DeVinis n. 95 Settembre-Ottobre 2010

Page 1

GIPA/LO/CONV/028/2010

DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Anno XVII - n. 95 - € 3,50 Settembre / Ottobre 2010

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it


Editoriale

anni della svolta Gli

di Terenzio Medri

anno 2010 per la nostra associazione si conclude in bellezza con il premio Villa Sandi che vola a Londra, con il Congresso nazionale in Umbria dove gli associati giungeranno da tutto il mondo e con il titolo iridato Wsa che si svolgerà a Santo Domingo. Due mesi intensi dentro e fuori i confini italiani che confermano che l’internazionalizzazione per l’Ais non è più un sogno nel cassetto ma una realtà da toccare con mano e che siamo riusciti a raggiungere con il contributo di tutti in questi anni che io amo definire “della svolta”. I nostri sommelier all’estero sono sempre più apprezzati: preparazione, carisma e professionalità hanno permesso ai nostri professionisti, che hanno lasciato la Penisola alla ricerca di un lavoro oltreconfine, di ottenere grandi soddisfazioni. Il merito è soprattutto loro ma lasciatemi spendere una parola per ricordare chi li ha preparati durante i corsi, chi li ha consigliati e magari anche rincuorati quando un esame Ais non è andato bene… Approfitto di questo spazio per ringraziare tutti coloro i quali in questi otto anni di presidenza mi hanno aiutato e consigliato contribuendo così a far crescere la nostra associazione di cui sono sempre orgoglioso e di cui continuerò a far parte da iscritto. Parlo dei collaboratori della sede nazionale, dei presidenti, di tutti i delegati, della Giunta esecutiva nazionale. Per me questa esperienza è stata unica perché mi ha arricchito dal punto di vista umano e professionale. Sono stati anni importanti in cui il mondo (anche quello del vino e della sommellerie) è cambiato in quanto ha dovuto affrontare situazioni di crisi economica mai verificatesi in precedenza. Il gruppo di lavoro che ha governato l’Ais in questi anni lascia conti in ordine e una situazione florida che permetterà agli amici che subentreranno di proseguire il cammino intrapreso. Buon lavoro!

L’

3


AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Terenzio Medri Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVII settembre-ottobre 2010 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Top Communication Sas topcommunicationsas@live.it Tel. +39 392/8289316 Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Ennio Baccianella, Roberto Bellini, Fabio Brioschi, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Emma Delbono, Elisa della Barba, Maurizio Ferrari, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Paolo Giarrusso, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Roberto Piccinelli, Paolo Pirovano, Annalisa Raduano, Luigi Salvo, Isabella Sardo, Thomas Sartori, Ludovica Schiaroli, Lorenzo Simoncelli, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais Per le foto dell’articolo di Letizia Magnani si ringrazia Lucia Franciosi di Thurner PR, Firenze Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice Per l’articolo a firma di Davide Oltolini foto dello stesso autore Per l’articolo a firma di Ludovica Schiaroli foto della stessa autrice e di Michael Pasini Per l’articolo a firma di Fabio Brioschi foto dello stesso autore Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 45,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 27-08-2010 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000

AIS 2010

Rinnovo quota associativa 2010 È possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).

4

c/c postale n. 58623208 intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 Milano”, indicare nella causale “Quota associativa 2010”. Bonifico presso Banco Posta intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX).

Bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano” intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” codice IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) La quota associativa è di 80 euro e comprende l’abbonamento annuo alla rivista ufficiale AIS e alla Guida Duemilavini edizione 2011.


Sommario

Settembre / Ottobre 2010

Nel cuore verde d’Italia

6

IL 44.MO CONGRESSO

14 IL

TITOLO MONDIALE

36

40

ETICHETTE INTERNAZIONALI IN DEGUSTAZIONE

SCOPERTA DELLA

SELEZIONE DI

LA BASILICA DI SAN FRANCESCO ASSISI (PG)

MALVASIA

DELLE

LIPARI

TEROLDEGO

Parola di chef DIALOGO CON

CARLO CRACCO

Un vino campione del Mondo

ANDRÉS INIESTA

10 52 62 68 70 72 84 96 98

SANTO DOMINGO

L’essenza della Piana Rotaliana

UNA

All’interno

IN PALIO A

Rotta verso le Isole Eolie

ALLA

58

WSA

Il Classico e il Nuovo

GRANDI

A

PERUGIA

I migliori a confronto

20

56

NAZIONALE A

IN CAMPO E IN CANTINA

Musei OLIO E VINO NELLA STORIA A CASA LUNGAROTTI Tendenze COSA RESTERÀ DELL’ESTATE 2010… Turismo VIAGGIO TRA LE BELLEZZE D’ISRAELE Olio BUON COMPLEANNO EXTRAVERGINE Birra PROFUMO DI VINO… Distillati THE BALVENIE, L’ARTE DI SAPER ATTENDERE Vino che passione! L’INGEGNERE IN VIGNA Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto! LA CRISI IMPERVERSA, MA IL MONDO DEL VINO NON CAMBIA


Congresso nazionale

I sommelier nel cuore verde

d’Italia di Ennio Baccianella

DAL 30 SETTEMBRE AL 4 OTTOBRE L’UMBRIA OSPITA L’ASSISE DEI SOMMELIER PROVENIENTI

DALL’ITALIA E DA OGNI

PARTE DEL MONDO

L Il Sagrantino di Montefalco 6

i siamo. Ancora pochi giorni e prenderà il via l’evento più atteso dai sommelier di tutta Italia e, soprattutto, dalla delegazione dell’Umbria che sta lavorando incessantemente all’organizzazione del 44.mo Congresso nazionale Ais. Un programma ricco, pieno di iniziative e sorprese, per gli oltre 600 sommelier provenienti da ogni parte della penisola e, per la prima volta, dalle sedi dell’Ais di Germania, Stati Uniti e Inghilterra. I patrocini offerti all’importante evento sono del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, della Regione Umbria, della Provincia, Comune e Camera di Commercio di Perugia, dell’Istituto per il commercio estero e dalle Associazioni di categoria regionali quali le Strade del Vino, la Strada dell’olio ed il Consorzio dei vini di Montefalco. Certamente gli Etruschi non avrebbero mai immaginato che la loro passione per il vino, tramandata per generazioni e generazioni, e insegnata a tutte le popolazioni con cui vennero a contatto, avrebbe portato a creare un tale interesse nei secoli a venire. Un mercato, quello del vino, che interessa milioni di persone e muove un’economia che viene considerata, con ragione, uno degli elementi trainanti delle regioni italiane dalle caratteristiche agro-alimentari, come è certamente l’Umbria. A far crescere e conoscere, nel modo corretto, questo meraviglioso mondo, pieno di profumi, sapori ed emozioni, ha senza dubbio contribuito l’Associazione italiana sommeliers che, mediante corsi, convegni, tavole rotonde, degustazioni e collaborazioni, anche editoriali, coinvolge esperti e appassionati. Il Congresso annuale dell’associazione è un momento conviviale che riunisce in un unico appuntamento tutti i sommelier, ma anche di riflessione, permettendo ai tanti delegati regionali di confrontarsi con i dirigenti dell’Ais per proporre i nuovi orizzonti da raggiungere dalla categoria e le eventuali correzioni ai programmi didattici e culturali per l’anno successivo. Il congresso Ais in Umbria si propone, tra le numerose attività in programma,

C


L Lenticchie di Castelluccio

proprio questo obiettivo. Un primo confronto si avrà con la riunione della Giunta e dei Consiglieri nazionali, prevista per giovedì 30 settembre alle ore 11.30 a Perugia presso l’Hotel Brufani Palace che, successivamente, nel tardo pomeriggio, si recheranno in visita presso le Cantine Caprai a Montefalco e parteciperanno in serata alla cena di gala. Il giorno successivo riunione del Consiglio nazionale a Torgiano presso il relais Tre Vaselle. Appuntamento di particolare importanza perché è la prima occasione di incontro tra i nuovi presidenti eletti e quelli riconfermati. Nel pomeriggio visita al Museo del vino e dell’olio. Il programma del congresso prosegue venerdì primo ottobre con l’arrivo delle centinaia di congressisti che potranno partecipare all’inaugurazione, prevista alle ore 15.30, della Mostra mercato “Umbria Bella e Buona” con protagoniste le eccellenze agro-alimentari e artistiche regionali umbre, che si svolgerà all’interno della Rocca Paolina, in pieno centro storico di Perugia. Alle ore 16.00 l’importante appuntamento della semifinale per il “Primo Sommelier d’Italia – Premio Franciacorta” che si svolgerà in contemporanea all’incontro della presidenza con i delegati Ais di tutto il territorio nazionale, all’interno dello splendido Hotel Brufani Palace nel centro storico di Perugia sede, in quei giorni, anche della segreteria organizzativa del congresso. In Piazza della Repubblica alle ore 18.00 si terrà, in

L Il prosciutto di Norcia Igp

Umbria bella e buona Si inaugurerà venerdì primo ottobre alle ore 15.30 all’interno delle Sale della Rocca Paolina “Umbria Bella e Buona”, Mostra mercato delle eccellenze agro-alimentari e artigianali regionali. Nelle sale che ospitarono il Baglioni e Papa Paolo III Farnese, sarà possibile trovare la pregiata norcineria, che pare fu introdotta dagli ebrei, giunti in Valnerina dopo la distruzione di Gerusalemme, che trasformarono e commercializzarono le carni vietate dalla loro religione. Altri attribuiscono la sua origine ai Romani che conservavano la carne per l’inverno e per portarla appresso durante le loro campagne belliche. Quindi Prosciutto di Norcia ma anche mazzafegati, salsicce, finocchiella, capocolli e i noti “coglioni di mulo”, ottenuti dalla carne magra di maiale tritata e insaccata nel budello insieme a un pezzetto di lardo. Oltre alla norcineria sarà possibile trovare i formaggi, prodotti un po’ in tutta la regione, con metodi artigianali. Quindi Caciotta, Formaggio di Fossa e Pecorini stagionati. Tipico quello al tartufo, quello allo zafferano oltre quello al miele, avvolto in foglie di noce e messo sotto cenere o quello “‘mbriaco”, messo a stagionare in botti di rovere che hanno contenuto vino rosso. E ancora vini (naturalmente), olio Umbria Dop di tutte le sottozone, tartufi, funghi, il famoso “Zafferano di Cascia e Città della Pieve”, cioccolato artigianale, cereali e legumi come la “Lenticchia di Castelluccio”, la “Fagiolina del Lago”, il “Farro di Monteleone”, la “Roveia”, il miele, le confetture e altre sfiziosità gastronomiche. Oltre alle eccellenze gastronomiche saranno presenti anche le produzioni più raffinate della ceramica e maiolica di Deruta, tessuti e cachemire, lavorazioni in ferro battuto, oltre a pitture e sculture artistiche ispirate alla vita contadina e alle tradizioni umbre. La Mostra Mercato durerà fino a domenica 3 ottobre e aprirà al pubblico nei seguenti orari: venerdì 1° ottobre: 15.30 – 21.00; sabato 2 e domenica 3 ottobre: 10.00 – 21.00. 7


Congresso nazionale

La Rocca Paolina L

esclusiva per l’Italia, il coinvolgente “Happy Hour 61”, aperitivo di benvenuto offerto ai congressisti e alla città di Perugia dall’azienda Guido Berlucchi. Centinaia di magnum di Cuvée Storica 61 verranno stappate dai sommelier umbri in un’atmosfera d’altri tempi: auto e moto d’epoca, musica anni Sessanta e Settanta e altre sorprese. Si continua alle ore 20.30 presso l’Egizia dancing di Deruta, con l’eleganza del “Gran Galà di Benvenuto” che avrà protagonisti i pregiati vini della “Strada del Cantico”: Torgiano Rosso Riserva Docg e le Doc Assisi, Torgiano, Colli Martani e Colli Perugini che affiancheranno i prodotti di eccellenza della gastronomia umbra. Durante la cena consegna della borsa di studio premio “Bonaventura Maschio – La ricerca dell’eccellenza”. Allieterà la serata uno spettacolo musicale a sorpresa. Molte le escursioni e le visite guidate in programma previste da sabato 2 ottobre, alle quali è necessario prenotarsi, da non perdere per vivere il territorio umbro e godere delle emozioni che le eccellenze enologiche e alimentari umbre regaleranno ai congressisti. L’apertura ufficiale del 44.mo Congresso nazionale Ais si svolgerà presso la “Sala dei Notari” alle ore 09.30, alle presenza di autorità e giornalisti. Alle ore 10.00 Tavola Rotonda sul tema “Perché l’Italia del vino non riesce a fare squadra?” con la presenza di illustri personaggi del mondo della politica, della stampa e dell’enologia che diranno la loro su questo tema scottante. Moderatore il giornalista umbro Lamberto Sposini. Al termine, nella stessa sede, si terrà l’Assemblea nazionale dei soci, l’importante appuntamento di confronto dei sommelier presenti a Perugia con la presidenza Ais, in cui sarà possibile esprimere il proprio parere sulla gestione dell’associazione, confrontarsi con tutti i soci e apprendere le linee guida dell’Ais per il futuro. Alle ore 13.30 con “Umbria da gustare”, all’interno del centro espositivo della Provincia nella Rocca Paolina, pranzo in compagnia dei vini della “Strada Etrusco Romana” e “Colli del Trasimeno” con le Doc Colli Amerini, Orvieto, Rosso Orvietano, Corbara e Colli del Trasimeno. Dopo la selezione avvenuta nella semifinale inizierà alle ore 16.00, al Teatro Pavone di Perugia, la finale “Primo Sommelier d’Italia – Premio Franciacorta”, cui seguirà alle ore 18.00, di fronte al Teatro in Piazza della Repubblica, anco-

Il premio “La ricerca dell’eccellenza” L’Italia è uno dei leader nel mondo dei distillati, in particolare con la grappa, che con la sua tipicità e i legami storici e culturali, si fa apprezzare da un pubblico adulto e appassionato, ma che negli ultimi anni ha saputo raggiungere anche i giovani. Promuovere la cultura e la conoscenza della grappa e dei distillati, per un consumo consapevole e di qualità, favorire l’apprendimento mediante lezioni teoriche e pratiche per accrescere la professionalità e la competenza dei sommeliers. Sono questi alcuni dei motivi per cui, per il settimo anno consecutivo, la Distilleria Bonaventura Maschio di Gaiarine (TV), in collaborazione con l'Ais nazionale, mette a disposizione dei giovani sommelier risultati vincitori del master di specializzazione “La ricerca dell’eccellenza”, organizzato presso la sede della distilleria, tre borse di studio, che hanno l’obiettivo di favorire i temi collegati alla distillazione e alle acquaviti. La distilleria Bonaventura Maschio permette ai giovani sommelier professionisti partecipanti al master di apprendere le tecniche di distillazione di acquaviti italiane ed estere, nonché partecipare alle attività che si svolgono in azienda. Particolare attenzione è rivolta 8

alla degustazione, caratteristica professionale principale del sommelier, mediante assaggi e confronti di varie tipologie di distillati. Andrea Maschio consegnerà durante la cena che si terrà il primo ottobre, durante il “Gran Galà di Benvenuto” presso l’Egizia Dancing di Deruta, le borse di studio ai tre sommelier che quest’anno si sono aggiudicati i premi, provenienti da nord, centro e sud Italia, in occasione del 44.mo Congresso nazionale Ais.


L La Sala dei Notari

ra in esclusiva per l’Italia, l’Happy Hour “La Franciacorta: unione di passioni”. Il Consorzio della Franciacorta e i sommelier finalisti del concorso “Primo Sommelier d’Italia – Premio Franciacorta”, saranno protagonisti dello Show delle Bollicine, con tutti i congressisti e il pubblico perugino. Ancora un momento suggestivo alle ore 20.30, al Complesso Monumentale di Santa Giuliana, in compagnia de “La Notte delle Stelle”: appuntamento con il gusto e lo “charme” gastronomico degli chef stellati umbri Marco Bistarelli, del ristorante Il Postale e Marco Gubbiotti del ristorante La Bastiglia, che saranno interpreti e protagonisti unitamente ai vini del “Consorzio di Montefalco”. La serata si concluderà con la proclamazione del “Primo Sommelier d’Italia – Premio Franciacorta”. Domenica 3 ottobre, dopo la partenza per le varie escursioni, alle ore 10.00 inizierà la visita guidata, su prenotazione, a “Perugia e sue bellezze artistiche”. Una passeggiata culturale rivolta a scoprire le bellezze del centro storico di Perugia, i suoi monumenti, i musei, le gallerie d’arte e i suoi angoli più nascosti. Alle 11.30 appuntamento con “I vini che hanno fatto la storia dell’Umbria”. All’Hotel Brufani Palace la regione Umbria protagonista con una grande degustazione di annate storiche di alcuni vini, che hanno portato la sua immagine di qualità a rimanere per sempre scritta nella storia enologica d’Italia e mondiale. I vini in degustazione saranno: Rubesco “Vigna Monticchio” Lungarotti, “Cervaro della Sala”Castello della Sala, “Sagrantino 25 anni” Caprai, Orvieto Classico “Campo del Guardiano” Palazzone, “Arquata Rosso” Adanti, “Rubino” La Palazzola e “Calcaia Muffa Nobile” Barberani. Naturalmente tutti di annate introvabili e del periodo in cui , proprio loro, hanno fatto parlare dell’enologia umbra in Italia e nel Mondo. Con quest’ultimo appuntamento sarà annunciata la conclusione del 44.mo Congresso nazionale dell’Ais. Lunedì 4 ottobre, per chi vorrà ancora approfittare dell’occasione offerta dal congresso, partenza con escursione libera ad Assisi in occasione delle celebrazioni della festa di San Francesco patrono d’Italia. Sono previste importanti funzioni liturgiche nelle basiliche di Santa Maria degli Angeli e di San Francesco ed eventi collaterali con spettacoli e manifestazioni popolari.

Umbria, patria di grandi chef MARCO BISTARELLI Marco Bistarelli, già presidente dei "Giovani Ristoratori d'Europa" è docente a Parma nella Scuola di cucina "Alma" di Gualtiero Marchesi e coordinatore di “Umbria Golosa”, un marchio che associa 6 "top chef" umbri (Marco Gubbiotti, Maria Luisa Scolastra, Paolo Trippini, Enrico Ialenti e Giuseppe Rosati). Titolare del noto Ristorante Il Postale, lo chef tifernate si è trasferito recentemente a Perugia dove, dallo storico Castello di Monterone, cura la gastronomia d’eccellenza, con particolare riguardo a quella umbra.

