassella Riserva 1989 Immediatamente prorompente, quasi sfacciato nel suo darsi con una tale irruenza e dolcezza: ciliegie sotto spirito, marasche, chiodi di garofano e note di cioccolato amaro che catalizzano il quadro olfattivo dopo qualche ora nel bicchiere. In bocca l’aggressività si materializza con tannini graffianti, non di grandissima finezza e tessitura, e con un corpo di grande potenza e incisività. Non gli manca la lunghezza e un’acidità probabilmente meno vibrante e succosa dei millesimi più vecchi, ma comunque di decisa presenza che rende sempre molto piacevole e agevole la beva

Sassella Riserva 1990 Fine come l’85 e insieme esplosivo come l’89. Un vino completo, dotato di quella complessità ed eleganza olfattiva che richiamano in continuazione il bicchiere al naso. Confetture di lamponi e ciliegie, tante spezie di grande finezza, dallo zenzero al pepe nero, violette, sfumature di anice e menta, cioccolato amaro e una prorompente mineralità finale insieme a note decise e composite di agrumi, dalla buccia di arancia al bergamotto. Dirompente l’eleganza olfattiva, da grande nebbiolo di classe, così come sontuosa ed equilibrata la trama gustativa, dove tannini di grande tessitura e grana, freschezza e lunghezza gustolfattiva formano un connubio semplicemente perfetto. Un grande vino.

Sassella Riserva 1997 Oggi è facile trovare pluriosannati e premiati millesimi di questa storica annata già in parabola discendente, anche tra campioni di nebbiolo, siano essi valtellinesi piuttosto che di Langa o del nord Piemonte. Questo campione ha dalla sua, nonostante un’impostazione già più moderna, sia nell’assimilazione delle note del legno piuttosto che nell’estrazione della componente fruttata, una vivacità e una compostezza che non è così scontato ritrovare ancora oggi in questo millesimo. Note dolci di cioccolato e cannella si fondono con un frutto maturo, ma vivo, di marasche e lamponi. Tannino ancora prorompente, non completamente amalgamato, ma sorretto da una piacevolissima trama acida. La persistenza non gli manca, il tempo per equilibrarsi definitivamente anche.

Sassella Riserva 1999 Difficile da giudicare ora, per la gioventù del millesimo e per una scompostezza, specie al naso, che rendono il campione decisamente in fase di assestamento. Il legno dolce e le note di caffèlatte coprono per molte ore un quadro aromatico che stenta a uscire con nitidezza e piacevolezza. Il tannino è più equilibrato e integrato del 1997, con un’acidità sempre di piacevole presenza che ci fa preferire questo millesimo in questo momento più in bocca che non al naso. Da risentire, tra qualche anno.

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Degustazioni

Châteauneuf du Pape bianco, un vino nel vento di Roberto Bellini

IN

QUESTO PAESINO

FRANCIA, DOMINATO PER 150 GIORNI ALL’ANNO DAL MISTRAL, UN VENTO CHE DALLE ALPI ARRIVA FINO AL MARE, SI DELLA

PRODUCE UNA DENOMINAZIONE STORICA ANTECEDENTE AL

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XIV

SECOLO

iungere nella piccola cittadina vinicola di Châteauneuf-du-Pape non è così eclatante se paragoniamo l’arrivo in altri villaggi di Francia, come ad esempio Ribeauville in Alsazia, Avize in Champagne o SaintÉmilion nel Bordeaux. Le tre strade principali che conducono al paese danno una parziale idea della bellezza dei vigneti, che sono veramente tali nel punto più alto del paesaggio, in una specie di altopiano (la terrasse) da cui si può osservare, in lontananza, a ovest, la pietrosa cima del Mont-Ventoux. La terrasse, come d'altronde tutto il territorio, è addobbata da ciottoli e ciottoloni arrotondati, i famosi galets roulés, Châteauneuf-du-Pape è una denominazione storica all’interno del panorama vinicolo di Francia, antecedente al XIV secolo, quando il papato trasferì la sua sede ad Avignone e i papi trascorrevano una parte del loro periodo di riposo in questo paesetto, nella casa per l’estate (un vero e proprio castello oggi parzialmente diroccato) fatta costruire da Papa Giovanni XXII, allora chiamato solo Châteauneuf, mentre il vino prima di prendere la denominazione odierna era chiamato Châteauneuf-Calcenier. E’ indubbio che il territorio ha sfruttato la permanenza dei sette papi ad Avignone, ma è anche vero che è stato uno dei primi distretti vinicoli a darsi rigide regole produttive, creando nel 1911 una commissione di 34 viticoltori per studiare la salvaguardia della loro produzione. Nel 1923 già esistevano regole ben rigide che furono un’ottima base di lavoro per la legge nazionale sulle denomi-

G


nazioni del 1936. Tra le regole più inflessibili c’è la resa di 35 ettolitri a ettaro, la vendemmia manuale in cassette da 50 chilogrammi, l’obbligo di cernita qualitativa delle uve e il taglio della pianta corto, a due occhi. Châteauneuf-du-Pape è un territorio ventoso, dominato per quasi 150 giorni all’anno dal Mistral, un vento che dalle Alpi raggiunge il mare, sfrondando i ceppi allevati aerodinamicamente a meno di quaranta centimetri da terra. Il vento è quasi un toccasana per queste vigne e quando spira può raggiungere gli 80 km orari, tiene lontani dalle vigne i funghi e gli insetti, regola la pluviometria e asciuga il suolo evitando pericolosi ristagni di umidità; il resto lo completa la presenza nei vigneti dei galets roulés. Questi sassi arrotondati, sono un po’ l’emblema della Aoc, essi vanno dalla dimensione di un pomodoro fino a quella di un pallone da calcio: strepitosi accumulatori del calore ceduto dal sole nelle 1.000 ore di presenza durante l’estate a una temperatura oltre i 25 gradi per oltre 7 ore al giorno. Il calore accumulato viene poi riceduto con estrema lentezza la notte, per procurare un’ideale maturazione delle uve attraverso una giusta escursione termica. Il vino bianco rappresenta circa il 7 per cento della denominazione, questo dipende dal suolo, perché solo certe particolari parcelle consentono una coesa fusione tra i ceppi a bacca bianca e il terroir. Le uve impiegate sono clairette, grenache blanc, bourboulenc, roussanne, picpoul e picardan, (quest’ultimo però e praticamente quasi estinto). Ogni uva ha un proprio ruolo nella costruzione gusto olfattiva del vino. Il clairette dà finezza, una complessità aromatica di floreale (caprifoglio e acacia) e minerale (pietra focaia); il bourboulenc apporta acidità e struttura, mentre il grenache blanc amplifica gli aromi, aggiunge ricchezza e concentrazione di gusto. Il picpoul invece fornisce un supporto odoroso di fiori bianchi (biancospino e fiori di campo) e di mineralità. A completare il tutto c’è poi il roussanne che apporta sentori di pera, di fiori di tiglio, di miele e una rinfrescante acidità che cesella una raffinata eleganza. Il picardan è invece alquanto in disuso per via delle sue neutre incisività olfattive e per una troppo precaria espressività nella struttura gusto olfattiva. La storia di questo bianco inizia insieme a quella del più diffuso rosso e ancora oggi resta soccombente nel dualismo tra le due produzioni. Non è facile rappresentare lo Châteauneuf bianco, ogni azienda personalizza la cuvée percentualizzando in modo diverso le tre uve dominanti della Aoc: grenache blanc, roussanne e clairette. C’è chi fa la vinificazione in legno per il roussanne e il grenache blanc, usando acciaio per le altre uve; c’è anche chi fa solo acciaio. Alcuni produttori ricercano profondità e complessità organolettiche e lasciano il vino a contatto con le fecce fini; altri ricercano una integrità fruttata più immediata per cui sveltiscono le operazioni di cantina. I tratti organolettici del vino esprimono all’olfatto una decisa costante fruttata: frutta tropicale, lime, pesca, albicocca, mandorla, mentre nel floreale spicca il caprifoglio, seguito dai petali di rosa e più genericamente dai fiori di campo, tipo erica. La caratteristica gustativa non è marcata dalla sola acidità, ma anche da una struttura morbido/sapida che partecipa alla creazione di una sensazione pseudo-cremosa e vellutata. Il potenziale di affinamento è singolare, va da un massimo di cinque anni per i vini modellatisi nel fruttato, a 10-15 anni per quelli affinati in legno.

Châteauneuf du Pape e il Mont-Ventoux L

M Châteauneuf du Pape

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Degustazioni

LA DEGUSTAZIONE Domaine du Grand Tinel 2006 - 14° 20% Grenache Blanc, 20% Clairette, 20% Bourboulenc Da un vigneto di soli 2 ettari, un vino brillante e paglierino al colore. Molto intenso al profumo, con complesse sensazioni odorose che ricordano i fiori bianchi appassiti, la frutta a pasta bianca, spunti minerali -di idrocarburi- per chiudere con eleganti note di tisane e di erba medica seccata. Al gusto s’avverte un impatto morbido/sapido, dovuto al 10% del vino affinato in barrique nuove. L’acidità è moderata, ma la sapidità sfiora il salato. Finale lungo e vellutato.

Château Jas de Bressy 2006 - 13,5° 50% Grenache Blanc, 50% Roussanne Solo 1600 le bottiglie prodotte. Resiste al colore una briosa sfumatura paglierina nel dominante giallo dorato. Le sensazioni olfattive sono immediate e ammalianti ; la speziatura dolce è ben espressiva (i due anni in barrique si fanno sentire), ma ben più ampie sono le note di frutta matura, di fiori appassiti, di miele, di burro, di camomilla e di balsamico. Ottimo è anche l’accenno minerale che anticipa una struttura gusto olfattiva piena di sapidità, di morbidezza e di attenuata acidità. Il finale del gusto sorprende per le prolungate sensazioni di caramella mou.

Domaine Chante-Perdrix 2007 - 15° Grenache Blanc, Clairette, Bourbolenc e Roussanne Paglierino con unghia verdolina, media intensità. Il profumo è intensamente caratterizzato dalle sensazioni di fiori bianchi (caprifoglio) e gialli (fiori di camomilla), di menta essiccata, di pietra focaia. Nettamente sapido al gusto, sorprende per l’ottimo dualismo tra pseudocalore e acidità, infatti lascia un’eco rinfrescante a chiusura del gusto.

Château-Fortia

2007 - 14,5° 60% Roussanne, 10% Grenache Blanc, 30% tra Clairette e Bourbolenc Ha colore vivace, mix di paglierino e verdolino. Il profumo è dominato dalle sensazioni minerali, in specie gesso. La nota fruttata stenta a uscire, mentre danzano i profumi delle erbe secche mediterranee, in particolare foglie di menta secca. Al palato sorprende l’immediatezza dell’equilibrio morbido/sapido, ma una masticazione più prolungata fa risalire sensazioni di freschezza che personalizzano la chiusura del gusto.

Christine Estoulle, Cuvée des Sommeliers

2007 - 13,5° 70% Grenache Blanc, 10% Clairette, 10% Roussanne e 10% Bourboulenc Solo un ettaro e mezzo di vigneto per ottenere questo vino dal colore paglierino/limone. Incisive sono le note fruttate di susina bianca, espressivo è il minerale, molto singolare è il tono vegetale che ricorda il fieno secco bagnato. Al gusto l’acidità è leggermente dominante sulla nota alcolica, è ben saporito e il finale di gusto ha eleganza e persistenza.

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Clos Saint-Michel, Franck et Olivier Mousset 2007 - 14° 30% Grenache Blanc, 30% Clairette, 20% Roussanne, 20% Bourbolenc Il giallo paglierino brilla di riflessi verdolini e anticipa un erbaceo raffinato, con espressioni di erbe officinali, di dolce resina, di asparagina, di foglie di tiglio seccate e rabarbaro. Il fruttato si miscela tra albicocca e mandorla bianca. Al palato è incredibilmente vellutato e sapido, l’acidità lascia un sapore di lime subito placato dal pseudocalore dell’alcool. La persistenza gusto olfattiva è lunghissima e lascia esprimere aromi di miele di tiglio e frutta tropicale.

Château La Nerthe 2008 - 13,5° 12% Clairette, 8% Bourbolenc, 40% Roussanne, 40% Grenache Intenso colore paglierino con riflessi verde limone. Il profumo è dominato da cinque famiglie odorose: spezie, floreale, fruttato, vegetale e minerale. Vaniglia, petali di rosa, pesca nettarina, erica e idrocarburo caratterizzano profumo e sapore. La struttura gusto olfattiva è piena di sapidità e freschezza, glicerina e alcool riescono però a produrre un ottimo bilanciamento. Nel finale di gusto s’avverte un aroma di tostatura di legno che salda il ricordo del gusto del vino.

Domaine de la Solitude 2008 - 14,5° 30% Clairette , 30% Grenache blanc, 25% Roussanne, 15% Bourboulenc Vinificazione curiosa: il Roussanne fa tutto legno e il Grenace parzialmente, le altre uve solo acciaio. Ciò crea un colore paglierino di media intensità. Al profumo si alternano sentori di spezie (cannella e anice stellato), di salsedine, di erbe officinali, di fiori bianchi primaverili. Le note fruttate lasciano intendere una polposità di pesca e di mela verde. Il gusto è dominato dall’acidità, ma già la parte sapida inizia a comporre il suo effetto che s’allunga nella persistenza gusto olfattiva e lascia un finale al sapore di crema latte.

Château de Beaucastel 2006 - 14° 80% Roussanne, 15% Grenache Blanc, 5% Picardan, Bourboulenc, Clairette Brillante color giallo paglierino con nuances verdoline. Ampia espressione speziata, minerale floreale e fruttata. Pera cotogna, miele millefiori, cannella e semi di finocchio, bastoncino di vaniglia, senape e zafferano. Al gusto l’acidità si prende carico di una sapidità dal gusto di sale di miniera, le parti morbide creano una pellicola vellutata al sapore di gelatina di frutta esotica, la setosità s’allunga in un finale che ricorda il gusto del latte di mandorla e del latte di cocco.

Domaine Patrice Magni 2008 - 14,5° 40% Grenache, 30% Clairette e 30 % Roussanne Nettamente colorato di un paglierino brillante. La prima ondata di profumi è singolarmente fruttata, frutta a pasta gialla esotica (ananas e mango), la parte vegetale ricorda le alghe marine, creando anche una mineralità di salmastro. Gusto sorprendentemente salato, di un salato rinfrescante e dolce. Ha un equilibrio quasi composto, in cui la morbidezza aiuta a corredare il gusto di una sensazione di gelatina di pesca gialla. Persistenza gusto olfattiva molto lunga e finale che chiude con sfumate sensazioni di mandorla fresca.

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Vino e scuola

Una grande

opportunità per i sommelier del futuro di Letizia Magnani

A

FEBBRAIO PRENDE IL VIA A

COLORNO,

IL

PRIMO MASTER PER

SOMMELIER, QUARTO LIVELLO DEL CORSO

DELL’AIS. IL MASTER NASCE DALLA

COLLABORAZIONE FRA

ALMA,

LA

SCUOLA

INTERNAZIONALE DI CUCINA ITALIANA E AIS

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il matrimonio dell’anno”. Con queste parole il presidente dell’Associazione italiana sommelier, Terenzio Medri, ha suggellato l’accordo fra l’Ais e Alma, la scuola internazionale di cucina italiana. Da febbraio la splendida reggia di Colorno, a due passi dal centro storico di Parma, ospiterà il primo master per sommelier, organizzato di concerto fra Ais e Alma, per formare i veri top manager del vino. Il progetto didattico è stato curato da un gruppo di lavoro formato da alcuni fra i personaggi più validi dell’Ais, come Luigi Bortolotti, che sarà il direttore del master e Rossella Romani, che fungerà da tutor scientifico. L’accordo è stato fortemente voluto dal presidente dell’Ais, Terenzio Medri e dal presidente di Alma, Albino Ganapini, che il 3 dicembre ha ospitato proprio nella sede di Alma una riunione fra il presidente nazionale e i presidenti regionali, alla presenza dei quali è stato stretto l’accordo. Giornata di lavoro e di festa, quella di dicembre, che si è conclusa con una cena nella quale, per la prima volta, i cuochi di Alma hanno lavorato al fianco dei sommelier Ais. Matrimonio e accordo sostanziali, come hanno sintetizzato i due presidenti Medri e Ganapini: “Questo accordo è tutt’altro che formale. Vogliamo collaborare concretamente con grande correttezza e con la volontà di fare grandi cose assieme”. Intanto si parte con il master e poi si vedrà. In futuro potrebbero esserci anche altri spin off comuni. Le due realtà didattiche si affiancheranno per un percorso che sarà utile al settore e al mondo dell’eno-gastronomia. In tre anni dalla sua nascita Alma ha formato più di 1500 studenti, proponendo corsi di ristorazione superiore. “Più della metà dei nostri studenti sono stranieri” afferma il presidente Ganapini. “La nostra vocazione inter-

“È


nazionale è molto forte. Quella dell’Ais e della Wsa lo sono sicuramente ancora di più. Per questo il nostro sodalizio è fondamentale sia sul fronte della formazione che su quello dell’internazionalizzazione”. La sfida che si propone agli organizzatori è quella di unire il modello didattico di Alma, con i contenuti professionali dell’Ais e farlo a un livello superiore. Il master, il primo nel suo genere, vuole essere il quarto livello per l’Ais. In altri termini ci si può iscrivere solo al termine di un percorso di studio e di conoscenza del mondo del vino che i sommelier professionisti conoscono bene e che garantirà ai venti iscritti del primo anno di trovare occupazione nei migliori ristoranti internazionali, ma anche nelle cantine e non solo. Nelle intenzioni sia di Alma, sia dell’Ais, infatti, il master dovrà formare persone che abbiamo una cultura di enogastronomia e di turismo, cioè che sappiano sapientemente destreggiarsi sia nella gestione, sia nella comunicazione del vino e dei suoi abbinamenti. “Tutte tematiche” aggiunge il presidente dell’Ais, Terenzio Medri, “sulle quali noi sommelier lavoriamo da tempo. Esiste già una cultura della qualità e una cultura del vino. Noi ne andiamo parlando, scrivendo e insegnano da tempo. Questo incontro con Alma è quindi quanto di meglio si possa auspicare per il mondo dell’enogastronomia in generale. Per questo parlo di matrimonio importante. Stiamo unendo due eccellenze e siamo certi che guardandoci sempre in faccia e lavorando con grande onestà e trasparenza si possano fare grandi cose per il settore”. L’Ais pone sul tavolo non solo la propria autorevolezza, ma anche la propria storia, che è ormai nota e riconosciuta a livello internazionale. L’internazionalizzazione e la capacità professionale sono le due caratteristiche che hanno convinto l’amministratore delegato di Alma, Riccardo Carelli ad aprire le porte della grande scuola di Colorno, a due passi da Parma (e vicinissima a Milano) ai sommelier dell’Ais. “Esiste già” spiega Carelli, “un livello di preparazione costruito nel tempo con i tre livelli Ais, ma noi andiamo a completarlo proponendo un master che sia

Il Master Sommelier Alma-Ais, IV livello Ais Il Master è rivolto a sommelier, ristoratori, operatori ed esperti del settore in possesso di un diploma di scuola media superiore e del diploma AIS di terzo livello o formazione certificata equivalente. Gli aspiranti partecipanti saranno selezionati attraverso un colloquio eseguito da responsabili ALMA e AIS, per un numero massimo di 21 allievi. Il percorso didattico si compone di lezioni teoriche frontali, lezioni pratiche, formazione a distanza, laboratori di degustazione, visite d’istruzione e stage professionali, per un monte ore complessivo pari a 500 ore, suddivise come segue: 160 ore di lezioni teoriche frontali e di degustazione, da svolgersi presso la sede di ALMA 120 ore di visite nei territori di eccellenza 120 ore di formazione a distanza 100 ore di stage ritagliato sulle esigenze dei partecipanti Il corso avrà una durata complessiva di circa 7 mesi, con inizio il giorno 08 Febbraio 2010 e termine il giorno 30 Settembre 2010 (esami finali inclusi) suddivisi come segue: Fase residenziale: 08 Febbraio 2010 – 09 Luglio 2010 Le lezioni si terranno tutti i lunedì, escluse festività ed eventi speciali, dalle ore 9,00 alle ore 13,00 e dalle ore 14,00 alle ore 18,00 per un totale di 20 giornate, corrispondenti ad altrettanti moduli da 8 ore ciascuno. La fase residenziale comprende, oltre alle giornate dedicate alle lezioni frontali e alla degustazione, le uscite didattiche nei territori di eccellenza e la formazione a distanza. L’obbligo di frequenza durante questa fase è dell’80%, corrispondente a 128 ore per le lezioni, e 96 ore per le uscite didattiche. Fase di stage: 10 Luglio 2010 – 26 Settembre 2010 Lo stage si svolgerà in Italia o all’estero, in strutture diverse legate al mondo della sommellerie e della comunicazione e sarà organizzato secondo le esigenze didattiche, formative e logistiche dei singoli partecipanti. Esami finali in ALMA: 29 e 30 Settembre 2010 Alla fine del corso, sarà rilasciato un Diploma di Master Sommelier ALMA – AIS (IV Livello AIS). QUOTA D’ISCRIZIONE La quota di 4.000 € + IVA (20%) include le lezioni e il relativo materiale didattico, il pasto di mezzogiorno nei giorni di lezione, di uscite didattiche e di stage, gli spostamenti sui territori di uscita didattica dal punto di incontro fissato per la partenza alla destinazione e dalla destinazione al punto di incontro fissato per la partenza. La partecipazione richiede l’iscrizione all’AIS per l’anno 2010. L’iscrizione ad AIS è di € 80 all’anno e prevede: Tessera AIS 2010 Guida DUEMILAVINI/11 Ingresso gratuito al Vinitaly nel giorno di lunedì 6 numeri della rivista “DeVinis” Sconto a partecipare a degustazioni e incontri a livello regionale di alta qualità Per maggiori informazioni fare riferimento a: Giulia Beccarelli, assistente organizzativa corsi (ALMA, giulia.beccarelli@scuolacucina.it, tel: 0521 525221). Direttore del Master Luigi Bortolotti (AIS, luigi.bortolotti@alice.it) Tutor scientifico del Master Rossella Romani (AIS, uvross@libero.it)

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Vino e scuola in grado di dare ai corsisti le chiavi sia della comunicazione sia della gestione. Il vino va conosciuto prima di tutto e poi comunicato, ai clienti di un ristorante, ai visitatori di una cantina, a chiunque voglia conoscere storia e cultura di una bottiglia, ma anche di un abbinamento”. È questo il plus sul quale Ais e Alma si sono accordate e che ha fatto pensare a entrambe le realtà che sia il momento di investire in figure altamente professionali. “La crisi” ha ricordato il presidente Medri, “spazzerà via la mediocrità. Ci sarà posto solo per le eccellenze. Questo è vero per i prodotti, certo, ma anche per le professioni. Per questo la formazione superiore è la vera risorsa che il nostro Paese può giocare, specialmente nel settore dell’agroalimentare tipico e dell’eno-gastronomia”. Turismo e agricoltura, insomma, sono i due ambiti nei quali si muoveranno Ais e Alma assieme. Ma non solo, anche alta cucina e in generale il mondo del fashion. Sempre più infatti bere bene e saper cucinare sono fattori che fanno tendenza fra i giovani colti. Il master nasce quindi in un momento nel quale vino e cibo sono glamour. E proprio per questo serve puntare in alto. Negli anni sono nati infatti numerosi corsi e master universitari dedicati alla comunicazione, all’economia e al marketing del territorio, ma nessuno si è spinto a formare davvero il top manager del vino. Il sommelier professionista invece ha la cultura e le conoscenze giuste, in termini di prodotti, cantine, produttori, etichette e abbinamenti per rispondere alla sfida con il futuro. Per ora si è festeggiata l’unione di Ais e Alma. Adesso si lavora sulla prima edizione del master, le cui lezioni inizieranno a febbraio. Il costo indicativo si aggirerà attorno ai quattro mila euro, per le ore di lezione, 500 in tutto, che si svolgeranno il lunedì, per permettere ai professionisti di seguire i lavori del master, i laboratori, le degustazioni, gli stage, le testimonianze. L’idea di Medri è quella di “garantire ai corsisti anche uno stage pagato Ais altamente qualificato e qualificante nelle migliori strutture ricettive e alberghiere del mondo enologico”. Grande attenzione verrà posta sulla comunicazione e sul marketing. Internet e la conoscenza della lingua inglese saranno fondamentali per la nuova figura professionale prevista dal master. È nel web e in inglese infatti che si muove il mercato internazionale del vino. Per questo verranno invitati esperti dell’uno e dell’altro settore. Saranno sicuramente le testimonianze dei produttori, degli enologi, dei cantinieri a fare la differenza, ma la vera matrice del master sarà legata al territorio e alla sua vocazione. Nella Bassa Parmense, fra Emilia Romagna e Lombardia, a due passi da Veneto e Liguria da sempre si custodiscono alcuni dei segreti dei salumi italiani più noti nel mondo. Poco più a nord, fra le nebbie della pianura nascono anche alcuni dei vini migliori. Competenza, passione, professionalità e amore faranno di questo legame nuovo e unico fra Ais e Alma il collante migliore, grazie anche a quella nebbia e a quel territorio, che sono in grado di far innamorare.

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L Un gruppo di studenti coreani al lavoro nel laboratorio di pasticceria

L Franco Ziliani della Berlucchi riceve il Rigoletto d'Argento 2009 Ivano Ganapini premiato da Terenzio Medri con il Rigoletto d'Argento 2009. Accanto a loro Luigi Bortolotti M e Riccardo Carelli


Le parole maestre

sballo distrugge i giovani e la cultura del vino Lo

di Salvatore Giannella ra le radiografie che il 2009 consegna agli archivi della storia del costume italiano c’è una che inquieta: l’avanzata dello “sballo”, specialmente tra i giovani. Cinque anni fa l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) si era data come obiettivo di ridurre a zero per il 2010 la quota dei ragazzi fino ai 15 anni che consumano alcol: obiettivo fallito. «Non sono mai stati così tanti i giovani attratti dall’alcol» avverte il presidente della Società italiana di alcologia, Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol e del Centro per la ricerca sull’alcol dell’Oms. Proprio allo scadere dell’anno ne è un sintomo illuminante quanto è accaduto a San Martino Buon Albergo, alle porte di Verona. Qui, una mattina due studentesse della scuola media si sono presentate ubriache in classe, all’inizio delle lezioni. Un fatto preoccupante, tanto che il sindaco Valerio Avesani ha concordato con il preside iniziative sfociate in un’ordinanza che ha fatto scalpore in tutt’Italia: niente alcolici sotto i 16 anni, niente superalcolici tra i 16 e i 18 anni e le sanzioni non saranno più soltanto per i baristi (come prevede la legge statale): sono previste, per la prima volta in Italia, multe tra i 50 e i 500 euro anche per i genitori dei ragazzi che sgarrano. «È giusto sensibilizzare i ragazzi

T

AL

RITO DEL BERE CONSAPEVOLE SI CONTRAPPONE

SEMPRE DI PIÙ TRA I GIOVANISSIMI LO SBALLO :

LITRI DI SUPERALCOLICI INGURGITATI IN UN FIATO

E CHE PRODUCONO L’EFFETTO DI UNA BOMBA.