MARCO GUBBIOTTI Marco Gubbiotti è nato e vissuto in Umbria, vero appassionato ed esperto della storia gastronomica regionale, alle sue preparazioni culinarie dà un aspetto moderno senza tralasciare la base culturale tradizionale che ispira la sua cucina. La sua competenza gli permette di elaborare ricette classiche proponendole in chiave nuova, affascinando anche il cliente più esigente. Da oltre 10 anni è a capo della cucina dell’Hotel Ristorante La Bastiglia di Spello a cui è giunto dopo varie esperienze nazionali e internazionali. 9


Musei

vino

Il

l’olio

e raccontati tra le teche dei musei di Letizia Magnani

IN UMBRIA

LA

FONDAZIONE

LUNGAROTTI RACCONTA A TORGIANO STORIA E CULTURA DEL VINO

E DELL’OLIO: DUE MUSEI UNICI AL MONDO

L Un'anfora del VI secolo a.C. 10

ue le notizie importanti per gli amanti del vino. La prima è che per il vino c’è un presente e un futuro, nonostante la crisi. La seconda è che per il vino italiano c’è un interesse sempre crescente da parte dei nuovi mondi. La parola d’ordine è ancora una volta qualità e d’altra parte sul fronte del vino di qualità l’Italia può vantare molti primati, alcuni dei quali raccolti e conservati nei musei del vino. E allora non si può non partire dal primo e sicuramente il più importante dei musei del cibo e del vino, il museo Lungarotti.

D

I Lungarotti: quarant’anni di grande cultura Se anziché essere nato a Torgiano, il Museo Lungarotti fosse sorto in Inghilterra verrebbe sicuramente considerato il primo e il più grande. Il Museo Lungarotti nasce dall’intuizione, ante litteram e geniale, di Giorgio Lungarotti che già negli anni Sessanta aveva in testa l’idea di far crescere in termini qualitativi e di immagine una realtà produttiva che aveva già ottenuto notevoli successi: quella del vino. A quell’idea si è aggiunta la passione per la cultura di Maria Grazia Lungarotti, storica dell’arte e archivista. Insieme hanno dato vita a un progetto ambizioso e lungimirante che è cresciuto nel tempo. Il Museo del vino nasce nel 1974 e grazie a un paziente e scrupoloso lavoro di ricerca già all’apertura esponeva collezioni compiute supportate da un imponente apparato didattico bilingue. Il progetto culturale Lungarotti poi si è sviluppato negli anni assumendo diverse forme. Il Museo del vino, più volte ampliato, ha prodotto una serie di mostre e convegni su temi legati alle proprie collezioni. La Fondazione


L Anfore per il trasporto vinario Una coppa di Jean Cocteau

Lungarotti, nata nel 1987, gestisce le articolate collezioni di pezzi storici dei musei Lungarotti e promuove il vino e l’olio attraverso mostre, ricerche e pubblicazioni che ne indaghino le diverse valenze culturali. In anni recenti la Fondazione e attraverso di essa l’azienda Lungarotti ha rinnovato e confermato la propria scelta culturale, realizzando e aprendo al pubblico nel 2000 un secondo museo dedicato alla cultura dell’olio, realizzando così a Torgiano un polo specializzato in museografia agricola di grande qualità. I Storia e anima nel Museo del vino Voluto e realizzato da Giorgio Lungarotti con la moglie Maria Grazia, il Museo del vino è stato aperto al pubblico nel 1974 ed è oggi gestito dalla Fondazione Lungarotti. Ha sede a Torgiano, nella pars agricola del monumentale palazzo Graziani-Baglioni, dimora estiva gentilizia del XVII secolo. Il percorso museale, sviluppato lungo venti sale, propone oltre 2800 manufatti. Reperti archeologici (brocche cicladiche e vasi ittiti; ceramiche greche, etrusche e romane; vetri e bronzi), attrezzi e corredi tecnici per la viti-

coltura e la vinificazione, contenitori vinari in ceramica di età medioevale, rinascimentale, barocca e contemporanea, incisioni e disegni dal XV al XX secolo, edizioni colte di testi su viticoltura ed enologia, manufatti di arte orafa, tessuti e altre testimonianze di “arti minori” documentano l’importanza del vino nell’immaginario collettivo dei popoli che hanno abitato nel corso dei millenni il bacino del Mediterraneo e l’Europa continentale. A partire dal mondo antico, vite, uva e vino, elementi portanti nella economia agricola di quei popoli, hanno alternato a valenze puramente economiche usi e significati religiosi e profani. Dai tempi più remoti fino ad oggi, il loro ricorrere nelle arti e nei mestieri è costante, sia come spunto iconografico, sia a scopo produttivo. Le singole raccolte presenti al museo propongono il tema vitivinicolo e bacchico come filo conduttore per la lettura delle vicende storiche delle quali i singoli oggetti divengono espressione. Le rarità da vedere sono davvero tante. Questo museo è sicuramente il più grande e anche il più bello. Chi lo visita non troverà brocche, tini o altri attrezzi per la vinifi11


Musei L Un torchio del XVIII secolo

cazione o almeno non solo. Dentro vi è raccolta la storia, la cultura, in una parola, l’anima del vino. Le collezioni di ceramiche e di incisioni sono due delle perle del museo, ma non sono le uniche. La parte archeologica è emozionante, così come quella narrativa, che racconta quanto sia affascinante e grandioso fare il vino. I Mito, leggenda, vita e le lucerne: tutto nel Museo dell’olivo e dell’olio Nato in continuità di intenti con l’ideazione del Museo del vino, il Museo dell’olivo e dell’olio è situato in un piccolo nucleo di abitazioni medioevali all’interno delle mura castellane. Il percorso si snoda lungo dieci sale e si apre con informazioni sulle caratteristiche botaniche dell’olivo, sulle cultivar più diffuse in Umbria, sulle tecniche tradizionali e d’avanguardia di messa a coltura e di estrazione dell’olio. Le sale successive, ambientate nei locali che furono già sede di un frantoio, attivo fino a pochi decenni fa e testimoniato dalla presenza di un grande camino, ospitano una ricca documentazione relativa alla storia e all’evoluzione delle macchine olearie: dai primi mortai in pietra, risalenti al V millennio a.C. correndo lungo i secoli, alla introduzione del trapetum, l’ampia vasca di probabile origine greca definitivamente utilizzata e diffusa dai Romani, fino alle più complesse macchine a trazione animale o idraulica e all’invenzione del sistema “a ciclo continuo” che ha segnato l’avvio per la nuova elaiotecnica. Il percorso prosegue nei due piani superiori, dove grande spazio è dato all’olio e all’olivo nell’uso quotidiano. Vita, mito, medicina. Le sezioni mettono in evidenza i vari usi dell’olio, per la guarigione, per i riti magici, per la religione, per l’uso quotidiano, per la cosmesi e per l’illuminazione. Chi arriva a Torgiano non può non rimanere rapito dalla raccolta di lucerne, forse unica al mondo, che dall’età preclassica giunge al tardo neoclassicismo. Ce ne è per tutti i gusti: dalla bilicne romana in bronzo, ageminata in argento e rame, al piccolo putto bronzeo rinascimentale, alle due preziose lucerne da scala fiorentine, datate XVI secolo. Interessanti per tecniche e stili rappresentati, indicativi di correnti di gusto sensibili al mito dell’antichità e dell’esotismo, il gruppo delle neoclassiche 12

comprende lucerne da parata che vanno dalla fiorentina in vetro, da Murano, alle romane, provenienti dalle maggiori botteghe di argentieri e bronzisti, caratterizzate da sculture che conoscono all’epoca una grande diffusione: così il Mercurio che corre sul soffio del vento o l’egizio, che rimanda alle campagne napoleoniche. Oliere e salsiere, ampolle per profumi e balsamari, bracieri e scaldini, testi dotti e oggetti di manifattura popolare testimoniano il ricorrere all’olio nei secoli per i diversi usi. Al termine del percorso museale, un corridoio di proverbi e detti legati all’olio conduce alla visione di una grande tavola raffigurante un campo di olivi al vento, come a dire che la cultura non ci sarebbe senza il territorio. È questo che raccontano i due i musei e che ogni giorno difende e diffonde la Fondazione Lungarotti. www.lungarotti.it

L Il vino come filtro d'amore. Boccali amatori rinascimentali che raffigurano i volti dell'amata o simboli amatori


Mondiale Wsa

L’olimpo del nella

vino

Repubblica Dominicana

di Thomas Sartori * alt Disney disse: «Se lo puoi sognare lo puoi fare» ed è esattamente da un sogno che si materializza la possibilità di realizzare il concorso “Miglior sommelier del mondo Wsa” a Santo Domingo il prossimo mese di ottobre. I sogni però rimangono tali se non ci si sveglia e si comincia a fare in modo che si realizzino; ed è esattamente quello che è successo. Così è nato un programma intenso e suggestivo che darà la possibilità, a tutti coloro che vorranno partecipare, di godere di una settimana di vino, divertimento e spiagge, oltre che assistere alla finale che decreterà il prossimo Dioniso mondiale del vino. Sono una ventina i Paesi partecipanti, rappresentati dai vincitori dei rispettivi concorsi nazionali, che aspireranno ad alzare la propria bandiera nella terra di Cristoforo Colombo. Arriveranno nel Caribe, accompagnati dai loro amici, famigliari e fan, il gior-

W

14

L La canna da zucchero, materia prima per la produzione del Ron, il rum dei Caraibi


no 11 di ottobre e saranno ospitati nel lussuoso hotel Sofitel situato in zona coloniale; già il giorno successivo saranno impegnati nelle prime prove di selezione, mentre gli accompagnanti si riposeranno del lungo viaggio visitando la città coloniale e vivendo la cultura della Repubblica Dominicana. La notte è

L La zona coloniale di Santo Domingo con la statua di Cristoforo Colombo

L Il cacao, uno dei prodotti tipici dominicani

dedicata all’associazione: si realizzerà una cena-cocktail di presentazione nelle strutture del Museo di arte moderna dove, approfittando della presenza dei vertici Ais-Wsa si consegneranno ufficialmente i diplomi ai nuovi sommelier dominicani del 2010. Il mercoledi è il D-day, mentre i concorrenti si concentreranno a ripassare, gli accompagnatori potranno godersi una rilassante giornata in spiaggia. A partire dalle 6 del pomeriggio l’appuntamento è, per tutti, nel teatro Bellas Artes, uno dei più importante del Paese, per la sfida finale a suon di calici ed emozioni; al termine, le premiazioni e un cocktail di celebrazione per chiudere degnamente una magica notte all’insegna del vino. Il giovedì vincitori e vinti visiteranno l’azienda produttrice di birra più importante del Paese e una delle distillerie di Ron più rappresentative; poi è in programma una meravigliosa cena di gala in una cornice unica: “Plaza de España”. In compagnia degli sponsor, delle autorità dominicane e di tutti coloro volessero partecipare, si degusteranno i piatti di uno degli chef più rappresentativi del Paese che saranno magistralmente abbinati dai sommelier protagonisti delle fasi finali del concorso; un evento di cui una parte del ricavato sarà dato in beneficenza. Venerdì tour unico ed affascinante: il sendero del Cacao. Si visiteranno piantagioni e si assisterà alla produzione di questo prestigioso prodotto in una atmosfera assolutamente caraibica. La notte tutti a cenare in uno dei ristoranti più in auge nella capitale, il crogiolo di tutto il jet set dominicano; un locale che si trasforma dopo le 11 in disco lounge con musica dal vivo che permetterà di approfittare della intensa notte di Santo Domingo. Il sabato si abbandona la Capitale per dirigersi verso le incantevoli spiaggie di Bayahibe, ospitati nel Hotel Resort 15


Mondiale Wsa Viva Windam. Un giorno tranquillo per recuperare le energie risulta indispensabile per affrontare la notte in cui si torna a una festa a tema: “Red & White… as the wines”. A piedi nudi sulla sabbia caraibica, vestiti solamente con colori bianchi e rossi, si potrà ascoltare musica dal vivo, degustare birra, vino e ron, fumare sigari con tanto divertimento. La domenica si salirà sul catamarano alla volta della meravigliosa isola di Catalina con piatti tipici e bevande dominicane. Un occasione unica per vivere una settimana caraibica in un mondo che ci appassiona, il mondo del vino, dei sigari e dei distillati; una occasione per appoggiare i nostri portabandiera e condividere con loro le emozioni di un evento di grande prestigio. * Responsabile didattica ed eventi Ais Caribe Per partecipare all’evento, conoscere i dettagli del programma e i costi consultare il sito web www.worldsommelier2010.com

16


IL PROGRAMMA Lunedì 11 ottobre Arrivo a Santo Domingo • Benvenuto personalizzato all’Aeroporto Internazionale Las Américas di Santo Domingo. • Trasferimento privato aeroporto-hotel • Check-in nell’hotel • Cena libera Martedì 12 ottobre • Colazione in hotel • Trasferimenti in confortevoli e moderni autobus • Visita alla Città Coloniale - Faro a Colón (dove riposano le spoglie di Cristoforo Colombo) - La Catedral de Santo Domingo - El Alcázar de Colón (Museo di Cristoforo Colombo) - Passeggio per Calle Las Damas (La piu romantica della città) - Museo dell’Ambra • Tempo Libero per acquistare souvenir • Pranzo in un ristorante tipico dominicano scavato nella roccia della costa • Visita all’Acquario Nazionale • Visite: - Centro della Cultura - Teatro Nazionale - Museo del Hombre Dominicano - Galleria di Arte Moderna - Parco Mirador del Sur • Rientro in Hotel • Cena ufficiale della Delegazione AIS-WSA presso il museo d’Arte Moderna di Santo Domingo con intrattenimento musicale dal vivo Mercoledì 13 ottobre • Colazione in hotel • Trasferimento di andata e ritorno alla spiaggia di Juan Dolio • Finale del Concorso Miglior Sommelier del Mondo presso il Teatro Bellas Artes; al termine della manifestazione e della premmiazione è previsto un cocktail


Mondiale Wsa Giovedì 14 ottobre • Colazione in hotel • Visita alla Cervecería Presidente • Pranzo presso il ristorante Sixteen Cuts nella Marina Bartolomé Colón • Visita alla Distilleria Barceló • Cena di Gala con le Autorità Dominicane, gli sponsor, i giornalisti e tutti i sommelier partecipanti all’evento che si cimenteranno nei vari abbinamenti cibo-vino; partecipazione dell’Orchestra Sinfonica di Santo Domingo Venerdì 15 ottobre • Colazione in Hotel • Visita a Chocolate, Azúcar y Caña, una delle principali aziende produttrici di cacao organico del mondo: si comincia con la visita alle piantagioni per arrivare alla elaborazione della materia prima e al confezionamento del cacao; dimostrazioni e degustazioni varie; seguirà un ricco buffet in stile dominicano direttamente nella “Finca”; la visita terminerà con una esibizione musicale afro-dominicana • Benvenuto con Atabales • Degustazione di Liquore di Cacao e Mamajuana • Dimostrazione dell’elaborazione artigianale di argilla • Visita alla produzione di sigari Davidoff • Cena informale nel Ristorante Fellini, uno dei local più alla moda della capitale per vivere il calore e il divertimento di un fine settimana nel Caribe; al termine si realizzerà una degustazione di sigari

18

Sabato 16 ottobre • Colazione in hotel • Trasferimento alla spiaggia La Romana-Bayahibe • Check-in nell’hotel • Pomeriggio libero • Festa finale in spiaggia “Red & White… as the Wines”; musica dal vivo e intrattenimenti vari; stand di vino, distillati, birra, sigari e cibo per chiudere una settimana dedicata all’enogastronomia Domenica 17 ottobre • Colazione in hotel • Guide esperte • Escursione in barca all’Isola Catalina. • Attività e animazione sull’isola • Tempo per fare snorkeling e immergersi negli “arrecifes coralinos” che vi lasceranno senza fiato • Bibite e liquori nazionali inclusi sia a bordo della barca sia in spiaggia • Pranzo a buffet sull’isola • Trasferimento a Santo Domingo in comodi autobus • Notte libera Lunedì 18 ottobre • Colazione in hotel • Trasferimento privato all’Aeroporto Las Américas di Santo Domingo • Partenza


Worldwide wines

sorriso

Un nella crisi del RIFLESSIONE

APPROFONDITA

vino

(CON

DEGUSTAZIONE) PER CAPIRE CHE COSA È

ACCADUTO AL VINO IN QUESTI ANNI DIFFICILI PER TUTTA L’ECONOMIA MONDIALE

di Roberto Bellini Santo Domingo, il 12 e il 13 ottobre 2010, si svolgerà il concorso “Miglior Sommelier del Mondo 2010 – Worldwide Sommelier Association”. Il largo respiro di questo evento diventa un presupposto di riflessione su cosa sia accaduto al vino in questi ultimi anni, colpiti da una crisi economica non preventivabile. La crisi ha assalito il vino, i consumi già in discesa, con un contro altare di prezzi – sconsideratamente – in ascesa, hanno accelerato la scivolata. L’euforia degli anni Novanta si è trasformata in preoccupazione, il mercato si è infiacchito e invece di discutere di progettualità, già si svendono le bende per fasciare le ferite. Eppure la crisi del consumo del vino non è conseguente all’affondamento delle economie del Giappone, degli Stati Uniti e dell’Europa, è nata qualche anno prima e qualcuno l’aveva in qualche modo analizzata in anticipo. La riflessione odierna scaturisce dalla rilettura del libro delle Edizioni Rouergue, scritto nel 2004 da Guy Renvoisé, dal titolo molto significativo: “Le mond du vin a-t-il perdu la raison?”. Credo che questa domanda provenga addirittura da un’analisi antecedente l’anno 2004 e trovi il suo embrione nel libro del 1996, sempre scritto da Renvoisé: “Le Monde du Vin, Art ou Bluff”. L’onda di criticità che ha investito il vino s’è infranta sulla crisi economica e la fine di questo flusso negativo dovrebbe produrre un rinascimento

A

20

enologico, a condizione che si tenga presente perché siamo arrivati a questi livelli di disordinata criticità, in cui si sono fusi aspetti di spersonalizzazione del gusto, interventi pseudo-tecnici per aumentare artificiosamente i prezzi, disgreganti espressioni letterarie dei “magazines”, con dispettose prese di posizione tra un continente e l’altro; infine si è assistito alla progressiva perdita di identità e di valore di destinazione d’uso del vino, sempre più allontanatosi dalla tavola e dalla sua combinazione con il cibo: non è per questo “marriage” che Gesù Cristo trasformò l’acqua in vino al banchetto per le nozze di Cana? Interroghiamoci allora sul perché il mondo del vino potrebbe aver perso di vista la ragione. La spersonalizzazione del gusto Il gusto del vino ha vissuto un periodo, non del tutto conclusosi, in cui stava pericolosamente uniformandosi, perdendo di fatto il suo collegamento con il terreno da cui le uve avevano tratto la linfa. Qui abbiamo un aspetto spersonalizzante con caratteristiche positive, dovuto all’impiego nei vari vigneti del mondo dei vitigni come lo Chardonnay, il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Sauvignon, le cui personalità avrebbero potuto diversificarsi se fosse stata data loro la possibilità di esprimersi con più naturalità. Il rischio più grosso di spersonalizzazione non positiva sareb-

be stato prodotto, secondo alcuni esperti, dalle selezioni clonali uniformanti, prodotte dall’impiego di un solo clone nei territori. Ciò banalizza il vino, lo rende tecnologico, questo non gli impedirà di svettare nelle valutazioni delle guide, ma il degustatore non potrà più divertirsi a confrontare le diverse sensazioni organolettiche tra i vigneti e tra i crus. Anche l’uso del legno nuovo, soprattutto per i “piccoli” vini, il cui impiego invece di essere interpretato come un elemento migliorativo complessivo, per realizzare un matrimonio euritmico tra il tannino del legno e il tannino del vino, tende invece a far prevalere quello del legno, per cui il miglioramento è diventato solo banalmente odoroso. A tal proposito l’ironia dell’enologo Guiberteau, esprime benissimo l’uso burlesco della barrique: «Non si mette più il vino nel legno, ma del legno nel vino. Certi puristi identificano come spersonalizzazione del gusto anche l’abbandono dei lieviti autoctoni a favore dei lieviti enologici, che producono effetti positivi in fatto di trasformazione di zuccheri per ottenere vini più alcolici, sono ideali per creare un gusto più secco e per apportare un ventaglio di aromi concentrati nei piccoli frutti rossi, con essenze speziate, balsamiche e toni di legno aromatico. Tra i più assidui utilizzatori dei lieviti enologici troviamo gli Stati Uniti e l’Australia, e questo spiega tanti profumi uguali. Questa di sicuro non è la natura-


le espressione della personalità del vino, è un maquillage, che il tempo potrebbe dilavare rendendo il vino anonimamente svuotato». Un interrogatorio di garanzia sul procurato tentativo di omologazione del gusto dovrebbero sostenerlo anche quelle pratiche estremizzate, mirate a concentrare l’alcool con sottrazione di acqua dal mosto, tra cui l’osmosi inversa; o ancora la lentissima inoculazione di ossigeno per accelerare la degradazione dei tannini e procurare una veloce evoluzione del vino. Interventi del genere, come anche il “red hunter”, se esasperati, hanno un effetto dopante e possono sottrarre alcuni eleganti elementi di differenziazione organolettica tra i vini. Non è da dimenticare anche il costo da sostenere per queste attrezzature. Interventi, operazioni e aiuti in vigna e in cantina incrementativi del prezzo L’uso del legno, si sa, può determinare il meglio e il peggio in un vino. Il peggio è prodotto quando l’uso del legno non è destinato a migliorare ma ad abbellire le etichette o le controetichette, con frasi tipo: elevato in barrique. L’uso della barrique è un accrescimento di costo e il consumatore/degustatore si trova a pagare un invadente efflusso legnoso che uccide gli altri profumi. Più pericoloso, anche se meno costoso, è l’uso di aromatizzanti o di chips, perché alterano il gusto del consumatore e creano un po’ di dipendenza a quei profumi e a quei sapori omologanti. Gli enologi. Evitiamo equivoci! Gli enologi sono la miglior “invenzione” nel mondo del vino fin dal 1955. Quando la loro opera è indirizzata alla vigna per ottenere ottimi acini, a iniziare e concludere il viaggio in cantina nel miglior modo, la loro professione è da plaudere. Quando si calano nella figura di uomini di marketing o di analisti di mercato, o addirittura fanno il commerciale, quando cercano l’effetto copertina nelle riviste o tentano di ingraziarsi l’attenzione di qualche guru dell’enoscrittura, oppure quando sono i giudici delle loro produzioni, un po’ di dubbi si creano. L’effetto “star” che ne consegue incrementa il prezzo della bottiglia, talvolta anche il valore della vigna, ma lo scollegamento con la realtà del rapporto prezzo/qualità s’allarga e il consumatore si trova il prezzo della bottiglia gonfiato da costi non di produzione. Anche talune riesposte forme di conduzione del vigneto e della vinificazione (cultura biologica e/o biodinamica) non assicurano un equilibrio tra l’aumento dei costi di produzione e il prezzo del vino. Esemplificativo è il gloriato utilizzo del cavallo per lavorare il vigneto, di sicuro c’è un miglioramento per il terreno e la

non convinzione che lo trasmetta al vino, infine c’è la certezza di un maggior costo ad ettaro. Pubblicazioni e articoli su riviste specializzate e guide Il mondo editoriale ha forse perso parte del suo appeal, ma per molti anni i wine-writers, o meglio i winetasting-writers, soprattutto del potente mercato anglo-americano, hanno procurato dei giramenti di testa e una perdita di ragione a numerosi produttori ed enologi. Molti hanno cercato di catapultarsi nell’orbita delle loro attenzioni, talvolta anche esaltando vitigni avulsi dall’ambiente colturale in cui operano, oppure adottando estreme tecniche di cantina che riproducessero un feeling con quelle idee che esaltavano sapori e gusti d’un mondo enologico insolito. Un prodigio mediatico spesso fatto di giudizi epidermici sulla qualità del vino, dimenticandosi del momento che sublima l’uso del vino e ne fa una verità indiscutibile di beva: il consumo a tavola, quando i bicchieri di vino si devono sorseggiare con facilità. L’uso del vino non combinato con il cibo Vino uguale alimento. Così si parlava in Europa, quando il nuovo mondo ancora non conosceva la vinificazione. Il vino non è più un alimento da molti anni, come conseguenza di un apporto energetico che si è spostato su altri alimenti, in virtù di una mutata condizione di agiatezza sociale, per cui si è resa possibile la disponibilità e l’acquisto per tutte le classi sociali di carne, pesce e altri utili cibi per la sana crescita dell’individuo. Il vino sembra oggi essere diventato oggetto di speculazione. Feautures e acquisti En Primeur tengono banco ogni anno a primavera, accompagnati da improbabili intuizioni nelle degustazioni “en primeur”. Le figure dei Wine Cellar & Investment Experts diventano dei promotori o dei brokers di un’armonia gusto olfattiva del divenire, confidando su presunte potenzialità di affinamento, che quando si concretizzano fanno alzare la mano nelle aste di Christie’s, che da quel che mi risulta nacque nel 1766 e di certo non trattava vino. Verrebbe da dire che hanno ragione Alix e Hubert De Montille, viticoltori in Volnay, Côte d’Or, quando nella retro copertina del Film su CD, “Mondovino” di Jonathan Nossiter, così affermano: «Son vini puttane, ti saltano addosso… ti seducono e poi ti mollano. Vini puttane… vini traditori. Ma il mondo del vino c’è abituato, gli piace essere ingannato». I vigneron, lo sappiamo, sanno parlare di vino con una crudezza logica che può scon-

certare, ma in quelle frasi ci sta tutto il senso della perdita della ragione che già aveva anticipato Renvoisé. Il vino oggi si presenta ai degustatori con tre distinte personalità, con tre diversi mondi organolettici. Finora si è analizzato un vino – e l’universo a esso collegato – che ha perduto la ragione, o forse è meglio dire che sta cercando una ragione per vivere e prendendo in prestito un refrein di Zucchero verrebbe da canterellare: «Troveremo insieme una ragione per vivere, perché il mondo fuori è difficile». Verrebbe da dire, attingendo al Signore degli Anelli, che è un vino prodotto nelle “Terre di Mezzo” (Mondo di Mezzo) per cui il suo è un gusto di mezzo, che è differente e migliorativo rispetto a mezzo gusto. È vero il mondo fuori è difficile, perché è il mondo vero, quello che non cede alle sireniche tentazioni dei lustrini del palcoscenico, che non danza sui puntini delle “i” negli articoli giornalistici guidati e fa semplicemente il proprio vino: suo di lui! Questo mondo vinicolo sta ai lati del gusto di mezzo: da una parte c’è il mondo dell’enologia e del vino classico, quello della tradizione e della storica radicazione; dall’altra parte c’è quello del nuovo, di quella innovazione che non ha impiegato bacchette magiche, ma si è guardata indietro, ha annusato il proprio terreno e si è messa in discussione. Il Mondo classico del vino è quel mondo – sia vecchio sia giovane – che non ha creduto alle promesse, ciò non significa che sia rimasto fermo, ma ha solo rifinito e finalizzato al meglio le proprie potenzialità, spesso anche abbigliandosi meglio. Il carattere e la personalità è rimasta uguale, una tempra ben salda e un decoro che attira rispetto. Da questi vini, i produttori più avveduti, hanno saputo costruire anche il nuovo, attingendo alle loro esperienze per attualizzarle nel circuito dei mutanti gusti della modernità. Il Mondo nuovo del vino ha studiato nuovi equilibri nell’essenza del gusto, ha disegnato nuove linee olfattive senza opprimere i naturali profumi dell’uva, ha ammorbidito i tannini senza privarli della loro rugosità, ha smussato le asperità acide, ha reso più espressiva la sapidità, ha lucidato i colori, finalizzando una facile potenzialità di beva. In altre parole è quel nuovo vino che sta studiando per diplomarsi al classico. Il racconto delle degustazioni che seguono è un tentativo di rappresentare, senza confrontare, i due mondi del vino: il Classico e il Nuovo. È chiaro che tanti altri vini potevano essere gli ambasciatori di questi gusti, quelli presenti sono stati scelti in parte per affezione, in parte perché facilmente reperibili sul mercato e per alcuni si è tirato a sorte.

21


Worldwide wines

Il mondo classico e quello nuovo si sono ben separati nella penisola e stanno stritolando quel gusto di mezzo che parve presentarsi con frequenza in certi vini delle zone calde del sud. L’evidenza di questo processo è per ora più avvertibile nei vini rossi, ma un nuovo movimento enologico si sta appropriando del way of taste del vino bianco.

CLASSICO

ITALIA

NUOVO

Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Riserva 2006 Villa Bucci, 13,5% vol. Il vitigno è di sicuro un Classico, il vino lo è diventato dopo anni e anni di costante e rigorosa deferenza per un’uva non nobile, ma strettamente legata alla vicende enologiche del terroir marchigiano. Le uve sono scelte nei vigneti di oltre 40 anni; grandi botti di rovere di Slavonia lo cullano per 18 mesi senza viziare la purezza acida della cultivar. “Paglierino dorato, ha un tono più espansivo e complesso al palato che all’olfatto, dove trattiene un pulito fruttato, un tocco di borotalco e un finissimo vegetale. Ha equilibrio sapido e finale elegante”.

Manna Franz Hass 2008 Vigneti delle Dolomiti IGT, 13% vol. Nel 1995 Franz Haas scelse di realizzare un vino Nuovo. L’intento era di creare un gusto che incontrasse ed esaltasse il sapore dei cibi. Un vino per la tavola, non per le medaglie. Da uve Chardonnay, Riesling, Sauvignon e Traminer aromatico da raccolta tardiva, Franz plasma un vino che sinergizza le migliori singolatirà di ogni uva, come un’elisirica alchimia. “Lucido colore verdolino/paglierino. Erbe aromatiche che condiscono un sale marino sono la spina dorsale del profumo, sottofondo agrumato sia all’olfatto che al palato, finale equilibrato e minerale”.

Barbaresco Asili di Barbaresco 2007 Az. Agr. Falletto - Bruno Giacosa, 14,5% vol. “Favilla di follia” scrisse Mario Soldati di Bruno. Un purista del Nebbiolo, foriero di una ortodossia viticola tra le più integraliste delle Langhe, un conoscitore di uve e di vigne senza pari, un fautore dell’uso di botti grandi. Un vino che è il fondamento del Mondo Classico e che potrebbe forgiarsi in un gusto eterno. È il vino dei “vecchi”, quello di Mario Soldati e di Luigi Veronelli. “Mediamente granato. Classicamente fruttato e floreale, come vuole il Nebbiolo. Finissimo è il sentore fumé di carne cotta sulla pietra arroventata. Impetuoso tannino addolcito da spezie, il finale insiste nella menta secca e nella ciliegia”.

Flaccianello della Pieve 2007 Az. Agr. Fontodi, Colli Toscana Centrale IGT, 15% vol. Un Sangiovese reale, un urlo degustativo per annunciare il vero gusto di quest’uva agreste e contadina. Per questo motivo il Flaccianello diventa abitante del Mondo Nuovo del vino. È vero che fa barrique nuova per 18 mesi, ma ciò che attira a se, nelle tre settimane di macerazione con follatura, non viene minimamente contaminato da quel passaggio: è un sangiovese che graffia di fruttato e tale resta. “Fitta trama rubino. Viola mammola e ciliegia, balsamico e minerale, residuale tocco vanigliato. Tannico fino all’inverosimile, senza sottrarre la freschezza del Sangiovese, lascia un allungo gusto olfattivo di spezie dolci”.

L

Qui il Classico è di casa, o così lo vorrebbero far passare i cugini d’oltralpe; in realtà anche loro hanno ceduto qualcosa a the Man from Maryland, soprattutto nel Bordeaux dopo la degustazione shock del 1976: ciò ha restituito classicità alla Borgogna. Il Mondo Nuovo del vino è targato Languedoc e dintorni, con l’abbandono dell’Aramon a favore della presenza di uve dai nobili vigneti della fascia tra 45° e 46° parallelo.

CLASSICO Chablis 1er Cru Vaillons 2007 Domaine Servin, 12,5% vol. Chardonnay a tutti i costi. L’asettica e fredda purezza dell’acciaio per esaltare al massimo il Classico Mondo dell’alta Borgogna. La protezione della bipartizione tra mineralità e la selvatica freschezza delle susine di vigna, ci mette in contatto con un antico modo di fare vinificazione, intelligentemente integrato dal soccorso tecnologico. “Veste dorata. Profumi permeati da floreale: camomilla, ginestra e soffio di zagara. Sentori di agrumi e di pesche a pasta gialla tracciano il sentiero olfattivo e gustativo. Finale minerale e sapido”.

22

FRANCIA

NUOVO Vin de Pays des Côte Catalanes 2007 Vielles Vignes, Domaine Gauby, 13,5% vol. La volontà di distaccarsi dallo status quo enologico del Roussillon, produttivamente abbondante e un po’ alcolico, ha avuto buon gioco. Costringere vigne di 40 anni, come Macabeu, Grenache blanc, Carignan blanc, Grenache gris a produrre 15 hl/ha e cesellarle di Chardonnay, è stata la soluzione per approdare nel Mondo Nuovo. “Oro vecchio al colore. Ampiezza olfattiva espressa da sentori di erbe officinali, da rosa bianca, da tisane mille erbe, da scorza di arancia amara. Freschezza al sapore di sorba matura, finale lunghissimo”.


La Spagna ha tenuto con una certa involontarietà gran parte della viticoltura ad uno stadio di ancestrale classicità. Dal 1975 – fine del Franchismo – si è sviluppato un forte movimento enologico che riattingendo dai vitigni della Gironda ha innovato soprattutto i rossi, dalla Ribera del Duero al Priorat.

CLASSICO

SPAGNA

NUOVO

Viña Tondonia Blanco Gran Reserva Vinos Finos de Rjoia, 1987 Bodega R. Lopez de Heredia, 12% vol. Più Mondo Classico di questo è arduo trovarlo. Prodotto con uve Viura per il 90% e Malvasia 10%; un prolungato affinamento in legno – fino a 9 anni – lo chiarifica in modo naturale. È un vino individualista, con una esteriorità arabescata da dettagli di antiche tradizioni; anche se alla sua maniera ha un’eleganza chic e un colore dorato “shocking”. “Oro vecchio. Strepitoso al terziario, con medicinale, miele di resina di pino, garrigue, chicco di caffè fresco e fumé vegetale. Salato al gusto, vellutato e armonico, finale con sentori di paglia appassita”.

Albariño Rias Baixas 2009 Adegas Valmiñor, 12,5% vol. L’uva ha trovato il suo Nuovo Mondo abbandonando la compagnia del Godello, dell’Arinto, del Caiño e di altre; queste uve ne opprimevano l’elegante fruttato dal sapore di pesca e di albicocca, neutralizzavano la sua minerale sapidità e impedivano quelle aromaticità vegetali e floreali che nascono spontanee nei “rias”: i frastagliati fiordi che degradano nell’oceano. “Galego” al colore, direbbero i galiziani. Profumato di erbe aromatiche e di fiori bianchi primaverili, ha un fruttato al sapore di albicocca e melone bianco. Sapidità salmastra e chiusura agrumata”.

Pagos Viejos 1999 Rioja Artadi, Cosecheros Alaveses SA, 13,5% vol. O Tempranillo, mio Tempranillo. Un Mondo Classico ancorato a vigne di 75 anni e si sussurra, nel rispetto della tradizione, anche l’uso di un’idea di uve bianche: Macabeo e Viura. Prendendo spunto dal significato di Pagos Viejos, (vecchi debiti), verrebbe da pensare che sia un modo di mantenere in vita l’attimo che creò quel debito enologico, rinnovandone l’importanza come fosse un credito organolettico. “Rosso granato. Terziarizzazione aromatica definita da sentori ferruginosi, di ruggine, di terra bruciata, liquirizia, liquore di ciliegie, nocino e cacao amaro. Gusto caldo ed equilibrato, finale di gusto prolungato”.

Priorat Finca Dofì 2001 Alvaro Palacios, 14% vol. Il Mondo Nuovo del vino spagnolo: Tinto Crianza, Garnacha e Cariñena, duettano con Syrah, Merlot e Cabernet, in un perfetto stile che strizza l’occhio al naso anglofono. Ha quel ricercato nuovo senso tattile del tannino che crea un effetto di tessuto setoso senza cuciture: mette insieme vellutatezza e potenza. “Rubino/granato. Piccoli frutti rossi e fiori secchi accompagnano la spinta olfattiva dell’erbe aromatiche secche, finale di cacao. Caldo e tannico per un equilibrio compiuto e dal finale balsamico”.

CLASSICO Morey Saint-Denise 2005 En la Rue de Vergy, Domaine Pierrot Minot, 13% vol. Nel 1855, Jules Lavalle, espresse in modo semplice la classicità del Pinot nero di questo piccolo villaggio: non gli manca niente. Ancora oggi la polpa fruttata e linfatica del lampone combinato con la violetta, è oggetto di tutela nella vinificazione, per rimarcare il Mondo Classico di questa enologia, che traballò una trentacinquina di anni fa per errati consigli sugli integratori del suolo, ma senza scossoni si è ricomposta integralmente. “Rubino di media trasparenza. Fiori, frutti e spezie. Menta secca e coriandolo, ciliegia, lampone, noce moscata e cuoio. Finissimo il tannino, felpata l’acidità, lunghissimo finale speziato”.