VITTORINO ANDREOLI,

SCIENZIATO DELLA MENTE,

AIUTA A CAPIRE I MECCANISMI CHE INDUCONO I GIOVANI A BERE IN MODO SBAGLIATO E SPIEGA COME AIUTARLI

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Le parole maestre

a beneficio della loro salute e dell’incolumità altrui, se poi i ragazzi non ascoltano e sbagliano è giusto che siano sanzionati anche coloro che rispondono delle loro azioni, cioè padri e madri» ha spiegato il sindaco Avesani a insegnanti, commercianti e associazioni sportive del territorio, che raggruppano oltre un migliaio di atleti. «A mali estremi, estremi rimedi» ha concluso il primo cittadino veronese, ricordando i più recenti dati statistici in materia: «L’Osservatorio nazionale sull’alcol dell’Istituto superiore di sanità denuncia che l’86 per cento dei giovani beve nel fine settimana. Il 43 per cento preferisce il vino, il 27 per cento i superalcolici, mescolando i liquori a oltranza». Insieme alla sbronza di fine settimana, dai dati presentati in occasione dell’ultimo Alcohol prevention day, emerge un allarmante cambio di abitudini tra i minorenni di casa nostra. Mentre diminuiscono i consumatori di solo vino o sola birra, sono sempre più diffuse, insieme alla sbronza del fine settimana, i cocktail spazzatura e il binge drinking, cioè l’ubriacatura concentrata in singole occasioni con l’assunzione di più di sei bevande contemporaneamente. Beve per ubriacarsi il 64,8 per cento dei ragazzi e il 34 delle ragazze. Fra questi sono sempre di più

i minorenni (42 per cento dei maschi, 21 delle ragazze), esposti a un rischio maggiore in quanto non sono in grado di metabolizzare adeguatamente l’alcol. Proprio a due passi dal comune veronese vive e lavora uno scienziato della mente che può aiutarci a decifrare questo fenomeno sociale che allontana fasce di giovani da una consapevole cultura del bere e da un moderato consumo che faccia bene alla salute: lo psichiatra Vittorino Andreoli, 69 anni, autorevole studioso del cervello e scrittore di libri di grande successo, punto di riferimento per capire i giovani (resta chiave il suo volume Lettera a un adolescente). GIANNELLA- Professor Andreoli, lei è una delle più sensibili antenne puntate sulla mente degli italiani per interpretare i disagi della società ma anche la realtà nei suoi aspetti più creativi e familiari. Che cosa sta infiammando le menti degli adolescenti italiani? E che cosa possiamo fare noi adulti per spegnere i fuochi? ANDREOLI- Colpevole è lo sballo, questo modo sbagliato di consumare vini e alcolici. Interpretiamolo: esso consiste nel deglutire, senza neanche gustare, vino e alcol in quantità enorme nel più breve spazio di tempo possibile. Roba da but-

UNA VITA IN SETTE DATE 1940: Vittorino Andreoli nasce a Verona. 1965: si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Padova e si dedica alla ricerca in biologia scegliendo come “organo” l’encefalo. 1966-1970: lavora in Inghilterra all’Università di Cambridge e negli Stati Uniti alla Cornell University di New York. In questo periodo è assistente all’Istituto di Farmacologia dell’Università di Milano, dove si rivolge alla ricerca sul cervello come centrale del comportamento umano usando anche i farmaci come spie dei meccanismi cerebrali.

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1972: lavora alla Harvard University, aggiungendo alla dimensione di ricerca quella applicata alla psichiatria. È membro della The New York Academy of Sciences. È presidente della Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association. 1974: diventa direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona - Soave. Comincia così la sua dedizione alla psichiatria e all’uomo “rotto”, che continua fino ai giorni nostri. 1980: esce il primo dei libri con cui accompagna la sua attività: La terza via delle psichiatria. Seguirà nell’82 La norma e la scelta (sempre con Mondadori) e dieci anni dopo, il libro con cui convenzionalmente si presenta nella sua nuova dimensione, oltre che di psichiatra, anche di scrittore: Il Matto inventato, pubblicato con Rizzoli. La ricca bibliografia dei suoi volumi con Rizzoli è pubblicata sul sito: http://www.andreoli.rcslibri.it/libri.php. 2009: esce il suo, per ora ultimo, libro Preti (Piemme).


tare giù tre, quattro litri di bevande di solito mescolate con aperitivi, amari e superalcolici. Dopo aver ingurgitato tutto d’un fiato questa grande quantità di alcol, il giovane avverte la bomba, sente dentro di sé una metamorfosi, un cambiamento: questo è lo sballo. GIANNELLA- Che non chiamerei bere. ANDREOLI- No, perché il bere è un rito, per cui ciò che bevi viene sorseggiato lentamente, viene fermato nella bocca e qui c’è tutto un processo di stimolazione delle papille gustative… Non è nemmeno ubriacarsi, perché l’ubriacarsi è un processo che ha bisogno generalmente di parecchio tempo, di ore, uno comincia a bere il mattino e può, se non è un etilista, cominciare a essere brillo la sera. Poi c’è ubriachezza e ubriachezza: c’è quella leggera, c’è l’essere brillo, c’è l’essere disinibiti. Nel caso dello sballo invece il fenomeno avviene tutto in cinque minuti, provocando un immediato effetto acutissimo. GIANNELLA- Quindi, per dirla in termini culturali, occhio ai beveroni da sballo ma stiamo attenti a non demonizzare il vino di qualità. ANDREOLI- Il vino è cultura, tradizione, ricerca del territorio. Il vino di qualità lo si consuma in maniera moderata, spesso in buona compagnia e senza avere alterazioni del comportamento, cioè senza ubriacarsi. Io rispetto sempre le persone in difficoltà e quindi anche gli ubriachi: l’ubriaco è una persona che stabilisce un rapporto con il vino, che poi lo può sopraffare, ma che gli permette di vincere sia pure transitoriamente un senso di mal d’essere. Tante volte l’ubriaco è uno che nel vino trova un amico: trovo bellissima l’immagine dell’ubriaco che parla con se stesso perché si sdoppia, diventa un doppio e allora l’ubriaco racconta all’altro, che è sempre lui, avventure che non ci sono. Insomma c’è tutta una fenomenologia dell’ubriachezza, che è mille miglia distante dallo sballo.

Lo sballo è una bomba, è trasformare il vino, o più precisamente una miscela di bevande alcoliche, e attraverso il tempo di assunzione, che è brevissimo, trasformare questa in una bomba che ti fa sentire diverso. GIANNELLA- Provo a sintetizzare. L’alcol da sballo è quello che consumi in breve tempo, magari lontano dai pasti, in grande quantità, in grandi gruppi, in grandi discoteche e questo sballo non va confuso con l’ubriachezza. Il vino di qualità è un vino lento, un vino da godersi ricordando le parole del grande scrittore latino Orazio Flacco di Venosa, il poeta del piacere di vivere. Quel saggio libertino, già duemila anni fa, diceva: «A tavola e a letto, calma». ANDREOLI- Esatto. Ma sarà duro farlo capire agli adolescenti d’oggi. Quello che loro hanno scoperto è che lo sballo è una botta, un colpo in testa che ti aiuta a vincere fragilità, paure, senso dei limiti, non sei più tu, ti provoca una metamorfosi. E questo spiega perché colpisce i più giovani. L’adolescenza è un momento di metamorfosi. Con la pubertà il corpo cambia, la personalità si modifica, il mondo ester-

no viene visto con occhi diversi. L’adolescente si ritrova con una mente in subbuglio. Ha paura. Paura che quel corpo, modificandosi, diventi mostruoso. Lei che teme il seno troppo grande. Lui che vede i primi brufoli e gli sembrano i crateri di un vulcano. Ed ecco, dopo la paura, il secondo disagio: la solitudine. Se sono brutto, nessuno mi vorrà, resterò solo. Quindi scatta il rifiuto di essere giudicato. Ci si allontana dal mondo dei genitori, dal mondo degli adulti, dalla scuola. GIANNELLA- E subentra il bisogno di fare gruppo. ANDREOLI- Di fare gruppo con quelli che ti somigliano. È il gruppo dei pari età. Un mondo a parte di ragazzi tutti uguali, che si vestono, pensano e si comportano nello stesso modo. Per sentirsi più forti, per vincere la paura di non piacersi. GIANNELLA- Ed è il gruppo che favorisce la nascita di bullismo e violenza. ANDREOLI- Dal gruppo che si fa branco. È dal proprio sentirsi frustrati. Non ci sono solo paura e soli-

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Le parole maestre

tudine. L’adolescente si percepisce come un nessuno, come un perdente: la metamorfosi che sta attraversando gli toglie l’identità. La famiglia era il luogo dell’infanzia e non lo è più. La scuola è troppo giudicante. Quando un adolescente prende un brutto voto non riesce a cogliere quel giudizio come uno stimolo a studiare di più. Lo vive come un giudizio generale su di sé. Si sente frustrato e allora, per uscire dalla sindrome del sentirsi nessuno, scatta la ricerca di “eroismo”. Io voglio passare da nessuno a eroe, ed eroe è chi si fa notare, nel bene e nel male. Voglio passare da perdente a vincitore. Allora monto in moto e vado contromano a 200 all’ora. Oppure vado a scuola, picchio un disabile, filmo il tutto e lo metto su Internet. Perché il messaggio che arriva dalla società è che per avere successo bisogna andare in video. E oggi andare in video non è solo andare in televisione. Esistono i telefonini di ultima generazione che ti permettono di filmare. C’è Internet, che offre la possibilità di una divulgazione enorme. GIANNELLA- Una volta, professore, dipingendo il cerchio della vita, lei mi aveva colpito con un particolare che per noi adulti è difficile da capire: i giovani hanno bisogno del sacro, disse. Sacro è tutto ciò che è necessario per vivere, gli oggetti dei quali non si può fare a meno.

Come il vino e il pane, senza i quali non si può fare messa. Il motorino come il vin santo… Mi spieghi meglio. ANDREOLI- Certo. Noi adulti dobbiamo capire che i giovani coltivano la dimensione del sacro, del mistero, dei riti, una dimensione che è collegata alle paure e alle insicurezze che hanno. Questo senso del sacro balza fuori dappertutto, persino la discoteca può definirsi un luogo sacro, può essere vista come una cattedrale in cui certo non c’è un sacerdote che celebra un rito ma certamente i giovani vivono un rito, vanno di sera quando c’è buio (che senso ha andarci alle otto?). Certe cerimonie hanno bisogno del buio, che è mistero. Tu dovresti saperlo, visto che nel tuo Tavoliere pugliese sono affiorati gli ipogei dell’età del bronzo che già secoli fa vedevano gli antenati andare sotto terra a celebrare i riti della rinascita (vedi sotto La dimensione del sacro e i riti della rinascita).

Che cosa si fa in discoteca? Non c’è una finalità, come ai miei e ai tuoi tempi, quando si andava per conquistare seguendo lunghe, estenuanti strategie e manovre. Oggi è un rito. Si balla con tutti e con nessuno, si fa parte di un “corpo mistico” del quale ognuno è una parte. La musica è martellante, ossessiva, si balla fino a rimanere intontiti e infine a crollare e infatti si prendono beveroni di alcol e droghe per farcela ancora. GIANNELLA- Lei evoca con le droghe l’altro lato dell’emergenza giovanile: la diffusione della droga. ANDREOLI- Questa è l’emergenza a mio parere più grave, ancor di più di quella economica anche se meno percepita. Lo stesso pontefice Benedetto XVI ha lanciato un appello: «Salvate i giovani». Bisogna che il Paese cominci a capire che la più seria di tutte le questioni è quella degli adolescenti che non studiano, che non hanno un’identità, che non sono interessati al futuro, non lo percepiscono neppure. E che occorre rivolgere tutte le proprie attenzioni ai bisogni e ai disagi di questi ragazzi, aiutandoli. Per esempio con una scuola meno giudicante, che insegni l’italiano, la matematica e le campagne di Napoleone ma anche a vivere e a stare insieme. Per esempio con una famiglia meno protettiva ma più dialogante. Ci

LA DIMENSIONE DEL SACRO E I RITI DELLA RINASCITA A proposito di riti e di antichità, ecco il brano cui fa cenno il professor Andreoli nell’ intervista. È tratto dal suo recente libro Fuga dal mondo, pubblicato da Rizzoli nella collana Bur, in cui il protagonista è Angelo Spini, un tormentato creativo televisivo ossessionato dalla miseria e dall’ingiustizia, erede di generazioni di contadini. «Angelo Spini era affascinato in particolare dalle necropoli. La sua preferita era a Trinitapoli, nel Tavoliere pugliese. Andava spesso all’ipogeo dei Bronzi e si immergeva in quell’ombelico di terra che lo portava davanti a una porta-vagina così precisamente rappresentata da far venire voglia di peccare. Attraverso quella porta si entra in un utero che dà la morte. Un gioco di opposti che rompe ogni convenzione e proclama la nascita della fine. Per incunearsi nella tuba uterina ed

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entrare in quel posto silenzioso e caldo, un luogo di vita per sempre e dunque di morte, bisogna accovacciarsi e assumere la posizione fetale, che evoca la rinascita. Il cimitero come luogo della nascita. Amava scomparire dalla superficie del mondo e rintanarsi là dentro, nel mistero, dentro la terra e farsi terra per sempre. A Trinitapoli c’è puzza di antico e profumo di eterno. Si sente la morte che vive e la vita che finisce nel fetore della decomposizione e del non senso».


sono dei genitori che i loro figli li assolvono sempre, qualunque cosa facciano, impedendo così che loro crescano. Perché sanno di essere assenti, perché dedicano ai figli poco tempo. È il loro modo di non sentirsi in colpa. Che errore! GIANNELLA- Professore, lei abita in una zona in cui è forte il vino di qualità. Ci parli del suo rapporto personale con il vino. ANDREOLI- Qui a Verona prevalgono i bianchi (quelli di Soave, di Custoza) e i rossi: questa è la terra dell’Amarone. Non sono un bevitore abituale, però assaggiare il vino può essere un divertimento, è accorgersi di una qualità e anche scoprire un po’ di territorio, ti porta dentro la cultura di una civiltà contadina. Io mi definisco contadino: i miei nonni materni sul lago di Garda avevano campagna e producevano vino. Durante la guerra sono stato sfollato lì e mi è rimasto nelle narici il profumo del vino che matura nelle botti, negli occhi le liturgie della vendemmia, il calpestare l’uva sull’aia, pressandola, ballando, sentendo la musica.

GIANNELLA- Nei suoi studi e libri, lei si è imbattuto spesso nel binomio grandi firme-vino? ANDREOLI- C’è stato un periodo in cui il vino è stato una musa ispiratrice. Cito per tutti i poeti maledetti e faccio un solo nome: Baudelaire. Il vino ti liberava dalle angustie, dalle regole, spingeva alla creatività e questo è stato vero, sarebbe veramente difficile distinguere il grande romanticismo senza il vino. Ma senza andare lontano, pensiamo alla funzione creativa avuta dal vino anche in grandi menti della nostra letteratura, che in un bicchiere di buon vino trovavano il rifugio ideale. Penso a Giovanni Pascoli (che poi morì di cirrosi epatica a soli 57 anni) o a Giosué Carducci, i cui versi sarebbero un po’ scialbi se non fossero stati innaffiati di buon vino.

GIANNELLA- Sembra di scorgere sullo sfondo il ghigno di Dioniso! ANDREOLI- In un certo senso sì, assistevi al trionfo del nettare, al passare dal grappolo d’uva al vino, che diventava un’espressione della grande civiltà della campagna.

GIANNELLA- In conclusione, il messaggio che lei lancia è a favore del vino di qualità, bevuto moderatamente in modo da farne un compagno di viaggio per la propria creatività, non per la propria rottura. ANDREOLI- I giovani dello sballo

distruggono se stessi ma anche una cultura. Pensiamo alla storia contenuta in un bicchiere di vino: buttarlo giù a garganella è come avere una bella ragazza che ti vuole bene e invece di far l’amore con lei, la prendi a schiaffi. Lo sballo è la metafora della distruttività, perché rompe la persona che lo usa in quel modo ma distrugge anche il vino, perché si disprezzano le sue caratteristiche, non si sente il gusto, non ci si ricorda nemmeno qual è tutta la storia che da un grappolo d’uva porta a un bicchiere di vino, insomma è una distruttività anche di una cultura. Allora dobbiamo aiutare i giovani a ritrovare il senso del vino, che è quello di apprezzarlo, di gustarlo, così come si fa nell’amore. Amore del vino vuol dire non esagerare, vuol dire impegnarsi allo stesso modo di come si conserva un amore con una donna. C’è una relazione da conservare bene e a lungo, ognuno con un equilibrio che va trovato di giorno in giorno, di occasione in occasione, senza regole fisse come vorrebbero certi estremisti dell’alimentazione. Io guardo con sospetto chi dice: un bicchiere a pasto. Come giudicheresti uno che ti dicesse che l’amore con una donna, lo devi fare sì ma una volta ogni tanto? Ha collaborato Manuela Cuoghi

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Sommelier nel mondo

Washington DC a scuola dai sommelier di Emanuele Lavizzari

PASSIONE PER I VALORI DEL BELPAESE E LA CULTURA DEL BERE

BENE, I CARDINI DEL SUCCESSO DEI CORSI

AIS

A

WASHINGTON,

TRASMESSI CON DEDIZIONE DA UNA SOMMELIÈRE

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arà la prossimità alla Casa Bianca, sarà la sua abilità dialettica e il suo presenzialismo discreto: non ne abbia a male Michelle Obama, ma anche l’Ais ha la sua First Lady. E come il padre fondatore e primo presidente degli Stati Uniti d’America, George Washington, fu pioniere di democrazia e di diritti, così lei negli stessi luoghi è stata precorritrice dell’internazionalizzazione dell’Associazione Italiana Som melier. Malinda Sassu conosce bene la capitale statunitense perché nel District of Columbia ha trascorso parecchi anni. E prima di ogni altro ha saputo interpretare le aspettative e le esigenze di coloro che poi sarebbero diventati entusiasti partecipanti ai corsi Ais dall’altra parte del l’Atlantico. L’American Dream dell’Associazione Italiana Sommelier ha inizio proprio grazie all’intuizione di questa sommelière, la cui determinazione traduce in pratica quei buoni propositi che da lì a poco porteranno alla nascita della Worldwide Sommelier Association.

S

Il cammino dell’Ais a Washington DC parte nel dicembre 2006. Una cerimonia inaugurale presso l’ambasciata italiana sancisce ufficialmente l’avvio delle attività. Il presidente Terenzio Medri viene ricevuto con tutti gli onori di un capo di Stato e nel corso dell’evento, in presenza delle maggiori autorità locali e dei principali giornalisti di settore, Lila Castellaneta, moglie dell’allora ambasciatore Giovanni Castellaneta, è insignita del titolo di sommelier onorario. Il Columbus Day della sommellerie italiana arriva qualche mese più tardi: è il 20 marzo 2007, data di partenza del primo corso nella prestigiosa cornice di Villa Firenze, residenza personale dell’ambasciatore, prima di allora appartenuta a Peggy Guggenheim e successivamente nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana a Washington. Fondamentale in quel periodo per la messa in moto dei corsi Ais è il contributo logistico dell’ambasciata italiana, che concede gratuitamente


L Barboursville

l’utilizzo di alcune sale. Altrettanto importante è la collaborazione con l’Istituto di cultura italiana, grazie a Rita Venturelli, e della sede ALUB Bocconi di Washington, presieduta da Andrea Canepari, diplomatico presso l’ambasciata, divenuto poi anche lui sommelier. Svoltosi in lingua italiana, il primo corso è stato frequentato con profitto da medici, personale diplomatico italiano all’estero, enologi e maîtres della Tenuta Zonin di Barboursville, imprenditori locali e alti funzionari della Banca mondiale. La consegna dei primi attestati si è tenuta il 14 dicembre 2008 proprio nell’azienda Zonin di Barboursville Vineyards, nello Stato della Virginia, con l’intervento del presidente Medri. Da sottolineare che il nome di Gianni Zonin rappresenta da questi parti un modello di riferimento per la tenacia e la caparbietà con le quali l’imprenditore e agronomo veneto, giunto in America nel 1970, ha deciso di investire in questi territori per produrre vini di qualità

secondo lo stile italiano. In seguito a questo brillante esordio, Malinda comprende che i corsi non devono restare vincolati alla sola lingua italiana: l’inglese potrebbe avvicinare parecchi appassionati americani, forse poco esperti ma certamente assai curiosi e motivati. Con la collaborazione di alcuni sommelier del primo gruppo ha così inizio il secondo corso nel gennaio 2009. Ed ecco subito arrivare altissimi esponenti della vita culturale washingtoniana, rappresentanti della Banca mondiale, imprenditori e importatori oltre a numerosi professionisti del settore. Nomi di rilievo, tra gli altri, sono stati Dimitri Nionakis (consigliere legale di Bill Clinton e Al Gore), e Bonnie Pierce, docente di economia della prestigiosa George Washington University ed executive director della Global Wine Institute. La stessa Pierce scrive entusiasta al termine del percorso didattico Ais: “I thought I knew a lot about wine, but through the program I realized

the more I learned the less I knew. The world of wine is incredibly vast and becoming a sommelier opened up more windows of opportunity in it. I am delighted that I have been able to incorporate lessons from the wine world into my business classes”. (“Pensavo di conoscere tanto riguardo al vino, ma nel corso del programma mi sono accorta di quanto poco sapessi man mano che imparavo. Il mondo vitivinicolo è incredibilmente vasto e diventare sommelier dischiude più opportunità in questo campo. È fantastico che sia riuscita a inserire lezioni del mondo del vino nei miei corsi di economia”). Successivamente sono state organizzate serate a tema e approfondimenti culturali paralleli ai corsi. Da citare la visita in Napa Valley, dove gli aspiranti sommelier Ais sono stati accolti da aziende prestigiose come l’Opus One e la Rubicon Estate di Francis Ford Coppola. Da non dimenticare anche collaborazioni proficue con la Spanish Wine 41


Sommelier nel mondo

Roberto Bellini, Malinda Sassu e Terenzio Medri con un neo sommelier

Il presidente Terenzio Medri e la Signora Lila Castellaneta alla serata inaugurale delle attività dell'Ais a Washington M

Come giudichi i “palati” americani? Appiattiti e assuefatti dalla globalizzazione dei fast food come spesso ci vengono dipinti dai mass media? Oppure hai trovato qualcosa che non ti aspettavi? “Washington DC non è una piazza facile: al contrario di quello che si pensi, lì non regna la filosofia del fast food: la voglia di cultura è molta e questo mi ha sorpreso non poco. Ciononostante, c’è ancora molta confusione e i buoni ristoranti, eccezion fatta per qualche italiano e francese, sono pochi e la giusta cultura del vino sta appena muovendo i primi passi”.

Academy e la French Wine Academy, per ribadire la rilevanza delle scuole europee nel panorama enologico mondiale. Malinda Sassu può così ben dirsi testimonial del patrimonio vitivinicolo italiano e portavoce di un numeroso gruppo in nome della cultura del Belpaese. Sappiamo quanto lavoro sia necessario per esportare in America il made in Italy, figuriamoci se si tratta di un “prodotto” culturale come i corsi dell’Ais. “Sicuramente non è stato facile all’inizio. La diffidenza era molta, troppa se consideriamo che il “mercato culturale” di Washington sembra essere esclusivo appannaggio di francesi e britannici. Perseveranza, buona dose di ottimismo, tanta passione e soprattutto quegli italiani che come me hanno creduto nel prodotto Ais hanno fatto il resto. Alla fine l’ho spuntata io, con enorme soddisfazione!” 42

Quali sono le ragioni che ti hanno spinta a impegnarti per diffondere i principi del “bere bene” in una società dal punto di vista enogastronomico (e non solo) molto differente dalla nostra? “In primo luogo la totale assenza o quasi di una corretta filosofia del bere bene e giusto. L’approccio anglosassone stereotipizza alcuni atteggiamenti nel consumatore, che alla lunga si rivelano inconcludenti. A volte mi sentivo una marziana quando parlavo di certi argomenti ma destavo sempre e comunque interesse nei miei interlocutori. Un’altra ragione, forse la più importante, era e rimane l’orgoglio di appartenere a un Paese speciale, capace di dare molto più del solito “volantino” che offre pizza, mozzarella, Ferrari e calcio. Volevo mostrare un volto diverso del vino italiano (e non solo quello dei grandi volumi del vino da tavola) in una città che di italiano ha effettivamente ancora molto poco”.

Come si comportano a tavola gli italiani che vivono nella capitale statunitense? Sono “contaminati” dalle abitudini americane oppure mantengono le buone tradizioni di casa nostra? “Gli italiani residenti a Washington non sono tantissimi e non sono emigranti “per costrizione” ma per scelta: medici, ricercatori, diplomatici, imprenditori. Tutti hanno in comune la passione per il cibo nostrano, per cui mantengono le sane abitudini nonostante numerose siano le imitazioni, sia in materia di cibo sia di vino, purtroppo…” Nel corso della tua attività a Washington, che cosa ti ha stupito di più degli americani? Che cosa ti ha deluso? “Mi ha stupito e affascinato l’amore per il nostro Paese, la gentilezza e la modestia nell’approccio con la nostra cultura. Questa è stata una delle molle principali che mi ha spinto a iniziare, nonostante (questa è la nota dolente) la diffidenza di alcuni ristoratori italiani del luogo. Mi ha delu-


Il gruppo del corso in lingua inglese

Il primo gruppo dei corsisti M di Washington

so constatare in alcuni una certa saccenza in materia enologica, nonostante non fossero chef di rango. Nei loro ristoranti ho assistito addirittura all’abbinamento di un prosecco con un tiramisù!” Che cosa ha sorpreso gli americani durante i corsi Ais? “La cultura dei nostri relatori, la loro preparazione e la nostra didattica. I nostri programmi non sono tagliati per il loro stile di vita, sempre indaffarato e dedito al business. Nonostante tutto ciò, il loro impegno è stato enorme e su questo sono stati loro a sorprendere me”.

Quale è stata la soddisfazione maggiore in questi anni trascorsi all’ombra della Casa Bianca? “L’aver pranzato con Barack Obama quando ancora non era famoso e il ricordo di una colazione simpaticissima con Al Gore, che ho riconosciuto solo dopo aver lasciato il locale. O anche quando il consigliere legale di Bill Clinton mi chiamò per iscriversi ai corsi e l’aver convinto il più grande chef italiano in DC a unirsi a noi. Questo e altro mi ripaga dei tanti sforzi compiuti”. Come giudichi il panorama vitivinicolo statunitense? Che cosa dovrebbero imparare gli italiani dagli americani? E cosa loro da noi? “Sta crescendo il loro consumo interno, sicuramente dovuto alla crisi ma anche alla crescente qualità, unita alla maggiore conoscenza del proprio patrimonio. Mi ha colpito la loro tenacia e l’approccio modesto e rispettoso nei confronti della loro terra. Non so che cosa

abbiano da imparare da noi ma da parte nostra ci vorrebbe un pizzico di modestia che dovremmo tenere sempre presente e non mi riferisco ai produttori ma a chi, nell’Ais e nella vita di tutti i giorni, si sente arrivato”. Un aneddoto legato ai corsi Ais che ti fa sorridere o che ti è rimasto in mente? “Sono tantissimi i ricordi belli e simpatici: mi piace raccontare che i corsi in DC sono sempre stati all’insegna del sorriso, per un preciso impegno personale. Ricordo quando durante la prima lezione una socia fece presente di essere completamente astemia ma che le interessava imparare ad abbinare i vini ai cibi congelati!” Quale consiglio ti senti di indicare ai tuoi colleghi sommelier che lavorano e organizzano corsi all’estero? “Credere in quello che si fa, anche se qualcuno o qualcosa dovesse

darci contro. Ma soprattutto non dimenticare mai che siamo i testimonial di un grande prodotto chiamato Italia”. Progetti per il futuro? “Il nostro è ormai diventato un lavoro di squadra e l’amicizia ha preso il sopravvento sul semplice stare insieme come soci di una stessa associazione. Di progetti ne abbiamo numerosi: un prossimo corso dovrebbe partire il prossimo aprile, insieme a una serie di manifestazioni ed eventi che presentino i vini del nostro Paese. Vorrei ringraziare quanti hanno creduto in me, a partire dall’ambasciata italiana, l’Ais, per finire con la mia famiglia e i miei amici e colleghi sommelier d’oltreoceano, con i quali ho condiviso alcuni tra i momenti più belli della mia vita. Ora il mio impegno è portarli in Italia al nostro prossimo congresso... Chissà che il mio entusiasmo non mi accompagni anche in questo progetto!”. 43


Vino che passione!

Il vino dell’avvocato e della giornalista di Daniele Urso

na giornalista alla ricerca delle antiche uve campane incontra un avvocato con la sua stessa passione. Tra loro sboccia l’amore. Lasciano tutto: la città, il lavoro, le antiche abitudini. E sposano un sogno, fare vino. Non uno qualunque ma quello che il nonno dell’uomo gli faceva assaggiare da bambino. Quello che bevevano, o anche solo ricordavano, i contadini con le mani sporche di terra. La coppia si mette al lavoro, inseguendo profumi e vecchi racconti. La strada verso il successo è lunga, costellata di ostacoli. Servono sudore e lacrime ma lungo il percorso Manuela e Peppe incontrano vecchi e nuovi amici che danno loro una mano. Così, dal sentimento che li unisce germoglia il seme di un’azienda che comincia a farsi conoscere. E che le guide amano. Ce n’è abbastanza per emozionare e commuovere la sala gremita di un cinema. Ma non si tratta di una commedia hollywoodiana sotto il sole della California con Meg Ryan e Tom Hanks. È tutto vero. Ed è tutto italiano, o più precisamente, campano. Manuela Piancastelli, scrittrice e giornalista, ha lasciato il suo lavoro da caporedattore a «Il Mattino» nella redazione di Caserta, per le terre del Volturno. Niente più cronaca, economia e politica. Ora ci sono vigne, viti e vino. Il suo compagno è Peppe Mancini, avvocato. Insieme, nel 2003, hanno messo in piedi a Castel Campagnano, nel Casertano, Terre del Principe, casa vinicola che negli anni ha saputo ritagliarsi un ruolo importante al Sud. Una bella storia con un lieto fine, fare il vino perfetto, che Manuela sta ancora scrivendo.

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Una mattina la caporedattrice Piancastelli si sveglia e decide che è il momento di smettere di fare la giornalista e iniziare a produrre vino. Perché? «Da anni ero appassionata di enogastronomia. Ne scrivevo anche sul giornale, sebbene mi occupassi principalmente di cronaca ed economia. Dopo aver fatto l’inviata, nel 1998 mi mandarono a Caserta a capo della redazione locale. Avevo sentito parlare di un signore che cercava varietà autoctone, in particolare il Pallagrello e il Casavecchia. Ma non lo trovavo. Nel 1999 riuscii però a “incastrarlo”. Mediavo un dibattito dove c’era anche Luigi Veronelli, un amico. Lì conobbi Peppe, ci siamo innamorati e da allora non ci siamo più separati». Insieme all’amore sono nati anche vini e un’azienda… «Abbiamo fondato Terre del Principe nel 2003. Peppe, come me, ha lasciato la sua professione e non fa più l’avvocato. Anche per lui la carriera del vignaiolo è nata per gioco. O meglio, per passione. Aveva comprato una casa per il fine settimana fuori da Napoli. Era però legato al mondo del vino e alla campagna. Il nonno di Peppe era un grosso proprietario terriero di Castel di Sasso e il mio compagno ricordava i suoi contadini e la vigna tutta intorno a casa». 44


L Manuela Piancastelli e Peppe Mancini

Come avete iniziato? «Abbiamo trovato incredibilmente delle piante prefilosseriche in una vecchia vigna di una zia di Peppe. Abbiamo piantato le prime barbatelle di Pallagrello e Casavecchia. E abbiamo comprato i primi libri. Roba da “piccolo enologo” e “manuale del cantiniere”. Ci ha dato una mano Angelo Pizzi, un enologo nostro amico. Che però non conosceva queste varietà, quindi poteva darci solo dei consigli generali». Erano così rari Pallagrello e Casavecchia? «Ai tempi le varietà non facevano nemmeno parte del catalogo nazionale. È stata un’opera di “enoarcheologia” che Peppe aveva già cominciato alla fine degli anni Ottanta. Abbiamo dovuto intraprendere una lunga strada. Ci ha aiutato Luigi Moio, responsabile dei vitigni autoctoni per l’Università di Napoli Federico II e per la Regione Campania. Abbiamo fatto le prime microvinificazione e ora, dopo tanto tempo, queste varietà sono rientrate nel Catalogo nazionale delle uve da vino e nell’Igt Terre del Volturno (è in corso la Doc ndr)». Perché avete chiamato l’azienda Terre del Principe? «Perché Peppe è il mio Principe. Ricordo ancora quando volevo conquistarlo. Mi ero comprata anche una vignarella, per dimostrargli che ero seria». Non vi manca mai la vecchia vita? Le cause e il tribunale per Peppe e la redazione per te? «No. Amo la scrittura e scrivo ancora. La quotidianità del giornale invece non mi manca. Ognuno di noi vive dei

cicli durante la sua esistenza e quello per me era finito: bisognava cambiare. Dico sempre che ho avuto la fortuna di vivere due vite in una». È stato difficile cambiare? «Non è mai semplice. Anche perché lasci un lavoro per cui hai lottato molto. Ma poi si ricomincia una nuova avventura». Cosa ti piace di più di questa nuova vita? «Lavorare a un progetto tutto nostro. E poi, volente o nolente, sono costretta a vivere sotto il cielo. La cosa più bella è la scoperta della pochezza dell’uomo nei confronti della natura. Per esempio, se grandina non puoi farci nulla. L’uva è una cosa viva, può succederle di tutto e questa è una cosa molto “umana”. Erano tutti aspetti della vita che mi mancavano quando vivevo in città, con ritmi molto accelerati. Dentro di me credo di aver sempre amato la campagna ma senza averla mai vissuta». Del lavoro in vigna cosa ami? «Il lavoro del vignaiolo è molto creativo. Devi partire da qualcosa di vivo e incerto come la natura e progettare un vino. Pensando a cosa vuoi regalare agli altri o a te stesso. Ma è difficile: voler fare il miglior vino del mondo è un po’ come dipingere la Cappella Sistina». E a che punto sei con la tua Cappella Sistina? «Sto cercando di fare il miglior vino per me. Ogni anno aggiungo un piccolo tassello al mosaico. Non so se riuscirò mai a produrlo. È una ricerca infinita, anche perché con il tempo modi45


ARGOMENTO

Grappoli di Casavecchia

fica il mio senso del gusto e potrebbe cambiare ciò che definisco “migliore”». Come deve essere un grande vino? «Per me un grande vino deve saper raccontare moltissime cose senza che nessuno parli. Raccontare della terra e del produttore. Dare emozioni. Ed essere capace di dire cose che non siano state già dette. Un grande vino dà sensazioni uniche, non ripetibili nemmeno da se stesso. Sul colore non sono razzista. Mi piacciono molto i bianchi come Le Sèrole, Pallagrello bianco, passato in barrique. Complesso, elegante, fine, molto emozionante. Tra i nostri rossi il Vigna Piancastelli, nato dal primo terreno preso quando ho conosciuto Peppe. È fatto con Pallagrello nero e Casavecchia e ricorda l’Amarone, un vino che amo molto. Ha morbidezza, personalità, eleganza e struttura. Sono i vini che bevo con più gioia e che assomigliano a me». Che cosa raccontano del Casertano uve come Pallagrello nero, Pallagrello bianco e Casavecchia? «Sono uve coltivabili in undici comuni e hanno una personalità fortissima. Il Pallagrello bianco ha morbidezza ed eleganza, con un acino piccolo, delicato e fragile. Il Pallagrello nero è un po’ più “sbalestrato” ma ha eleganza straordinaria e tannini setosi. Piacevole, ma austero, come un bel signore di campagna. Il Casavecchia invece è più rustico ma al naso sprigiona profumi forti di sottobosco, piccoli frutti rossi e viola. Sono uve con poco acido malico e fanno vini più pronti di un Aglianico. Sono vitigni che raccontano molto di questa zona, dei suoi terreni particolari, delle arenarie. Sono uve sane grazie al clima ventilato e che solo qui possono crescere bene». Che cosa sono i vitigni autoctoni per l’Italia? «Una grande ricchezza. Tutto il mondo fa ottimi vini e ormai non deteniamo più il primato. Però l’Italia ha una storia enoica che nessuno può copiare. Siamo in grado di affrontare più sfide, fatte anche di piccole produzioni. Nel nostro Paese c’è una base ampelografica tale che ci permette di presentarci all’estero in modo unico. Perché se è vero che da una parte il mondo si globalizza, è anche vero che si cercano peculiarità. Non è però facile far conoscere questi vini. È necessario lavorare molto per raccontarli a persone che non sanno nemmeno dove sia la Campania». Ci sono stati momenti difficili in questi anni? «Tanti. Spesso la gente non capisce gli sforzi che stai facendo: lavori duro per la tua azienda ma anche per il territorio. Per farlo crescere. In dieci anni questa zona

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ha cambiato faccia. Si vedono ovunque vigne e agriturismo nuovi». Anche con l’amministrazione pubblica non sono sempre state rose e fiori… «Due anni fa, mentre compivamo molti sforzi per certificare la Doc, abbiamo ricevuto una multa perché sulle nostre bottiglie riportavamo il nome Pallagrello. Non era mai stata fatta una modifica a un vecchio comma anacronistico di una legge che ci avrebbe consentito di mantenere la nostra etichetta. Abbiamo pagato la multa, poi però ho fatto fuoco e fiamme!».


Il Pallagrello nero

Dura lex sed lex (dura legge, ma una legge), dicevano i latini. «Noi andiamo ovunque per conto della regione Campania a raccontare questo territorio. Ma poi lo stesso Ministero delle Politiche agricole che ha conferito premi a me e a Peppe, ci manda la repressione frodi… È stata una battaglia ma nel giro di due mesi hanno modificato la norma». Luigi Veronelli diceva comunque che “a legge iniqua non bisogna obbedire”. È più difficile lavorare in Campania che altrove? «Certo. In Campania siamo partiti tardi e facciamo fatica, mentre le altre regioni hanno avuto il tempo di “fare sistema”. Qui non c’è un consorzio ed è difficile interloquire con gli enti pubblici. Anche per colpa nostra, perché abbiamo capito tardi che il vino è una cosa seria.

C’è una grande frantumazione delle proprietà agricole. La nostra vigna, per esempio, è di undici ettari e ci sono aziende che ne hanno due o tre. Ci sono grandi etichette, come Mastroberardino, che hanno salvato l’immagine della Campania ma non hanno fatto sistema. Anche Feudi San Gregorio ha lavorato pro domo sua. Le istituzioni invece devono investire ancora molto sul territorio. Serve una consapevolezza che in Campania non c’è. Solo da dieci anni la Regione si presenta al Vinitaly. Il Sud poi sconta anche tanti problemi di incapacità politica, che non ci sono altrove. Alcuni nati anche dal malaffare». Quanto vi sentire indietro rispetto alle zone enologiche più conosciute? «Rispetto ad alcune regioni ci sono due secoli di differenza. Qui il territorio lo abbiamo sempre depredato. La campagna campana potrebbe dare da vivere a tutti ma solo da poco si sta cominciando a capirlo. E i danni sono stati già fatti: la provincia di Caserta per tre quarti è devastata dall’abusivismo». Che cosa vi manca? «Gli interlocutori all’altezza. Non abbiamo assessori che vengono da percorsi legati all’ambiente. Questi processi evolutivi sono comunque lenti e non ci sono scorciatoie. Prima bisogna diffondere la cultura, premiando e sostenendo chi voglia difendere l’ambiente. Poi ci vuole una classe politica forte e consapevole, che abbatta le case abusive e blocchi il boom edilizio». Sotto l’amarezza sento forse ardere l’orgoglio? «Sono molto orgogliosa di fare parte di questa sfida. Orgogliosa della mia città. A Napoli, in Campania, non ci sono solo problemi ma anche una possente forza e creatività. Ci sono energia e positività che ci permettono di sopravvivere. E noi siamo un manipolo di pazzi che va in giro per il mondo a raccontare quanto è bella questa terra. Non ci sono solo “munnezza” e camorra. L’Alto Casertano comunque è un territorio fortunato, molto bello e pulito. Fuori da tanti dei problemi noti». Propositi per questo 2010? «Potenziare l’enoturismo, comunicare con gioia il piacere dell’ospitalità. Abbiamo aperto un piccolo bed and wine. Vengono clienti dappertutto: arrivano perché amano i nostri vini e vogliono conoscerci. Ci piace mangiare con loro e fargli conoscere la nostra terra». Una parola per riassumere la tua avventura? «Amore. Tutta questa avventura, la nostra azienda, i vini nascono dal sentimento che unisce me e Peppe. Mi piacerebbe tanto che i vini comunicassero questa emozione attraverso sapori e profumi». E che profumo ha l’amore? «Scoprilo aprendo un nostro vino».

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Locali storici

Un frammento della Milano che fu di Edilio Rusconi n pezzo di storia, di cultura milanese ti pervade appena passata la soglia della Trattoria Arlati. Non il solito ristorante, ma molto di più: un’esperienza artistica. Un locale storico, fondato negli anni Trenta, quando Luigi e Modesta Arlati decidono di fare il grande salto abbandonando il lavoro in Pirelli per intraprendere un’attività propria. La sede allora era all’angolo di viale Sarca con via San Glicerio e lì avviarono il nuovo lavoro con Luigi in sala e Modesta ai fornelli. Con l’arrivo della guerra la loro attività di ristoratori non chiuse, aiutando come potevano clienti e amici e arrangiandosi tutti i giorni per mettere in tavola qualcosa: per fortuna dalla vicina Brianza arrivavano sempre il salame nostrano, le uova, il pezzo di formaggio o di carne, complice la valigia di qualche compaesano impiegato in Pirelli che così arrotondava la paga, facendola in barba alle tessere annonarie e al mercato nero. Nel 1947, quando, secondo la leggenda familiare, il “Luisin” decise di traslocare, nacque Mario, il terzo figlio. Passarono così gli anni: tutti i giorni i tram e il trenino della Brianza scaricavano alla Bicocca migliaia di lavoratori e operai che alle sei di mattina si scaldavano con tazze di grigioverde e bianchin sprusà. Già da un’ora Modesta era in cucina a preparare il brodo, elemento base per la cucina milanese, poi nervetti, risotti, ossibuchi, cotolette e vitello tonnato. La svolta è negli anni Sessanta, quando a prendere le redini del locale è Mario. Grande appassionato d’arte, sotto la sua gestione il ristorante diventa un crocevia di pittori, scultori, creativi. È con lui che le sembianze diventano quelle che troviamo ancora oggi: sale accoglienti, un po' barocche, luci discrete, arredamento eclettico e bizzarro. La leggenda narra che proprio in questi anni numerosi artisti, a volte improvvisati, regalassero un quadro in cambio di un piatto caldo, come accadeva nella Parigi di inizio ‘900 quando Picasso provava il Cubismo

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L Leopoldo Arlati

L Mario Arlati

sui tovaglioli del Salone degli Artisti. Ed è proprio in quel periodo che l’amore, da demone raccontato nel Simposio di Platone, diventa un desiderio bruciante in costante ascesi ed è questa l’aria che si respira andando alla Trattoria Arlati. Ad accogliere gli ospiti quadri di Botero, infinite “Monnalisa” in versione pop, sculture di carte da gioco a forma di struzzi e l’immancabile boxer in porcellana. Sempre sotto la guida di Mario, nel 1973, viene sistemato e aperto il piano inferiore, lungo e stretto, con il palco in fondo, testimone delle performance di artisti storici milanesi quali Battisti, gli Area, i Formula 3. Nel 1999 Leopoldo, figlio di Mario, la cui arte dell’accogliere è superiore a qualsiasi aspettativa, continua l’esperienza della sua famiglia alla ricerca della tipicità della cucina e dei prodotti culinari. Il padre Mario, ormai si dedica soltanto alla sua vera passione, l’arte. La cucina, oggi come una volta, propone piatti strettamente legati alla tradizione milanese. L’antipasto misto comprende salumi Dop, animelle, fagioli con cipolle, paté fatto in casa. Tra i piatti che non si dimenticano facilmente il croccante risotto al salto, lo stinco, l’ossobuco e il rognone trifolato. Ma non è tutto. Stagionalmente si possono assaggiare le lasagne al pesto piuttosto che la frittura di fegatini di pollo, i tortelloni con il gorgonzola o le lumache alla bourguignonne. Generalmente i piatti vengono illustrati a voce dai camerieri, ormai parte della famiglia, e la carta dei vini propone ottime scelte un po’ da tutta Italia. Una segnalazione particolare meritano i vini della linea Arlati, selezionati in collaborazione Wineo’Clock, un gruppo di giovani imprenditori amanti del vino, di cui fa parte anche Leopoldo. La mission è quella di salvaguardare le tradizioni del patrimonio vitivinicolo italiano, fatto di piccole realtà produttive, dove il valore della tradizione e della tipicità è messo al primo posto. Inoltre mensilmente la Trattoria Arlati propone serate di degustazione guidate per portare a conoscenza dei suoi clienti appassionati le nuove realtà vitivinicole. Altro fattore fondamentale è il jazz, un po’ il sottofondo musicale della storia della trattoria. Il martedì, ormai da 25 anni è la serata dedicata al traditional jazz: la New Orleans creole band con le sue note fa ripercorrere una carrellata fra i più noti standard American-Dixie, un viaggio fra tradizione e innovazione attraverso tappe musicali che vedono protagonisti autori storici del jazz: Ellington, Mills, Wood, Crosby, Mel Stitzel. Il martedì sera è un appuntamento fisso con i grandi del jazz. Una tipica serata della trattoria Arlati è quella dedicata a “musica e vini”, i due assoluti protagonisti del venerdì. A partire dalle 22.00, o per chi volesse cenare anche dalle 20.00, la cantina Arlati offre la possibilità di passare una piacevole serata in compagnia di buona musica e ottimo vino. Il venerdì, a differenza delle altre serate, offre ogni settimana un genere musicale che può spaziare dal jazz al funky soul toccando blues, raggae per arrivare al flamenco. Arte, vino e musica accolgono i clienti in ogni vostra visita facendo non solo degustare, ma anche vivere un viaggio nell’Art Decò e nella tradizione milanese più pura.

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Gocce

Un sorso di

cultura

di Valentina Pillot

III UN PREMIO Casato Prime Donne premia chi scoprì per prima il codice genetico dell’aviaria La vincitrice del premio Casato Prime Donne 2009 è Ilaria Capua, veterinaria dell’Istituto zoo profilattico sperimentale delle Venezie balzata alla ribalta internazionale per la scoperta del virus dell’aviaria e, più recentemente, per aver ricostruito a tempo di record l’identikit genetico del virus H1N1, responsabile dell’influenza dei suini. Il carattere rivoluzionario dell’attività di questa giovane e bella ricercatrice italiana non è solo nelle sue scoperte ma anche e soprattutto nell’aver cambiato il concetto di accessibilità dei dati scientifici. Quando, nel 2006, il laboratorio da lei diretto, caratterizzò per primo il virus H5N1 cioè l’aviaria, si rese conto che accorciando i tempi di divulgazione della sua scoperta avrebbe salvato moltissimi uomini e animali dall’epidemia. Quindi pubblicò il codice genetico del virus nella GenBank di internet e in una settimana la sequenza fu scaricata più di mille volte. I vecchi schemi sull’accessibilità dei dati scientifici erano saltati, in favore di un più rapido intervento sulla salute pubblica “Quello che mi ha insegnato l’esperienza”, ha raccontato Capua, “è che, se hai qualcosa da dire e il tuo lavoro è solido, bisogna aver il coraggio di andare controcorrente e di sfidare le consuetudini”. Il Casato Prime Donne nel Montalcino, guidato da Donatella Cinelli Colombini e conosciuto per la sua composizione al 100 per cento femminile (è stato anche citato come modello nel recente saggio “Scenari di marketing del vino: una prospettiva al femminile” di Andrea Rea per Franco Angeli), premia ogni anno una donna che si è distinta per innovazione e coraggio, sul lavoro e nella società. Nella giuria, presieduta da Francesca Colombini, ci sono Stefania Rossini, Rosy Bindi, Anselma Dell’Olio, Anna Scafuri, Daniela Viglione e Anna Pesenti. III UNA RACCOLTA FONDI Cuore Divino per i bambini esuli tibetani E’ a favore dell’istruzione dei bambini e dei ragazzi esuli

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L Il Casato Prime Donne e, in primo piano, Donatella Cinelli Colombini Foto di Vittorio Giannella

tibetani Cuore Divino, libro che unisce per la prima volta in Italia 120 protagonisti del mondo del vino tra enologi, produttori, scrittori, giornalisti, sommelier di tutta Italia. Articolato in 120 scatti realizzati da Carlo Mari ed altrettante storie scritte proprio dai protagonisti, Cuore Divino racconta la passione per il vino e il profondo legame con la terra e con tutto ciò che lo circonda. Pubblicato a tiratura limitata da Marco Serra Tarantola, è stato realizzato per raccogliere fondi destinati ai bambini esuli tibetani del Tibetan children village di Darhamsala, in India del nord. Nato nel 1960, un anno dopo che il Dalai Lama e 100 mila profughi sono fuggiti dal Tibet in seguito all’invasione militare cinese, il villaggio è ancora oggi il più importante punto di riferimento per tutti coloro che riescono a sfuggire alla violenta dominazione del Tibet. Informazioni su come procurarsi il volume: su www.cuoredivino.it. III UN MASTER Per rilanciare il Made in Italy Vino e design, moda e turismo. Sono le eccellenze del Made in Italy a far crescere il numero dei partecipanti ai nuovi master in Italia, quelli collegati alle attività più vitali dell’economia nazionale. Allo Iulm di Milano, per esempio, è partito un corso superspecializzato in “Wine management & Communication”, diretto da Alberto Abruzzese. “C’è bisogno di figure sempre più qualificate”, spiega Abruzzese, “che valorizzino il prodotto vino. Perchè per fronteggiare la concorrenza straniera bisogna intervenire nella filiera del valore, nel marketing e nella comunicazione del prodotto”.


Locali storici

Un rifugio ai piedi del

Monte Rosa

di Pinuccio Del Menico orreva un anno di grazia intorno al 1.000 d.C.. Era un momento di relativa mitezza climatica e così i walzer, popolazione di origine germanica proveniente dall’Alto Vallese, partirono verso il sud dell’Europa alla ricerca di nuove terre disabitate per farne soprattutto pascoli. I coloni giunsero in Austria, Svizzera, Francia e anche in Italia, ove incontrarono i favori dei signorotti medioevali che videro nei nuovi insediamenti la possibilità di controllare i territori più alti e i valichi, nel frattempo divenuti strategici. A sud del Monte Rosa, non solo ad Alagna, in Valsesia, una tra le colonie più numerose, contribuirono a cambiare un paesaggio che ancor oggi offre le bellissime case in legno e in particolare, un poco più su, il borgo di Otro, proprio lungo la mulattiera che porta al colle d’Olen (2.881 metri sul livello del mare), il valico che unisce la Valsesia alla Valle del Lys, in Valle d’Aosta. Oggi modernissime cabinovie e funivie portano direttamente al vicinissimo Passo dei Salati senza alcuna fatica partendo da Alagna e da Gressoney. Un po’ di storia e qualche nozione di geografia indispensabili per inquadrare meglio l’obiettivo della nostra escursione a quota tremila per conoscere il Rifugio Guglielmina, la cantina-enoteca più alta d’Europa. Lo facciamo con Franco Calaba che, con la moglie Ornella, discendente del fondatore, e i figli, gestisce il Rifugio Gugliemina. «Sì, è una storia lunga cominciata il 21 agosto 1878 quando venne inaugurato il Ricovero al Col d’Olen, terzo in ordine cronologico degli alberghi fondato o gestiti dalla famiglia Guglielmina a fine Ottocento. Il signor Giuseppe faceva il calzolaio a Mollia ed ebbe l’intuizione imprenditoriale di puntare non solo sul passaggio dei viandanti, ma anche su un turismo che si stava sviluppando dopo l’ascensione alla Signalkuppe, l’attuale Punta Gnifetti. L’attività si allargò poi all’Albergo Italia di Varallo Sesia, al Grand Hotel Mottarone, al Bellevue di Gignese, per poi approdare anche in Liguria al Royal di Ospedaletti e all’Eden di Santa Margherita. Ma la presenza di Giuseppe Guglielmina venne segnalata dai giornali dell’epoca anche a Palermo per gestire il Caffè Chantal per l’Esposizione Internazionale del

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L Il Rigugio Guglielmina

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Locali storici

1891. Per la realizzazione del Rifugio fu determinante l’appoggio di numerosi personaggi alagnesi. Dal parroco Gnifetti al dottor Giordani e al teologo Farinetti, tutti membri della spedizione vittoriosa sul Rosa del 1842. Per tutti la costruzione di un punto di appoggio in alta quota avrebbe favorito il raggiungimento della Capanna Margherita posta a 4.550 metri. Venne anche aperta una sottoscrizione cui partecipò il CAI di Varallo e anche re Umberto I di Savoia con ben mille lire. Nel 1889 e nel 1898 fu anche ospite la regina Margherita diretta alla capanna che porta il suo nome». Per oltre 70 anni il Rifugio Guglielmina è stato l’albergo più alto d’Europa, superato solo recentemente da una struttura svizzera. Rimane il primato di altitudine per quanto riguarda la cantina. «Secondo le notizie in nostro possesso, ci risulta che ancor oggi sia, se non la più alta d’Europa, certamente tra le prime e, peccando d’immodestia, tra le più fornite. È un impegno importante per le tre persone che la curano aiutate dalla collaborazione di un sommelier. Alla base di tutto ci sono tanta passione e competenza con un continuo aggiornamento e un costante impegno nelle diverse degustazioni per mantenere e migliorare sempre l’ampia scelta della cantina che vanta i migliori nomi tra i produttori piemontesi e valdostani, ma non solo. Dalla Tenuta dell’Ornellaia a Prunotto, da Angelo Gaja a St. Nichel Eppan, fino a Foradori, Antinori, Ruinart, Folonari, Abbona, Giacomo Bologna, Michele Chiarlo, Triaca, Les Cretes, Travaglino, Cantalupo, Colterenzio e Tenuta San Guido. Per noi è poi fondamentale, ed è una nostra precisa volontà, far permanere i vini in cantina per adeguarsi alla quota e per completare l’affinamento in bottiglia che può durare dai 3, 4 fino a 5 anni». E che i vini in montagna diventino più buoni pare destinato a non essere più un vecchio modo di dire visto che un esperimento scientifico è in corso in un altro luogo storico del nostro alpinismo: il Passo dello Stelvio. Alla sede dell’Associazione Pirovano, l’università estiva dello sci, sono arrivate le prime 500 bottiglie di 52


L La Fontina è un formaggio italiano a Denominazione d'Origine Protetta (DOP). La sua origine risale al 1270, sebbena la prima testimonianza iconografica sia del XV secolo, in un affresco del Castello di Issogne (AO).

Sassella, Inferno, Grumello e Sforzato che riposeranno in alta quota in una cantina attrezzata con sofisticati strumenti di controllo. Il progetto decennale interessa 11 cantine della Valtellina. Ogni sei mesi gli assaggi dei vini a quota 2.760 metri e di quelli a 250 metri nelle sedi di affinamento delle aziende per vedere i cambiamenti e le diversità e arrivare così a trasformare eventualmente il vecchio detto in dato scientifico. Ma torniamo alle pendici del Monte Rosa perché se la cantina del Gugliemina merita la nostra attenzione, anche la cucina della signora Ornella non può assolutamente essere trascurata. «Naturalmente la nostra cucina sforna quotidianamente piatti della tradizione valsesiana che sono stati rivisti dalla fantasia e dallo studio di mia moglie Ornella, che ha saputo coniugare la storia con la modernità. Senza dimenticare la nostra posizione geografica e il connubio immediato e naturale con la cucina valdostana. Gli antipasti vanno dalla mocetta d’asino alla messata, che è un filetto di vitello messo sotto aromi di montagna e servito freddo, magari accompagnato con una giovane Schiava Pagis 2008. Sicuramente interessante l’accoppiamento tra il lardo di Arnad e le castagne al miele con quello straordinario bianco valdostano che è il Chambave Muscat. Poi ci sono le nostre zuppe, dalla rivisitazione della classica Valpellinese, a quelle di orzo, cipolle e verdure che accompagniamo con dell’ottima Vespolina, uva di antiche tradizioni ghemmesi. Quindi si potrebbe proseguire con le nostre carni, tutte macellate in valle, la selvaggina cucinata secondo le tradizionali ricette tramandate dalla famiglia, senza perdere un piatto d’obbligo: il tapulone. Si tratta di un piatto tipico dei paesi ai piedi del Monte Rosa, fatto con carne d’asino tritata e cotta nel vino rosso e negli odori». Il naso appiccicato al vetro di una finestra del Gugliemina per ammirare Alagna e la Valsesia qualche migliaio di metri sotto oppure la vista ancor più ampia che si gode da uno dei pesanti tavoloni in legno che stanno all’esterno e comunque il dubbio che manchi ancora qualcosa per completare la stupenda giornata che ci siamo regalati. Ecco… la polenta! Ma un dubbio rimane. Concia o sconcia? «La polenta concia viene preparata con la classica ricetta con la toma valsesiana e la fontina valdostana. La polenta sconcia è, diciamo così, un po’ più saporita, con cipolle e gorgonzola. Credo che per entrambe valga la pena un accompagnamento con uno dei nostri vini Gemme, Gattinara o Boca, tutti nebbioli cresciuti in collina in zone tufiche che conferiscono al vino un particolare sentore minerale. Ma io mi sento anche di consigliare la nostra polenta montanara con pancetta e formaggio e poi gratinata al forno». Ma la nostra degustazione non è ancora conclusa, né si concluderà con gli splendidi mirtilli sottograppa artigianali. «Un assaggio dei nostri formaggi ci vuole, magari con un tocco di mostrarda e sorseggiando della Corvina veronese in purezza come solo Allegrini riesce a fare (La Poia). E poi che montagna sarebbe senza lo strudel e senza una goccia della nostra splendida crema Guglielmina? E qui ci possiamo sbizzarrire con un buon passito che arrivi dalla Sicilia o dal Trentino, oppure dalla ben più vicina Valle d’Aosta». Manca il classico digestivo e vi offriamo allora due possibilità che sicuramente ricondurranno il tasso alcolemico al di sotto degli 0,5 g/l. La prima è una tranquilla discesa con gli sci, ovviamente per i praticanti della disciplina. La seconda è fantastica quando la primavera farà riapparire i sentieri che conducono a valle ed è la discesa a piedi verso Alagna. Due ore, due ore e mezzo senza alcuna difficoltà escursionistica che vi faranno conoscere la Val d’Otro e le sue sei frazioni di Feglierec, Ciucche, Follu, Dorf, Scarpia e Weng. Si tratta di nuclei composti da poche case abitate soltanto durante la stagione estiva che presentano la tipica struttura delle baite walzer della zona. Anzi, sono proprio le meglio conservate di tutta l’area. 53


Locali storici

Una

sorpresa tira l’altra

di Silvia Baratta e si pensa a Reggio Emilia la memoria va subito a personaggi misteriosi e affascinanti come Matilde di Canossa. Non fa eccezione la storia di Reggiolo, cittadina situata tra la bassa pianura mantovana e Reggio Emilia, citata per la prima volta nel 1044 in un documento attestante l’acquisto di sei corti da parte di Beatrice di Canossa, madre di Matilde. A testimonianza di questo passato, la Rocca, splendido esempio di architettura medievale, che si staglia sulla piazza principale, Piazza Martiri. Benvenuti al Rigoletto. Proprio qui si affaccia il parco di Villa Manfredini, il “regno” di Gianni D’Amato. Sul ristorante Il Rigoletto brillano, dal 2005, le due stelle della prestigiosa Guida Michelin. Attraverso un viale di piccoli sassi si giunge a Villa Manfredini, che porta il nome di una delle famiglie più importanti di Reggio Emilia. Ha architettura settecentesca, ma le origini sono ancor più antiche. Circondata da un parco di piante secolari, riserva molte sorprese. Anzitutto il ristorante, al piano terra.