L

NUOVO Clos Syrah Léone Coteaux du Languedoc 2002 Domaine Peyre Rose, 14,5% vol. Dal Rodano scende un vitigno nobile, il sole del Midi lo nobilita nella maturazione e lo condisce con il Mourvèdre. Queste combinazioni varietali rappresentano il Mondo Nuovo di Francia; generano un gusto rinfrescato nella sapidità e allontanano la personalità dei vini del sud, dalle rischiose attinenze con lo stampo enologico della caliente Spagna. “Granato scuro. Avvolgenti profumi di confettura di mirtillo impattano nel tabacco dolce “latakia”, nel fondo di caffè e nel pepe nero. Caldo in alcool e ancora tannico, di un tannino succoso e al finale di fiore di lavanda”.

23


Worldwide wines

La viticoltura tedesca è “cool” – fredda – solo per l’aspetto climatico. Il mondo del vino e in continuo fermento, e la distanza tra vino Classico e Nuovo è minima, per effetto di quel costante e comune denominatore gustativo che è la prorompente freschezza. L’uva Riesling è quella che interpreta al meglio la viticoltura, si parla infatti anche di “Generation Riesling”.

CLASSICO Riesling Zeltinger Schlossberg Spätlese Trocken 2007 Selbach-Oster, 12,5% vol. La filosofia aziendale è: “Su le mani in vigna, giù le mani in cantina”. Il rispetto per questa uva rasenta la maniacalità. La volontà è di spremere l’uva non solo per la qualità della sua polpa, ma anche per l’accumulazione minerale che è riuscita a calamitare. Granitica è l’impronta che imprime la presenza nel Mondo Classico “Vivacemente paglierino. Spicca il classico idrocarburo, mixato con lemon grass e verbena. Freschezza con sprint gustativo sapido, finale di gusto minerale e chiusura gradevolmente rifinita nel pompelmo”.

L

NUOVO Riesling Wehlener Sonnenuhr Spätlese Trocken 2008 Alte Reben, Kerpen, 12,5% vol. L’essenza di questo Riesling sfiora il mistero per la sua levità, se paragonata ad altre tipologie. La personalità è riconoscibile ma inafferrabile, c’è un’inedita sensazione di mineralità botritica, per ricercare l’effetto di una insolita cremosità rinfrescante: qui insiste questa dissensione dal classicismo verso il Mondo Nuovo. “Verdolino luminoso. Rinfrescanti sentori di pompelmo si miscelano con note di zafferano, di zucca gialla e di tarassaco. Spicca l’assenza di idrocarburo e offre un gusto secco, fresco e sapido”.

La California ancora docet in enologia, ma il fatto di produrre ancora vini per ogni palato, dimensiona gli USA in un pianeta di vino ibrido. La grande classicità sta tutta nel Bordeaux Style, importato negli anni ’60 da Mondavi, ma quella più antica resta nello Zinfandel. Il Mondo del Nuovo (gusto) sembra vivere ancora sugli allori della degustazione di Parigi del 1976: quella che per gli americani cambiò il mondo del vino.

CLASSICO

GERMANIA

STATI UNITI D’AMERICA

NUOVO

Sauvignon Blanc Napa Valley 2007 Beringer, 13,5% vol. L’appeal per il flavour fumé (Fumé Blanc come lo coniò Mondavi) si è saldato nel gusto dei sostenitori del Sauvignon americano, tanto da renderlo un perno del Mondo Classico. Beringer, con un alone ancora inzuppato di uno stile ereditato fin dal 1880, lo ha depurato del suo passato e alleggerito nel varietale. “Brillante e paglierino. Le note odorose di un vegetale fumé duettano con il profumo del basilico e del bosso. Il piccante varietale dell’acidità è ammorbidito da un finale di gusto al sapore di camomilla dolce”.

Chardonnay 2008 Monterey County Francis Coppola Winery 13,5% vol. Uno Chardonnay che s’è allontanato dal Côte-deBeaune-Style non significa che sia migliorato. Eppure la cremosità fruttata che esprime questo vino, alla ricerca di una identità locale seguendo la filosofia di un wine-maker autoctono, è quanto di più interessante si possa configurare nella ricerca di quello spunto di Mondo Nuovo per il Golden State. “Dorato splendente. Aroma di fruttato intriso di vaniglia, pepe bianco, mango, ananas e pesca gialla. Gusto insaporito dalla mineralità, chiude con una proiezione gusto olfattiva di spezie orientali”.

Zinfandel Sonoma County 2002 Old Vine, Seghesio Family Vineyards, 15,6% vol. Lo Zinfandel sta a Sonoma come i Los Angeles Lakers stanno al basket. Più vino Classico di questo non si può, e il suo status attuale se lo è guadagnato superando le intermittenze enologiche del White Zin, del Jug Wine e del Blush Wine: L’uso di ceppi anziani concentra la sua ricca personalità fruttata e talvolta alcolica (sic!). “Granato scuro. Sottobosco secco e fieno, chiodo di garofano e mirtilli al cognac creano lo scenario odoroso. Alcool molto corroborante, Amarone-Style; il finale di gusto è speziato:chiodo di garofano”.

Syrah Napa Valley Relentless 2002 Shafer Vineyards, 14,9% vol. Un Nuovo che viene da lontano, metà anni 90, come alternativa alle rosse del Médoc. C’è un’ossessione del Relentless, le due uve, Syrah e Petit Syrah non devono fondersi, devono stratificarsi nei profumi e nei sapori, per spandersi al naso e al palato, creando una esplosione gusto olfattiva. L’etichetta lo etichetta, relentless: ovvero gusto “inflessibile”. “Sembra un granato abbronzato. Ampissimo il profumo di cedro del libano, eucalipto, mora, cassis, fico rosso al cioccolato, menta. Struttura espressa da un tannino speziato e setoso, finale minerale, d’humus”.

L

24


Il forte consumo interno e gli anni dell’isolamento politico hanno bloccato l’evoluzione dell’enologia della nazione. Il Mondo Classico argentino è rappresentato dal motto casalingo “easy to drink”, con un denominatore di sensazioni di frutta cotta in forno, una incerta freschezza e una qualità minata da una resa ettaro quantitativa. Dal 5° paese produttore ci si attende un balzo imminente.

CLASSICO Torrontés 2008 Bodega Alta Vista, 14% vol. D’Aulan produceva champagne e questa esperienza argentina, dal 1980, è indirizzata a innovare la naturalità fruttata delle tipiche uve del territorio. Modellare un nuovo Torrontés è una sfida che impegna l’azienda e il viaggio iniziato lo sta già spogliando dal liso abito Classico che lo abbigliava. “Paglierino con unghia verdolina. Profumo dominato dal timo e da altri sentori vegetale. Freschissima è la componente fruttata; ha acidità sottile e metallica, finale di gusto curiosamente amarognolo”.

L

ARGENTINA

NUOVO Malbech 2007 Wine of Argentina, Famiglia Bianchi, 14,5% vol. Il Malbec ha prestazioni migliori qui che nel Bordeaux, così afferma anche Raul Bianchi, e c’è da credergli. I vigneti a 750 metri s.l.m. e un incantato incastro climatico secco/caldo/freddo ne fanno un vino dai sorprendenti tannini “soft” e lo proiettano come spot-wine argentino, con una particolare attenzione al prezzo. “Porpora molto intenso. Un’alternanza olfattiva tra fruttato e vegetale si riconosce con menta e rosmarino, ciliegia e mora. Ha un calore corroborante che stempera il vegetale del tannino e lo rende vellutato”.

Down under wine per un gusto del vino tutto sotto/sopra. La Nuova Zelanda fa parte del nuovo mondo a tutto tondo, eppure già si legge tra le righe la possibilità di disegnare una linea di confine tra Classico e Nuovo. Nella terra delle lunghe bianche nubi (Aoteraroa), Chardonnay e Sauvignon diventano astrali e se vuoi competere internazionalmente con il Pinot Noir è qui che devi farlo crescere. La purezza del vino è garantita dall’abbandono del tappo di sughero.

CLASSICO

NUOVA ZELANDA

NUOVO

Sauvignon Blanc 2008 Marlborough Delta Vineyards, 12,5% vol. Ormai i tutti-fruity Kiwi wine fanno parte di una recente nostalgia (1973). Questo è un Sauvignon da Mondo neozelandese Classico, perché solo a Marlborough è istantaneamente riconoscibile per la sua diversa unicità verso le altre espressioni enologiche. Il sapore della sua acidità viene definito effetto piercing, per l’acutezza non dolorosa della sua personalità. “Brilla il colore paglierino. Simpatico aroma di foglia di fico, classico peperone giallo, salvia e susina. Decisamente sapido ed equilibrato, ha un lungo finale al sapore di frutta tropicale”.

Chardonnay 2006 Marlborough, Cloudy Bay, 14% vol. Cloudy Bay è una winery del nuovo gusto. La chiave di lettura enologica di questo Chardonnay Mondo Nuovo sta nell’inclinazione verso il gusto di noce fresca e di pistacchio, fusi in un biscotto al burro bagnato con un tea al gusto di camomilla. Il legno è intenzionalmente e prudentemente giudizioso per non viziare la preziosa purezza del flavour. “Dorato intenso, scorrevolezza consistente. Ampiezza olfattiva composta da sentori di anacardo, pistacchio fresco, noce bianca e caramella al latte. Sapido e caldo, ha finale al flavour di un biscotto burro e limone”.

Pinot Noir 2007 Martinborough Ata Rangi, 14% vol. Scrisse Jancis Robinson di Martinborough: il Pinot Nero è stato a lungo coltivato in Borgogna, ma è anche particolarmente disposto a cambiare luogo. Qui ha trovato una combinazione inattesa: suolo, clima e wine-maker disposti a misurarsi con l’imperatore. La febbre da Pinot Nero ha creato contagio e reso Classica questa nuova enclave. “Colore intenso nel rosso ciliegia. Super espressivo nel fruttato, ciliegia e mora di gelso, tocco di caucciù con fumé minerale e legno bruciato. Tannico con sobrietà e caldo quel tanto da comporre una sapidità speziata”.

Pinot Noir 2005 Hatter’s Hill Marlborough Delta Wine Company, 14,5% vol. Marlborough è un territorio vibrante, innovativo e con un’economia di successo. Il distacco dal classicisimo enologico neozelandese sta nell’intreccio tra nuovo e vecchio modo di estrazione durante la vinificazione e nel blending finale. Il vino si allontana un po’ dalla sua soggettività fruttata e scivola in una mineralità di pietra affumicata. “Granato con anello aranciato. Pienamente fruttato, spicca la marmellata di mora, un pizzico di caramello e resina affumicata. Domina la parte alcolica che addomestica un tannino già levigato”.

L

L

25


Worldwide wines

Il mondo enologico australiano ha una dinamicità che rende critica l’analisi. A lungo posizionatasi sull’antiterroir e divisa tra vini generici e varietali, la filosofia enologica wallabies spicca il volo nel 1988 quando Decanter incorona i suoi Chardonnay, fissando al 4° posto un vino del New South Wales. È stata anche la patria dei multi blended wine, con un uso così accurato del varietal Shiraz fino a forgiarne uno stile indigeno.

CLASSICO

AUSTRALIA

NUOVO

Chardonnay M3 2007 Adelaide Hills Shaw and Smith, 13% vol. Nonostante la recente costituzione, il lavoro effettuato sullo Chardonnay, ha posizionato il vino in pieno Mondo Classico. Nel vigneto M3 è stato piantato un clone Borgognone, il clima freddo e l’altitudine di 420 metri s.l.m. sintetizza un distillato di profumi veramente particolari e l’accompagna con una mineralità esuberante. “Paglierino dorato. Intensamente fruttato: ananas, papaia, pesca gialla, contornato da nocciolina e mineralità. Ottima congiunzione fresco/sapida, finale lungo ed elegante, al sentore di pepe bianco”.

Semillon, Sauvignon Blanc Mangan Vineyard 2007 Margaret River Cullen, 13,5% vol. In vigna e in cantina si tende a evitare l’intervento dell’uomo, il winemaker deve assicurare un frutto perfettamente maturo, poi il vino si farà da se. È un’enologia danzante, il vino è movimentato con delicata lentezza e rifinito con premurosa gentilezza. È il Nuovo mondo, quello dell’uvaggio dinamico, prevale l’uva che nell’anno è riuscita meglio. “Giallo verdolino vivacissimo. Spunto vegetale di melissa, crisantemo, susina gialla, tanto esprime l’80% di Sauvignon. Sapore al gusto di pesca gialla condito con lime spremuto. Finale sottilissimo e freddo come l’acciaio”.

Shiraz Bin 128 2006 Coonawarra Penfolds Wines, 14,5% vol. Dal 1962 il vino riflette a pieno lo stile del clima freddo delle “Terre Rosse”, non è un caso quindi che venga chiamato cool-Shiraz. Il suo legame al Mondo Classico lo ha trasformato in uno vino simbolo per tutti coloro che dallo Shiraz tentano di ottenere un vino di classe A ad un prezzo molto appetibile “Intensa fusione tra rubino e granato. Crema di cassis, mora di gelso, cioccolato e menta, eucalipto e la classica violetta. Fruttatissima l’espressione rilasciata dal tannino, sapido e succoso il finale”.

Cabernet Sauvignon, Merlot 2003 Diana Madeline Margaret River, Cullen Wines, 13,5% vol. Una combinazione di uve bordolesi, che al sole del suolo granitico di Wylliabrup maturano a tal punto che creano invidia ai vigneron girondini. È un BordeauxStyle con cittadinanza Australiana, con spunti organolettici olfattivi e gustativi da Mondo Nuovo. Cullen si aspetta dall’adozione della biodinamica un pieno recupero della naturalità delle uve. “Granato compatto. In successione emergono sentori di bell pepper, erba tagliata, mirtillo, prugna, pepe nero e cannella. Gli effetti tannici e alcolici si estinguono nella loro potenza, finale al sentore di legno di sandalo”.

L

L

26

L

L


Il successo cronico e planetario dello Champagne ha traghettato l’idea del vino mosso in svariati territori del mondo, e al pari delle comete e delle meteore, alcune produzioni solcano, di volta in volta, un cielo che sembra risiedere solo sopra la Valle della Marne. È facile individuare nei vigneti dei territori di Reims ed Épernay la classicità: 350 anni di storia sono incancellabili. Spagna e Italia stanno emergendo come dei competitori, ma devono evitare il confronto e l’emulazione. Altre micro realtà, come quelle del Sussex o gli Sparkling di Australia e Nuova Zelanda stanno facendo progressi non immaginabili alcuni anni or sono. La bipartizione del confronto degustativo resta un’analisi tra lo Champagne e la produzione italiana, e per questa Trento e Franciacorta.

CLASSICO

CLASSICO E NUOVO SPARKLING

NUOVO

Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2000 Fratelli Lunelli Classico Trento Doc. L’azienda sfrutta uno Chardonnay coltivato a 600 metri s.l.m. e un’esperienza di spumantizzazione tra le più datate del paese Italia. La rigorosa selezione delle uve favorisce una sosta prolungata del vino “sur lies” dopo la presa di spuma. La combinazione tra la personalità del variétal e il terroir è ottimizzata al livello massimo. “Chiarissimo il paglierino. L’olfatto ha una mineralità così definita nell’eleganza da ricordare il gesso di belemnite, è floreale e agrumato. Al gusto si impone una sapidità finissima, il finale è da record del mondo”.

Franciacorta 2005 Dosage Zero Ca’ del Bosco L’idea si spogliare il vino dall’addobbo del dosage, per lasciar esplodere l’eccellenza del terroir e dei frutti del vigneto. Maurizio Zanella ha cambiato la sua Franciacorta per costruire la Franciacorta, sembra un paradosso, ma è un tratto dell’essenzialità intellettuale di un modo di fare “bollicine” che ha reso artistici i suoi vini ed energizzato tutta la denominazione. “Paglierino trasparente e traslucido. La connessione odorosa tra il fruttato, il floreale e il fragrante rende ampia la raggiera olfattiva. Ha secchezza ben supportata da acidità e mineralità, gran finale di lime”.

Champagne Bollinger Special Cuvée Brut Il rispetto della materia prima, l’uso di lieviti “tradizionali”, l’alchimia nell’uso del legno, del vetro e dei vins de réserve sono l’essenza della Classicità Champenoise. E poi quei 36 mesi “sur lies”, a sfruttare il meglio dell’autolisi e creare infine quella equilibrata armonia tra i segmenti dell’evoluzione odorosa che si concludono con ossidazione controllata. “Ha colore paglierino cristallino. Fragranti note odorose di autolisi fluttuano tra il biscottato, foglie di tabacco e uvetta al Cognac. Freschezza coesa con il pizzicore della CO², sapidità agrumata e finale di miele amaro”.

Champagne Ulysse Collin Blanc de Blanc Extra Brut Un’ispirazione giovanile ben riuscita, uno stage formativo da Anselme Selosse e per Olivier il gioco è fatto. Dal suo miglior vigneto, Les Perrières, lo Chardonnay viene vinificato in stile borgognone, in modo che la CO² illanguidisca nel cremoso fruttato e sollevi il valore della mineralità gessosa della sua sapidità “Giallo con riverbero di paglia al sole. Profumo di pasta frolla, gelatina di gelso bianco, convolvolo e ananas. Gusto sapido, cremosamente fresco, crea l’effetto di un sorbetto al moscato, finale di gusto alla gelatina di cedro”.

L

L

L

A conclusione di questo impegno degustativo diventa imperativo pensare al vino del futuro, quello oltre la fase critica odierna, con obiettivo ottimismo. La filosofia gusto olfattiva si sta ricompattando, l’auspicato superamento dei pericolosi livelli di gradazione alcolica dovrebbe prendere la via del ritorno, la super concentrazione ed estrazione si sta affievolendo. Il nuovo mondo sta evitando le eno-clonazioni, l’affievolimento della vecchia Europa ha rinascite diseguali, così i microvitigni sono oggetto di curioso studio e la spinta al riesame dell’autoctono si fa concreta. “Piccolo è bello” sembra potersi calare anche nell’enologia non aulica, dove per piccolo si deve intendere, semplice e gustoso, un po’ come il Km zero dell’approvvigionamento alimentare. Il tutto può presentarsi non privo di qualche sconforto, ma come diceva Veronelli: «Buon vino non è nulla senza gioia».