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Tre sono le sale, una diversa dall’altra ma accomunate dallo spirito accogliente e dal camino che, d’inverno, avvolge gli ospiti in una calda atmosfera. I tavoli sono vestiti con tovagliato di lino, bicchieri in vetro soffiato, porcellane e argenti. Gianni D’Amato è il re della cucina, artista dei fornelli ma anche disegnatore di talento, che si diverte a esprimere la propria creatività tratteggiando figure di fantasia anche al termine di una faticosa giornata. Fulvia e Federico sono i padroni di casa in sala. La passione per la cucina scorre da sempre nelle vene di Gianni che, fin da bambino, si divertiva a giocare in cucina con le forme e con i sapori, mescolando ingredienti diversi. Già i bisnonni Giovanni e Domenica, infatti, erano ristoratori ad Aulla, in provincia di Massa Carrara. La guerra costrinse i nonni e i genitori di Gianni ad abbandonare questa tradizione, da lui poi recuperata. La sua carriera inizia molto presto e la sua vita è segnata dall’incontro con Fulvia già sui banchi di scuola. Così, la storia del Rigoletto nasce, con

Fulvia, sul “rigagnolo di un fiume”, ad Aulla. Giovanissimi, decidono di realizzare il loro sogno: aprire un ristorante tutto loro. Dall’iniziale sede di Aulla, Gianni e Fulvia si spostano nel 1998 a Reggiolo. Una scelta fortunata: nel 2002 arriva la prima Stella Michelin, nel 2005 la seconda. Merito della cucina di Gianni, un’interpretazione personale e originale della tradizione del territorio. Essa parte dallo studio delle materie prime, che vengono selezionate personalmente, e un’attenzione particolare è dedicata alle specialità locali e alla loro stagionalità. Nei piatti Gianni rispetta il prodotto ma sperimenta anche abbinamenti talvolta impensabili. Qualche esempio? Il piccione con mela al maracuja, foie gras e salsa al vino rosso oppure una ricetta ispirata alla tradizione come il millefoglie di cotechino e zucca con crema di patate, balsamico tradizionale e sedano rapa fritto. Non a caso, il talento di Gianni ha portato alla realizzazione del libro Gianni D’Amato: Sinfonie del Gusto al Rigoletto, edito da Gribaudo e


Fulvia, Federico e Gianni D'Amato

inserito nella collana dedicata ai grandi chef d’Italia. A un altro libro, d’altro canto, Gianni pensa da tempo e fa un’anticipazione: il prossimo sarà forse un romanzo… Il Rigoletto, però, non si ferma al ristorante. Al primo piano si trova il salone, ideale per piccole riunioni, e tre salette. Fra queste vi è la sala rossa pompeiana, la preferita dal famoso regista romagnolo Federico Fellini, che qui amava passare il suo tempo durante le riprese del film La voce della luna. Al ristorante un’attenzione particolare è dedicata alla carta dei vini, studiata personalmente da Fulvia. Presenta circa mille etichette e riflette la passione di casa D’Amato per le bollicine, in particolare per lo Champagne. In carta non sono presenti solo le grandi maison ma trovano spazio anche piccoli produttori. Le bollicine, d’altro canto, sono certamente la tipologia più apprezzata sul territorio. Non solo con lo Champagne ma anche con il Lambrusco. «Il Lambrusco è un vino che sta tornando. Superato un certo snobismo, oggi gli si riconosce la facilità di beva e il moderato grado alcolico, che lo rende una scelta ideale anche per un pranzo di lavo-

ro leggero. Inoltre, si sposa con la cucina del territorio e, grazie alla sua buona acidità e alle sue bollicine, bilancia la grassezza di certi prodotti. Infine, per me è un elemento della mia storia, era il vino di casa, che non mancava mai sulla nostra tavola» spiega Fulvia. La carta dei vini presenta poi uno spazio particolare riservato alla Toscana e ai suoi rossi, non solo per la sua importanza nell’enologia nazionale ma anche perché terra di origine di Gianni, nato ad Aulla in provincia di Massa Carrara. Ma come sta evolvendo oggi il consumo della clientela anche in un ristorante come il Rigoletto? «Le bollicine sono la tipologia preferita dalla nostra clientela» prosegue Fulvia. «La scelta sta progressivamente andando verso vini con una gradazione alcolica più contenuta e una bevibilità maggiore. Questo è motivato, certo, dall’evoluzione di uno stile del bere, ma anche dal problema dei controlli stradali. Anche noi, a Reggiolo, viviamo questa problematica. Per aiutare il nostro ospite abbiamo sempre una selezione di vini al calice, che gli consentono di non rinunciare all’abbinamento con il piatto». Il Rigoletto riserva però ancora sor-

prese. All’ultimo piano ecco la locanda, quattro suite che portano il nome dei personaggi del Rigoletto: Marullo, Duca di Mantova, Contessa di Ceprano, Gilda. Ognuna presenta un colore dominante ed è diversa dall’altra. La locanda è una creazione di Fulvia. «È il luogo dove trovare tutto quello che vorresti per un momento di relax, dove riappropriarsi un po’ del proprio tempo. È proprio questo che oggi manca. Ho progettato e realizzato le camere come se le dovessi abitare io». Esse sono infatti curate nei minimi particolari, proprio come se fossero vissute tutti i giorni da un’ottima padrona di casa, studiate per riservare agli ospiti molte sorprese. La più curiosa è il massaggio gastronomico, dove i prodotti utilizzati escono esclusivamente dalla cucina. Nella privacy della propria camera, la massaggiatrice del Rigoletto consente agli ospiti di godere di un rilassante trattamento, realizzato esclusivamente con prodotti gastronomici: il latte, il cioccolato e molto altro. L’idea nasce dal presupposto che il Rigoletto è anzitutto un ristorante e per questo i trattamenti devono essere collegati all’idea principale, il pensiero gourmet. Non poteva essere diversamente…

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Fiere

DiVino Lounge,

le tendenze passano prima da qui i avvicina la seconda edizione di DiVino Lounge. L’evento dedicato a vini, spumanti e champagne si svolgerà a Rimini Fiera da domenica 21 a mercoledì 24 febbraio. La rassegna fa dell’incontro tra vini e ristorazione il suo punto di forza. Non a caso l’appuntamento, realizzato in collaborazione con la rivista La Madia Travelfood, propone nuove modalità di consumo per il canale HoReCa, un mercato che in Italia ha raggiunto l’iperbolico giro d’affari di 65,7 miliardi di euro con un trend in continua e costante crescita. DiVino Lounge si colloca a inizio anno per anticipare le tendenze. Inoltre, per l’edizione 2010, per favorire l’affluenza dei gestori di pubblici esercizi senza penalizzare il commercio nazionale e internazionale, è stato deciso di inaugurare la manifestazione di domenica (in precedenza si apriva il sabato) e di protrarne l’apertura fino al mercoledì. Grandi consensi ha raccolto il format, innovativo e particolarmente vantaggioso, che si declina su tre differenti aree: l’area food, dove a farla da padrone sarà l’abbinamento tra vini e cibi gourmet realizzati grazie alla collaborazione di noti chef; l’area wine, dove vini, spumanti e champagne saranno scelti con una serie di degustazioni guidate in collaborazione con l’Ais; l’area business, esclusivamente dedicata agli affari, con appuntamenti prefissati tra espositori e buyer esteri e italiani e creazione di postazioni Internet per procedere alle vendite on-line. Quest’ultima area è particolarmente rilevante perché, se da una parte

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DiVino Lounge si propone di divulgare la cultura del vino analizzando e svelandone le tendenze future, dall’altra nel dna della manifestazione c’è una fortissima vocazione a essere uno dei principali eventi dedicati al business, un luogo in cui concludere affari. Tanto è vero che grande attenzione è stata rivolta all’ampliamento delle relazioni internazionali per agevolare l’incontro tra aziende e buyer da tutto il mondo. Ma a chi è dedicato DiVino Lounge? A sommelier, chef, gestori e operatori di bar, discobar, wine bar e locali serali, ma anche a gestori e operatori della ristorazione e dell’ospitalità e poi a grossisti e distributori del canale HoReCa, a enoteche e negozi di specialità enogastronomiche. Per favorire la presenza di pubblico, Rimini Fiera sta inoltre coinvolgendo le principali associazioni di categoria, agevolando la presenza dei loro associati. Da non dimenticare, inoltre, che per garantire grande visibilità e affluenza di pubblico, DiVino Lounge si inserisce in una realtà espositiva inedita: Sapore, la grande kermesse dei consumi fuori casa che raccoglie manifestazioni storiche quali Mia, Mostra Internazionale dell’Alimentazione, MSE - Seafood & Processing, Oro Giallo, Frigus e Pianeta Birra Beverage & Co. Un unico meeting che ha come obbiettivo quello di parlare ai visitatori professionali di tutti i canali di distribuzione, esplorando le tendenze e le innovazioni che riguardano il consumo alimentare fuori casa e contemporaneamente individuare nuove modalità di consumo. Ogni singola manifestazione, però, in assoluta autonomia, è chiamata a sviluppare le sue specifiche peculiarità. I risultati dell’ultima edizione, 82.977 visitatori professionali, 675 giornalisti e una copertura media che ha quasi toccato gli 85 milioni di contatti, commentano da soli il successo di questa formula espositiva. Tra gli eventi degni di nota sviluppati in modo trasversale fra le manifestazioni che fanno parte di Sapore c’è senza ombra di dubbio la tavola rotonda, organizzata in collaborazione con il centro studi Fipe, in cui verranno presentati i dati sui consumi food & beverage e in cui sarà analizzato il mercato di oggi per anticipare le tendenze del prossimo futuro. Attese, dunque, importanti indicazioni sul nettare tanto caro a Bacco.

Le degustazioni Ais a DiVino Lounge Domenica 21 febbraio G L’effervescenza delle bollicine italiane G Il vitigno nebbiolo nelle sue diversificazioni Lunedì 22 febbraio G Il fascino dei vini isolani G Il carattere degli autoctoni Martedì 23 febbraio G La forza e l’eleganza dei Supertuscan G L’aromaticità dei bianchi altoatesini Mercoledì 24 febbraio G L’eccellenza dei vini di Romagna

SOLO PER I SOCI AIS INGRESSO GRATUITO previa presentazione della tessera 2009 o 2010 e di un documento di identità valido presso cassa accrediti ingresso SUD

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Musei

Il giro del

mondo

in 80 musei di Letizia Magnani

MAIALI,

CONFETTI, LIQUIRIZIE, SALAMI, POMODORI E MOLTE ALTRE CURIOSITÀ. CHE COSA NON SI FA PER ARRICCHIRE LO SPIRITO… E LA PANCIA: DAL VINO AL CIBO, ANDANDO DI MUSEO IN MUSEO, ALLA SCOPERTA DEI SAPORI

a tempo musei che raccolgono e contemporaneamente raccontano l’immagine più intima della cultura materiale, il cibo e il vino, ce ne sono tantissimi. Ecco perché l’eno-gastronomia si può riassumere attraverso il giro del mondo in ottanta musei del gusto. Per lo più si tratta di musei aziendali, che fissano nel tempo e nello spazio la storia di marchi e di famiglie importanti. È il caso, solo per fare qualche esempio, del museo della liquirizia, che si trova in Calabria e che narra le vicende della famiglia Amarelli. La Calabria custodisce anche un secondo museo non meno interessante, quello degli agrumi. Restando nel Sud Italia non si può non citare il museo del confetto, che si trova ad Andria, in Puglia e che raccoglie, in sale di impatto emotivo, la lunga storia della famiglia Mucci e della sua confetteria. Da ricordare il museo della pasta alimentare di Roma, come di quelli del gusto, i quattro contenitori nati a Parma in omaggio al pomodoro, al prosciutto di Parma, al Salame felino e al Parmigiano Reggiano. L’Emilia Romagna è la regione a più alto tasso di musei del gusto: sono addirittura 19: si va dalla tigella (una speciale piadina che si mangia nel modenese) al Balsamico (l’aceto, ovviamente), dalla castagna alle anguille, dal sale dolce di Cervia alla patata. Insomma: ce ne è davvero per tutti i gusti. È il Piemonte, non stupisce, ad avere invece il più alto numero di musei del vino, otto in tutto. Anche se nel frattempo ne sono sorti diversi altri dedicati al nettare degli dei. Attualmente i musei del vino in Italia sono poco meno di una ventina e si trovano dislocati un po’ ovunque sul territorio nazionale. La Toscana e il Lazio ne ospitano alcuni, ma non solo. Eppure il nostro viaggio questa volta si soffermerà su altri due musei. Si tratta di due realtà diverse fra loro, una italiana e una tedesca, che, o per un motivo o per l’altro, esaltano il re della tavola: Sir il Maiale.

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Del maiale non si butta via niente: e quel che resta va nel museo Il museo del maiale si trova a Carpineto Spinello, in Abruzzo. Sorto poco più di un anno fa, il museo è nato per diventare il punto nel quale viene

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riassunta la storia del maiale. Una storia importante fatta di molte altre. Nella cultura alimentare italiana infatti il maiale è forse il re della tavola. Nelle campagne si dice ancora oggi che “del maiale non si butta via niente”. Ed è vero. Dal maiale si traggono alcuni dei salumi di maggiore interesse per il palato. Ma anche carni prelibate e altre leccornie. È il caso dei ciccioli, per esempio, che sono una costante nella cucina di tutte le regioni italiane. Il museo vuole raccontare tutto questo, ma anche come il tempo e i costumi cambino e si modifichino. Per questo in Abruzzo, per esempio, gli antichi mestieri legati alla cultura del maiale non sono del tutto scomparsi oggi, si sono solo modificati. E così sono nati nuovi mestieri, come quelli dedicati alla lavorazione della carne o quelli che portano in giro la cultura della produzione della porchetta. Il museo vuole essere un luogo di incontro e di dibattito nel quale, oltre alla storia del maiale, sono esposti anche pannelli fotografici, attrezzi da lavoro e ricette. Centro di documentazione e luogo di incontro, il museo è anche lo spazio nel quale vengono organizzati numerosi eventi, tutti pensati in onore del maiale. Nelle campagne il passare del tempo una volta era scandito dalle stagioni, dai tempi della natura e degli animali. E così si imparava che c’era un tempo per tutto: uno per la vita e uno per la morte. L’uccisione del maiale è ancora una festa e per questo proprio il museo del maiale ne ripropone miti e riti in chiave moderna. Il concetto attorno a cui ruota il museo, dislocato su tre piani e diviso in cinque sezioni espositive, è quello dell’educare divertendo e provando. Per questo nel corso della visita si possono fare laboratori sensoriali e di degustazione. Il percorso inizia con una domanda, cui si riuscirà a dare una risposta al termine della visita, ovvero: chi è il maiale? Per riuscire davvero a dare una risposta occorre

Salumi tradizionali M bavaresi e austriaci

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Musei M Salumi tradizionali tedeschi

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ripercorrere la lunga e avventurosa storia di questo animale, dagli antichi romani fino ai giorni nostri, percorrendo la vita economica, sociale, culturale non solo dell’Abruzzo, ma di tutto il Centro e Sud Italia. Molte delle tradizioni sono comuni a quasi tutte le regioni italiane, come a dire, che in fin dei conti questo nostro Stivale è accumunato se non altro da qualcosa, cioè dal maiale. E in nome e per conto del maiale si possono scoprire molte curiosità, come il motivo per cui nascono gli insaccati ovvero quello di conservare più a lungo la carne, contro il freddo, le guerre, le pestilenze, le malattie. Tutta la storia alimentare è giocata proprio in questa chiave. Una risposta creativa all’esigenza di sfamare, di accudire, di far crescere. E non c’è dubbio che il maiale abbia contribuito, con il suo carico di parti prelibate, a far crescere gran parte dell’Italia. Info e curiosità: www.museodelmaiale.com

A Berlino per il museo della salsiccia D’altra parte il maiale ha sfamato non solo l’Italia, ma almeno mezza Europa. La controprova arriva dal cuore della Germania. A Berlino infatti è sorto da poco tempo un museo molto singolare, quello del Currywurst, ovvero la tipica salsiccia cittadina, simbolo di una identità forte, quella tedesca. Il maiale insomma e i suoi derivati tengono banco non solo in Abruzzo, ma anche a Berlino, che, ormai è noto a tutti, oggi è forse la capitale culturale d’Europa più giovane e più in movimento. Berlino è un città che non dorme mai e che mangia sempre, a ogni ora del giorno e della notte. In continuazione. Per questo non poteva che nascere a Berlino il primo cibo da strada (e di conseguenza il suo museo). In fin dei conti lo stesso hamburger, che è il secondo cibo da strada diventato famoso nel mondo, non è nato certo negli States, come molti possono pensare, bensì proprio in Germania, ad


L Currywurst

Amburgo, appunto, di cui ancora conserva il nome. Ma prima del l’hamburger, i tedeschi mangiavano le salsicce. Il primo fast food del mondo insomma nasce a Berlino il 4 settembre del 1949, all’angolo tra Kant-Straße and Kaiser-FriedrichStraße, dove una donna vicina alla quarantina, Herta Heuwer, desiderosa di fare affari, si inventò qualcosa che cambiò per sempre il modo di concepire il pasto. Proprio a quell’angolo, dove oggi sorge il museo della salsiccia tipica tedesca, la giovane donna allestì il proprio banchetto di Currywurst. Quella fu la prima volta che un cibo veniva venduto con l’idea di non perdere tempo. Cosa amano di più i tedeschi se non proprio la loro tradizionale salsiccia ricoperta di salsa di curry, normalmente accompagnata da pane e ketchup? E mentre ancora oggi i turisti di tutto il mondo possono prendere una salsiccia al volo con meno di un euro, a due passi dal Check Point Charlie, si

trova anche il Deutsches Currywurst Museum in Schützenstraße 70. Come sempre dentro al museo c’è un po’ di tutto. Si parte, inevitabilmente, dalla storia e si passa all’attualità, con documenti, oggetti e negozio per acquistare i souvenir. Più che un cibo la salsiccia al curry è un vero e proprio modo di essere. “È un concetto” dicono i tedeschi nel loro modo unico di essere essenziali. E così, nella città nella quale nel giro di pochi metri si possono provare i cibi di tutto il mondo, dalla cucina tailandese, a quella italiana, passando ovviamente per quella tedesca, la salsiccia tipica ha trovato un posto non solo sulla strada, ma addirittura dentro a un museo, colorato e dalla posizione centrale. Il prezzo del biglietto per entrare varia dai 7 agli 11 euro e la visita dura più di un’ora. Al termine di questo interessante viaggio la fame di solito non manca. Info: www.currywurstmuseum.de/en


Turismo

I grattacieli sul litorale di Benidorm

Costa Blanca, terra antica che continua a stupire di Elisa della Barba guardarla da vicino, Altea sembra quasi finta. Con le sue casette bianche e pulite e l’ordine magrittiano delle stradine, pare fatta di colori e sole, di quello che splende caldo anche nelle giornate d’inverno. È così che la Spagna del sud-est accoglie i turisti: sulla costa mediterranea spagnola, la Regione Valenciana è una delle più importanti aree turistiche d’Europa, meta scelta da più di 20 milioni di visitatori all’anno. Oltre 600 chilometri di costa, una popolazione che supera i quattro milioni, è divisa in tre province: Alicante, Castellón e Valencia (capoluogo della regione). Di tutta la regione autonoma la Costa Blanca è la provincia più meridionale e come le altre province è divisa in “comarcas”, distretti o contee: da nord a sud troviamo La Marina Alta (capitale Denia); La Marina Baja (la capitale è Villajoyosa, ma la città più grande è Benidorm), la più turistica; L’Alcantì (capitale Alicante), la più densamente popolata e meno

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dipendente dal turismo; El Baix Vinalopó (capitale Elche); El Baix Segura chiamata anche La Vega Baja (capitale Orihuela). Perla della Costa Blanca è, appunto, Altea. Fuori dai circuiti del turismo di massa, la città vecchia (Poble Antic) è un su e giù di scalini e panorami da fotografare, incorniciati dalle ceramiche blu e bianche della cupola della chiesa della Virgen del Consuelo. Fra i balconi decorati minuziosamente con fiori e piante sbucano gallerie d’arte: non stupisce, pensando alla bellissima luce di cui pittori e artisti hanno sicuramente usufruito negli anni, donando al paese un’aria molto bohemienne. La costa ha tanto da offrire, a partire da Alicante, che pur avendo 300 giorni di sole all’anno e una temperatura media di 18,5 gradi si tiene occupata con molte iniziative oltre a quelle balneari. Città con più di 3.000 anni di storia, è costellata di monumenti. Da vedere il Castello di Santa Bárbara, una delle fortezze

più grandi di traccia medievale esistenti in Spagna. La sua origine è musulmana ed è datata alla fine del IX secolo. Il castello è collocato in cima al monte Benacantil, su una rocca che si può quasi confondere con un volto. Gli alicantini la chiamano “faccia di Moro” dalla leggenda che vuole che una principessa cristiana, innamorata di un principe musulmano, scolpì il volto dell’amato nella pietra in seguito al rifiuto del padre di darla in sposa. Da vedere anche il Museo de Fogueres, che rende omaggio alla tradizione più importante della città: la Hogueras de San Juan. Dal 20 al 24 giugno di ogni anno, infatti, musica, sfilate, balli e soprattutto enormi monumenti allegorico-satirici di cartapesta che rappresentano i diversi quartieri e che verranno poi bruciati nella Nit de la Cremá per celebrare il solstizio d’estate. Imperdibili anche i patrimoni dell’Umanità dell’Unesco a Elche: il palmeto più grande d’Europa, con più di


La Basilica di Santa Maria a Elche dove si svolgono i Misteri

200mila esemplari, le cui foglie vengono utilizzate per creare bellissime opere d’arte da far seccare per la Settimana Santa o per festeggiare il secondo patrimonio dal 2001, El Misteri d’Elx, l’identità culturale della città che affonda le radici nel Medioevo: ogni anno, il 14 (primo atto) e il 15 di agosto (secondo atto) si rappresenta nella bellissima Basilica di Santa Maria l’assunzione della Vergine Maria in cielo. Importantissima la musica dei Misteri, proveniente da diverse epoche, interpretata da cantanti non professionisti e da un coro di voci bianche. Un fascino particolare fuori stagione ha anche Benidorm, che di sera regala un bellissimo panorama da cartolina: nonostante possa sembrare stonato lo skyline che si staglia sulla spiaggia, di certo non assomiglia a nulla di quello che abbiamo in Italia. Non solo mare (che per la cronaca è bellissimo e “caldo” anche in stagione invernale), dunque. Ma molto altro, per una Spagna diversa dalla solita triade Madrid-Barcellona-Siviglia che porta con sé tradizioni ed enogastronomia tutte ancora da scoprire. I VINI CHE PROFUMANO DI SOLE La Regione Valenciana per i suoi vini si è divisa in tre, con tre diverse D.O. (Denominazione di Origine) appartenenti alle più importanti aree locali adibite al settore vitivinicolo: la D.O. Utiel-Requena (la produzione qui è iniziata 2.500 anni fa), la D.O. Alicante e la D.O. Valencia. Furono prima gli Iberici e poi i Fenici a iniziare a coltivare la vite per uso familiare, mentre gli arabi procurarono le prime prove scritte dell’importanza culturale di questa bevanda. Ma è solo a partire dal XV secolo che la storia dei vini inizia ad essere propriamente documentata. Va detto che Alicante, e così la Regione Valenciana, possiede un asso nella manica che è quello del posizionamento geografico: tra la Meseta e il Mediterraneo, protetta e inondata dalla luce e dal calore, ha il clima perfetto per dare vita a vini di qualità eccezionale. Oltre ai prodotti vinicoli da portare in tavola la regione offre anche i cosiddetti “Sentieri del Vino” (Rutas del Vino), per poter scoprire, camminando, i percorsi, i pro-

Tramonto sul belvedere di Benidorm

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Turismo cessi e i colori di cui vivono i terreni vinicoli: i paesaggi del distretto del Vinalopó Medio, dal Petrer a Las Cañadas, passando per Monóvar, Mañán, La Algueña, El Culebrón e Pinoso sono difficili da raccontare, vanno percorsi con la stessa pazienza di chi fa il vino per poterli godere appieno. Tanti i produttori, molti sono viticoltori da generazioni. Quello che conta è che tutti i vini della regione si abbinano benissimo all’altrettanto deliziosa gastronomia, sposando diversi gusti, dalla paella al gazpacho passando per le famosissime tapas. Diversi i vini da provare che meritano un’attenzione particolare per il loro forte legame al territorio d’origine. Marina Espumante 2006 Produttore: Bodega Bocopa Con quasi 2.000 coltivatori membri, la cooperativa Bodegas Bocopa utilizza ben 8.000 ettari di vigne per produrre i suoi vini, molti dei quali sono stati certificati con l’etichetta D.O di Alicante. Di colore giallo pallido e fresco, questo spumante prodotto da uve aromatiche è originale e rinfrescante, perfetto per ogni occasione, aperitivo o dessert. Proviene da una qualità speciale di uve, quelle di Moscato d’Alessandria, maturate e fermentate con cura, che liberano note fruttate e aromatiche. Pontos 1932 Produttore: Bodega de Pinoso Il Pontos 1932 appartiene alla gamma di qualità medio alta della produzione dell’azienda ed è un rosso D.O. di Alicante, varietà Monastrell, con invecchiamento di nove mesi in barrique, colore rosso rubino. Intenso ed elegante, è perfetto per arrosti, pesce e carni bianche. Migjorn Produttore: Bodega Agrocastellò Con un territorio che si colloca nella Laguna delle Saline, questo è un vino innovatore all’interno della D.O. di Alicante. Il Migjorn presenta un blend di Cabernet Sauvignon e Merlot e un invecchiamento di dodici mesi in barrique di quercia francese, prima fermentato in container, anch’essi di quercia oak francese. Verdil 2008 Produttore: Bodega José Belda Qui si elaborano vini varietali, coupage e bianchi prodotti con l’uva autoctona Verdil. Questo vino prodotto a Valencia è un bianco giovane di varietà Verdil (solo 45 ettari in tutto il mondo). Di color giallo paglierino e riflessi verdi, ha un aroma di mela, aracuja e ananas. Ideale per accompagnare molluschi, pesce e come aperitivo. Montcabrer 2005 Produttore: Vins del Comtat Questo Cabernet-Sauvignon è invecchiato quattordici mesi in barrique di quercia americana e francese e affinato dodici mesi in bottiglia. Di un rosso cupo, ha sentori di frutta di bosco matura ed erbe aromatiche con note balsamiche di caffè, cioccolato e liquirizia.

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Calamari alla griglia abbinati al Vallblanca L

AD Gaude 2005 Produttore: Heretat de Cesilia – Casa Sicilia Il vino è stato elaborato associando il Syrah e il Petit Verdot, cresciuti dai produttori stessi, con il Monastrell. Vino di Alicante, l’AD Gaude 2005 è invecchiato in barrique francesi per ventiquattro mesi. Rosso scuro, profuma di chiodi di garofano e cannella, prugne e miele. Vino robusto, fortemente tannico, è perfetto con la selvaggina, le salsicce e i formaggi invecchiati. Fondillón Solera 1948 Produttore: Primitivo Quiles Il Fondillón è il vino nobile di Alicante, inteso come quello che ha ottenuto la sua gradazione alcolica in maniera naturale, attraverso la fermentazione delle uve Monastrell. Il nome “Fondillón” viene da “fondo de la cuba” o “fondo del barile” riferito al sistema usato tradizionalmente per invecchiare il vino.

Una menzione particolare va, per i rossi, al Laudum Crianza 2004 di D.O. Alicante, un blend di Monastrell con un tocco di Cabernet e Merlot dal sapore strutturato di fichi, prugne e spezie, perfetto da gustare con una tagliata di carne appena scottata. Per i bianchi vale la pena assaggiare un vino molto meno prezioso ma fantastico con abbinamenti di pesce come i calamari alla griglia, il Vallblanca 2008 di D.O. Valencia, fresco e fruttato con riflessi paglierino-verdi e un aroma di


Galleria d’ arte ad Altea L

frutti a pasta bianca (pera, pesca) con un finale fiorito tipico della varietà Verdil. Da provare, poi, il bianco Primitivo Luiles di D.O. Alicante, abbinamento quasi obbligatorio con la famosa paella “a banda”. RISO, FAGIOLI E PESCE, I PRINCIPI DELLA GASTRONOMIA VALENCIANA La Comunità valenciana si fregia di una grandissima quantità di prodotti di qualità, per la maggior parte protetti da una denominazione di origine o da indicazioni geografiche tipiche. Alimenti di provenienza naturale a produzione ridotta, profondamente legati al territorio e al lavoro dell’uomo che li estrae dal mare o li coltiva dalla terra. Vanno però citati anche elementi di altissimo livello a produzione industriale, incluso il torrone di Alicante e il cioccolato di Vila Joiosa. Ammessa la diversità della cucina valenciana, è obbligatorio segnalare che il riso è l’ingrediente re di questa terra e monopolizza quasi tutte le ricette. L’“Arroz a banda” (con zafferano, peperoni, aglio, pomodoro), al forno, “con costra” (letteralmente “con la crosta”) sono alcuni dei tanti i modi per cucinarlo e mille i tipi coltivati qui. Lo stesso vale automaticamente

per la paella che ha numerose versioni quanto i distretti della regione: si può preparare con carne di pollo o di coniglio, con molluschi e pesci vari oppure solamente con verdura. Tipico della Regione Valenciana è però l’uso del fagiolo e in particolare del garrofò, ampio e pastoso. Non fatevi ingannare dalla semplicità dell’ingrediente principale però: riuscire a combinare i sapori ed equilibrarli senza farne stonare nessuno, proprio come si farebbe con gli strumenti in un’orchestra, è più difficile di quello che sembra. Semplice, invece, è la cottura e la preparazione del pesce, al forno o alla griglia, al massimo fritto. Sono piatti di origine povera ma attualissimi oggi per la loro mancanza di grassi e i loro benefici dietetici. Tonno, sardine, salmone, polipo, seppia, rombo, branzino e molluschi costituiscono la base di questi piatti, anche se la tipicità la riscontriamo nei calamari, spesso fatti fritti, negli scampi e nei gamberi (rinomato e raro il gambero rosso di Denia, che arriva a costare 200 euro al chilo) e soprattutto nel baccalà sotto sale che viene utilizzato in moltissimi modi. Capitolo a parte meritano gli antipasti, in questa regione molto meno “tapas in corsa” e molto più gastronomicamente curati, con elaborazioni che stu65


Turismo piscono e che raramente si trovano altrove: eccezionale sia la seppia servita con uovo di quaglia e pomodoro sia la fetta di pane tostato servita con Jamón Serrano e peperone verde appena scottato, così come il baccalà mantecato servito con crostini. Lo stesso vale per le insalate condite e gli insaccati che qui hanno subito l’influenza dei Mori e si sono profumati di cannella, frutti secchi e anice: vengono anche utilizzati in torte salate o “schiacciate” di farina tipiche, chiamate “cocas” (si utilizza anche pesce sottosale in alternativa). Non mancano le verdure, che accompagnano le portate e hanno il sapore antico delle cose belle cresciute al sole. Cipolle, fagioli e patate vengono utilizzate per preparare il famoso hervido (bollito), piatto popolare forse ancora più conosciuto della paella. Riguardo ai dolci non si può non parlare del torrone di Alicante, specie completamente differente dal torrone italiano: molto più basso e farinoso, è meno dolce e decisamente più leggero dei nostri. I dessert echeggiano le tradizioni arabe: compromesso fra panetteria e pasticceria, utilizzano mandorle, miele, marzapane e frutta, in particolare i datteri tipici della regione (che Fenici e Cartaginesi usavano come alimento di sostentamento) e le nespole di Altea. Interessanti anche le bevande rinfrescanti come l’horchata, analcolico di origine araba da bere freddo, derivante da una frutta secca coltivata vicino a Valencia e il café granizado (con ghiaccio).

L Jamón Serrano con peperone verde appena scottato

Vista dalla Basilica di Santa Maria a Elche

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Oli d’Italia

L’olio? Lo fa l’uomo che abita il territorio di Luigi Caricato bbiate cura degli olivi. Può essere questo l’invito da rivolgere agli ultimi contadini italiani rimasti tra i campi a lavorare. Si fa un gran parlare di prodotti del territorio, ma poi si scopre che il territorio si ferma solo alla nuda terra e non comprende, come dovrebbe, anche la sua gente. Se avete notato, i lavoratori delle campagne sono per lo più anziani, quanto meno se si considerano quelli che hanno ancora le forze per continuare, e che non riescono a staccarsi, per troppo amore. Per il resto, la manovalanza è tutta straniera. Stiamo perdendo così il controllo diretto del territorio. E anche la preparazione dei cibi, nelle trattorie e nei ristoranti, è in mano straniera: in cucina il personale viene in gran parte da fuori, da molto lontano in molti casi. La morale, di conseguenza, è piuttosto semplice: in un’epoca in cui si è arrivati a tutelare l’identità del territorio, alla fine manca il vero punto di forza del territorio stesso, che è poi quello più caratterizzante e che va ricondotto all’uomo. L’intensa attività di tutela e valorizzazione del territorio sta avvenendo attraverso tracce documentali che richiedono delle specifiche normative, con l’istituzione di denominazioni di origine o di indicazioni geografiche protette, che rimandano alle più note sigle Dop e Igp. E, a ben osservare, non mancano nemmeno i prodotti a marchio Stg, altra sigla, meno conosciuta, che è l’acronimo che sta a indicare una Specialità tradizionale garantita, come nel caso del recentissimo riconoscimento assegnato alla pizza napoletana, fresca di nomina da parte dell’Unione europea. C’è da esserne orgogliosi, ma alla fine, dopo tutti questi sforzi legislativi, resta da chiedersi a che cosa serva davvero tutto ciò, se poi, a realizzare tali alimenti, non sono più i lavoratori del territorio, ma quelli di altri luoghi, di Paesi talvolta anche culturalmente estranei al prodotto tutelato. È un assurdo, se solo ci pensate. Ora, sia ben chiaro, non vi è alcuna intenzione discriminatoria, in questa valutazione: le porte del nostro Paese restino pure evangelicamente aperte a tutti, ma una riflessione su tale anomalia va pur espressa, non ci si può certo sottrarre a un giudizio di merito. E

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la domanda è legittima: ha senso insistere ancora sulle tipicità? Ciò che è tipico non è solo espressione della nuda terra, dalle cultivar di olivi coltivate e dello specifico microclima in cui si opera. Non è così. Sicuramente tali fattori saranno determinanti, ma perdono tuttavia di senso, centralità ed efficacia nel momento in cui viene meno l’elemento antropico, che è poi quello caratterizzante più di tutti gli altri il prodotto tipico. Si assiste pertanto a qualcosa di insolito: si esalta la territorialità, sollecitando l’elemento identitario più visibile, attraverso i riconoscimenti attribuiti di volta in volta con le varie Dop, Igp ed Stg, ma si sottrae nel contempo ciò che in realtà dà forza e senso alle peculiarità di cibi, materie prime della terra, bevande e quant’altro sia da ricondurre all’origine, al territorio. Sono proprio queste contraddizioni, che evidentemente riflettono lo stato di confusione del nostro tempo, a farci dubitare sul senso di queste sigle svuotate di anima e di identità. Eppure il territorio si fonda segnatamente sull’azione plasmatrice dell’uomo. Non a caso, l’olivo non è l’olivastro, la pianta addomesticata è ontologicamente diversa dalla pianta selvatica. Le varie cultivar sono il frutto del sapiente intervento dell’uomo sulla natura. L’olio non scaturisce dall’oliva per pura casualità, ma è il frutto dell’ingegno e dell’operato dell’uomo. Proprio per tale motivo diventa importante che il territorio sia anche l’espressione dell’uomo che vive ed esprime quel dato territorio, altrimenti ci ritroviamo di fronte a un prodotto diverso, con tutta un’altra storia, tutta un’altra identità. Emblematica in tal senso la segnalazione dell’olio prodotto da Filippo Nevelli, dell’azienda Ballabio, nell’Oltrepo Pavese. Il suo impegno nel produrre un extra vergine in un’area olivicola insolita qual è quella di Casteggio è encomiabile. E sarebbe da raccontare e approfondire: accanto ai vigneti e alla cantina vi sono 154 piante di olivo. La prima frangitura di olive è avvenuta nel 2008, ma il raccolto 2009 guarda già al futuro. Nel 2010 l’oliveto sarà infatti potenziato con altre cento piante. Qualcuno forse dubita che il fattore antropico non sia determinate per caratterizzare il territorio?


GLI ASSAGGI Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdi, ha profumi puliti e freschi, dalle connotazioni erbacee. Al gusto è delicato e dolce, al primo impatto, con note lievi e morbide di amaro e piccante che si aprono progressive. In chiusura sentori di carciofo e mela, con una lieve punta di piccante. L’abbinamento. Con riso alla zucca, passato di verdure, carni bianche ai ferri.

LOMBARDIA

“San Biagio” da olive Leccino, Frantoio e Bianchera.

Ballabio società agricola, via San Biagio 32, 27045 Casteggio (Pavia), info@ballabio.net, www.ballabio.net

Nel bicchiere. Verde dai riflessi giallo oro, al naso ha profumi fruttati di media intensità, dalle connotazioni erbacee e con richiami al carciofo. Al palato ha buona fluidità, armonia e gusto morbido, vegetale, con amaro e piccante netti e persistenti. In chiusura i sentori di ortaggi e mandorla, lieve tocco piccante.. L’abbinamento. Con gnocchetti alle noci e salsina di cavolfiore, carciofi fritti, tonno briaco alla livornese.

TOSCANA

“Antica sorgente” da olive Leccino, Frantoio, Moraiolo, Maurino e Pendolino.

Azienda agricola Limone, via di Grecale 11, 57100 Livorno, tel. 328.9135824, www.anticasorgente.com

Nel bicchiere. È giallo oro dai riflessi verdi, con profumi di media intensità che rimandano netti alle erbe di campo e a note vegetali di carciofo. Al palato è avvolgente e morbido, sapido, vegetale, con amaro e piccante in equilibrio. Chiude con sentori mandorlati e lieve punta piccante. L’abbinamento. Con zuppa di cardi, insalate verdi, mazzarelle (coratella di agnello) alla teramana. Antico Frantoio Ciabarra, c.da Santo Stefano 139, 64029 Silvi (Teramo), tel. 085.930352, info@frantoiociabarra.it, www.frantoiociabarra.it

ABRUZZO

“Ciabarra” da olive Dritta in purezza.

Nel bicchiere. Giallo dai riflessi verdolini, si apre al naso con toni fruttati di media intensità, segnatamente erbacei e con rimandi al pomodoro. Al gusto è fine e delicato, vegetale, armonico, con richiami al carciofo. In chiusura una lieve punta di piccante e i sentori di mela e mandorla. L’abbinamento. Cecatielli al ragù di tracchiole di maiale, insalata di puntarelle, carni alla brace.

CAMPANIA

“Primo Fiore” da olive Ortice, Ortolana e Racioppella.

Azienda olivinicola Terre Stregate, via Municipio 105, 82034 Guardia Sanframondi (Benevento), tel. e fax 0824. 864312, terrestregate@libero.it, www.terrestregate.it

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Birra di qualità

Quelli della terra di

mezzo di Maurizio Maestrelli

IN ITALIA

IL MERCATO DELLA BIRRA, IN TERMINI DI VOLUMI, È APPANNAGGIO DEI GRANDI GRUPPI INTERNAZIONALI. IL “SOTTOBOSCO” È INVECE ABITATO DA CENTINAIA DI MICROPRODUTTORI. E IN MEZZO? CI STANNO LORO: FORST, MENABREA, PEDAVENA, THERESIANER

70

ome si potrebbe descrivere il mercato della birra in Italia? I numeri, certo, sono importanti ma, andando per metafora, si potrebbe pure pensare a un bosco o a una foresta. Ci sono innanzitutto gli alberi cosiddetti ad alto fusto, quelli che svettano su tutti gli altri e si vedono da lontano. Poi, una volta entrati nella foresta, ci si accorge dei cespugli, piccoli d’accordo ma senza dubbio affascinanti. Infine, dopo essersi ambientati, ci si rende pure conto che esistono degli alberelli che magari non emergono, ma che sono vivi e vegeti e dotati di una loro particolare bellezza. Uscendo allora dal paragone, per così dire, botanico, il mercato italiano è appannaggio, in termini quantitativi, di due grandi gruppi, che da soli fanno più del 50 per cento dei volumi, sotto c’è lo scalpitante mondo dei piccoli artigiani della birra, ormai forti di quasi 300 unità produttive (come gli Spartani alle Termopili!), ma in mezzo ci sono delle aziende molto interessanti, ancora italiane di proprietà, spesso con una lunga storia alle loro spalle e con eccellenti risultati nel presente. Un esempio è la Menabrea di Biella (www.birramenabrea.com), nata nel 1846 e oggi guidata da Franco Thedy. Produce tre birre di base oltre a una specialità natalizia. Le classiche Menabrea sono la 150° Anniversario Bionda, la 150° Anniversario Ambrata e la 150° Anniversario Strong. La prima ha ottenuto la medaglia d’oro al World Beer Championship di Chicago nel 1997, nel 1998 e nel 2000, l’Ambrata si è vista consegnare l’argento alla stessa manifestazione per ben tre anni consecutivi (dal 2004 al 2006), la Strong ha invece ottenuto l’oro nel 2005. E non le abbiamo citate tutte, le medaglie. Ma appare chiaro che questa tradizionale birra italiana abbia saputo farsi valere nelle competizioni internazionali. Discorso simile va fatto per la Theresianer di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso (www.theresianer.com), reduce proprio dal recente World Beer Championship del 2009 dove ha ottenuto due medaglie d’oro, rispettivamente per la Vienna e per la Premium Pils, e una d’argento per la Premium Lager. Al di là dei risultati, altre aziende di medie dimensioni continuano a farsi valere nel panorama nazionale e non solo. La grande tradizione dell’altoatesina Forst (www.forst.it), ad esempio, continua a sfornare una gamma di birre di pregevole fattura a partire dalla Sixtus, un’ambrata doppio malto intensa e corposa, passando poi alla delicata e aromatica V.I.P. Pils, alla “ultima arrivata” 1857 fino alla “bestseller” Kronen che, sola, copre oltre il 50 per cento della produzione complessiva. In Friuli Venezia Giulia lo stabilimento che una volta era di Birra Moretti, a San Giorgio di Nogaro, è stato rilevato nel 1997 da una cordata di soci. È nata così Birra Castello (www.birracastello.it), azienda dinamica e in cresci-

C


ta, tanto da aver rilevato qualche anno più tardi la bellunese Pedavena, storico marchio che aveva rischiato di sparire per sempre. Proprio con Pedavena (www.birrapedavena.it), la società friulana ha forse messo a segno i risultati più importanti. Non solo ha infatti mantenuto alto il profilo della produzione bellunese, con in primis la non pastorizzata Centenario (che però si beve solo nella birreria della fabbrica), ma ha anche investito nelle risorse locali realizzando delle pregevoli produzioni, battezzate come Birra Dolomiti, a partire da risorte coltivazioni locali di orzo. Tutte insieme, queste aziende di medie dimensioni, e il termine va inteso solo nel senso puramente dimensionale, vanno in qualche modo considerate le eredi ideali della moltitudine di birrerie sparse sul territorio italiano nel ventesimo secolo, prima dell’arrivo delle multinazionali e dell’inevitabile fenomeno di concentrazione societaria. Fenomeno, del resto, che si è verificato in tutto il mondo, non solo in Italia. Nomi conosciuti come Itala Pilsen, oggi scomparsa, oppure marchi regionali come Ichnusa, Raffo, Messina, entrati a far parte dei grandi gruppi così come Dreher, Birra Moretti, Poretti, Wührer, Von Wunster, marchi ormai nell’orbita dei principali player di mercato. Un mercato che, tuttavia, appare quanto mai sano. Proprio in virtù dell’esistenza di tre categorie di soggetti. D’accordo, gli ultimi dati su produzione e consumi diffusi da Assobirra, l’associazione degli industriali della birra e del malto, non sono particolarmente positivi e il faticoso superamento della “quota 30”, da intendersi come litri annuali pro capite, sembra essere stato messo a repentaglio dalla crisi economica e da un anno non troppo assolato, il clima del resto è sempre decisivo per le vendite di birra. Ma, detto questo, il panorama italiano appare in grado di ripartire di slancio, forte della pre-

senza massiccia sul territorio dei grandi gruppi, e delle loro campagne di marketing, dell’interesse che continuano a sollevare le produzioni artigianali, ma anche del ruolo attivo che continuano a svolgere le aziende di medie dimensioni. Che producono delle ottime birre, adatte sia all’ambiente informale di una birreria, sia a quello più impegnativo del ristorante. Personalmente, ci piace l’idea che aziende di questo genere continuino a lavorare con profitto e che colgano importanti successi, anche sul fronte internazionale. Soprattutto, ci sembra che la loro sopravvivenza in un mercato, quale quello della birra a livello mondiale, in costante “rivoluzione” sia un segnale importante di stabilità. E di fiducia nel futuro. Nel nostro Paese, insomma, oltre a degli eccellenti vini si fanno anche delle ottime birre e vale davvero la pena di andare alla loro scoperta. Godere dei profumi piacevolmente luppolati di una pils, distinguere le note di caramello in una bock, “tagliare” la sete con un’equilibrata lager. E poi sottoporre le birre made in Italy alla prova degli abbinamenti con le nostre cucine regionali. Così, senza tanti voli pindarici o senza dover a tutti costi cucinare uno stinco o dei bratwurst. Le sorprese, gradevoli, non mancheranno. Ne siamo sicuri. Del resto, da quando hanno scoperto che di birra se ne beveva parecchia secoli prima di Cristo in pianura Padana, dove evidentemente gli antichi Celti la preferivano al vino, quello di accostare birre italiane ai piatti più tipici della gastronomia italiana non deve proprio essere inteso come una sperimentazione futuribile. Semmai è un ritorno al passato.

SCHEDE DI DEGUSTAZIONE Birra Moretti Grand Cru

Theresianer Premium Pils

Dolomiti Doppio Malto

Produttore: Birra Moretti Distributore: Dibevit Import (www.dibevit.com)

Produttore: Theresianer (www.theresianer.com)

Produttore: Birreria Pedavena (www.birrapedavena.it)

Fresca di medaglia d’oro al World Beer Championship di Chicago, “metallo” ottenuto anche dalla Vienna in un’annata particolarmente ricca di riconoscimenti internazionali per l’azienda di Martino Zanetti, questa dorata e brillante pils ha nell’eleganza dell’aroma di luppolo il suo tratto distintivo. Toni erbacei e floreali, fragranza di pane appena sfornato, equilibrata al gusto e giustamente secca nel finale. Da bere così, senza pensarci due volte, ma ideale con una frittura mista di pesce o con torte salate delicate.

La nuova vita della storica birreria Pedavena sta riservando alcune piacevoli sorprese agli appassionati. Se la Centenario resta la birra più ambita in loco, anche perché solo lì la si può bere, con la Dolomiti Doppio Malto l’azienda ha saputo costruire una birra indubbiamente decisa ma estremamente godibile. Ottenuta con ampie percentuali di orzo della zona, merito in più, questa birra si offre con note dolci di malto e delicate sottolineature fruttate. Corpo ed equilibrio perfetti, finale necessariamente luppolato, ma con moderazione. Bene con le carni alla griglia.

Per i suoi 150 anni di storia uno dei marchi birrari italiani più noti si regala questa chicca di alta fermentazione e di chiaro “imprinting” di scuola belga. Confezione raffinata, tappo in sughero e gabbietta metallica, formato unico da 0,75. Insomma una birra che guarda senza false modestie alla ristorazione. A ragione, d’altronde. Ambrata, ricca di una schiuma compatta e persistente, bouquet floreale e fruttato, sicuramente ampio e articolato, ottimo corpo e gran finale. Ci si può divertire parecchio negli abbinamenti a tavola, incluse ricette esotiche e creative.

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Distillati

La grappa, bandiera italiana dei distillati di Angelo Matteucci

PATRIMONIO

NAZIONALE,

UN TEMPO SI PRODUCEVA SOLO NELLE

REGIONI DELL’ARCO

ALPINO.

OGGI

È UNA

ECCELLENZA DI NUMEROSE ZONE DEL NOSTRO TERRITORIO A PATTO CHE VENGA

RISPETTATA L’ORIGINE DELLE VINACCE,

RICAVATE DA UVE

COLTIVATE IN ITALIA

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acquavite di vino meglio conosciuta come brandy, cognac ed armagnac, è generalmente prodotta con vini a basso contenuto alcolico e con alta acidità. Vini che non hanno grande struttura e per questa ragione sono particolarmente adatti alla distillazione. L’italico trebbiano è utilizzato in molti Paesi, oltre all’Italia naturalmente, proprio per queste caratteristiche. Alla regola fa eccezione la maggior parte del brandy spagnolo che è invece prodotto con uve comunemente utilizzate anche per la produzione di vini strutturati. Si può quindi affermare che quasi sempre per produrre un buon distillato di vino si scelgono prodotti leggeri, non particolarmente importanti. Ciò non vale tuttavia per la produzione di grappa, il nostro distillato di eccellenza. In questo caso, infatti, più è buono il vino che si produ-

L’

ce da certe uve, più qualificata è la vinaccia e di conseguenza migliore è la grappa che ne deriva se sono rispettate le regole di tempi, igiene e distillazione. La grappa è patrimonio italiano e in origine si produceva nelle regioni dell’arco alpino. Oggi si può produrre, in altre zone del nostro territorio purché si rispetti l’origine delle vinacce, ricavate rigorosamente da uve coltivate in Italia. Occorre inoltre seguire le regole della distillazione ed eventuale maturazione e il suo contenuto alcolico spazia tra i 37,5 e i 60 gradi. Per le grappe che hanno diritto alla denominazione d’origine prodotte in Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino e Alto Adige la gradazione minima obbligatoria è di almeno 40 gradi. Occorre ricordare che le caratteristiche delle grappe variano a seconda delle aree di produzione (e anche dei produttori delle medesime zone)


per differenze dovute al suolo, al clima e ai vitigni di qualità differente, con varie metodologie di coltura e di vinificazione (che comportano importanti differenze nelle vinacce) e, infine, di distillazione. Una particolare attenzione va prestata alla tipologia delle distillerie che si possono dividere in due categorie: artigianali e industriali. La produzione annua della grappa è di circa 40 milioni di bottiglie e si calcola che oltre l’85 per cento è prodotto con distillazione continua a livello industriale. La parte rimanente è distillata in alambicchi tradizionali da artigiani in piccole, medie distillerie. In alcuni casi anche realtà industriali producono piccole partite di grappa con l’utilizzo di alambicchi tradizionali. Oltre alla grappa imbottigliata dalle distillerie con propria etichetta esistono in commercio numerose qualità imbottigliate dalle distillerie stesse per conto terzi. Diverse aziende vitivinicole convogliano le loro vinacce alle distillerie per ricavarne una grappa con etichetta propria. Vi è inoltre un business importante costituito da commercianti che acquistano e imbottigliano (in certi casi assemblando) diverse qualità. In certi casi l’etichetta riporta l’azienda imbottigliatrice come distilleria o stabilimento anche se la distillazione è avvenuta altrove. Un attento esame, condotto leggendo il contrassegno di stato a sigillo della bottiglia, rivela di fatto agli esperti dove la grappa è stata distillata. Maurizio Fava, grande conoscitore di grappa ed esperto di vino e buon cibo, specifica che «purtroppo non esiste tra la maggior parte dei consumatori una vera conoscenza della grappa e resta difficile per la maggior parte di loro conoscere esattamente le varie caratteristiche del distillato

in questione che si accingono a comprare oppure a bere. L’etichetta principale richiede dati obbligatori ma si potrebbe dire molto di più sulla eventuale contro etichetta. Ad esempio, specificare la metodologia di distillazione se discontinua (a vapore, a bagnomaria o più raramente a fuoco diretto) o continua con distillatori a colonna. E inoltre specificare, se del caso, la percentuale di edulcorazione che rende più morbido il distillato, l’eventuale presenza di sostanze aromatizzanti esterne e di caramello che dona colore». Va precisato che questi ingredienti sono ammessi in quantità limitate, ma non è obbligatorio elencarli secondo decreto legge. Il mondo della grappa, che ha conosciuto una svolta di grandissima importanza a partire dagli anni Novanta, svolta che ha permesso di allargare il numero dei consumatori di grappa (anche saltuari) abbracciando inoltre un cospicuo numero di intenditrici, è comunque un mondo di grande fascino e di aspettativa. Per fortuna la grappa non ha perduto la tradizionale immagine di bevanda del freddo, della nebbia, della neve e della campagna. È più moderna, sì, ma ha sempre un’anima contadina. Essendo la nostra bevanda superalcolica nazionale è giusto domandarsi perché, come dice Maurizio Fava, non vi sia, da parte di molti consumatori, una vera e propria conoscenza del distillato. La disponibilità sul mercato è ampia e occorre conoscere meglio la sua anima, per apprezzarne le qualità. Dobbiamo ricordarci che a parte la distillazione vera e propria (anch’essa peraltro spesso modificata in meglio) oggi si lavorano vinacce fresche e si dedica una particolare attenzione a ogni fase della lavorazione. È quindi importante da parte della produzione sia

artigiana sia industriale di fare in modo che il consumatore sia educato ad apprezzare il distillato in questione. Molto è stato fatto per rendere migliore la grappa e spesso è presentata in magnifiche bottiglie con una veste particolare creata da grandi designer. Tutto questo è eccellente ma occorre passare quante più informazioni possibili al consumatore. Diverse aziende stanno infatti seguendo questa strategia di comunicazione. Occorre pertanto allargare il diretto contatto lasciando che siano le bottiglie stesse a portare con loro il miglior messaggio del nostro prestigioso distillato e il suo contenuto ne deve dare conferma. Infine vorremmo ricordare due personaggi, entrambi piemontesi, che sono mancati alcuni mesi or sono. Ci riferiamo a Paolo Berta, fondatore nel 1947 della omonima distilleria che dal 2002 è a Casalotto di Mombaruzzo, nell’Astigiano. Con l’intervento dei figli la distilleria ha raggiunto dimensioni notevoli ed è oggi una realtà imprenditoriale industriale di rilievo. Romano Levi si definiva un semplice distillatore di Neive, in provincia di Cuneo. In realtà è un mito che ha lasciato un segno tangibile tra gli appassionati della grappa tradizionale. Romano ha lavorato per una vita (dal 1945) nella distilleria paterna creata nel 1925. Ha perseguito l’unica idea di produrre la grappa che piaceva a lui senza mai cedere a compromessi. Le sue grappe, difficili e “dure” da giovani, raggiungevano livelli altissimi con il sapiente invecchiamento e le sue etichette create sul momento sono oggetto di culto. Molti sono gli appassionati di grappa che ricordano con particolare affetto quest’uomo difficile, a volte scontroso, ma con un grande cuore.