27


Didattica

L’internazionalità diventa un

libro

“IL VINO NEL MONDO”, L’ULTIMO NATO IN CASA AIS, È UN VOLUME SULL’ENOGRAFIA MONDIALE CURATO DA

ROSSELLA ROMANI

n lungo viaggio tra le colline, i vigneti e le cantine di tutti i continenti, dall’Europa alle Americhe, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dalla Repubblica Sudafricana all’Oriente, per scoprire un affascinante mosaico di culture e sapori, filosofie e stili di produzione. Tutto questo è Il Vino nel Mondo, l’ultima pubblicazione edita dall’Ais che sarà un testo di riferimento per gli allievi del corso di secondo livello e per tutti gli enoappassionati. Partiti dalle radici più antiche e profonde della vitivinicoltura, si è arrivati alle nuove frontiere del mondo enologico, nelle quali l’approccio verso la conduzione della vigna e le tecniche di cantina è spesso molto influenzato dalle richieste dei mercati, con una gestione moderna e imprenditoriale. E svincolato, a volte, da quella passione un po’ ingenua e un po’ testarda che anima ancora alcuni vignaioli del cosiddetto Vecchio Mondo enologico. Negli ultimi decenni molti Paesi si sono affacciati nel mondo del vino, spesso con ottimi risultati. Ma è indubbio che, in tema di vino, alla Francia si deve riconoscere un grande carisma, un intreccio di storia e rigore in vigna, consolidate tecniche di cantina e leggi

U

30

chiare e precise, vincenti strategie di marketing e un indiscusso peso politico. Un mondo, quello del vino francese, trainato da alcuni vini leggendari, come i grandi rossi di Bordeaux, le eleganti bollicine della Champagne, gli spettacolari profumi dei bianchi d’Alsazia. Ma la Spagna non sta a guardare, con un trend quali-quantitativo in costante crescita, seguita

dalla California, dall’Argentina e da molti altri Paesi ai quali la definizione di Nuovo Mondo enologico sta stretta, in quanto rappresentano ormai una realtà di valore assoluto nel panorama del vino. In alcuni casi, la mancanza di un substrato di tradizione e di storia è stata colmata con l’entusiasmo e l’organizzazione, l’applicazione e un po’ di sano spirito di emu-


lazione. Tutto questo e altro ancora, come lo sfruttamento di condizioni pedoclimatiche ottimali e l’impiego di tecnologie avanzate, ha permesso a questi Paesi di recuperare il gap con l’Europa. E in alcuni casi di superarlo. In Italia e in Francia il consumo di vino/procapite sta seguendo da anni una tendenza negativa. Al contrario, in molti Paesi extraeuropei si assiste a un aumento dei consumi, nonostante culture gastronomiche che fino a pochi anni fa non prevedevano la presenza a tavola della nobile bevanda. Tra i motivi più importanti si possono sicuramente sottolineare l’incremento produttivo, tangibile sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo e, a volte, l’invitante rapporto qualità/prezzo. Un elemento di innovazione, anche per il consumatore, è legato alla nuova Organizzazione Comune di Mercato del Settore Vino (OCM Vino), entrata in vigore il 1° Agosto 2009, di cui l’Unione Europea si è recentemente dotata. La nuova disciplina, non ancora completamente recepita dai singoli Stati membri, introdurrà una suddivisione molto rigorosa tra i vini con origine e quelli classificati senza origine, pur consentendo a questi ultimi la possibilità di indicare anche il vitigno di provenienza, cosa finora non consentita dalla normativa vigente. È evidente che il livello qualitativo dominante continuerà a rimanere prerogativa dei vini dotati di un riferimento alla loro origine, catalogati a loro volta in DOP e IGP. Queste due sigle, già utilizzate per gli altri prodotti alimentari europei, ricondurranno in ambito comunitario molta della materia che fino a oggi è stata di competenza nazionale. Ancora più interessante sarà la netta distinzione di ruoli e competenze, attualmente non sempre chiara, tra gli enti che si occuperanno della promozione e della valorizzazione dei vini e quelli ai quali sarà affidata la titolarità sui controlli. L’obiettivo della stesura di questo testo è stato quello di proporre una pano-

ramica del mondo del vino con un linguaggio semplice e chiaro, che trattasse tutte le principali produzioni senza trascurare qualche chicca, qualche sorprendente novità. I capitoli si sviluppano seguendo un ideale canovaccio, che inizia con un inquadramento della realtà enologica e gastronomica del Paese, prosegue con un excursus storico dei passaggi decisivi per lo sviluppo della vitivinicoltura e con informazioni sulla produzione, sui consumi e sulle tendenze dell’importexport. Successivamente si entra nel vivo dell’argomento, andando alla scoperta dell’ambiente pedoclimatico e dei vitigni più significativi di ogni Paese, in grado di disegnare nel bicchiere infinite sfumature di colori, profumi e sapori, nei quali leggere quella magica alchimia, quel legame indissolubile che si crea tra terreno, microclima e mano dell’uomo. Vitigni e vini, spesso, si presentano con lo stesso nome. Ma un vitigno può dare vini con personalità molto diverse, secondo il territorio e la filosofia produttiva applicata: ecco perché, per evitare malintesi, si è scelto di indicare i vitigni con le iniziali minuscole e i vini corrispondenti con quelle maiuscole. Le principali zone vitivinicole sono state trattate con lo scopo di fare emergere la loro impronta enologica, attraverso i vini e i produttori più rappresentativi, con alcune suggestioni gastronomiche giocate su abbinamenti a volte tradizionali a volte più creativi. Ogni capitolo chiude con le indicazioni più importanti della legislazione vitivinicola di ogni Paese e, in quelli più complessi, una pagina Focus

riassume le notizie più significative per permetterne una migliore memorizzazione. Qualche numero? 30 cartine, 24 grafici, oltre 550 pagine e foto di vitigni e vigneti, cantine ed enoteche, piatti e cibi, frutta e fiori, spezie e tutto ciò che si può ritrovare nei profumi del vino, misteriosi e affascinanti. Le cartine non hanno l’obiettivo di entrare in specifici dettagli geografici, ma quello di esemplificare la distribuzione delle principali zone vitivinicole, anche se a volte le regioni si intrecciano e si accavallano, quasi divertendosi nel rendere più complicata la decifrazione di un territorio. Le cartine, tranne rarissime eccezioni, sono da leggere da nord a sud e da ovest a est. Quello che conta, alla fine, è ciò che il vino sa trasmettere. E il vino non mente. Il principio ispiratore di questo testo è stato quello di offrire un bagaglio di informazioni da portare con sé in un percorso ideale nel mondo del vino, che può durare tutta la vita. Ma soprattutto di incuriosire e stimolare coloro che lo amano a intraprendere un viaggio per scoprire nuovi vini da assaggiare, da conoscere e da capire. Un viaggio affascinante che si può realizzare concretamente dedicando qualche ora di un weekend o di una vacanza alla visita di una cantina, o più semplicemente tra gli scaffali di un’enoteca, alla ricerca di un vino che aspetta di condividere con noi una piccola, fugace emozione, a tavola e in compagnia di qualche amico appassionato, con il quale parlare del suo colore, dei suoi profumi e dei suoi sapori. 31


L’intervista

Sommelier

senza frontiere

L'Atlantis The Palm 32


di Emanuele Lavizzari

LA STORIA DI VINICIO ALBERELLI, PARTITO DALLA LIGURIA PER INTRAPRENDERE UN’AVVENTURA PROFESSIONALE NEGLI EMIRATI ARABI rattacieli immensi, sceicchi e petrolio, tanto petrolio. Sono queste le prime immagini che vengono in mente quando si parla di Emirati Arabi. Ma lo Stato asiatico che si affaccia sul Golfo Persico non è solo questo. O meglio, è anche altro grazie a tutto ciò. Sì, perché il petrolio presente nei giacimenti di Abu Dhabi, capoluogo dell’emirato omonimo e capitale del Paese, rappresenta il 9% delle riserve mondiali, a cui si aggiunge il 5% di gas naturali. È facile intuire che risorse di queste dimensioni siano quasi incalcolabili e le stime degli esperti parlano di disponibilità almeno per il prossimo secolo. Ma una cosa è certa: l’enorme ricchezza proveniente dagli idrocarburi è investita continuamente nello sviluppo dei principali centri urbani. Così dopo Abu Dhabi il pensiero va subito a Dubai, città divenuta ormai celebre per le costruzioni avveniristiche sorte in tempi record negli ultimi anni, là dove prima riposava solo la sabbia del deserto. L’esigenza di sviluppare il turismo, una crescita urbanistica senza precedenti e il richiamo di una società cosmopolita, araba nell’animo ma occidentale nell’aspetto: ecco i tasselli che vanno a comporre il mosaico che tanto ha affascinato un giovane sommelier di casa nostra.

ro tutte le premesse per fare bene già nel nostro Paese. Ma il fascino di un luogo distante dall’Italia, non solo geograficamente, il desiderio di sfida e la voglia di migliorarsi l’hanno condotto alla corte degli sceicchi…

G

Vinicio Alberelli

Il suo nome è Vinicio Alberelli, trentadue anni, una laurea in Economia con specializzazione nel settore turistico, la formazione ai corsi Ais e il lavoro presso l’azienda di famiglia, il Ristorante Doc di Borgio Verezzi, raffinata perla ligure presente su tutte le guide gastronomiche da quasi tre decenni. Insomma, ci sarebbe-

Vinicio, quando e perché hai pensato di lasciare la Liguria per intraprendere quest’avventura professionale negli Emirati Arabi? La mia storia lavorativa in questo Paese è partita diversi anni fa e certamente è frutto di una decisione maturata nel tempo. Nel 2003 mio padre si è spostato a Dubai per un’esperienza presso il Jumeirah Emirates Towers Hotel. Io l’ho seguito in quell’occasione e subito sono stato colpito da questa città, non solo per la modernità urbanistica ma anche per il dinamismo e la vivacità, che già facevano presagire quella rilevante espansione turistica che da lì a poco ne sarebbe scaturita. Nel 2005 sono ritornato là proprio grazie all’Ais, a cui era stato richiesto un sommelier da parte di Bell’Italia Event per un periodo di collaborazione presso l’Hyatt Recency Hotel. In questa seconda tappa a Dubai mi sono creato una serie di contatti importanti, tornati utili alcuni anni dopo.

Una cattedrale quasi nel deserto L’Atlantis The Palm riassume al meglio il concetto di urbanizzazione sviluppato a Dubai. Il complesso sorge su una parte delle cosiddette Palm Islands, penisole create artificialmente nel Golfo Persico, la cui forma richiama appunto quella dell’albero. Entro l’anno 2015 verranno completate le tre palme previste dal progetto. Il resort consiste in una struttura architettonica che unisce stile mediorientale a elementi marcatamente occidentali e ospita più di 1.500 camere. È collegata alla terraferma da una monorotaia e possiede uno dei più grandi parchi acquatici dell’Asia oltre a un immenso acquario interno. L’inaugurazione dell’Atlantis ha rappresentato un evento degno delle dimensioni della costruzione. Alla presenza di numerosi vip, da Mischa Barton a Chris Tucker, da Wesley Snipes a Lindsay Lohan, la diva australiana Kylie Minogue ha aperto la sua tournée in Medio L'Atlantis The Palm. Una monorotaia Oriente con un grande concerto. La serata è culminata in uno collega la struttura alla terraferma spettacolo pirotecnico in cui sono stati lanciati centomila fuochi d’artificio, sette volte tanto quelli utilizzati durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 e il tutto per la modica cifra di 16 milioni di dollari! Un’ultima curiosità. A Dubai è stato realizzato un “mondo” in miniatura. Si tratta di un arcipelago artificiale inaugurato all’inizio del 2008 formato da trecento isole. Se osservate da un aereo o riprese dal satellite richiamano proprio la forma del nostro pianeta, con i relativi continenti. Dettaglio non trascurabile è che ogni isola è venduta singolarmente a un prezzo che oscilla tra 1 e 15 milioni di dollari! 33


L’intervista E quindi sei stato richiamato… Sì, è andata proprio così. Nell’autunno 2008 ha aperto i battenti l’Atlantis The Palm. Parlare di hotel sarebbe riduttivo! È un resort dalle dimensioni colossali, che unisce l’originalità di forme architettoniche arabeggianti all’essenzialità dello stile occidentale. Ho iniziato l’attività alcuni mesi prima, a giugno, perché per avviare una struttura di questa portata il lavoro di preparazione è notevole. Quale è stato il tuo ruolo all’Atlantis? La figura che ho ricoperto è quella del Resort Sommelier Manager. In altre parole, mi sono occupato del beverage di tutti i centri di ristorazione. E vi assicuro che in un complesso come l’Atlantis non c’è un attimo di pausa! Seguivo i cinque ristoranti stellati Nobu, Locatelli, Seafire, Rostang e Ossiano e quelli a buffet, come Saffron e Kaledoscope. Mi occupavo poi anche del Nasimi, il locale sulla spiaggia, del Club Sanctuary e dell’importantissimo room service. Nel dettaglio, il mio lavoro consisteva nel training di tutti i sommelier, nella stesura e nell’aggiornamento delle carte dei vini e, non da ultimo, mi assicuravo che tutti i vip client avessero un servizio all’altezza del nome del resort. Una bella responsabilità quella che ti è stata affidata! Sì, in effetti, l’impegno è stato notevole, ma in un paio d’anni ho imparato tantissimo. E qualche mese fa ho iniziato a maturare il desiderio di raggiungere la capitale, Abu Dhabi. La clientela di Dubai comincia a essere differente rispetto a quella di poco tempo fa. Le politiche delle promozioni e dei prezzi ridotti hanno abbassato il livello dei turisti e dopo due sole stagioni già si vede il cambiamento. Detto, fatto! L’esperienza di Dubai ti ha così portato nella capitale… In queste città la crescita è rapidissima e i complessi alberghieri sono in continua espansione. Con l’esperienza maturata, poi, non è stato complicato trovare un’altra opportunità di impiego. E così a giugno di quest’anno sono stato assunto dalla catena Fairmont presso il Bab Al Bahr. Anche questa è una struttura molto recente, aperta da un anno, ma che gode già del marchio di fabbrica di Fairmont, uno dei più rinomati gruppi alberghieri del pianeta, con oltre settanta hotel di lusso tra America, Europa, Asia e Africa.

34

immaginare, scelgono i grandi cru di Borgogna e di Bordeaux o gli champagne più pregiati. Ma, in generale, i clienti hanno ben in mente i nomi italiani più rinomati e sono loro stessi a chiederci dal Brunello di Montalcino all’Amarone, dal Barolo al Barbaresco. E poi spesso la clientela si fida e si lascia condurre negli abbinamenti cibo-vino.

La suite Poseidon dell'Atlantis The Palm

Il Fairmont Bab Al Bahr di Abu Dhabi

Quale incarico ti è stato attribuito al Bab Al Bahr di Abu Dhabi? Lavoro per il ristorante Frankie’s, uno dei locali di Frankie Dettori, il fantino più famoso del mondo. Questa struttura è gestita dal Fairmont e qui ricopro il ruolo di Restaurant General Manager. Ho in mano il budget del ristorante e mi occupo della supervisione di cucina, sala e bar, coordinando il lavoro di quasi settanta persone, trentadue in sala e trentaquattro in cucina. Mi sono stati inoltre affidati il marketing e le pubbliche relazioni del locale e per questo motivo sto creando promozioni e instaurando contatti diretti con le ambasciate e i mass media. Come va il nostro vino da queste parti? Direi bene! Posso aggiungere che personalmente cerco di diffondere i nostri prodotti con wine tasting di vini italiani e orientando le scelte, per quanto possibile, dei clienti che mi chiedono consigli. Certo, qui siamo in un crocevia di popoli e culture e dobbiamo naturalmente offrire una vasta scelta, dalle prestigiose etichette francesi a importanti bottiglie di Argentina, Cile, Australia, Nuova Zelanda. Quando poi facoltosi arabi offrono da bere per una cena d’affari, come si può ben

E la figura del sommelier italiano come viene considerata? Non ho dubbi nell’affermare che i nostri sommelier sono riconosciuti e stimati per la formazione e la cultura che tradizionalmente ci distingue. Il “marchio” italiano rappresenta una garanzia. Certo, bisogna darsi da fare e continuare ad aggiornarsi. Personalmente rientro un paio di volte all’anno in Italia per seguire più da vicino il mercato e tenere i contatti con i produttori. Di sicuro è fondamentale avere sempre ben presente certe caratteristiche proprie del sommelier: la sensibilità, la pazienza e la passione, tutti elementi necessari per interagire al meglio con i clienti e con i colleghi. I ritmi di lavoro sono notevoli e possono raggiungere anche le 14 ore giornaliere, ma vi assicuro che la gratificazione e i riconoscimenti ripagano tutti questi sacrifici. Dopo quest’esperienza cosa hai in mente per il tuo futuro? È legittimo aspirare sempre a qualcosa in più rispetto al presente. Dopo Restaurant General Manager il passo da compiere è quello verso la direzione di un hotel. Di certo non escludo di andare a lavorare in un altro Paese asiatico, magari tra un paio d’anni, ma per il momento non voglio pensare a una destinazione precisa. Quale consiglio daresti a un giovane sommelier che ha da poco intrapreso la professione? Quello che mi sento di suggerire a chi vuole fare strada professionalmente è di muoversi! Intendo spostarsi, viaggiare, cercare una carriera nei grandi alberghi. A Dubai e ad Abu Dhabi, in strutture ricettive di lusso, mi sono stati attribuiti incarichi che in Italia mai avrebbero affidato a un trentenne. Qui ho avuto la possibilità di crescere tantissimo e in tempi rapidi. Ecco, il mio consiglio è proprio questo: formatevi in Italia e tenete il nostro Paese nel cuore, ma, se potete, esportate la vostra professionalità e fate esperienze oltre confine. Un giorno mi darete ragione.


Degustazioni

Malvasia, il nome nato da una bugia di Luigi Salvo e Isole Eolie, arcipelago d’origine vulcanica, splendido scenario naturale, è composto da sette magnifiche perle: Lipari, Salina, Vulcano, Stromboli, Panarea, Alicudi e Filicudi. Situate nel Mar Tirreno in provincia di Messina, tutte vicine tra loro, circondate da una moltitudine di scogli e isolotti, queste isole sono polo d’attrazione turistica per le loro caratteristiche ambientali e paesaggistiche uniche: il pulitissimo mare, le bianche spiagge, le mirabili insenature, i tramonti dai caldi colori e anche per il loro nettare, la Malvasia delle Lipari. Insieme alla natura incontaminata, la storia, la cultura, le Eolie sono uno spaccato storico che è possibile leggere attraverso gli scavi archeologici, le chiese antiche, i ruderi di caseggiati raggruppati in frazioni una volta prospere e piene di vita e oggi deserte, i vicoli tortuosi degli antichi abitati immersi in un ambiente naturale costituito da vegetazione mediterranea. Tra tutte le isole è certamente Salina, il cui nome deriva da una piccola laguna in riva al mare dove un tempo si estraeva il sale, quella che più delle altre ha saputo salvaguardare e valorizzare la sua storica anima rurale mantenendo la propria economia basata sulla coltura del cappero e sulla produzione del vino Malvasia. Il vitigno Malvasia fu importato nelle Lipari, secondo Diodoro Siculo, dai primi colonizzatori greci intorno al 588 avanti Cristo ma attraverso studi più recenti si pensa che le prime barbatelle di Malvasia furono impiantate a Capo Gramignazzi a Salina alla fine del diciassettesimo secolo. Il nome Malvasia probabilmente è

L

La cernita della Malvasia 36


I Nacatuli, dolci della tradizione eoliana, ottimi con la Malvasia

Uva Malvasia sulle cannizze, i tradizionali graticci per l'appassimento

L’isola di Salina

Vigneti sull'isola di Salina

una storpiatura veneta di Monembasia, cittadina del Peloponneso che fu colonia della Serenissima. Con il termine Malvasia nel cinquecento a Venezia erano indicati sia i vini di provenienza greca sia le osterie dove questi erano venduti. Una leggenda cristiana fa risalire l’origine del nome ai tempi della dominazione musulmana e racconta di un contadino che portava un’anfora colma di Moscato e per nasconderla al governatore arabo, che aveva incontrato nel suo cammino e gli chiedeva cosa contenesse l’anfora, questo ripose: «succo di malva» e supplicò Dio per non essere scoperto che trasformasse il vino in malva esclamando «malva sia!» Il contadino fu esaudito, infatti, il governatore quando bevve fece un’espressione di disgusto e lo lasciò andare. La viticoltura a Salina, come nelle altre isole è quella che si definisce “eroica”, costituita per lo più da piccoli appezzamenti con filari disposti su terreni scoscesi, d’origine vulcanica e pomicia ricchi di sostanze organiche e minerali, con allevamenti a spalliera, a pergolette basse o a controspalliera, nei quali tutte le operazioni sono condotte tradizionalmente a mano. Oggi nelle Eolie vi sono circa 90 ettari di Malvasia delle Lipari, 46 dei quali iscritti a Doc all’albo dei vigneti; si producono mille ettolitri l’anno dei quali il 70% nella tipologia Passito e il 30% in quella Naturale e Liquoroso, sono una ventina i coltivatori che mettono in bottiglia il prodotto. Tradizionalmente le uve Malvasia sono lasciate appassire sulla pianta nel caso di vendemmia tardiva, oppure raccolte a maturazione avanzata con selezione dei grappoli migliori e poste sulle cosiddette “cannizze” (lunghe stuoie realizzate con listarelle di canne locali), sulle quali appassiscono lentamente per 10-20 giorni, secondo le condizioni atmosferiche, con una particolare quotidiana procedura di “scannizzamento” e “incannizzamento” ovvero gli uomini addetti spostano le cannizze al sole durante le ore soleggiate e le riparano dentro alle “pinnate” (locali areati con un lato aperto) durante le ore notturne o durante i giorni umidi e piovosi. Quando i grappoli d’uva sono ben asciutti e appassiti si procede al diraspamento e alla pigiatura. Il mosto è messo in botti di castagno o di rovere o in acciaio affinché possa fermentare. Si procede, in ultimo, a due travasi “chiarificatori”, l’uno a gennaio e l’altro definitivo intorno a marzo. Analogamente al vino passito, anche per la preparazione della tipologia liquoroso è necessaria la diraspatura delle uve raccolte sia in epoca vendemmiale normale che leggermente ritardata (uve stramature); in alcuni casi si procede anche a un parziale appassimento delle uve in locali idonei. Le uve sono quindi pigiate sofficemente e il mosto così ottenuto è sottoposto a parziale fermentazione alcolica, stabilizzato e quindi mutizzato con aggiunta d’alcool d’origine viticola e/o acquavite di vino. In Italia esistono ben 16 vitigni Malvasie annotati nel Registro nazionale delle varietà di vite, mentre in Europa si ritiene esistano 46 tipi di Malvasie diverse. La “Malvasia delle Lipari” è Denominazione d’origine controllata (Doc) dal 1973: si ottiene da uve bianche Malvasia nella percentuale del 95% e da uve nere (la cosiddetta “minutidda” in dialetto o secondo la denominazione ufficiale, il Corinto Nero). In questi ultimi anni si sono registrati enormi passi avanti dal punto di vista qualitativo compiuti dai produttori di Malvasia delle Lipari attraverso un grande impegno frutto della passione per la loro terra e il loro vino. La crescita produttiva e qualitativa ha permesso la conquista di nuovi mercati quali il Giappone, l’Inghilterra, il Nord Europa e l’aumento dell’export negli Stati Uniti, la richiesta è cresciuta anche in Italia, aumentando del 15%. Dato molto importante è che è aumentata la superficie di coltivazione in regime biologico in un territorio che è riserva naturale, oltre il 50% delle coltivazioni sono oggi in regime Bio. Numerosi dolci della tradizione eoliana si sposano perfettamente con la Malvasia in ogni periodo dell’anno: durante il periodo natalizio predominano i delicati nacatuli, a base d’acqua di rose e mandorle; i giggi, dolci ricoperti di vino cotto nel periodo carnevalesco, mentre nel periodo di Pasqua ci sono le cassatedde, a base di fichi secchi, uva passa e marmellata. 37


Degustazioni

Tasca D’Almerita – Malvasia Igt Salina Capofaro 2008 – 11% vol. Salina (Me) – Malvasia Il vino si ottiene da sette ettari di Malvasia dell’isola di Salina posizionati a picco sul mare sul promontorio Capofaro, le uve vendemmiate tardivamente sono lasciate ad appassire in fruttaio prima di essere vinificate. Il vino affinato sei mesi in acciaio ha bel colore oro con lievi nuance ambrate, effonde sentori d’albicocca, miele e macchia mediterranea. Pieno al palato è caratterizzato da dolce freschezza e piacevole chiusura con lieve salinità. Abbinamento consigliato torta di ricotta al forno. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro 50 cl.

Caravaglio – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2008 – 13% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Le uve sono coltivate a Malfa a Salina in caratteristiche terrazze con terreni sabbiosi di origine vulcanica ed appassite sui cannizzi al sole per circa 15 giorni. La vinificazione iniziata in acciaio termocondizionato e si conclude in botticelle di rovere. Maturato in legno si mostra articolato, ha colore dorato-ambrato, al naso si fondono ginestra, dattero, albicocca matura e suadenti note mielate. In bocca è piacevolmente dolce con viva freschezza. Ideale in abbinamento con dolci di mandorla. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro 50 cl.

Florio – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2008 – 13,5% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Le uve delle cantine Florio sono coltivate in vigneti su suolo vulcanico dell'isola di Salina e appassite al caldo sole di settembre su graticci di canne così come vuole la tradizione prima di essere vinificate. Segue una lenta fermentazione e maturazione in piccoli fusti di rovere. Dal colore giallo oro con riflessi ambrati, dona sentori di zagara, albicocca matura, miele di acacia, eucalipto e mandorla. È elegante al palato tra dolcezza ed equilibrata sapidità, e persistente nelle note varietali. Si sposa con millefoglie alla crema. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro 50 cl.

D’Amico – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 14% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Salvatore d’Amico produce vino, capperi e olio a Salina a ridosso dell’abitato di Leni. Le vigne di circa quarant’anni si estendono per tre ettari e mezzo in contrada Valdichiesa, le uve appassite sui graticci fermentano per tre settimane in botti di acacia di 550 hl, il vino rimane in legno poco meno di un anno. Dal colore ambra ramato, evidenzia naso pieno di frutta secca, uva passa e note di vaniglia. Al palato di corpo e calore, avvolge con la sua morbidezza e il miele vigoroso. In abbinamento con gorgonzola stagionato. Prezzo consigliato in enoteca 25 euro 50 cl.

Hauner – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 13% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Carlo Hauner, bresciano d’origine boema, spinto dall’amore per queste terre negli anni settanta si trasferisce a Salina, rimette in produzione una ventina d’ettari ad antichi terrazzamenti. Il vino matura diciotto mesi in serbatoi d’acciaio termocontrollati e sei mesi in bottiglia. Dal lucente color ambra e dallo spettro olfattivo di dattero, albicocca, erbe aromatiche e miele, è opulento in bocca, dispiegandosi su note dolci e particolari sentori di nocciole nel lungo finale. Ottimo compagno della torta setteveli al cioccolatto. Prezzo consigliato in enoteca: 28 euro 50cl.

38


Fenech – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 13,5% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% L’azienda di Francesco Fenech si estende a Salina per sette ettari coltivati in regime biologico, l’uva viene raccolta in avanzato stato di maturazione ed esposta al sole per circa due settimane su tradizionali grandi cannizzi. Nel bicchiere è giallo ambra compatto e luminoso, naso dall’impatto espressivo di notevole aromaticità, fiori di zagara, albicocca, miele e tracce iodate. In bocca dolce e rotondo ha buon sostegno acido-sapido e lunghezza. Da provare in abbinamento alla classica cassata siciliana. Prezzo consigliato in enoteca: 28 euro 50 cl.

Marchetta – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 12,5% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Le uve di Gaetano Marchetta lavorate secondo le antiche tradizioni tramandate da padre in figlio, fermentano in grandi botti di legno di castagno, il vino è imbottigliato con tecniche innovative non alterando sapori e profumi originali. Dal colore ambra lucente, sprigiona camomilla, erbe aromatiche, miele millefiori, frutta secca. Al sorso è di pienezza e si fa mieloso con calibrata freschezza che ne snellisce la beva e ha piacevole progressione gusto-olfattiva. In abbinamento con i classici dolcini di salina, i “sesamini”. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro 50 cl.

Barone di Villagrande – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 13% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% I vigneti sull’isola di Salina si trovano in contrada Vallone Casella esposti sul versante Est, il suolo è di origine lavica, sciolto, altamente drenante e ricco di scheletro. Le uve sono appassite sui cannizzi per 8-12 giorni, il sole e il vento ne concentrano gli zuccheri e gli aromi. È oro con riflessi ambrati, ha profumo intenso di fiori di ginestra, erbe aromatiche, albicocca matura e miele, il tutto cucito da un filo etereo. L’attacco gustativo è pieno, piacevolmente mieloso, persistente. Da accompagnare con cannolo siciliano. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro 50 cl.

La Rosa – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2007 – 14% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Dal vigneto di 1,5 ettari nello splendido comprensorio di Valdichiesa di Leni a Salina, Felice La Rosa produce la sua Malvasia in sole 1200 curatissime bottiglie. Il vino dal carattere tradizionalista è caratterizzato da colore ambrato brillante e da delicati sentori aromatici d’uva passa e frutta secca quali albicocca, fichi, datteri e particolari note mentolate. Di buona struttura si mostra estremamente rotondo con persistente frutta polposa. Si accompagna con pecorino piccante e miele d’arancio. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro 50 cl.

Virgona – Malvasia delle Lipari Doc Passito 2006 – 13% vol. Salina (Me) – Malvasia 95% - Corinto Nero 5% Il piccolo vigneto di Virgona di circa un ettaro e mezzo si trova in una splendida e fertile zona collinare di Malfa a Salina, le uve dopo la raccolta sono appassite al caldo sole eoliano sui cannizzi. Riempie il bicchiere di colore giallo ambrato e sprigiona un naso calibrato tra sentori floreali di ginestra ed erbe aromatiche, eucalipto, albicocca matura, anice e miele. In bocca di spessore e rotondità, chiude di persistenza aromatica, intensa. Da provare in abbinamento con formaggi erborinati. Prezzo consigliato in enoteca: 28 euro 50 cl.

39


Degustazioni

Il sangue della Piana

Rotaliana:

il

Teroldego

di Alessandro Franceschini lassificare il Teroldego all’interno di un visione unica e lineare è un’impresa quasi impossibile. Questo nonostante l’esistenza di punti fermi sui quali concordano praticamente tutti i produttori, sia di piccole che grandi, se non enormi, dimensioni. Benché, infatti, le caratteristiche del vitigno emergano in modo distinto e chiaro, dalle interviste ad alcuni dei protagonisti che hanno in quest’uva e nel suo alveo storico, la Piana Rotaliana, la propria ragion d’essere, emergono poi interpretazioni distinte, sottili differenze che in alcuni casi segnano una discontinuità di una certa rilevanza. Differenze in vigna e poi nel bicchiere. Differenze nell’idea che si vuole perseguire, per se stessi e per il mercato di riferimento. In molti parlano di versatilità: il segno di questa dote quasi camaleontica del Teroldego

C

40

Rotaliano emerge osservando le tipologie oggi presenti sul mercato. Quest’uva sembrerebbe in grado di poter soddisfare versioni e gusti tra i più disparati tra loro: novello e rosato, in versione riserva piuttosto che passita. Non è ovviamente questo un caso unico all’interno dei disciplinari di produzione italiana, anzi. Viene però da chiedersi se questa grande varietà nell’offerta colmi realmente una domanda poi presente sul mercato o se, invece, disorienti, più che soddisfare. L’uva di partenza da origine a mosti che hanno sempre due caratteristiche ben precise: tanti antociani e quindi tanto colore. Al di là delle sfumature poi presenti nel bicchiere, ciò che colpisce immediatamente è la trama colorante; fitta, sembra quasi macchiare il calice e non lascia passare la luce. La trama tannica, invece, è deli-


ruenza del legno, specie se proveniente da piccole nuove botti. Segnare sia al naso sia in bocca il Teroldego, togliendo dinamicità e appesantendolo con strutture che non gli appartengono è tanto facile quanto deleterio.

cata: non connota mai in modo incisivo né le versioni base né quelle riserva. Quest’ultimo aspetto è stato uno dei motivi principali che ha spinto molti produttori all’utilizzo del legno per colmare questa mancanza, specie per chi ha la convinzione che il Teroldego possa dare origine a vini longevi nel tempo. Nel caso del Teroldego l’introduzione della barrique è stata forse meno invasiva che altrove, ma ha rappresentato per molti un’opportunità per sganciare quest’uva dai recinti della sola quotidianità. «In verità in Trentino tutto era riposto in legno, anche i bianchi. Poi, dal 1975 cambiò tutto con l’introduzione delle vasche in acciaio inossidabile» ci dice Roberto Zeni, che con il fratello Andrea conduce l’azienda agricola di famiglia presente a Grumo. La delicatezza di quest’uva non è semplice da abbinare all’ir-

Come arginare la vigorosità del Teroldego? Anche da queste parti le cantine sociali hanno rivestito, e tuttora lo fanno, un ruolo decisivo, sotto molti aspetti, non solo economici. Se fino alla Prima Guerra Mondiale la presenza dell’Impero Austro-Ungarico consentiva un florido commercio del Teroldego verso Innsbruck e Vienna, in seguito, terminata questa valvola economica fondamentale, sono state le cantine sociali a svolgere il ruolo principe nell’acquisto di questa, così come di tante altre uve trentine. Molte aziende agricole continuano a vivere in loro funzione: basti pensare alla Cantina Rotaliana (1 milione di bottiglie), presente a Mezzolombardo, con i suoi circa 330 soci o alla gigantesca Mezzocorona-Rotari (25 milioni di bottiglie) e i suoi 1300 soci-conferitori che lavorano quasi 2600 ettari. Oggi la situazione appare più frammentata e sebbene per molti la cantina sociale rappresenti ancora un polmone economico importante, la nascita di tante etichette indipendenti ha vivacizzato un comparto che sino alla fine degli anni novanta aveva in Elisabetta Foradori e nel suo “Granato” uno dei pochi esempi portabandiera di una concezione “altra” rispetto alla logiche commerciali dei volumi. Numeri mastodontici alimentati anche da un’altra delle peculiarità del Teroldego: la sua vigoria, la sua fertilità. Il disciplinare, datato 1971, fu in seguito modificato proprio per andare incontro a questa caratteristica. Oggi è possibile produrre sotto il cappello della DOC 170 quintali per ettaro: un’enormità secondo molti, specie se l’idea è quella di puntare alla qualità. Lo storico sistema di allevamento a pergola certamente ha un suo ruolo nell’orientare la produzione soprattutto ai numeri, ma anche su questo aspetto è facile incontrare pareri discordanti: «È vero, il Teroldego tende a produrre tanto, al tempo stesso, se l’ingabbi diventa sin troppo nervoso. È una questione in realtà di equilibrio». Chi parla è Paolo Zanini, della piccola azienda Rodondèl di Mezzolombardo. Tre ettari di Teroldego dislocati in sette areali distinti e tutti allevati con la classica pergola trentina che ci mostra fieramente e con orgoglio. Lui continua a usare questo sistema di allevamento, anche se, oltre a un approccio realmente poco invasivo in vigna, punta su rese decisamente inferiori rispetto a quelle concesse dal disciplinare, tanto da aver chiamato in modo quasi provocatorio una delle sue versioni: «Rese così elevate ne riducono la qualità fino a fargli perdere l'identità. Il nostro Teroldego è “dannato”, perché, pur di valorizzare il proprio territorio, ha deciso di restare etichettato come DOC, anche se in questa non si identifica affatto, viste le basse rese da cui nasce». C’è chi taglia la punta del grappolo per ottenere minori rese e maggior concentrazione, ma anche su questo punto ci sono molte divergenze circa la sua necessaria funzione. Altri hanno sposato il sistema della spalliera oppure si concentrano per ridurre le rese su precise

41


Degustazioni operazioni in vigna come il taglio di uno dei due capi a frutto o del secondo grappolo su ogni cacciata. Alla ricerca dell’eleganza Del colore e della trama tannica si è già detto. L’aromaticità del Teroldego ha nel frutto la sua essenza principale, anche se con declinazioni alquanto diverse. Frutto, tanto frutto: questa caratteristica ha spinto molti, specie negli anni d’oro, a puntare anche alla versione novello. I migliori campioni di questa tipologia, ottenuti al 100% con la tecnica della macerazione carbonica, mettono in luce una croccantezza che non è affatto facile trovare all’interno di una tipologia che, oggi, arranca. Secondo la famiglia Pellegrini proprietaria dell’azienda Villa Corniole, situata tra i porfidi della Val di Cembria, patria del Müller-Thurgau, ma con 10 ettari nella Piana Rotaliana, il problema del novello è di comunicazione: «Non è vero che il novello di Teroldego dura solo un mese se ben fatto». E in effetti la loro versione, nonostante stia raggiungendo quasi l’anno di bottiglia, mostra una vivacità aromatica quasi didattica, ideale per cercare un primo avvicinamento agli aromi di quest’uva. Se ci si imbatte in versioni che prevedono una quota di uve lasciate appassire in specifici ambienti, come è il caso del Teroldego Riserva “i Pini” di Zeni o addirittura l’amaroneggiante “Gran Masetto” di Endrizzi, il frutto vira verso sensazioni di ciliegie e prugne in confettura. Diversamente sono i piccoli frutti a farla da padrone: sfumature di lamponi e mirtilli sanno regalare finezze anche entusiasmanti. Si punta verso l’eleganza solo quando la consapevolezza tecnica e una gestione della vigna precisa si fondono magnificamente: è il caso di molti campioni sia da botte che da bottiglia che abbiamo testato a casa di Elisabetta Foradori. La sua svolta nella gestione della vigna ha già quasi 10 anni, ma è a partire dai campioni 2006 che è possibile avvertire una tensione e un’armonicità che 42

realmente possono convincere anche i più scettici circa l’evoluzione nel tempo del Teroldego. E quell’amarognolo finale? Ma soprattutto quelle note vegetali, erbacee, a volte protagoniste insieme al frutto, altre volte secondarie ma presenti? «Guarda, sentori animali, verdi e amari derivano da cattive gestioni in vigna ed in cantina». Non sarebbe quindi una questione di tipicità, come altri invece sostengono. Giulio De Vescovi, giovane produttore dell’azienda De Vescovi Ulzbach, con una laurea in agraria a Siena e molte esperienze lavorative all’estero, è abbastanza risoluto e deciso su questo punto, nonostante non abbia ancora certezze a tutto tondo su questo vitigno. Lo dimostrano le continue prove che effettua nella sua piccola cantina a Mezzocorona a puro scopo sperimentale. «Prova queste tre versioni: una deriva da 170 quintali per ettaro, le altre due da rese più che dimezzate, sia da vigne vecchie che da vigne giovani e noterai le differenze». È un mondo, quello del Teroldego, raccolto intorno ai 434 ettari tra Mezzocorona, Mezzolombardo e Grumo San Michele All’Adige. Un triangolo coperto di vigne attraversato da correnti fredde che provengono di notte e al mattino dalla Val di Non e al pomeriggio dal Lago di Garda. Limo e ghiaia, frammista di ciotoli, adagiato su una pianura alluvionale un tempo luogo di scorribande da parte del fiume Noce, quando non riusciva a confluire con ordine nell’Adige. A un primo sguardo sembra tutto uguale, ma non è così: non a caso molti produttori vinificano separatamente le diverse parcelle a disposizione, per effettuare il taglio in seguito. Cambia la profondità della parte di limo fertile presente in superficie, così come la sua composizione, più sabbiosa o più ciotolosa a seconda che ci si avvicini alle montagne o al fiume. «Avremmo dovuto in passato fare più selezione e avere più rigidità nel delimitare i confini della Piana Rotaliana» ci ha detto sempre Roberto Zeni. Per ora, non possiamo che farci guidare del bicchiere.