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Distillati

grappa

La cantata dal vate di Renato Andreolassi*

UNA DELLE PIU’ ANTICHE DISTILLERIE ITALIANE RINNOVA UNA TRADIZIONE CHE SI TRAMANDA DA QUATTRO GENERAZIONI CON LA

“RUGIADA DELLE ALPI”

GRAPPA

L Gabriele D'Annunzio celebrò la bellezza del territorio del Garda bresciano 74

una delle più antiche distillerie d’Italia, l’Al Lambic di Tignale nel Bresciano, in una zona suggestiva, al confine fra la Lombardia e il Trentino. Si sale dalla Gardesana, da Salò, fin su a Toscolano, poi a Gargnano, di galleria in galleria. Sono scenari suggestivi, soprattutto nella stagione invernale, lontano dal traffico e dalle colonne dei turisti del fine settimana. Una strada unica quella che sale, costruita poco meno di cento anni fa, esattamente nel 1913. Corre nel cuore della montagna, fra uno strapiombo e l’altro. Vale solo quella un viaggio, merita sicuramente una sosta questo angolo suggestivo del Parco dell’Alto Garda bresciano. Le vedute della sponda veronese sono da mozzafiato e su tutto troneggia la vetta imbiancata del Baldo. È affascinante questo angolo, che poi da Tremosine prosegue a zig, zag verso Tignale. Curve contro curve, clacson a manetta e marce basse per godere il paesaggio ma anche e soprattutto la tranquillità dell’entroterra. Una sosta, prima di arrivare alla distilleria Al Lambic, merita il caseificio di Tremosine. La formaggella, un formaggio tipico, di forma cilindrica e di piccole dimensioni, a pasta morbida e dal gusto delicato, è unica e impareggiabile. Una pausa e si riparte verso Tignale. Ed eccoci all’Al Lambic. La struttura, situata nel borgo medioevale di Prabione di Tignale, è costituita da un gruppo di case antiche restaurate nel pieno rispetto del caratteristico stile rustico, con un vezzo di signorilità, che anche qui non guasta, anzi, ne sanno qualcosa le decine di turisti tedeschi che affollano la zona. In estate sono l’80 per cento dei vacanzieri. All’interno del complesso, l’antico alambicco a fuoco diretto alimentato a legna, unico nel suo genere. Qui, dal 1770 la famiglia Bettanini Virdia rinnova ogni anno, da quattro generazioni, la tradizionale distillazione della grappa, definita da Gabriele D’Annunzio “la Rugiada delle Alpi”. Il nome fu proposto dal poeta che, frequentatore della zona ed estimatore del prodotto, unì il luogo posto ai piedi delle Alpi con l’aspetto cristallino della grappa. Ancora oggi la prima settimana di novembre, giorno e notte, si usano gli stessi sapienti metodi del passato. Padre, figlio e zia seguono meticolosamente l’alambicco, mantenendo continuamente il fuoco senza sosta. Alambicco a tassa giornaliera che per le casse dello Stato assommano a circa mille euro. Marco Bettanini decise alla fine del 1700 di installare

È


L La grappa “Rugiada delle Alpi”

l’alambicco per sfruttare le vinacce, residuo povero della lavorazione del vino. Vinacce che oggi arrivano dai migliori vitigni del Garda, anzitutto il Groppello, vino da amare e da scoprire per la sua forte intensità. La distillazione è una festa che si ripete ogni anno. Amici e conoscenti salgono fin su a Tignale per godersi questa antica tradizione cantata dal vate. Dal laboratorio escono complessivamente 300 litri anidri all’anno, circa 1200 bottiglie da mezzo litro. Produzione limitata insomma. E ogni bottiglia, confezionata a mano, è sigillata con la ceralacca, dove è impresso il marchio della distilleria, è etichettata con numero di bottiglia e anno di produzione e personalizzata con il nome dell’acquirente. La Rugiada delle Alpi è dunque un’acquavite di pura vinaccia di 48 gradi. Due i gusti: uno classico, vero, forte, dall’inconfondibile color bianco delle Alpi, e uno più morbido, vicino ai colori e ai sapori autunnali. Una grappa insomma che vale un viaggio là dove Gabriele D’Annunzio cantò la bellezza dei paesaggi nell’ultimo rifugio del Vittoriale, giù a Gardone Riviera. E proprio nel parco della villa, dove sono custoditi migliaia di cimeli, compresa la Nave Puglia, vengono coltivati un centinaio di ulivi che hanno dato vita a un’interessante esperienza di salvaguardia e tutela del territorio. Grazie infatti alla collaborazione fra la Fondazione del Vittoriale degli italiani, la comunità montana del Parco dell’Alto Garda bresciano e la latteria Turnaria di Tignale, ogni anno vengono prodotte alcune migliaia di bottiglie di olio Casaliva dalle omonime varietà di ulivi. E le olive raccolte a mano nella stagione autunno- invernale vengono molite nel frantoio a ciclo continuo di Tignale. Il tutto entro 24 ore dalla raccolta. L’olio che nasce qui, nell’entroterra gardesano, è la testimonianza di uno sforzo collettivo per portare al massimo grado di qualità un prodotto locale altrimenti destinato al declino qualora fosse abbandonato a un’attività non redditizia e marginale. Perché come scriveva D’annunzio: «Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia / come l’ulivo placido produce/ agli uomini la sua bacca palladia/ ch’è cibo e luce».

L L’agriturismo Al Lambic

*Giornalista Rai Milano

L Il Monte Baldo visto dal Lago di Garda 75


Acqua

Un bene prezioso da non sprecare di Davide Oltolini opo la conferenza Onu sul clima, svoltasi a Copenaghen, sembra opportuno affrontare ancora, e in modo più approfondito, alcune interessanti tematiche relative al fabbisogno e all’impiego delle acque. Non si tratta, tra l’altro, di temi così avulsi dal solito ambito di interesse, vista la sempre maggior attenzione di cui godono le acque erogate dai nostri acquedotti, ovvero le cosiddette “acque del sindaco”. Numerose le curiosità emerse tra i delegati di tutto il mondo durante e a margine della conferenza presieduta dalla danese Connie Hedegaard, riguardanti gli sprechi e i risparmi delle risorse idriche del pianeta. Solitamente si consiglia, al fine di moderare i consumi di acqua, di concedersi, una doccia, anziché un bagno. Anche la doccia deve, però, com’è ovvio, essere effettuata con criterio. Pare che il presidente venezuelano Hugo Chávez abbia recentemente richiamato gli abitanti del proprio paese a non sprecare acqua, ricordando che c’è chi canta per mezz’ora proprio durante la doccia, mentre sarebbe sufficiente un decimo di tale tempo, che è quello che lui stesso impiega senza, peraltro, parole testuali, puzzare. A questo proposito ricordiamo che si stima che per una doccia di dieci minuti siano necessari 150 litri di acqua, mentre per lo stesso tempo di erogazione, utilizzando un riduttore, ne basterebbero 80. Tale strumento permetterebbe anche di abbattere i consumi dell’acqua che viene attinta al lavandino di casa o sul posto di lavoro. Per un’erogazione di cinque minuti si avrebbe un consumo di circa 40 litri, contro una quantità pressoché doppia che risulterebbe dal mancato utilizzo del riduttore. Un risparmio del 50 per cento si avrebbe, così facendo, anche con lo sciacquone, passando da una quantità di 15 a una di 6 litri. In riferimento al risparmio dell’acqua per lo sciacquone, che vede inghiottire ben un terzo dell’acqua impiegata nelle abitazioni, esistono teorie molto più radicali, applicate dagli ecologisti più convinti, come quella che recita “If it’s yellow, let it mellow; if it’s brown, flush it down”, ovvero, ci sia consentita la traduzione, “se è gialla lasciala a galla, se è marrone tira lo sciacquone”. Purtroppo, oltre ai comportamenti poco consapevoli, esiste anche la problematica delle notevoli perdite degli acquedotti. Uno studio commissionato dall’Assoknowledge della Confindustria, eseguito dalla società di consulenza Kpmg e dalla Marketing University già due anni orsono, evidenziava uno spreco di dimensioni bibliche, pari a circa 1,4 miliardi di metri cubi l’anno. Contro una perdita dalle condutture che negli altri paesi avanzati va dal 15 al 20 per cento e una media europea che è, appunto, del 20 per cento, quella italiana si attesta, invece, sul 30 per cento. In linea con tali valori le perdite a Torino e provincia che risultano del 31 per cento, per passare al 34 per cento di Roma, città tra l’altro famosa per i propri acquedotti sin dall’antichità, alla medesima percentuale di Terni, e a

D

L Non più di tre minuti per la doccia: per contrastare lo spreco d’acqua il presidente venezuelano Hugo Chávez ha dato questo consiglio ai suoi connazionali

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ben il 55 per cento della Puglia. Inoltre ogni italiano consuma in media, ogni giorno della propria vita, addirittura 6.500 litri circa di acqua virtuale ovvero l’acqua necessaria al vestiario, all’alimentazione e ai vari servizi di cui quotidianamente usufruisce. Si tratta di un record negativo che vede la nostra penisola addirittura in vetta alla classifica mondiale, superata unicamente, in questo non invidiabile primato, dagli Stati Uniti d’America. Avevamo già fornito alcuni sorprendenti dati relativi all’acqua virtuale necessaria per ottenere moltissimi, differenti prodotti ma ci sembra interessante evidenziarne altri altrettanto particolari. L’ottenimento di una tazza di caffè, secondo i più recenti studi e rilevamenti, sembrerebbe necessitare, in media, di 140 litri di acqua, una tazza di tè di 34 litri, mentre un bicchiere di birra di 75 litri, contro i 120 litri necessari per un bicchiere del nostro tanto amato nettare di Bacco. 120 litri risulta anche il fabbisogno per la produzione di una bibita in lattina, ma se si preferisce orientarsi verso il consumo di una sana spremuta tale fabbisogno cresce fino a circa 200 litri. Si è calcolato che un’arancia prodotta, ad esempio, in Spagna necessiterebbe, infatti, di circa 50 litri di acqua, tanto che nel 2007 questo paese ha dovuto importare per le proprie colture il prezioso liquido dai vicini francesi. Circa 4 litri sono il “costo” medio in acqua per un singolo fagiolino, mentre per un tubero quale la patata il “costo” sale sino a 25 litri. Una bistecca di manzo del peso di 350 grammi supererebbe i 5.000 litri, un hamburger da 150 grammi 2.400 litri, mentre 200 grammi di quelle patatine, che tanto spesso lo accompagnano nei caratteristici menù dei pasti dei numerosi fast food presenti pressoché in tutto il pianeta, 185 litri. Per un uovo, invece, tenendo conto dell’acqua per dissetare la gallina e non solo, si va dai 130 sino ai 200 litri. Una tonnellata di zucchero ottenuta da barbabietole richiede dai 7.000 sino ai 12.000 litri. Volendo abbandonare l’ambito alimentare, sappiamo che per la produzione di una tonnellata di acciaio occorrono ben 150.000 litri, mentre per una tonnellata di carta i litri necessari sarebbero non molti di meno ovvero circa 145.000, quando per un singolo foglio di formato A4 il consumo arriva a una decina di litri. Impressionanti anche i dati riferibili all’abbigliamento che vede un paio di pantaloni jeans necessitare di poco meno di 11.000 litri e una sola maglietta di cotone di 2.000 litri. Non si pensi che il consumo da parte dei neonati sia del tutto irrilevante quando, ad esempio, la produzione di un pannolino richiede più di 800 litri di acqua e chiunque abbia o abbia avuto un figlio conosce quanti ne siano necessari. Esistono, poi, chiaramente, le problematiche legate all’inquinamento. Le sostanze inquinanti provengono, per la maggior parte dalle discariche, dagli insediamenti, dalle estrazioni, dall’agricoltura intensiva e, come ovvio, dalle industrie. Per quanto concerne queste ultime, ci riferiamo alla presenza nelle acque, che potrebbe essere dovuta alle loro attività, di carbonio, di olio e di benzina. Molti danni possono derivare anche da varie sostanze di buona solubilità che, per via di tale caratteristica, possono arrecare problemi rilevanti alle acque sotterranee. Negli ultimi anni il comparto industriale ha certamente ridotto l’impiego di prodotti che possono avere effetti estremamente negativi sull’ambiente, ma rimediare a quanto è stato fatto in passato richiede, comunque, un gran numero di anni. Varie le iniziative volte a ridurre anche l’impatto ambientale dei contenitori, l’ultima delle quali, in ordine di tempo, è forse quella recentissima della città di Pavia. Nel comune guidato da Alessandro Cattaneo e Gian Marco Centinaio, rispettivamente sindaco e vice sindaco dell’antica capitale del regno longobardo, dal 7 gennaio di quest’anno, in occasione del ritorno in aula al termine delle festività natalizie, gli alunni delle scuole elementari e materne hanno abbandonato in mensa le bottigliette di plastica da mezzo litro per passare a dissetarsi con acqua proveniente dell’acquedotto, con un risparmio quotidiano di circa 2.500 contenitori. 77


Eventi

Alla scoperta dei

vini veneti al 300 x 100 UN

CENTINAIO

DI CANTINE E ORIGINALI SPUNTI DI RIFLESSIONE PER CAPIRE IN CHE MODO I TRATTI DELLA PERSONALITÀ CONDIZIONANO LE PREFERENZE NEI GUSTI

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i può scoprire un’intera regione rimanendo in un unico luogo? È quanto viene proposto dall’Ais Veneto ne Il Veneto al 300 x 100, evento in programma il 13 marzo al Castello di San Salvatore di Susegana (TV). La manifestazione raccoglie l’eredità dell’appuntamento annuale, fino ad oggi dedicato ai Grappoli del Veneto e del Trentino Alto Adige. Con il nuovo format, l’Ais Veneto presenta le 25 aree di produzione enologica del Veneto: dalla Valpolicella all’Arcole, dal Conegliano Valdobbiadene al Lessini Durello, attraverso la presenza di cento cantine e trecento vini, selezionati sulla base delle degustazioni ufficiali, organizzate in tutta la regione. Nella splendida cornice del Castello di San Salvatore, borgo medievale del XIII secolo, di sala in sala si possono scoprire i tanti vini del Veneto, accompagnati da momenti dedicati all’approfondimento della preparazione del sommelier. Il primo è la finale del concorso Miglior Sommelier del Veneto, nelle categorie professionista e non. Il concorso rappresenta un momento importante per la preparazione del sommelier, chiamato sempre più a diffondere la cultura del vino. La competizione presenta prove selettive come l’analisi sensoriale, la decantazione, la correzione della carta dei vini, volutamente disseminata di errori, l’abbinamento enogastronomico. Per un menù completo viene richiesto, ad esempio, di scegliere quattro vini nazionali, quattro internazionali e uno di un predefinito paese estero, adatto a tutto pasto. Il vincitore della categoria professionisti avrà, poi, diritto all’ingresso nelle semifinali del concorso Miglior Sommelier d’Italia. La finale è aperta anche al pubblico, che può così capire meglio quanta preparazione e quanta professionalità stiano dietro alla figura del sommelier. Il momento più originale è però il convegno Il vino: una scelta di carattere, dedicato al binomio vino e psicologia. Ciascun vino parla, infatti, un suo linguaggio e ha un preciso temperamento, proprio come le persone. Ne consegue che ognuno può trovare il proprio corrispettivo enologico. Il sommelier è il professionista in grado di guidare questa scelta; conoscere quali sono le correlazioni tra vino e psiche consentono di divenire sempre più una figura completa e al passo con le mutate esigenze del consumatore. A discutere di questa evoluzione della figura del sommelier e dell’impegno dell’ Ais nel preparare il professionista a rispondere anche a tale esigenza, il presidente nazionale Terenzio Medri e il presidente regionale Dino Marchi, cui si sono affiancati autorevoli relatori, tra questi Luca Bandirali, presidente Ais Lombardia, per spiegare che cosa, oggi, il cliente si aspetti dall’enoteca e come il professionista sia chiamato a rispondere alle sue esigenze. La prospettiva psicologica del vino, d’altro canto, è stata studiata anche scientificamente. Proprio a fine estate ha fatto parlare di sé la notizia dello

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L Dino Marchi, presidente Ais Veneto

studio della Charles Sturt University, condotto da Anthony Saliba (Australia) sul legame tra vino e psicologia che, nell’indagine tra uomini e donne tra i 40 e 45 anni, ha dimostrato come i tratti della personalità siano in grado di condizionare i gusti. Ne emerge, ad esempio, che chi predilige vini bianchi dolci ha minore tendenza ad aprirsi rispetto a chi ama i bianchi secchi. «Il nostro scopo» ha dichiarato Anthony Saliba, «era quello di esplorare una nuova area di ricerca per capire in che modo i tratti della personalità sono in grado di condizionare le preferenze nei gusti». In vino veritas è il famoso proverbio latino entrato nell’uso comune, il cui significato si riferisce alla considerazione che qualche bicchiere in più può indurre a rivelare cose che da sobri non verrebbe mai di dire. Secondo lo studio di Saliba, la scienza proverebbe quindi che non è nemmeno necessario berlo per scoprire la verità su di noi: basta sceglierlo! E se questa forse è più una curiosità che uno spunto utile per la propria professione, è innegabile che il sommelier debba sempre più ascoltare il cliente. E che il vino influenzi il nostro stato d’animo è risaputo. Questo aspetto è stato, in questi anni, studiato da Giuseppe Ferrari e Fabio Sinibaldi, due psicoterapeuti titolari dell’enoteca Vini e Champagne di Milano, autori fra l’altro del libro Vino e Psicoanalisi e presenti al convegno organizzato da Ais Veneto. Dal loro studio emerge che la scelta del vino esprime sia necessità basilari e gratificazioni immediate sia nei bisogni più strutturati e razionali. L’impatto che un vino ha su di noi si riflette su una fisicità immediata, ad esempio certi profumi ci danno sensazioni nette, così come la forza alcolica si trasmette rapidamente nel nostro corpo. Altre sensazioni sono più mediate, come la vista del perlage di uno spumante, elegante anzitutto per la nostra mente. Anche il contesto della scelta di un vino è fondamentale. A tutti è capitato almeno una volta di acquistare qualcosa con una piena convinzione, che è scemata una volta a casa. Un ambiente può favorire il nostro benessere e le nostre decisioni. La purezza delle linee di un mobile di antiquariato ci riporta alle radici della storia, i colori e le sostanze naturali permettono alle nostre componenti più primordiali di esprimersi senza conflittualità. «Il vino è una scoperta continua, è una fonte di metafore e somiglianze inesauribile per la psiche umana» affermano Ferrari e Sinibaldi. «Essa è il risultato, spesso contraddittorio, di un insieme di bisogni e motivazioni profonde, che mirano all’equilibrio dell’intero organismo. Il nostro agire risente di questo intreccio che ci influenza e ci guida. Se ascoltiamo e osserviamo con attenzione una persona riconosciamo in essa il luogo da dove proviene, la sua cultura di origine. La psiche umana rispecchia dunque la sua natura attraverso le parole che usiamo e i discorsi che facciamo. Così anche il vino, attraverso la sua degustazione, rimanda la conformazione del terreno da cui nasce, della cura della vinificazione e dell’attesa del suo affinamento». Lo studio delle correlazioni tra psiche e gusto sta suscitando un crescente interesse e si moltiplicano in questo senso le ricerche. Secondo il lavoro del Monell Chemical Senses Center (Usa), diretta dalla genetista Danielle Redd, la preferenza per un qualche tipo di vino nascerebbe addirittura in gravidanza, quando il feto è immerso nel liquido amniotico. Questa teoria forse può lasciare un po’ perplessi, quel che è vero è certamente la necessità per il sommelier di interpretare sempre più, a 360 gradi, le esigenze del cliente. Con l’evento Il Veneto al 300x 100, grazie al concorso per Miglior Sommelier del Veneto e al convegno, l’Ais Veneto vuole quindi dare un contributo concreto in questo senso.

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Vitigni

Il Carmenère si è tolto la maschera di Michela Lugli

ECCOLA

STORIA DI UN

VITIGNO PER LUNGO TEMPO CONFUSO CON IL

CABERNET FRANC: PRODOTTO IN PUREZZA, IN LOMBARDIA E IN FRIULI STA DANDO VITA A UN VINO CHE STA

RISCUOTENDO NOTEVOLE INTERESSE E CURIOSITÀ TRA I CONSUMATORI

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sopo in una nota favola, raccontava di un lupo che, mentre si dissetava al fiume, vide poco sotto sulla medesima riva, un agnello che beveva. Trovato un pretesto qualsiasi per litigare, lo divorò. Chissà che quel fiume non scorresse proprio tra i castagni che fieri e imponenti immergono Cà del Bosco e che il lupo, non fosse proprio quello che per anni ha celato la propria identità sotto il vello dell'agnello. Finalmente libero, oggi il lupo ha potuto rivelarsi al mondo e scrollarsi dalle spalle quella pesante maschera che per lungo tempo lo ha fatto chiamare Cabernet Franc. Il vitigno Carmenère, togliendosi il manto da agnello, può finalmente rivelare la propria identità di lupo, forte e fiero, come racconta l'etichetta del vino Carmenero di Cà del Bosco. Come spesso accade, a svelare l'arcano, è bastato un evento fortuito, del tutto casuale: la scelta di acquistare barbatelle non presso il consueto vivaio ma direttamente in Francia. Ma andiamo con ordine e raccontiamo la storia come si deve. Siamo agli inizi degli anni Novanta e in Franciacorta, nei terreni della Società Agricola Cà del Bosco di Maurizio Zanella, si decide di impiantare nuove barbatelle di Cabernet

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Franc, o almeno così si pensava fino a quel momento. L'acquisto, questa volta non viene però, come di consueto, effettuato ai vivai Rauscedo ma direttamente in Francia. «Acquistammo – racconta Stefano Capelli, enologo di Cà del Bosco da oltre 20 anni – direttamente dalla Francia delle barbatelle di Cabernet Franc e le piantammo. Negli anni dal 1993 al 1995, iniziammo a vinificare mantenendo però le uve separate dal Cabernet Franc che avevamo in azienda già da molti anni. Nel vinificare – prosegue Capelli – ci siamo accorti che si otteneva un vino molto diverso dal Cabernet cui eravamo abituati. Abbiamo iniziato a farci molte domande, non ritrovavamo le note erbacee che caratterizzavano tutti i nostri Cabernet Franc. Ci siamo allora chiesti quale fosse il problema, infatti, o i francesi ci avevano dato qualcosa che non c'entrava nulla con il Cabernet Franc oppure era il nostro Cabernet Franc che non c'entrava nulla con quello francese». Ed è stato a questo punto, che ricorrendo all'aiuto dell'Università degli Studi di Piacenza, si è giunti alla conclusione che quello che per molti anni si era ritenuto fosse un Cabernet Franc, in realtà era una Carmenère.


Il fenomeno non riguardava, chiaramente, solo l'azienda Cà del Bosco: «Chiunque aveva in quegli anni acquistato, presso il vivaio Rauscedo le barbatelle di una loro selezione, massale o clonata che fosse, ritenuta essere un Cabernet Franc particolare, in realtà aveva acquistato Carmenère», spiega Stefano. «C’è da dire che non era raro trovare vini Cabernet Franc riportanti in etichetta, magari tra parentesi, anche la dicitura Carmenère. Lo si considerava, infatti, come se facesse parte della famiglia del Cabernet 'francese', in realtà non è così perché hanno caratteristiche molto diverse: La Carmenère, rispetto al Franc, avendo un Dna diverso, si presenta in modo diverso: innanzi tutto ha foglie più piccole, grappoli più grandi e meno compatti, è meno fertile del cugino francese, meno vigoroso, gli acini non hanno la spiccata nota erbacea tipica dei vecchi Cabernet 'italiani', è meno precoce ma soprattutto, la caratteri-

stica più peculiare, sono i fiori che possiamo definire, per così dire imperfetti. Nel senso che spesso si assiste alla cascola del fiore durante la fioritura il che comporta una resa troppo eterogenea, incapace di garantire tutti gli anni una piena produzione. Inoltre, la buccia dei frutti è molto ricca in pirazine, sostanze aromatiche caratteristiche, che conferiscono un aroma molto vegetale di peperone verde. Questi i principali motivi per cui i francesi la hanno abbandonata, noi non abbiamo mai avuto grandi problemi in questo senso. È vero che la produzione è eterogenea, ma in fondo, a noi va bene così e l'impronta importante a livello aromatico, che anzi, ne costituisce la forza, ci è sempre piaciuta. Ma l'aspetto maggiormente positivo è che si tratta di vini ben strutturati, molto colorati, ricchi in sostanze tanniche ma non astringenti come può risultare il Cabernet Sauvignon, i tannini sono sempre molto rotondi e morbidi. Direi quindi che la Carmenère ha

le spalle di un grande Cabernet, ma la morbidezza di un Merlot. Per questo, si presenta da subito come molto vinoso, molto fruttato, con spessore e densità ma senza essere mai spigoloso con il suo tannino. Ecco che con la logica di voler preservare un vino così unico, abbiamo deciso di vinificare in purezza la Carmenère, dando vita al nostro vino Carmenero». Pur avendo dato il via alla scoperta del vitigno e alla produzione in purezza, oggi Cà del Bosco non è la sola a vinificare la Carmenère in purezza. Diffuso su qualche migliaio di ettari dalla Franciacorta al Friuli, fino al 2008 il vitigno non era iscrivibile tra le varietà autorizzate e riconosciute dalle province. Quindi non poteva fregiarsi della denominazione Igt e tanto meno della più prestigiosa Doc. Dal 2008 finalmente, il Carmenero e come lui tutti i vini da vitigno Carmenère, hanno ottenuto il riconoscimento di Igt liberandosi della dicitura 'vino da tavola'. «Abbiamo quindi, iniziato a vinificare nel ’95 - continua Capelli - e nel ’97 siamo usciti in commercio con un vino di Carmenère vinificato in purezza. Disponendo di vitigni di 35–40 anni, siamo riusciti a proporre da subito un grande vino dalle caratteristiche davvero interessanti. Avendo un aroma

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Vitigni così esuberante, di contro, c'è la possibilità che nel tempo questi aromi assumano toni fenolici ed un po' troppo resinosi, perdendo leggermente eleganza rispetto al Cabernet Sauvignon. Chiaramente questo vino ha una grande integrità di frutto che rimane negli anni. Il suo lato molto fruttato, molto fresco e il colore vivo e vivace, si conservano a lungo. Si tratta di un vino piacevole da subito, ma che può tranquillamente mantenersi facendosi molto apprezzare anche dopo 7 o 8 anni. Oggi siamo in commercio con l'annata del 2001». Si tratta comunque di una produzione piuttosto limitata, (6-9 mila bottiglie all'anno per Cà del Bosco) anche perché, la necessità di limitare le note vegetali di peperone prevede un processo di produzione molto attento. «Movimentiamo tutto per gravità – spiega l’enologo – proprio perchè abbiamo notato che più era 'soffice' la lavorazione del frutto, meglio riuscivamo a gestire l'aroma vegetale conferito dalle pirazine contenute nella buccia. La diraspatura e la pigiatura 82

delle uve, viene eseguita sopra al tino (la pigiatrice scorre su dei binari e si posiziona proprio sopra al tino) in modo da farvi cadere dentro il pigiato per gravità. Non si può chiaramente pensare a una raccolta meccanizzata delle uve, viene assolutamente fatta a mano in cassette da massimo 15 chili e non di più, per evitare l'autopressatura del frutto, dopodiché viene fatta una cernita anche questa manuale. La fermentazione è classica, come per un Cabernet Franc, un Merlot o un Cabernet Sauvignon, dipende un po' dalle annate. Mediamente grazie alla sua elevata carica di colore, di sostanze antocianiche e tanniniche nelle bucce, le macerazioni possono variare da 18 a 20 giorni, ma non vanno oltre i 20. La fermentazione alcolica dura mediamente 10 giorni, poi il resto è macerazione post-fermentativa. Pilotiamo le temperature dai 16-17 gradi fino a circa 30 per poi mantenerle costanti a 30. Dopo la svinatura il vino, ancora caldo, viene travasato in piccole botticelle di rovere, la percentuale di legno

nuovo dipende dalle annate, dove permane per un periodo variabile tra gli 8 ed i 12 mesi, svolgendo anche la fermentazione malolattica. Quindi, terminato il periodo di affinamento in legno, il vino viene imbottigliato con sistemi di riempimento, in completa assenza di ossigeno e senza sbattimenti e poi portato in cantina dove rimane minimo 6 anni». «A completamento del quadro – sostiene Capelli Stefano – si può dire che avendo le bucce abbastanza consistenti, è un vitigno che bene resiste alla malattie di fine stagione e in generale possiede un'ottima resistenza alle malattie e non rientra tra le varietà sensibili all'oidio o alla peronospora. Come dicevamo, il suo principale difetto, sono i fiori che, se vogliamo, sono imperfetti e quindi non hanno una carica di frutto omogenea negli anni. Ma per noi non è mai stato un problema, basta saperci lavorare. La vite è in qualunque caso una pianta che va condotta, quindi direi che non si tratta di un problema particolarmente significativo».


Uva Longanesi

Vendemmia di Uva Longanesi presso l'azienda Graziani

Bursôn, il vino delle terre del Passatore di Riccardo Castaldi Uva Longanesi è uno degli antichi vitigni romagnoli che, assieme a Cornacchia, Pelagôs e Lanzesa, tanto per citarne alcuni, è riuscita fortunosamente a sopravvivere all’espansione del Trebbiano romagnolo verificatasi all’inizio del secolo scorso, nel periodo post - fillosserico, arrivando fino ai nostri giorni. L’origine di questa varietà è indissolubilmente legata a Boncellino, piccolo paese situato a sud - est di Bagnacavallo, nella pianura di Ravenna, noto per aver dato i natali al Passatore, al secolo Stefano Pelloni, il

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più famoso dei briganti di Romagna, la cui effigie è il simbolo dell’Ente di tutela dei vini romagnoli. La storia recente e documentata di questo vitigno parte nel 1913, anno dell’acquisizione di un podere da parte della famiglia Longanesi a Boncellino. All’interno di questo podere, abbarbicata alla quercia di un roccolo utilizzato per la caccia agli uccelli di passo, era presente una vecchia vite, la cui uva venne ben presto notata dai nuovi proprietari per la peculiarità di essere resistente ai marciumi e di conservarsi intatta fino ad autunno inoltrato. 83


Uva Longanesi Uva Longanesi in prossimità ' della raccolta

Quando nel 1953 la vecchia vite venne abbattuta per dare spazio a nuovi vigneti, Antonio Longanesi, giustamente considerato padre del vitigno, si premurò di propagarla, chiedendo al fratello Pietro di realizzarne alcune piante tramite innesto. III DAL PRIMO VINO AI NUOVI VIGNETI La prima vinificazione di quest’uva fu sbalorditiva, in quanto il mosto ottenuto raggiunse una gradazione zuccherina pari a 24 Brix – corrispondenti a circa 14 gradi alcol – valore che indusse i fratelli Longanesi, avvezzi a gradazioni molto più basse, a ritenere difettoso il densimetro utilizzato per la misurazione. Il vino ottenuto, oltre a un elevato grado alcolico, era anche intensamente colorato, corposo e strutturato e ben presto destò l’interesse dei vicini di casa e degli amici, ai quali Antonio Longanesi concesse il prelievo di marze per fare innesti, dando il via alla diffusione del vitigno, alla quale contribuì anche Stefano Baldi, primo vivaista a produrre barbatelle innestate di Uva Longanesi a partire dai primi anni Sessanta. I risultati enologici furono confermati anche dalla produzione dei nuovi vigneti, tanto che la fama di quest’uva raggiunse negli anni Settanta gli studiosi della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, che per alcuni anni si interessarono del vitigno, dando inizio

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a un percorso di ricerca e sperimentazione di cui si fece in seguito carico il CRPV di Tebano (Ravenna), ma che venne abbandonato nel corso degli anni Ottanta. III IL RICONOSCIMENTO UFFICIALE Siccome il vitigno era entrato nel cuore di molti produttori locali che credevano fermamente nelle sue potenzialità, nel corso degli anni Novanta il progetto relativo all’Uva Longanesi venne riavviato. Fino a quel momento non era nota la genetica del vitigno, ritenuto sulla base delle caratteristiche morfologiche un biotipo di Negretto o addirittura un vitigno ispanico, portato in loco dalle truppe mercenarie assoldate dai papi per difendere i confini dello Stato Pontificio. Per confutare tali ipotesi venne eseguita l’analisi isoenzimatica presso l’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano Veneto e l’analisi del dna presso l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, i cui risultati decretarono come si trattasse di una varietà a se stante, non assimilabile né con il Negretto né tanto meno con i vitigni iscritti al Catalogo nazionale delle varietà di viti, al quale venne iscritto nel 2000. Nel 2002 poi, la caratterizzazione molecolare eseguita presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna fugò ogni dubbio circa la possibile parentela tra l’Uva Longanesi e il Sangiovese, che fino a quel momento era stata ritenuta plausibile.


Il cartello di Bagnacavallo segnala la zona di produzione del Bursôn

III ALCUNE IPOTESI SULL’ORIGINE L’Uva Longanesi potrebbe essere verosimilmente derivata da un incrocio spontaneo tra i numerosi vitigni presenti in zona fin dall’antichità; si narra infatti che Annibale usasse il vino prodotto in questa’area per curare le ferite dei suoi cavalli. Non è comunque da escludere che il vitigno possa essere stato portato dai viandanti che transitavano in queste terre in epoca medievale, dato che il podere sorge sulla strada che conduceva al passo del fiume Lamone, percorso obbligato per chi si muoveva tra Ravenna e Bologna. L’Uva Longanesi potrebbe essere inoltre una delle innumerevoli piante di vite presenti nella pineta San Vitale e di Classe fin dall’epoca romana, portata in zona nell’800, quando i signori locali vi si recavano per battute di caccia con al seguito la servitù, che si dedicava al raccolto dei prodotti del sottobosco oppure potrebbe essere stata trasportata semplicemente da un uccello, come seme nelle feci. III LE PECULIARITÀ DEL VITIGNO L’elevata vigoria, che impone una particolare attenzione nella gestione agronomica del vigneto, e la buona produttività, che rende sistematicamente necessario il diradamento, sono gli elementi che contraddistinguono questo vitigno. Si deve considerare inoltre una certa rusticità, che conferisce resistenza alla Botrytis, riconducibile in parte allo spessore della buccia degli acini; per questo motivo, nonostante il grappolo compatto e la maturazione tardiva – si vendemmia ai primi di ottobre – l’uva giunge in cantina in perfette condizioni sanitarie. L’uva si caratterizza per la composizione fenolica, che determina una colorazione particolarmente intensa e un elevato contenuto in tannini. Attualmente il vitigno è oggetto di programmi di ricerca viticoli ed enologici da parte del Gruppo Cevico, che ne lavora circa 300 tonnellate prodotte dagli associati. III LA NASCITA DEL CONSORZIO IL BAGNACAVALLO Il riconoscimento del vitigno ha coinciso con il periodo di euforia che ha caratterizzato il mercato del vino rosso nei primi anni del Nuovo Millennio, che consentiva all’uva nera di raggiungere quotazioni di mercato ben più alte rispetto a quella bianca. Per questo motivo l’Uva Longanesi ha conosciuto una forte espansione, che l’ha portata a raggiungere in pochi anni una superficie di circa 500 ettari; non secondario deve essere considerato il fatto che i produttori locali hanno intravisto in questo vitigno una valida alternativa alla Fortana o Uva d’Oro nonché possibilità di fare un vino rosso “importante”, adatto ad essere invecchiato, da sempre mancante nel panorama enologico della pianura romagnola. Il primo vino commerciale ottenuto da Uva Longanesi venne prodotto da Roberto Ercolani, titolare dell’omonima azienda, e dall’enologo Sergio Ragazzini, i quali nel 1997 uscirono indispettiti da un convegno nel quale era stata pesantemente criticata la viticoltura di pianura, decisi a dimostrarne le potenzialità correlate alla

coltivazione di questo vitigno. I primi successi commerciali del vino ottenuto dall’Uva Longanesi e l’interesse sorto attorno ad esso, sono stati la molla che ha determinato la nascita di una serie di aziende vitivinicole, molte delle quali di piccole dimensioni, in precedenza presenti solo a sud della via Emilia, sul versante collinare della Romagna. Le aziende che hanno puntato sull’Uva Longanesi si sono riunite nel 1999 dando origine al Consorzio Il Bagnacavallo, che ha definito un disciplinare di produzione che interessa sia la gestione del vigneto sia la vinificazione. Per il vino prodotto a partire dall’Uva Longanesi, il consorzio ha registrato il nome “Bursôn”, che altro non è che il soprannome dialettale della famiglia Longanesi. Partendo dal comune di Bagnacavallo, la coltivazione del vitigno si è inizialmente diffusa nei comuni limitrofi della pianura, ovvero Fusignano, Lugo, Cotignola, Russi, Alfonsine e Ravenna, per poi interessare anche l’area pedecollinare e collinare di Faenza e alcuni comuni della provincia di Forlì – Cesena. Attualmente la coltivazione del vitigno è autorizzata in tutta l’Emilia Romagna. III ETICHETTA BLU ED ETICHETTA NERA Il disciplinare del Consorzio Il Bagnacavallo prevede due tipologie di Bursôn, ovvero Etichetta Blu ed Etichetta Nera. L’Etichetta Blu deve avere una gradazione minima pari a 12,5 gradi alcol, deve essere stato affinato in barrique per almeno sei mesi e non può essere commercializzato antecedentemente al primo settembre dell’anno successivo alla vendemmia. Questo vino si presenta con una colorazione rosso rubino intensa e fruttato all’olfatto, con sentori di prugna, di amarena e di piccoli frutti rossi, che ben si fondono con delicate note speziate. Al gusto si presenta persistente, con un corpo sorretto da un’ottima struttura tannica e da una buona freschezza, con sentori fruttati e speziati prevalenti. L’Etichetta Nera deve invece presentare una gradazione minima pari a 14,0 gradi alcol, raggiunta mediante un appassimento successivo alla raccolta, deve essere affinato in barrique o in tonnau per almeno venti mesi e non può essere commercializzato in data antecedente al primo settembre del secondo anno successivo alla vendemmia. Di colorazione rosso rubino intensa, questo vino è ampio e persistente all’olfatto, con sentori di confettura di prugne e di more e note tostate e di tabacco; al gusto si presenta corposo e strutturato, lungo, con sentori fruttati armonicamente amalgamati con garbate note di cioccolato e di spezie che rimandano al pepe nero e alla vaniglia.

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Eventi

Le città del vino protagoniste

Svizzera

in

L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE CITTÀ DEL VINO HA RISCOSSO SUCCESSO AL

SALONE

INTERNAZIONALE SVIZZERO DELLE

VACANZE.

I

PICCOLI

PRODUTTORI VITIVINICOLI ITALIANI HANNO POTUTO FAR CONOSCERE IL VALORE DEI PROPRI PRODOTTI E LA BELLEZZA DEI LORO PAESI

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onclusa l’edizione 2009, già torna a crescere l’interesse per l’ottavo appuntamento con il Salone internazionale svizzero delle vacanze, che si svolgerà nella consueta location del Centro Esposizioni di Lugano dal 29 Ottobre al 1° Novembre 2010 e che si preannuncia ricco di novità e di iniziative mirate allo sviluppo di nuove ed efficaci opportunità di promozione territoriale. Grandi protagoniste dell’evento sono state le destinazioni, i cui promotori hanno avuto l’occasione di incontrare il variegato e attento pubblico che ogni anno partecipa al Salone, oltre 66mila persone nell’arco di quattro sole giornate, e il significativo contingente di buyer e professionisti che ha animato il lato trade dell’evento. Oggi più che mai enti territoriali, uffici del turismo, assessorati e comuni svolgono un ruolo attivo e importante nella promozione delle località che rappresentano e il Salone internazionale svizzero delle vacanze è in questo senso lo strumento di promozione più efficace, in grado di fondere un lato business particolarmente sviluppato con un’anima da sempre attenta alla soddisfazione del proprio pubblico. Particolare successo ha riscosso in questo senso il matrimonio tra il Salone e l’Associazione nazionale Città del vino, un’esperienza che si è rivelata ricca di soddisfazione sia per i visitatori della manifestazione di Lugano sia per gli organizzatori: grande l’interesse per il valore dei prodotti, la tradizione che ne contraddistingue il processo produttivo e una cultura capace di fondere ruralità ed enogastronomia senza rinunciare alla qualità. Promuovere e coordinare progetti finalizzati a valorizzare le risorse ambientali, culturali ed agroalimentari dei comuni, collaborare per diffondere la qualità, il rispetto dell’ambiente e la genuinità alimentare: questi gli obiettivi di un’iniziativa di cui hanno beneficiato specialmente i comuni più piccoli, che difficilmente ricevono visibilità nei tradizionali canali di promozione turistica, paesi che danno nome a un vino, che producono nel proprio territorio vini a denominazione di origine, ai quali sono legati per storia, tradizione e cultura. Il presidente del Salone, Alessandro Strazzanti, è intervenuto a margine dell’evento sottolineando come la partnership con l’Associazione nazionale Città del vino sia stata «un’occasione di collaborazione preziosa e istruttiva, un successo importante ottenuto gra-

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zie alla partecipazione e al contributo di tutti i comuni e le città del vino che hanno preso parte alla manifestazione». «Un mio personale ringraziamento» ha aggiunto ancora il presidente, «va in questo senso al direttore dell’Associazione, Paolo Benvenuti, che ha sostenuto e favorito la partecipazione delle “Città del vino” al Salone e ai rappresentanti del coordinamento Regione Liguria dell’Associazione per l’impegno nel gestire l’area assegnata ai comuni partecipanti». Ampliare ulteriormente la visibilità e la presenza delle “Città del Vino” all’interno dell’edizione 2010 della manifestazione, allo scopo di offrire al pubblico nuove ed importanti occasioni per entrare in contatto con il patrimonio enogastronomico italiano: questo l’obiettivo che il Comitato scientifico, che presiede la manifestazione, si è posto per l’edizione 2010 e per il quale si è già messo al lavoro. Per il 2010 è stato annunciato anche l’ulteriore sviluppo del lato business, attraverso l’istituzione di una vera e propria Borsa internazionale delle vacanze, un appuntamento interamente trade organizzato in risposta alle specifiche esigenze del mercato, che si preannuncia come un evento nell’evento, in grado di offrire ai partecipanti sempre più numerose opportunità per sviluppare il proprio business del turismo in maniera mirata ed efficace. Un appuntamento dunque esclusivo, per presentare la propria offerta a una platea di professionisti qualificata così come al grande pubblico, un evento ideale per promuoversi in maniera diretta sul palcoscenico turistico più accreditato della Confederazione elvetica, permettendo anche ai piccoli produttori vitivinicoli italiani di farsi conoscere e di far apprezzare direttamente il valore dei propri prodotti vinicoli e la storia che ne contraddistingue il processo produttivo. Ma dando anche l’occasione di portare all’attenzione del grande pubblico tutte le città del vino, sparse lungo la Penisola, il più delle volte perle ricche di bellezze naturalistiche, artistiche e architettoniche, degne mete di una vacanza. 87


Pillole

Wine Day Lombardia e una Viniplus interattiva Un appuntamento annuale, ormai imperdibile per gli addetti al settore e per gli appassionati delle eccellenze della produzione enologica lombarda, quello con il Wine Day, Vini di Lombardia, giunto alla decima edizione. E a raccontare le migliori caratteristiche dei vini di questa terra ricca e operosa, Viniplus, la guida ragionata alle produzioni vitivinicole di qualità in Lombardia, ideata dall’Ais Lombardia, alla sua quinta edizione. «Viniplus» ha spiegato Luca Daniel Ferrazzi, assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia «è un importante strumento messo a disposizione dai professionisti di settore. Un impegno che conferma la validità e la serietà Il tavolo dei relatori del progetto, cui l’Ais regionale lavora da quasi dieci anni per promuovere e premiare l’enologia di qualità abbinata all’etica produttiva». Concorde Livio Cagnoni, presidente di ASCOVILO. «La Lombardia vitivinicola recita a livello qualitativo un ruolo di assoluta protagonista e la crescita della vitivinicoltura lombarda è oggi una realtà consolidata. La Lombardia può essere considerata leader a livello qualitativo con le sue 5 Docg e le 14 Doc, il primato nazionale nelle bollicine Docg Metodo Classico e gli oltre 80 milioni di bottiglie prodotte, tutte in un territorio a denominazione d’origine. I nostri viticultori ormai da anni propongono bottiglie Docg e Doc, garantendo un’eccellenza complessiva che pochi territori possono vantare». Ciò si evidenzia bene anche attraverso gli ottimi risultati raccontati da Viniplus, che dimostrano quanto le denominazioni lombarde siano solide e ormai riconosciute da un sempre più ampio pubblico di consumatori e operatori all’interno della regione ma anche sui mercati nazionali e internazionali. Viniplus è una pubblicazione unica, che ha alla base, da sempre, un’impostazione innovativa. L’edizione 2010 si presenta in un formato ancora più importante: 432 pagine e più di duecento le aziende lombarde recensite e 670 i vini segnalati. Ma la novità assoluta di quest’anno è che le aziende lombarde, oltre a vedere pubblicati i loro vini in base a una scala di punteggio espressa in rose camune, potranno essere geolocalizzate da un qualsiasi telefono cellulare con fotocamera attraverso l’innovativa tecnologia “Winecode” e per tutti i vini con le quattro rose camune sarà possibile la consultazione mediante video-degustazione. «Si tratta della nuova frontiera della comunicazione nel mondo del vino» ha sottolineato il presidente dell’Ais Lombardia, Luca Bandirali «e siamo orgogliosi che Viniplus sia la prima guida interattiva dei vini di eccellenza, unica in Italia e nel mondo». «Migliaia di ristoranti lombardi» ha aggiunto l’assessore regionale Ferrazzi «ne riceveranno una copia affinché i “Vini di Lombardia” possano assumere una visibilità crescente nello scenario enogastronomico. Un progetto ambizioso, da noi fortemente voluto, che vedrà la nascita della Carta dei Vini di Lombardia, per aumentare la possibilità di scelta di etichette regionali nei menù dei ristoranti». (Francesca Cantiani)

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Enovitis registra una decisa ripresa Il quasi tutto esaurito degli spazi espositivi registrato nei giorni antecedenti l’apertura dell’edizione 2009 di Enovitis (Salone Internazionale delle Tecniche per la Viticoltura e l’Olivicoltura) e Simei (Salone Internazionale Macchine per Enologia e Imbottigliamento), svoltisi in quattro giornate presso i padiglioni del polo fieristico di Rho della Fiera Milano, aveva fatto ben pensare. In effetti sono stati confermati i numeri della passata edizione. Circa 51mila i visitatori che hanno attraversato i tapis roulant che corrono nei ponti della struttura fieristica. Oltre 9mila gli stranieri provenienti non solo dall’Europa ma persino dal Kazakhistan, dal Vietnam, dal Sud Africa, dall’Argentina. Del resto, se si lancia uno sguardo ai numeri dell’export italiano, questo dato non dovrebbe stupire. Nel 2008 l’Italia ha esportato circa 18,5 milioni di ettolitri di vino e di questi, circa 6 milioni sono finiti sulle tavole di case e di ristoranti in Germania, oltre 2 milioni negli Stati Uniti e nel Regno Unito e poco più di un milione ha, infine, raggiunto i calici dei vicini d’oltralpe francesi. Se poi si osservano le quantità esportate dal 2003 ad oggi, si osserva che siamo di fronte a un trend in continua crescita (siamo passati da poco più di 13 milioni di ettolitri nel 2003 agli attuali oltre 18 milioni). La produzione italiana è insomma di tutto rispetto. Vicina ai 46 milioni di ettolitri nel 2008, ha registrato un leggero aumento rispetto all’annata precedente ma un calo se confrontata alle produzioni relative ai primi anni del millennio. Prevalgono, anche se di poco, i vini rossi (23 milioni di ettolitri) su quelli bianchi, che si attestano poco sopra i 20 milioni di ettolitri. Produzione questa da attribuire all’impegno e alla passione delle oltre 500 mila aziende dislocate sul territorio. Emerge, inoltre, come a prevalere siano le produzioni Igt (oltre 300 mila aziende) seguite dalle produzioni Doc (120 mila aziende) e a chiudere, a una certa distanza, le 30 mila aziende orientate verso le produzioni da tavola. Può essere interessante andare a sbirciare quale è stato l’andamento della vendemmia 2009 in Italia. Secondo un’indagine Ismea e Unione Italiana Vini, si è trattato di un’annata decisamente buona con punte di ottimo. Stabile la produzione, stimata in circa 46,5 milioni di ettolitri e che ha portato l’Italia ad essere il secondo Paese produttore, preceduto dalla Francia e seguito dalla Spagna. Pare che a contenere la crescita produttiva, abbiano contribuito sia l’adesione alle estirpazioni volontarie, che ha interessato oltre 11 mila ettari, sia la pratica di diradamento dei grappoli sempre più diffusa per ottenere prodotti di qualità a discapito della quantità. Argomenti che sono stati trattati anche nei convegni della fiera, che hanno trattato dalla qualità dell’olio di oliva, alla tematica vetro, ambiente e qualità del prodotto, legata all’imbottigliamento, dal marketing alla viticoltura ed enologia sostenibili. Non sono mancati spazi dedicati alla conoscenza diretta delle produzioni made in Italy: il wine bar e l’oil bar con degustazioni programmate in quattro diverse lingue. (Michela Lugli)

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Dagli Usa e da New Delhi per diventare sommelier A Perugia si è svolto un corso full immersion per diventare sommelier, indirizzato a giovani stranieri giunti in Italia dagli Usa e dall’India, organizzato dall’Ais Umbria, che si è fatta carico di una parte delle spese, aiutando i ragazzi che sostengono la maggior parte dei costi necessari allo svolgimento del corso. Gabriele Ricci Alunni, presidente Ais Umbria, ha lavorato per oltre un anno alla realizzazione del progetto, che vuole portare i futuri sommelier stranieri nei luoghi di produzione regionale e nazionale per far conoscere le nostre realtà enologiche. Presidente Ricci Alunni, come è nata l’idea di questo progetto formativo? «È nata in collaborazione con professionisti che operano nella ristorazione, il progetto è iniziato a settembre, portando a Perugia giovani che lavorano nel settore eno-gastronomico». Oltre alle materie di studio previste dall’Ais, quali attività si sono svolte? «I corsisti hanno visitato cantine, partecipato alla vendemmia, appreso le tecniche di produzione del formaggio, dei salumi e della produzione dei prodotti tipici umbri, oltre a stage con chef. I relatori hanno insegnato rigorosamente in lingua inglese, passando poi alla terminologia tradizionale italiana».

A cena con Luca Martini, Miglior Sommelier d'Italia 2009

Saranno loro i comunicatori del vino italiano all’estero? «Credo proprio di sì ma anche della tradizione gastronomica italiana». I partecipanti del progetto sono quattro ragazze americane e un ragazzo indiano, che lavorano nel proprio Paese nel settore eno-gastronomico. Perché avete deciso di frequentare in Italia un corso Ais? Leah, 23 anni, vive a Sanbornton (New Hampshire): «Ho una grande passione per il mondo del vino e lavoro in enoteca. Essere sommelier mi aiuterà nella carriera professionale». Davij, 22 anni, di New Delhi: «Sono titolare di un ristorante e spero di riuscire ad introdurre in India la passione per il vino e d’intraprendere la carriera di importatore».

In America i sommelier sono molto richiesti? Yanique, 37 anni, di Smyrna (Tennesse): «Ci sono pochi sommelier e lavorano nei top hotel. Sono venuta in Italia per approfondire la mia cultura sul vino, perché da noi non esistono corsi specifici come questo dell’Ais ma l’insegnamento viene fornito in college a indirizzo alberghiero, senza approfondire la conoscenza dei prodotti europei». Astrid, 26 anni, di Ocean Beach (New York): «In questi mesi di Gli studenti stranieri insieme al presidente Ais corso abbiamo visitato alcune cantine umbre e conosciuto Umbria Gabriele Ricci Alunni importanti realtà. Certo, i vini italiani sono più difficili da capire di quelli studiati da noi in America». I sommelier italiani sono più qualificati di quelli che lavorano nel vostro Paese? Morgan, 25 anni, tutor del gruppo, di Ocean Beach (New York): «Non è una questione di bravura ma di conoscenza. In Italia é più profonda e il servizio del sommelier è diverso. Noi, alla fine del corso, abbiamo acquisito una professionalità maggiore rispetto ai nostri colleghi e già ci sentiamo più sicuri nel nostro lavoro». (Ennio Baccianella)

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Bacco il grande amico di Venere Non è più semplice credenza popolare quella sugli effetti afrodisiaci del vino: da oggi esperti e ricercatori sono in grado di provare che ad accendere il desiderio sono meccanismi ben precisi in grado di regolare piacere, orgasmo, timori e insicurezze. Lo conferma il contenuto del libro Vino ed Eros di Riccardo Bartoletti, professore di Urologia all’Università di Firenze, ritenuto a tal punto attendibile che la SIA, Società Italiana di Andrologia, si propone di diffondere il libro per migliorare uno degli ambiti più importanti della vita di ognuno di noi, la sessualità. Ecco allora che, dopo gli studi sul valore nutrizionale del vino e quelli sui benefici effetti di certe sue componenti che agiscono da antiossidanti, il reserveratrolo, importante anche nella lotta contro il cancro, il nettare di Bacco diventa, a ragion veduta, fattore su cui puntare per migliorare l’approccio di coppia. Nel testo, specialisti di andrologia, psicologia, urologia, ginecologia e farmacologia affrontano il tema a vari livelli di approfondimento, rivolgendosi a un pubblico di tecnici e non, da un punto di vista inconsueto e di grande interesse. Apre un’introduzione generale sulla storia del vino, cui seguono il contributo di uno dei massimi esperti di Leonardo Da Vinci, Carlo Perdetti, sui temi dell’erotismo e del vino presenti nei Codici Leonardeschi e un’antologia di citazioni letterarie dalla classicità greco-romana fino ai giorni nostri, passando per Saffo, Ovidio, Galilei, Shakespeare, Baudelaire, Hesse, Neruda, Pavese per arrivare, tra gli altri, alla cantautrice Gianna Nannini. Ed eccoci al cuore del testo: una ricerca sugli effetti positivi del vino rosso sulla sessualità delle donne, realizzata dall’Ospedale S. Maria Annunziata di Firenze. 800 le persone consultate, di età compresa tra i 18 e i 50 anni, residenti nel Chianti. Suddivise in tre gruppi a seconda della quantità di alcol consumato (1-1,5 bicchieri di vino rosso al giorno, meno di un bicchiere di vino o alcolico al giorno, nessuna assunzione di alcol), hanno compilato un questionario su ben 6 aspetti della sessualità, desiderio, interesse, lubrificazione, orgasmo, soddisfazione, dolore. Dai risultati è emerso che le bevitrici di vino rosso hanno una funzione sessuale migliore, pari a 27,3 punti, rispetto ai 25,9 delle bevitrici di bevande alcoliche e ai 24,4 delle non bevitrici; desiderio e lubrificazione sono risultati gli aspetti più rilevanti. «L’effetto del rosso dipenderebbe non dal potere dell’alcol ma da specifici composti chimici che aumenterebbero l’afflusso del sangue in alcuni settori chiave del corpo» sottolinea l’autore dello studio, Nicola Mondaini, dirigente medico dell’Ospedale S. Maria Annunziata. Importantissimo in tal senso, precisa Mondaini, il ruolo dell’endotelio: un vero e proprio organo che riveste i vasi sanguigni sui quali, sotto lo stimolo di determinate sostanze tra cui il vino, va ad agire, garantendo effetti vasodilatatori. Meccanismo, prosegue il medico, fondamentale anche nel buon funzionamento della sessualità maschile, come attestato dai ricercatori della University of Western Australia. Nei loro studi, il tasso di disfunzione erettile risulta inferiore del 25-30 per cento tra i bevitori rispetto agli astemi; inferiore nei bevitori anche il rischio di malattia coronarica. Risultati, dunque, confermati e che invitano ad avvicinarsi al consumo di vino, in una logica sensata, precisano dalla SIA, che tenga conto sempre della pericolosità di un’assunzione smodata, senza limiti, o anche appena sopra i limiti consentiti, in grado di danneggiare l’organismo procurando insorgenza di una dozzina almeno di tumori maligni e di 60 patologie elencate dall’Organizzazione mondiale della sanità. (Luisa Barbieri)

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Ennio Baccianella, Alessandra Casagrande e Stefano Frizza, gli ideatori di Acquavite Italia

Acquavite Italia, distillati ma non solo A Perugia, dal 29 al 31 gennaio 2010, all’interno della storica Rocca Paolina, si è svolta la terza edizione di Acquavite Italia, Mostra Mercato Nazionale del Distillato, che ha visto, come lo scorso anno, migliaia di persone, tecnici del settore e appassionati avvicendarsi negli stand delle aziende presenti alla manifestazione. L’evento gode di numerosi patrocini e per il secondo anno consecutivo ha annoverato tra i suoi partner la Sezione territoriale dell’Ais Umbria. Interessanti le novità proposte, tra cui il “Work Shop” riservato alle aziende partecipanti. All’interno delle sale della Rocca Paolina è stato ricavato uno spazio destinato agli operatori del settore commerciale ed eno-gastronomico, esclusivamente ad invito, per permettere di scambiare accordi commerciali con i clienti attuali e di incontrarne di nuovi. Incontri aperti a tutte le società iscritte anche con il “Non solo Toscano”, in cui è stato possibile proporre i propri distillati in pregiati abbinamenti a sigari. La terza novità di questa nuova edizione ha previsto dei tour tra gli stand. Guidati dagli esperti tecnici ANAG dell’Umbria, “Un giro di Grappa” ha illustrato al pubblico itinerante, le tipologie, i territori e le possibilità “emozionali” che regalano i migliori distillati italiani. Si sono anche ripetuti gli appuntamenti della scorsa edizione, che avevano riscosso maggior consenso da parte del pubblico: “Spiriti d’Autore”, incontri riservati ai soli distillatori italiani ed esteri, che desiderano presentare la propria azienda a un pubblico selezionato; “Impariamo l’arte della degustazione”, degustazioni guidate dai tecnici assaggiatori ANAG, che hanno permesso al pubblico presente di accrescere la propria cultura e di conoscere varie tipologia di distillati. “In compagnia di un simpatico Toscano” è stato dedicato a chi ama unire distillati e sigari in accostamenti prelibati, mentre “Cene di fuoco” ha proposto menù articolati in quattro portate, dall’antipasto al dessert, ad ognuna delle quali è stato unito un distillato e un vino, per mettere meglio in risalto le caratteristiche organolettiche di ogni prodotto. Un’altra novità, per stare al passo con i tempi e giungere direttamente agli appassionati ed addetti al settore eno-gastronomico, è stata quella di promuovere la manifestazione con uno spot video, visibile su www.youtube.com ed accessibile direttamente anche dal sito dell’evento www.acquaviteitalia.it. (F.C.)