LA DEGUSTAZIONE Abbiamo testato sia alla cieca presso la sede dell’Enoteca Provinciale del Trentino presso il Palazzo Roccabruna a Trento sia nelle varie aziende visitate nel nostro breve viaggio, grazie all’ospitalità e all’organizzazione riservataci da Trentino SPA, che ringraziamo calorosamente. Campioni sia del 2009, che del 2008 e 2007, nonché versioni riserva antecedenti. Questa la nostra piccola selezione.

Azienda Agricola Foradori – Teroldego Rotaliano DOC 2006 Mezzolombardo (Tn) Citiamo questa versione, base, e non il “Granato”. Ci ha colpito per l’incredibile finezza espressiva, lineare, profonda e di grande vivacità e con un futuro ancora tutto da scoprire. Lamponi e mirtilli, delicatissime sfumature balsamiche e una nota minerale decisa, connotano un quadro aromatico di valore assoluto. In bocca il tannino è delicato ma di carattere insieme, con la componente acida a bilanciare una struttura mai sopra le righe e in perfetto equilibrio in questo momento. Azienda Agricola Roberto Zeni – Teroldego Rotaliano DOC Riserva 2005 “Pini” Grumo di San Michele all'Adige (Tn) Circa 10mila bottiglie, i Pini rappresenta la punta di diamante dell’azienda: appassimento delle uve e affinamento in barrique per due anni. Mirtilli e prugne in confettura dominano un naso dove l’integrazione del rovere è quasi perfetta. Buona la vena fresca, piacevolissimo il finale vivo e sapido. Azienda Agricola Barone de Cles – Teroldego Rotaliano DOC 2007 “Maso Scari” Mezzolombardo (Tn) È una della storiche aziende della Piana Rotaliana che legano indissolubilmente il proprio nome a quello del di questo vitigno. L’intensità del frutto, di mirtilli e ribes insieme si fonde con note di vaniglia. Buona la vena acida e un corpo di discreta struttura. Finale lievemente amarognolo. Azienda Agricola Redondèl - Teroldego Rotaliano DOC Rosato 2009 “Assolto” Mezzolombardo (Tn) Mineralità, scorza di agrumi, frutti di bosco non maturi e tocchi di rosa. Ha carattere questo rosato prodotto da Paolo Zanini e coadiuvato dalla sua compagna Mara. Bocca di bello slancio e lunghezza. Rappresenta la ricerca di una tradizione anticamente presente anche nella Piana Rotaliana. Azienda Agricola De Vescovi-Ulzbach – Teroldego Rotaliano 2007 “Vigilius” Mezzocorona (Tn) L’attacco dolce del rovere si sente ancora, anche se non stravolge un campione che ha nella bella materia di base la sua parte più convincente. I piccoli frutti rossi, mirtilli e ribes, quasi in confettura, caratterizzano anche il finale, con precisione e dolcezza. Avvolgente e di bella tessitura il delicato tannino. Azienda Agricola Marco Donati – Teroldego Rotaliano DOC 2007 “Sangue di Drago” Mezzocorona (Tn) Il nome e l’etichetta richiamano la nota leggenda del Drago ucciso dal Conte Firmian e le cui gocce, cadute sui terreni, fecero poi spuntare altrettante viti. Affinato in parte in barrique e in parte in botti di rovere, ha nella potente nota di mirtillo, dolce e particolarmente densa, la sua caratteristica principale. Un centro bocca di sostanza e una più che buona acidità chiudono un quadro di piacevole armonia. Azienda Agricola Villa Corniole – Hambros 2007 Giovo (Tn) Lasciar appassire in pianta il Teroldego è praticamente impossibile. Chi si è cimentato in questa pratica, sinora, quindi, si è dovuto attrezzare con graticci, facendo attenzione a portare in cantine uve integre e perfette, considerando la sottigliezza della buccia di quest’uva. L’Hambros è un esperimento per ora prodotto in piccole quantità decisamente ben riuscito: note di dattero, di ciliegie sotto spirito, di prugna disidratata con sfumature di noce. L’apporto zuccherino, modesto rispetto alla tipologia, è ben bilanciato dalla freschezza e dalla pulizia finale.

43


CuriositĂ

Nasce il primo

spumante analcolico

ea

Dubai

fa subito tendenza

44


di Annalisa Raduano

PRODOTTO DALL’UVA GLERA SI CHIAMA ISABELLA ICE E INTERCETTA IL MERCATO DI UN

PAESE

DOVE IL VINO È PROIBITO PER LEGGE

L Franco Manzato, Assessore all'Agricoltura della Regione Veneto

L Isabella Spagnolo e Loris Casonato con una bottiglia di Isabella Ice

sabella ha conquistato Dubai. Dolce, piacevole, spumeggiante, bionda naturale, come potevano ignorarla? Non stiamo descrivendo una bella donna in cerca di un trampolino di lancio per approdare nel jet set internazionale ma di una bevanda che sposa l’uva all’innovazione, generando una dolce soluzione analcolica. Una bevanda interessante, soprattutto per quei mercati dove, l’alcol è bandito. Si tratta della prima bevanda spumante che, pur non avendo nulla a che fare con il vino, è ricavata dall’uva. Una declinazione nell’ambito vitivinicolo opportunamente battezzata con il nome della sua inventrice, nonché produttrice, Isabella Spagnolo, titolare con il marito, enologo, Loris Casonato, dell’azienda agricola Iris Vigneti di Mareno di Piave (www.collezioneisabellaspagnolo.com). In verità, l’idea di chiamare Isabella questo “spumante”, totalmente analcolico e dolce è dell’assessore all’agricoltura del Veneto Franco Manzato che ha partecipato all’ incontro con la produttrice, in previsione del suo lancio ufficiale a Dubai, negli Emirati Arabi. Il battesimo svoltosi lo scorso 21 giugno in occasione di un evento internazionale nel Creek Golf & Yacht Club ha sancito un bel ruolo all’Italia che reinterpreta il più classico spumante in una bevanda analcolica pensata soprattutto, ma non solo, per coloro che seguono i precetti della religione islamica, perché la possano rispettare in pieno senza rinunciare al piacere che può derivare da una pianta biblica e patriarcale come la vite. Isabella Spagnolo aveva in mente altri nomi, ma proprio Manzato, che ha tenuto a battesimo la novità le ha detto: «È un brevetto tutto tuo, chiamalo Isabella: sei tu, e poi chi andrà al bar o al ristorante non dovrà spiegare nulla, ma solo chiedere un’Isabella, così come si chiedono chiamandole per nome altre bevande analcoliche». Certamente tra i puristi del vino alcolico questa bevanda può causare costernazione ma si tratta comunque di un innovazione creativa nel settore beverage, che s’ispira al vino;

I

uno “spumante” che non è vino, frutto della creatività tutta Made in Italy, e che auspica a un mercato pronto a accoglierlo. Come nasce questa bevanda? «Nasce da un’idea singolare, generata dall’uva Glera», spiega la produttrice Isabella Spagnolo che si appresta a precisare: «Qualcuno potrebbe domandarsi che c’entra una bevanda a base d’uva con il vino, ma per noi che produciamo prosecco è stato invece un percorso naturale. Ci piace esplorare attraverso una bottiglia di vino altre realtà, proprio ascoltando le richieste del mercato e vedendo come nel mondo l’innovazione si appresti a creare nuove opportunità di reddito in mercati a noi prima chiusi. Così abbiamo pensato perché non utilizzare la nostra esperienza e la nostra materia prima con tecnologie moderne per fare nascere un prodotto nuovo e analcolico?» E questo prodotto non va contro a chi produce spumante, i puristi non apprezzerebbero! «No, assolutamente, stiamo parlando di un prodotto fatto con l’uva Glera ma che non vuole certo sostituirsi allo spumante. Non stiamo parlando di una spremuta d’uva, i succhi sono altra cosa, tant’è che vengono pastorizzati! L’uva Glera è inconfondibile anche all’assaggio e ha caratteristiche tutte sue, regala allo spumante un profumo fresco e al nostro analcolico conferisce un sapore dolce, una fragranza di mela verde che con la pastorizzazione si perderebbe. Per questo affermo che non ha nulla a che fare con il succo d’uva ma che è alla lontana un cugino dello spumante italiano, quello a metodo Charmat». Come avete messo a punto la ricetta? «È servito molto tempo, quasi tre anni di prove e sperimentazioni per arrivare alla prima produzione quella di quest’anno, il 2010». Il prodotto ancora non è in vendita? «Verrà inserito nei mercati a breve. Non è facile fare Isabella Ice, serve 45


Curiosità

Isabella Spagnolo

colate soprattutto nei mercati musulmani anche se abbiamo notato interesse per questo prodotto nei mercati italiani familiari: donne, bambini. Non tutti vogliono brindare con succhi e o Coca Cola. Chi ama la tradizione e non vuole rinunciare allo stile, preferisce in certe occasione brindare con le bollicine… ed ecco qui servita la rivoluzione con il non alcolico figlio d’uva».

molta cura. L’uva necessaria per produrre questo analcolico deve essere perfetta: c’è una accurata selezione. Ad esempio, le uve non possono scaldarsi al sole, altrimenti si avvierebbe la fermentazione naturale e quindi la raccolte delle uve, deve essere fatta a mano e di notte. Devono essere scartate tutte le uve con muffe. L’uomo deve essere accorto e non rovinare le caratteristiche che la natura stessa offre, la tecnologia che adoperiamo per fare questo prodotto è in funzione proprio di questo: vuole lasciare il più immutato possibile il frutto e le sue caratteristiche. Una volta raccolta, portata in cantina e pigiata, il prodotto viene addizionato con CO2: un abilità quella di produrre Isabella Ice, fatta dalla tanta esperienza che abbiamo maturato in azienda producendo spumante con

metodo Charmart da sempre. Isabella Ice è pronto subito, non deve fermentare, viene fatto e bevuto. È la interpretazione dello stile italiano e del metodo Made in Italy in vesti inusuali, che non vuole competere con lo spumante alcolico in quanto è un’altra cosa. In azienda produciamo 250 mila bottiglie di spumante ed Isabella Ice, nasce come prodotto di alta gamma e non deve e non può togliere mercato allo spumante prosecco millesimato».

Che sapore ha Isabella? «Dolce, simile al moscato. E forse questo è piaciuto molto agli arabi che consumano succo d’uva confezionato in tetrapak, a cui aggiungono mela, menta, un mix che chiamano “soft champagne”. Servono questo cocktail negli incontri d’affari e nelle occasioni importanti. Questo prodotto punta sull’italianità e sul metodo Charmat. Così utilizzando il sistema di produzione del Prosecco abbiamo sperimentato questa nuova produzione».

Quante bottiglie riuscirete ad immettere nel mercato? «Abbiamo due diversi spumanti: il prosecco millesimato , Il rosé millesimato e lo spumante Isabella Ice, alcohol free. In questa prima produzione un paio di centinaia di migliaia di bottiglie, che saranno vei-

La domanda è provocatoria: dato che lei invoca il Made in Italy, questo non alcolico potrebbe essere fatto da una azienda cinese ad esempio? «Impossibile, un enologo cinese non potrebbe mai farlo. Alla base di tutto il procedimento produttivo c’è l’esperienza, il territorio, la conoscenza del

Export, in Veneto 1 miliardo di euro di fatturato con il vino La regione Veneto sostiene le aziende produttrici di vino con un bando per la promozione nei mercati esteri. In Veneto infatti l’esportazione di vino nel mondo, sfiora circa 1 miliardo di euro di fatturato, pari al 50% dell’intero agroalimentare regionale esportato. Il dato emerge da uno studio redatto dai professori Vasco Boatto e Luca Rossetto dell’Università di Padova e commissionato dalla Regione del Veneto nell’ambito del Piano strategico per la promozione dei vini veneti nei paesi terzi. Lo studio presentato dagli stessi professori durante un’incontro che l’Assessore regionale Marino Finozzi ha tenuto a Palazzo Balbi con i rappresentanti della Fedagri, Federvini, Copagri, Unioncamere, UViVe, Coldiretti, Unione italiana vini, il Centro estero veneto e l’Euro sportello veneto. Una riunione che voleva avviare un confronto e siglare una vera e propria strategia di promozione e valorizzazione delle produzioni vitivinicole venete. «Nell’ambito dell’Organizzazione Comune di Mercato del settore, – ha ricordato l’Assessore Finozzi – è operativa ormai da un biennio anche la misura relativa alla promozione del vino sui mercati dei paesi terzi, che ha consentito di porre in essere nei due bandi precedenti interventi di promozione per una somma complessiva di contributo di oltre 4 milioni di euro. Per quanto riguarda la campagna promozionale 2010/2011 – ha poi informato Finozzi – l’Unione europea metterà a disposizione 5 milioni di euro. Si tratta di un’opportunità strategica per il nostro settore vitivinicolo, che come Regione intendiamo sfruttare al massimo, dando allo stesso settore, anche con il contributo degli operatori, una strutturazione nuova, più aderente alle realtà viticole venete e alle prospettive di sviluppo nei mercati extraeuropei». Lo studio ha evidenziato i punti di forza del sistema, il quale, malgrado la crisi economica, nel 2009 ha saputo mantenere, rispetto al 2008 e 2007, invariate le quote sui principali mercati esteri, migliorando in alcuni casi sia come quantità di esportato, sia come valore. Determinanti in questo dato sono risultati i vini autoctoni, così come il ruolo dei Consorzi di Tutela, la cui opera è considerata fondamentale dagli operatori per il successo commerciale sui mercati esteri. 46


La presentazione di Isabella Ice a Dubai in presenza di Sheik Rashid Al Sahad

Prosecco. Per fare questo prodotto il Prosecco deve essere parte della tua formazione, della storia… No, no, non potrà essere mai imitato da un paese competitor, non hanno la nostra cultura, la nostra storia, il nostro microclima, la nostra esperienza, la nostra biodiversità…». E proprio a seguito dell’esplorazione di nuovi mercati negli Emirati Arabi, l’azienda Iris Vigneti ha intercettato la richiesta di un mondo arabo, forse, va detto, anche grazie alla sensibilità che contraddistingue le donne, sensibilità fatta di fiuto e sesto senso tipico del gentil sesso che s’incontra e genera buoni frutti: non a caso il sindaco di Dubai è donna e non ha caso ha colto subito lo stile e l’eleganza che l’esperienza italiana genera. Isabella Ice, sarà il primo ma non certo ultimo ritrovato ingegnoso del sapere italiano. Apre la strada a grandi possibilità economiche, intercettando la richiesta di un mercato che nelle sue abitudini quotidiane sorseggia spumante di dattero o altre bevande “a zero gradi” dal nome evocativo di “soft champagne”. Una bevanda che è sinonimo di ricerca di uno stile di vita che sia fatto anche di qualità, senza turbare i precetti coranici. «Bevendo qualche strana e non meglio identificata bevanda analcolica durante incontri di lavoro – spiega Isabella – ho pensato, da produttrice, che poteva essere un mio privilegio riuscire a far degustare il sapore dell’uva anche nei paesi musulmani, senza offendere la loro religione. Ideale per gli osservanti dell’Islam, è buono per i bimbi, che finalmente potrebbero dissetarsi con una bevanda tutta naturale, anziché con miscele dagli ingredienti brevettati, ottenuti da acqua e concentrato». Il colore di Isabella è giallo paglierino, chiaro, si caratterizza con un

fresco profumo, ricco di sali minerali (va servito a 5 o 6 gradi) è dolce e inconfondibile, si sposa bene con i dessert. Le cantine Iris offrono una vasta gamma di vini e questo spumante analcolico è senz’altro un’idea originale per agganciare mercati esteri particolari. Il nuovo prodotto ha infatti trovato aperta la porta nei ricchi mercati degli Emirati Arabi, come riconosce, con parole misurate ma significative, il comunicato ufficiale emesso in Dubai dopo la presentazione: «Questa nuova formula del bere sarà ora proposta al mercato e sarà capace di attirare l’attenzione non solo da personalità di alto livello nel campo della politica e del mondo economico, ma anche culturali, dello sport, della moda, e contribuirà inoltre alla campagna contro l’alcol nel Dubai e negli Emirati Arabi Uniti. Il lancio di questo prodotto sarà inoltre un contributo per tutti i mondi islamici». A degustare e salutare l’arrivo di Isabella a Dubai è stato, al “Golf Dubai Creek & Yacht Club”, lo stesso Sheik Rashid Al Sahad, cugino dell’emiro regnante del Dubai Mohammed Bin Rashid Al Maktoum. In questo modo si apre la strada verso un mercato ricco e nuovo, che ama la qualità dei prodotti, occupando uno spazio che prima o poi avrebbero occupato altri che magari non vantano la nostra tradizione nella coltivazione della vite. Approdare nel mercato del Dubai non è stato facile: anche all’ultimo momento i doganieri dell’Emirato hanno strabuzzato gli occhi nel vedere arrivare tutte quelle bottiglie di “spumante” dal Veneto. E non hanno esitato a bloccare la merce, nonostante la documentazione comprovasse che non c’era alcol. C’è voluto l’intervento di uno sceicco per “liberare” il carico e farlo arrivare al Golf Club. 47


Vino e tendenze

Bottle sharing, la risposta al calo del consumo di vino di Lorenzo Simoncelli

DOPO

IL CALICE

E LA MEZZA BOTTIGLIA

L’ULTIMA TENDENZA ARRIVA

DALL’INGHILTERRA.