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Sangiovese ad arte tra le ceramiche di Faenza Il 21 e 22 febbraio torna Vini ad Arte, anteprima internazionale del Sangiovese di Romagna, organizzata dal Convito di Romagna, consorzio volontario che riunisce alcune fra le migliori aziende dell’enologia del territorio. Se il Sangiovese è uno dei vitigni simbolo dell’Italia, la versione romagnola non è ancora conosciuta come altre denominazioni. Per questo, Vini ad Arte, attraverso la degustazione di una selezione di produttori, offre a giornalisti, operatori del settore e appassionati l’opportunità di scoprire il Sangiovese di Romagna attraverso le sue migliori espressioni. Ad ospitare l’evento una location originale: il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Di qui la scelta di allestire il banco d’assaggio tra pezzi da collezione, contemporanei e antichi, a dimostrazione delle molte analogie tra vini di qualità e arte. Durante Vini ad Arte è data la possibilità di conoscere, anzitutto, i soci del Convito di Romagna: Tre Monti, Stefano Ferrucci, Fattoria Zerbina, Poderi Morini, Calonga, Drei Donà - La Palazza, San Patrignano e San Valentino, ma anche un’ampia selezione di altre cantine impegnate nella valorizzazione del Sangiovese di Romagna e delle sue diverse espressioni territoriali. In un momento in cui denominazioni blasonate segnano il passo, la Romagna si sta affermando con il Sangiovese del futuro, tutto da scoprire, dotato di alta qualità e di un prezzo equilibrato. L’evento è, quindi, un’occasione per verificare questa rinascita. Il 21 febbraio la manifestazione è aperta anche al pubblico, lunedì, invece, è riservata agli operatori del settore. Particolarità di Vini ad Arte è la messa in degustazione delle anteprime del Sangiovese annata 2009, offrendo così la prima occasione per conoscere le caratteristiche dell’ultima vendemmia. Infine, Vini ad Arte è un modo per conoscere un territorio ricco di giacimenti golosi, di bellezze paesaggistiche ed artistiche, come le ceramiche di Faenza, una delle eccellenze della Romagna, con i pezzi unici dagli inconfondibili colori. Come il vino, la ceramica è un prodotto della terra, risultato di un perfetto connubio tra arte, cultura e natura. Nel corso della manifestazione, accanto alla degustazione di molti vini presenti, i visitatori possono partecipare alle visite guidate del museo. Un originale connubio tra vino e arte e specialità locali, tutte da gustare. Anzitutto salumi e formaggi, che in Romagna sono un vero e proprio tesoro, ma anche i piatti della tradizione.

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La Sicilia saluta il Cruasé Serata spumeggiante al ristorante Tina Pica del capoluogo siciliano. L’Ais Palermo, infatti, ha avuto il piacere di presentare per la prima volta in Sicilia l’ultima creatura enologica a marchio Oltrepò Pavese. Un Metodo Classico Docg di grande charme vinificato in rosé per la prima volta da un’unica uva a bacca rossa: il Pinot Nero. Marchio collettivo di proprietà del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, Cruasé è un neologismo ricavato da Crù (selezione, piccolo appezzamento di terreno) o, meglio ancora, Cruà, antico nome per eccellenza nel XVIII secolo del vitigno/vino dell’Oltrepò Pavese, e Rosé. Presenti alla kermesse, oltre ai rappresentanti locali della delegazione Ais Palermo, anche il presidente del Consorzio, Paolo Massone, che ha illustrato il percorso di nascita di questo Metodo Classico Docg, e l’enologo Fabrizio Maria Marzi, ambasciatore del territorio, direttore generale ed enologo della storica e rinomata cantina Travaglino di Calvignano, che ha guidato esperti e semplici appassionati nella degustazione tecnica delle nuove bollicine rosa. Eccezionale l’evento enogastronomico tra le culture di due diverse regioni, Lombardia e Sicilia, lontane ed opposte per storia e tradizioni, di cui Francesca Tamburello, delegato Ais Palermo, si è resa promotrice. «È un’investitura molto importante quella che abbiamo ricevuto dal Consorzio perché siamo consapevoli che per la città di Palermo è un fatto assoFrancesca Tamburello e Terenzio Medri allo scorso lutamente nuovo» afferma l’ideatrice delCongresso Nazionale in Basilicata l’iniziativa. «Siamo stati coinvolti, infatti, nel cru di rosé dell’Oltrepò Pavese a tutto tondo per conoscere meglio le virtù e le qualità dei produttori che legano a doppio filo il loro vino con il terroir in cui viene prodotto. Il matrimonio del Cruasé con la cucina isolana, tradizionale nell’uso dei componenti, ma rielaborata in chiave innovativa è stato accolto di buon grado da sommelier e commensali». Non è la prima volta, infatti, che l’Ais Palermo si presta a esperimenti di questo tipo. La delegazione, infatti, attraverso Francesca Tamburello, ha sempre cercato di allargare i propri orizzonti evadendo dal campo strettamente provinciale o regionale e provando a vedere come funzionano i connubi con altre realtà territoriali che non siano strettamente quelle locali.

La degustazione è avvenuta in presenza di Paolo Massone, presidente del Consorzio Vini Oltrepò, e Fabrizio Maria Marzi 94


I grandi orizzonti del Pinot Nero dell’Oltrepo Il Pinot Nero dell’Azienda vinicola Le Fracce di Mairano di Casteggio, in provincia di Pavia, è stato riconosciuto vino eccelso. L’annata 2005 ha infatti ottenuto le “4 rose camune”, il più alto riconoscimento, secondo la valutazione della guida Viniplus dell’Ais Lombardia, che indica la qualità dedotta dall’analisi sensoriale del vino attraverso degustazioni alla cieca. Il Pinot Nero Le Fracce è l’orgoglio dell’azienda vinicola di proprietà della Fondazione Bussolera Branca, organizzazione non profit attiva nello sviluppo e nella diffusione di scienza, tecnologia, formazione professionale nell’ambito dell’enologia e dell’agricoltura e nel sostegno di programmi di ricerca e sperimentazione scientifica. È stato ideato otto anni fa da Roberto Gerbino, giovane ed esperto wine maker. Qual è la peculiarità del Pinot Nero dell’Oltrepo? «Occorre una precisazione: il Pinot Nero è un vitigno coltivato da oltre un secolo in Oltrepo e il suo utilizzo è rivolto soprattutto alla produzione di vini base per spumante e solo in piccola parte viene impiegato per la produzione di vini rossi. Questo perché, essendo un vitigno molto esigente, solo da delimitate zone di media collina (250-350 metri sul livello del mare), su terreni di ricercata tessitura, si ottengono uve con eccezionali livelli di espressività idonee alla vinificazione in rosso. Ne risulta infatti che il “carattere” espresso dal Pinot Nero Le Fracce è frutto di una meticolosa e approfondita ricerca durata più anni sia in vigneto sia in cantina» Negli ultimi anni si è riscontrato un suo rilancio. Perché piace? Roberto Gerbino insieme «Per come si presenta: il colore rosso di media intensità ma acceso, il al presidente Ais Lombardia Luca Bandirali delicato aroma, il setoso gusto. Aggiungo la straordinaria versatilità nell’abbinamento con i cibi. Di tutto ciò il Pinot Nero Le Fracce ne è una perfetta sintesi. Queste caratteristiche, sinonimo di estrema eleganza, coincidono tra l’altro con le attuali esigenze dei consumatori , ormai stanchi delle eccessive “concentrazioni” che hanno spopolato per alcuni anni. Preciso che più di un rilancio si tratta di una nuova opportunità di proposizione di prodotto». Quali sono i nuovi orizzonti di questo vino? «Potranno essere grandi orizzonti a condizione che sia da tutti ricercata una massa critica solo di grande qualità, sviluppando la presenza unicamente nella fascia “Premium” e “Superpremium” e non perché questa è la nostra politica ma dato l’interessamento sempre più forte da parte dei Paesi anglosassoni (USA in testa) nei confronti di questo “gioiello”, che va difeso e salvaguardato».

Un calendario di…vino Di calendari ne troviamo veramente molti in circolazione, ma uno pensato per tutti i sommelier e gli eno-appassionati probabilmente non l’avevamo ancora visto. Ci ha pensato Giuseppe Sinigalia, maître sommelier professionista, attivo da oltre un ventennio nella ristorazione, a crearne uno rivolto a tutti coloro cui piace bere bene e parlare di vino. L’idea nasce dalle due principali passioni dell’autore: l’enologia e l’agiografia, lo studio relativo alla vita e al culto dei santi. Accanto al calendario tradizionale, che elenca il ciclo delle settimane, viene proposto un vino al giorno accanto al nome del santo commemorato. Vi sono poi informazioni legate alla viticoltura e all’enografia, detti popolari, regole di galateo e bon ton e molte altre curiosità. Per saperne di più sul calendario potete contattate Giuseppe Sinigalia: 368-39.80.192 sommeliesinigalia@libero.it 95


Libri

SULLO SCAFFALE IL MOSCATELLO DI TAGGIA vitigno autoctono della valle argentina armea Autore: Editore:

AA.VV. Quaderni di Agricoltura Regione Liguria, Assessorato Agricoltura

di Natalia Franchi

CUCINA VENEZIANA Sessanta ricette di mare e di terra Autore: Paolo Zatta Editore: Terra Ferma Prezzo: 12,00 euro

Il Moscatello di Taggia è una varietà di Moscato del quale mantiene il caratteristico aroma di muschio. Grappolo a forma allungata, acini tondi di colore giallo dorato. Introdotto fin dal Medioevo dal Sud della Francia, è un vitigno in grado di dare grandi soddisfazioni soprattutto se vinificato per produrre un vino dolce, un passito naturale. Coltivato da secoli in provincia di Imperia, in particolare nel comprensorio taggese, il Moscatello di Taggia è il protagonista di questo volumetto voluto dall’assessorato all’Agricoltura della Regione Liguria, in collaborazione con il Centro di Agrometeorologia applicata regionale e con il Laboratorio regionale analisi terreni e produzioni vegetali. Quella della Liguria per il vino è una vera a e propria vocazione. Si pensi che l’origine etimologica del nome della città di Genova deriva da Giano, il suo mitico fondatore, nome che in ebraico e aramaico significa “vino”. Le origini della coltivazione dell’uva in Liguria datano l’epoca degli antichi Romani, che contribuirono al diffondersi di tecniche culturali avanzate, determinando gli ottimi esiti tanto citati da Plinio e Marziale. Per tutto il Medioevo le principali colture della zona sono state la vite e i seminativi. In particolare la vitivinicoltura era una fonte di reddito molto incisiva per l’economia della regione e tra i vini più rinomati compariva il Moscatello di Taggia, il cui mercato si estendeva da Roma, a Londra, alle Fiandre, apprezzato da tutti e presente sulle mense dei re e dei papi tanto da rendere il borgo di Taggia già nel XV secolo un centro economico di rilievo. Nel XVII secolo l’affermarsi dell’ulivo, ricordiamo la famosa oliva taggiasca, decretò il progressivo abbandono della viticoltura, fino a quando con l’invasione filosserica dell’Ottocento, il vitigno subì il colpo di grazia. Ecco dunque da dove muove la volontà della Regione Liguria: recuperare un vitigno storico (a ben vedere mai abbandonato del tutto) in quanto intimamente connesso alla valorizzazione del suo territorio. Un recupero dalle diverse finalità tra cui, non ultima, la salvaguardia del territorio con il riutilizzo di territori abbandonati offrendo agli agricoltori un’interessante alternativa enologica.

L’incanto della cucina veneziana non è sfuggito all’estroso biologo Paolo Zatta, che a Venezia deve i natali e che della città lagunare ha colto l’essenza attraverso la più significativa delle espressioni: quella culinaria. Che al di là dei più ovvi rimandi storici racchiude l’autentico profilo di un luogo. Un luogo unico al mondo, di recente oggetto di studio per i suoi ormai numericamente ridotti abitanti, resistenti alle annose lusinghe della vicina e più confortevole (e assai meno affascinante) Mestre; baluardi dell’orgoglio veneziano, estraneo all’orgia della pizza al trancio per turisti e amante del baccalà mantecato abbinato a un buon vino. Con tutto il rispetto per la pizza - quella verace - la cucina veneziana ha in sé il fascino di un canale nascosto dalla nebbia: visibile a tutti e apprezzato solo dai veri intenditori che ne sanno vedere la ricchezza oltre l’apparente melanconia. Non di solo mare è fatta la cucina veneziana. Lo spiega molto bene Zatta nella sua accurata introduzione alle sessanta ricette contenute nel volume. La ricchezza gastronomica di Venezia, “porta dell’Europa verso l’Oriente”, ha origine dal progressivo assorbimento delle diversità culturali acquisite con la sua secolare attività mercantile. Le osterie sono un’eredità del mondo greco-bizantino; l’ampio uso delle spezie un retaggio arabo-musulmano; le sarde in saor e i deliziosi bigoli in salsa provengono dalle tradizioni ebraiche. Dalle Americhe, il mais per la gustosa e tipicamente veneta polenta. Per non parlare del riso, che arrivato dal mondo arabo, si impone presto quale punto di forza della cucina veneziana con la minestra risi e bisi. E dei fagioli, inseriti nella pasta e fasioi, piatto contadino diffusissimo. Un capitolo a parte, se vogliamo più vicino al sentire contemporaneo, è rappresentato dal tramezzino veneziano: unico e differente dai comuni tramezzini serviti in ogni dove. Ancora ineguagliato seppur di facile preparazione e di sicuro effetto: due fette di pane senza crosta, che racchiudono qualsiasi cosa farcita con la maionese, come uova, tonno, pomodori, mozzarella, verdura fresca, prosciutto, olive, carciofini. Un’espressione assoluta e nel contempo semplice di creatività che riempie all’inverosimile questi intermezzi alimentari assunti in dosi massicce da tutti i veneziani. Associato spesso e volentieri al bicchiere di spritz, l’aperitivo locale veneziano, che in non pochi esercizi milanesi si tenta di proporre con dubbi esiti.

I buoni frutti delle origini.

Molto più del Carnevale…

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VINO – LE GARZANTINE A cura di: Paolo Della Rosa Editore: Garzanti Prezzo: 39,60 euro

I VINI DI VERONELLI 2010 GUIDA ORO A cura di:

Gigi Brozzoni, Daniel Thomases.

Editore:

Seminario Permanente Luigi Veronelli 31,00 euro

Alzi la mano chi non ha mai avuto tra le mani, per una consultazione affidabile e precisa, una Garzantina. Chi non si è sentito un po’ dottore sfogliando le pagine del dizionario sulla Medicina, scoprendo, con inaspettata soddisfazione, che cosa si cela dietro terminologie di primo acchito inafferrabili. E se nel vino risiede un diverso approccio di conoscenza, la completezza e l’accuratezza delle informazioni, curate dal bocconiano e sommelier Paolo Della Rosa, sono allo stesso modo garantite. Viene da chiedersi quanti libri erano necessari fino a oggi per scoprire il mondo dell’enologia: manuali di degustazione, di viticoltura e di cantina, saggi sulla storia e la cultura del vino. La risposta è in quest’opera, che del libro abbandona il carattere della parzialità monografica, per abbracciare a tutto campo un sapere enciclopedico ed esaustivo. Non è mai esistita prima d’ora un’opera così completa sull’enologia: c’è tutto sul vino, nei suoi aspetti storici, culturali, tecnici, ma anche nei suoi intrecci con il costume, l’economia, la buona cucina, la vita di tutti i giorni. Le evoluzioni della storia determinano sovente la scomparsa di costumi, usi, mestieri e fortune. Non così per il vino, che ha saputo trasformarsi da semplice alimento prodotto di un fenomeno naturale (la fermentazione) e di fatti casuali (la buona o cattiva annata) in oggetto di piacere, risultato virtuoso di scienza e natura. La Garzantina del Vino si propone dunque di fornire al vasto pubblico di estimatori, neofiti o cultori già esperti, e agli operatori del settore un supporto conoscitivo a 360 gradi sul mondo del vino, trattato nei suoi lemmi da ogni possibile prospettiva. Conoscere la vite è una premessa indispensabile per poter parlare di vino; si è quindi dato spazio non solo alle principali varietà coltivate (i vitigni), catalogate dall’ampelografia, ma anche agli aspetti fisiologici del ciclo vitale e del ciclo annuale della pianta, alle sue malattie, alle pratiche di innesto, incrocio, selezione clonale e naturalmente a tutte le fasi della viticultura (con una scheda su Storia della viticultura come scienza), dall’impianto del vigneto alle forme di allevamento, alle diverse tecniche colturali (anche biologiche e biodinamiche). Sono a lemma anche tutti i vini Docg, Doc e Igt italiani e le principali aziende che li producono e li esportano nel mondo. Oltre all’Italia, è presente anche il resto del mondo con profili enologici dei singoli Paesi. Un altro capitolo fondamentale riguarda la degustazione, le sue tecniche e la sua terminologia. Ma il vino è anche cultura, nel vino si fondono la fisicità della terra e la sacralità del mito, si riflettono gli eventi storici, si rivelano le modificazioni del costume: perciò si è completata l’opera con un’appendice dedicata alla storia del vino e al suo importante ruolo nello sviluppo della civiltà. Correlate alle voci del dizionario, troviamo infine 100 schede di approfondimento.

L’edizione 2010 de I Vini di Veronelli apre con una amara riflessione del curatore Gigi Brozzoni sulla crisi del comparto editoriale italiano che ha portato, nel corso del 2009, alla chiusura di Veronelli Editore. Una notizia cattiva e inappellabile, per usare le parole di Brozzoni, in cui era facile vedere la fine di una tradizione importante ed apprezzata da oltre un decennio da numerosi lettori, produttori, distributori e consumatori del buon vino italiano: lo stesso vino che proprio grazie a Luigi Veronelli è ormai diventato grande e famoso in tutto il mondo. Da qui, l’accordo con Roberto Anselmi, noto vignaiolo veronese e presidente del Seminario Veronelli, che ha consentito la realizzazione di questa ventiduesima edizione, dalle caratteristiche invariate rispetto alle passate, quasi come se anche quest’anno dovesse superare il giudizio severo e l’approvazione del grande enologo Gigi. Identica, dunque, la struttura della guida, ben rodata. Anche per quest’anno il volume è diviso in regioni, ordinate geograficamente da nord a sud e poi verso le isole maggiori; all’interno di ogni regione, i comuni sono ordinati alfabeticamente, come pure sono ordinate le aziende all’interno dello stesso volume. Unica novità, derivata dai suggerimenti di alcuni lettori, l’introduzione di un nuovo simbolo per identificare i vini, non degustati quest’anno, che nella scorsa edizione ebbero le Super Tre Stelle. Per ogni azienda nessun dettaglio è tralasciato: oltre ai recapiti postale e telefonico e, quando disponibili, gli indirizzi elettronici, vengono forniti il nome del proprietario e gli ettari vitati di proprietà; sotto la dizione enologo e agronomo sono indicate le persone che si occupano di enologia e di agronomia, senza verificare che ne abbiano o meno il titolo.

Non si conosce mai abbastanza.

La tradizione continua.

(Per il Canton Ticino, Rocco Lettieri)

Prezzo:

97


Io non ci sto

Dopo l’ennesimo scandalo il futuro del vino italiano è ancora più oscuro di Franco Ziliani l mondo del vino italiano chiude un difficile 2009 e si avvia ad affrontare un 2010 che si annuncia ancora più complesso e ricco di difficoltà, in maniera contraddittoria e decisamente preoccupante. Da un lato mostra un aspetto virtuoso e aperto al nuovo, attento ai segni dei tempi, alle indicazioni di un consumatore che ai vini chiede non solo di essere buoni, ma prodotti in modo etico, con una concezione del vigneto e della cantina rispettosa dell’ambiente e degli aspetti salutisti. Un aspetto che trova nel Manifesto finale dell’assise di Vignerons d’Europe, convegno tenutosi ad inizio dicembre a Montecatini e poi a Firenze che ha visto oltre mille vignaioli arrivare da tutta Europa, la propria affermazione. Il punto finale di due giorni di discussione su temi alti come vitivinicoltura sostenibile, identità ed etica del vignaiolo, pratiche enologiche e di etica della produzione, condensato in undici punti che ricordano, tra l’altro, che “il vino del vignaiolo è vivo, dona piacere, è figlio del suo territorio e del suo pensiero. Espressione autentica di una cultura”, e poi che “il vignaiolo si impegna a rinunciare all’utilizzo di molecole e organismi artificiali e di sintesi con l’obiettivo di tutelare il vivente”, e ancora che “il vignaiolo pratica la trasparenza: dice quello che fa e fa quello che dice”. Dall’altro lato, come se fosse l’altra faccia della luna, il volto oscuro, quasi inconfessabile e un po’ malato di un mondo, quello del vino, che dovrebbe consistere in una celebrazione ed esaltazione della centralità della terra e della natura, della capacità dell’uomo di trasformare in un prodotto ricco di valenze culturali chiamato vino quello che in fondo è solo lavoro agricolo, espressione di un lungo e faticoso lavoro durato un intero anno, ecco arrivare, ancora una volta, notizie terribili. E dopo lo scandalo, dai contorni non ancora completamente definiti, dei Brunello di Montalcino “taroccati”, riveduti e corretti a base di altre uve non previste dal disciplinare di produzione, ecco un altro scandalo, forse ancora più preoccupante e deflagrante del precedente. Il 10 dicembre il Comando provinciale di Siena della Guardia di Finanza (Sezione operazioni e programmazione) ha ritenuto di dover diramare un comunicato stampa, rendendo noto che ”nel corso di alcune perquisizioni svolte nell’ambito del precedente filone investigativo” che ha visto coinvolto il vino di Montalcino, “sono stati acquisiti altri, distinti elementi investigativi che hanno condotto le Fiamme gialle a concentrare l’attenzione su altre tipologie, quali appunto il Chianti Docg e l’Igt Toscana. Dopo un’attenta ed accurata analisi degli elementi acquisiti dagli inquirenti, il gip del Tribunale di Siena ha accolto le richieste di sequestro preventivo avanzate per le ipotesi di reato di associazione per delinquere e frode in commercio aggravata. In estrema sintesi, è emerso che alcuni degli indagati si sono attivati per reperire sistematicamente sul mercato delle enormi quantità di vino non rispondente al disciplinare (Igt o Docg), talvolta addirittura di bassissima qualità, per poi procedere ad una sua miscelazione con dei vini da taglio e, quindi, creare degli assemblaggi per un quantitativo stimato pari a circa 10

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milioni di litri, poi rivenduti sul mercato con denominazioni di pregio (tra cui, di nuovo, anche Brunello e Rosso di Montalcino)”. Il comunicato parla di “trasferimenti del prodotto vinoso da un’area geografica all’altra” con falsificazione di registri di produzione, di vinificazione e di fatture fiscali, di “attori di questa nuova inchiesta dislocati in diverse parti d’Italia (Toscana in prevalenza, ma anche Abruzzo, Trentino, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna ). Tra loro ci sono enologi, imprenditori vinicoli - anche di rilievo internazionale. Sono 17 i soggetti indagati, 42 le aziende vinicole interessate presso cui sono state eseguite altrettante perquisizioni e sequestri”. C’è da mettersi le mani nei capelli, di fronte a questo nuovo episodio che rende un’immagine sporca, offensiva e triste del vino italiano, che anche se è in crisi è, nella sua stragrande maggioranza, sano, degno di fiducia da parte del consumatore, popolato da donne e uomini per bene, che producono vini buoni, puliti e giusti, piacevoli da bere, orgoglio e motore della nostra economia agricola. Bene, si fa per dire, allora di fronte a questo nuovo episodio, di cui, quando sarà pubblicato questo articolo conosceremo gran parte degli aspetti che al momento di redigerlo non sono ancora ben delineati, dobbiamo per forza di cose concludere, ed è tristissimo, che esiste una parte del vino italiano, non il sottobosco di imbottigliatori senza nome e senza altra ambizione che quella di fare soldi senza troppa fatica, bensì quella parte che opera nell’ambito del segmento del vino di qualità, dei vini a denominazione d’origine, di alcune denominazioni blasonate e conosciute in tutto il mondo, che si rifiuta di rispettare le regole, che predica bene, ma nei fatti agisce come se regole non esistessero o potessero essere modellate secondo i personali interessi. E che se si tratta di pasticciare, in cantina più che in vigna, di arrangiare i vini, ricorrendo a tecniche enologiche spregiudicate, oppure al taglio con uve e vini anche provenienti da molto lontano e non dalla zona di produzione prevista dalla denominazione entro cui operano, non ci pensano due volte, non si tirano indietro, non si fanno scrupoli. Tagliano, addizionano, miscelano, spacciano per vino Doc, Docg o Igt un vino che magari viene prodotto con uve “talvolta addirittura di bassissima qualità” come dice il comunicato della Guardia di Finanza di Siena, e buona notte. Qualcuno dirà, in verità, l’ha già detto, che si fa così nel nome della libertà di impresa, per poter reggere la concorrenza dei competitors del Nuovo Mondo, che non sono vincolati dalle leggi e dai regolamenti comunitari europei, che le denominazioni spesso sono superate e troppo restrittive, che ci vuole più duttilità e libertà di movimento. Sarà (forse) anche vero, ed il futuro forse ci riserva denominazioni ancora più aperte di quelle (che già offrono notevoli spazi di “creatività”) attuali, ma se questo è il prezzo da pagare per provare, come dicono, ad essere più competitivi e stare sui mercati, permettetemi di dire, ancora una volta che “io non ci sto”.


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