SI

CONDIVIDE

UN’ETICHETTA DI

QUALITÀ, FORMATO

MAGNUM, CON ALTRI

COMMENSALI.

UN

MODO

NUOVO PER DEGUSTARE

BOTTIGLIE PREGIATE, RISPARMIARE E SCAMPARE

ALL’ETILOMETRO

48

onostante il perdurare delle difficoltà economiche e la conseguente riduzione della spesa media dei consumatori, gli amanti del buon vino non sembrano essere disposti a rinunciare a etichette di livello. Così per cercare di conciliare palato e portafoglio si aguzza l’ingegno alla ricerca di nuove modalità di consumo. L’ultima trovata si chiama bottle sharing (condividere la bottiglia). Viene direttamente dall’Inghilterra e consiste nell’ordinare una bottiglia di vino, spesso in formato magnum (1,5 litri), da condividere tra più persone di diversi tavoli. Fondamentale il ruolo del ristoratore. Spetterà a lui, infatti, avere la sensibilità di individuare i clienti a cui rivolgere la proposta. Una volta sondati gusti e desideri, anche in relazione ai piatti scelti, toccherà al sommelier presentare, suggerire e infine selezionare l’etichetta giusta per tutti. Tra i fattori più positivi del bottle sharing c’è sicuramente la condivisione della cultura del vino. Una volta scelta la bottiglia, ogni cliente sarà portato a discutere con gli altri tavoli gusti e sensazioni riguardo la scelta fatta. Non secondario poi l’aspetto economico. Frazionando il prezzo della bottiglia tra tutti coloro che hanno aderito alla proposta, non solo si riduce la spesa individuale, ma si è portati anche a superare il blocco del costo elevato di alcune etichette di pregio. Inoltre per gli appassionati del nettare di Bacco si può anche riuscire a scegliere più di una bottiglia a pasto, in modo tale da poter accompagnare a ogni portata un vino differente. Certo magari si ridurrà il numero di calici bevuti a persona, ma tenuto conto delle severe limitazioni imposte dalle norme anti-alcol, ulteriormente inasprite dal nuovo codice della strada (andate a consultarlo su www.aci.it), è meglio per patente, salute e portafoglio. Infine non va sottovalutata l’importante funzione di socialità. Nell’era in cui si diventa “amici” via Facebook e si parla in chat, una sana comunicazione verbale e non virtuale non può che rallegrarci. Tra l’altro, per chi è in cerca di nuovi amori, pare che sia un ottimo modo per approcciare, partendo già con una passione in comune: il vino.

N


Per i più fortunati poi, può succedere di godere del bottle sharing senza pagare neanche un euro. È quanto capitato a una giovane coppia di turisti un anno fa a New York. La buona sorte ha voluto, infatti, che vicino al loro tavolo, nell’esclusivo ristorante italiano Nello’s, ci fosse Roman Abramovich in compagnia di amici. Il ricco magnate russo, sazio delle due bottiglie di Pétrus, ordinate dopo due Cristal Rosé Magnum e tre La Tâche Romanée Conti, ha pensato bene di lasciare parte dello château francese alla coppia di turisti. Valore della singola bottiglia 5mila dollari. Ecco magari prima di scegliere il ristorante dove passare la serata, vale la pena perdere cinque minuti di tempo sui siti di gossip per informarsi sulle celebrità presenti in città e chissà che possa capitare anche a voi.

Roman Abramovich, il celebre magnate russo, non ha alcuna difficoltà a condividere bottiglie “ a tre zeri” pagate di tasca sua

I PRIMI CASI DI BOTTLE SHARING IN ITALIA Come spesso accade prima che la nostra tradizionale Italia trasformi la tendenza in realtà dovrà passare del tempo. Ma almeno se ne è già iniziato a parlare. E proprio in uno degli eventi di riferimento legati al vino. Allo scorso Vinitaly, infatti, si è tenuta una tavola rotonda sul tema della condivisione del vino, a cui hanno partecipato numerosi interpreti. Da qui a pensare che vedremo il bottle sharing presto sulle tavole dei migliori ristoranti italiani è utopia, ma molto dipenderà dal numero di richieste degli enoappassionati. Tuttavia nell’immobilismo generale non mancano piacevoli sorprese. A una prima analisi sui motori di ricerca, vista la primordialità del fenomeno e l’assenza di statistiche certe, l’antesignano del wine pooling (altro modo per dire bottle sharing), tanto per cambiare, si trova a Milano in via Rosmini 5. Si chiama Ostarie Vecjo Friul, ed è gestito da Giuliano (il vecjo), che dal ’97 amministra questo locale all’insegna dei formaggi, dei salumi e del buon vino. Da qualche mese ha deciso di scommettere su questo tipo di evento, dedicandogli un’apposita sezione sul sito del suo ristorante (www.veciofriul.it). Dopo aver proposto la tipologia di vini che verranno degustati e il prezzo complessivo della cena, naturalmente da dividere fra i partecipanti, la data dell’evento viene decisa in base al numero delle adesioni, con un massimo di 12 persone a gruppo. «Il battesimo è stato a giugno e ha avuto un grande successo», ci ha detto Giuliano. «I vini proposti sono stati un Sassicaia 1983 Magnum e uno Chateau Lynch Bages 1987 Magnum». Quindi l’esperimento proseguirà? «Viste le adesioni faremo altri eventi di questo tipo con più frequenza, ne 49


Vino e tendenze Giuliano Macassoli dell'Ostarie Vecjo Friul di Milano. Nel locale si organizzano eventi di bottle sharing

stiamo organizzando uno per settembre e uno per ottobre». Scendendo per lo Stivale si approda a Bologna, in via Costa 84/2, dove presso la Trattoria Bertozzi, si può degustare il vino con una modalità molto simile al bottle sharing. Il locale, gestito dal 2007 da Alessandro Berti e Fabio Gozzi, presenta solo etichette formato magnum. «La scelta di proporre vino al calice – ci ha spiegato Fabio Gozzi, uno dei due gestori del locale – è stata fatta per soddisfare le esigenze della maggior parte della clientela che non va oltre gli 1-2 bicchieri a pasto, inoltre il prezzo ridotto (in media 3,50 euro a calice) permette di abbinare diverse tipologie di vino a seconda delle pietanze scelte». Ma vi è capitato di ricevere proposte di condivisione tra persone sconosciute? «Solitamente no – commenta Fabio Gozzi – ma spesso ci viene richiesta l’intera magnum da gruppi di amici che magari si ritrovano all’interno della nostra trattoria pur stando a tavoli differenti». NUOVI MODI DI CONSUMO ALL’ORIZZONTE Insomma le esigenze degli amanti del vino sono in continuo mutamento e presto ristoranti, enoteche e wine bar si dovranno adattare. La carta dei vini dunque non dovrà più essere variegata solo per numero di etichette, ma anche per modalità di consumo. Oltre al formato classico da 750ml, infatti, nei ristoranti con buone cantine, già troviamo il calice, ma il prezzo è ancora troppo elevato in confronto alla bottiglia intera. Capitolo a parte per le mezze bottiglie (375ml), su cui i produttori italiani non hanno mai creduto fino in fondo. Infatti, nonostante il mercato italiano si sia attrezzato con l’entrata in campo di grandi etichette come Angelo Gaja, Tenuta San Guido, Pieropan, Jermann e Castello Banfi, la richiesta non è paragonabile al mercato internazionale, e quindi anche le riserve dei locali scarseggiano. E pensare che in Francia, fin dagli anni ’50, i produttori imbottigliavano nel piccolo formato anche i grandi vini bordolesi e gli americani propongono ormai da tempo le mezze bottiglie nei ristoranti più raffinati. Il tutto con grande successo, visto che sono diventate un’icona cool. Basti pensare alle sfilate di alta moda internazionali, dove spesso, nel dietro le quinte delle passarelle, si aggirano modelle con bottiglie mignon di champagne con la cannuccia. L’ULTIMA TENDENZA È PORTARSI IL VINO DA CASA Per concludere a dimostrazione che le vie del consumo di Bacco sono quasi infinite, bisogna citare l’ultimissima moda dell’estate, anch’essa nata sotto il Big Ben. Protagonisti i membri del Byo wine club. L’acronimo sta per bring your own. In pratica consiste nel portarsi da casa il vino per poi berlo direttamente al ristorante. Tutto questo con un’unica finalità: risparmiare, evitando così il ricarico a volte spropositato che i ristoratori applicano sulle singole bottiglie. Una via di consumo che sembra spopolare in Inghilterra, tanto che sono oltre 100 i ristoranti, anche stellati Michelin, che si stanno adattando alle nuove esigenze della clientela. In cambio gli appassionati enomuniti dovranno pagare una sorta di diritto di tappo per poter brindare con il proprio vino. Le numerose iniziative elencate, dimostrano, che anche in periodi di ristrettezza economica, la gente rinuncia mal volentieri a un buon bicchiere di vino. Affinché continui, dunque, la diffussione delle etichette di qualità, sarà fondamentale che ognuno sia messo nelle condizioni di scegliere non solo la bottiglia che preferisce, ma anche il modo di consumarla. Se questo non avverrà, il vino rischierà di finire come lo champagne, un prodotto per pochi intimi, la cui domanda è sempre più in calo.

50


Tendenze

Cosa resterà dell’estate di Roberto Piccinelli

bbiamo vissuto una stagione tutta nuova. Sfaccettata, caleidoscopica e controversa come poche. A cavallo fra record e crisi, magie e tormentoni, favole e sfide, rigore e trash, polemiche e divieti. A loro volta, stranamente identificabili come piselli comodamente posizionati in un unico baccello. Una stagione caratterizzata da tutto e il contrario di tutto. Come un film ad episodi. Come un mosaico. Come una parete trompe l'œil. E come la canzone di Raf, che ha ispirato il titolo. «…brevi fotogrammi o treni in galleria, è un effetto serra che scioglie la felicità; delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà». Resterà la sensazione di non averla potuta vivere appieno, un po’ per le condizioni meteo, che non sono state propizie, un po’ per le strane decisioni di alcune località. Ma noi siamo ottimisti: nella nostra mente l’estate potrebbe non finire mai…

A

Tormentoni&Confusioni Li possiamo torturare? «Ma cosa vuoi torturare, tu? Porta pazienza…», rispondeva Salomone, il pirata pasticcione nel Carosello dell’Amarena Fabbri, in onda dal 1967. Ma quel pirata non aveva mai avuto a che fare con quelli che «balliamo il Waka Waka come Shakira», con quelli che, ogni due ore, in spiaggia, ti sbattono in faccia l’asciugamano pieno di sabbia e nemmeno con quelli che si presentano al bar, chiedendo «’na bira e un calippo» e dandosi di gomito ad ogni piè sospinto: in questi casi di pazienza ce n’è voluta a quintali! Anzi, alcune volte si sarebbe tanto volentieri passati alle maniere forti, quanto meno rubando la parola a Fred Flinstone e gridando «Yolanda, dammi la clava!». Non pensate a un refuso, però. La classica Wilma è stata sostituita da quella Yolanda Be Cool che canta “We no speak americano”, il riempi-pista da ballo più odiato dell’estate. Quante volte lo abbiamo ascoltato? Il conto non lo abbiamo tenuto (impossibile!), ma sappiamo per certo che Renato Carosone, dalla cui hit si è attinto per dar vita al tormentone musicale, si è rivoltato nella tomba… E ne ha avuto ben donde, visto che ha

52

2010… dovuto far fronte anche all’insulsa polemica fra due conterranei e seguaci, Peppino di Capri e Guido Lembo. Il fatto che Peppino abbia aperto un piano bar (Number One) a pochi passi dall’Anema e Core di Guido ha spinto capresi e turisti a schierarsi in due opposte fazioni, tipo Coppi e Bartali. Ma la polemica non ha ragione d’essere: pianista intimista, l’interprete di “Roberta” e “Champagne”, chitarrista trascinante e scatenato, Lembo, i due non hanno certo in comune né modo di cantare né pubblico. E le carriere si sono sviluppate in modo assai diverso. Eppure, Capri era in fibrillazione, non si parlava d’altro. Del resto, Guido Lembo ha iniziato a organizzare feste in quantità industriale, spingendo l’acceleratore sui suoi simpaticamente irriverenti sketch musicali, famosi fin dall’epoca del suo primo locale, O’ Guarracino. Da “Guido e Peppino, divisi a Capri” (che Totò ci perdoni) a “Polipi alla riscossa” (Fantozzi non se ne abbia a male) il passo è davvero breve, vieppiù in considerazione del fatto che i film della nostra estate sono stati davvero molti. In questo caso, poi, dobbiamo batterci più volte il pugno sul petto e confessare: siamo stati ospiti a La Giostra sul 2, la tanto criticata e vituperata trasmissione RaiDue presentata da Valerio Merola e avente come guest star il polipo Miranda (doppiata da Gegia), sedicente cugina del più famoso polpo Paul, in grado di azzeccare tutti i pronostici sul recente mondiale di calcio sudafricano. Argomenti a vanvera e discussioni da bar

La serata Revival Anni 60-70-80 al New Carrubo

di periferia, è vero (le mie arrabbiature con Marina Ripa di Meana sono agli annali, anche se visibili solo in parte), ma siamo davvero sicuri che la scena politica e sociale sappiano fare di meglio? A ospitare le registrazioni è stato il Sunbeach Resort di Squillace, mentre il produttore esterno era quel Dima che ho avuto il piacere di re-incontrare, a sorpresa, dopo tante notti passate insieme, al Sesto Senso di Desenzano (che non c’è più)… Un brindisi post re-incontro lo abbiamo fatto, ma a proposito di brindisi va segnalato un rito che accomuna ormai l’intera Penisola e che non ammette deroghe pena la brutta figura… Quando c’è di mezzo il bicchiere di plastica, qualsiasi bevanda vi sia dentro, dallo champagne all’acqua, lo scontro beneaugurante va celebrato incrociando le dita, non la plastica! Detto della gran massa di venditori di cappelli di paglia, soprattutto a Milano Marittima, dove li troviamo ovunque, financo nelle cene spettacolo del Pacifico, dove si ergono al rango di show al pari dei fazzoletti al vento e delle bolle di sapone, l’ultima nota del paragrafo spetta di rigore al Tre Conchiglie di Agropoli, lido e pub propositivo, fin troppo. Fa arrivare in tavola un plateau di sushi, sorretto da un cameriere che confessa «l’ho fatto io». Nulla era buono, ma


soprattutto non era sushi, ci assomigliava solo. Fatto sta che, a cena con noi, c’erano anche persone che non avevano mai assaggiato la cucina jap: ci siamo dovuti impegnare a fondo per spiegare loro che non dovevano considerare sushi quello che avevano assaggiato. Altrimenti, non vi si sarebbero più accostati. Il consiglio ai ristoratori è sempre quello: proponete ciò che avete di buono, come nell’occasione è stato fatto con la freschissima burrata e l’ottimo vino rosé salernitano, ma astenetevi dal servire piatti improbabili, asserviti all’insana voglia di dare l’idea di essere alla moda. Grazie. Chicche&Record Rimaniamo ad Agropoli, per raccontare l’evento più unico che raro andato in scena, il 22 agosto, al New Carrubo: difficilmente potremo dimenticare il maxi revival-party etichettato “Yeeeeh”, proprio come la canzone che lanciò alla ribalta, nel 1966, Mal dei Primitives! Voluto da un locale nato nel 1972, ha ripercorso l’evoluzione delle piste da ballo dal 1960 al 1980. Orchestre da sala e canzoni a richiesta, dj con i baffi e dischi con dedica, camerieri con il papillon e clienti con la zampa d’elefante, per una serata danzante iniziata alle 22.00, com’era normale negli anni della Dolce Vita. E come non accade troppo spesso, di questi tempi: vedere 1.000 persone dentro una discoteca, fin dalle 23.00, è stata la prima sorpresa. Ma la vera magia va individuata nella tipologia del pubblico presente: moltissime famiglie di quarantenni e cinquantenni con figli piccoli al seguito, subito pronti a trasformarsi in scatenati cubisti. Più un’atmosfera da sagra che da club dei giorni nostri, più un’immagine da pubblicità del Mulino Bianco che da luogo di trasgressione. Ottima promozione per la categoria. Fatto sta che alle 1.30 c’erano circa 3.500 persone, capaci di abbracciare tutte le età, visto che i giovani sono iniziati ad arrivare proprio a quell’ora. Il simbolo della serata? Il cartello che la famiglia Pecora, da sempre titolare del locale, ha posizionato sopra la cassa, “Posti a sedere solo sui muretti. Tavoli esauriti”. Grandi numeri anche all’anfiteatro dance dell’hotel Capo dei Greci, a Taormina, che ha saputo però offrire panorama e ambiente “da paura”. Immaginate una terrazza affacciata sul mare, per un verso e una parete di roccia chiamata a fungere da sfondo naturale per maxi proiezioni di stampo caleidoscopico, per un altro: solo mettendo a fuoco questo mix, completato dai bagliori lunari e da una clientela ben selezionata, potrete avere un’idea del gran lavoro di Francesco D’Angelo e Alessandro Scardilli, ma anche delle illuminate pubbliche relazioni di Riccardo Priolo. Con questo party negli occhi, grandi cose

Il New Carrubo di Agropoli (SA)

ci aspettiamo dal locale invernale gestito dallo stesso gruppo di lavoro, il Ma di Catania. Nella stessa città, aspettative monstre anche per il Cortile Capuana, sorta di risto-wine bar con corte deliziosa e negozi esclusivi annessi. Avremo modo di riparlarne, ma torniamo all’estate e, da una serata a base di musica contagiata dalle sonorità Anni ’80, passiamo al sound solare del dj Leo Lippolis, titolare della consolle di un altro grande club della nostra lunga stagione calda, La Tartana Club di Stromboli. Momento clou dell’appuntamento era la consegna al locale dell’ambito “Oscar del Piacere”, ma il party ha avuto uno svolgimento inconsueto, più da maratona dance che altro. I festeggiamenti sono partiti all’ora dell’aperitivo e si sono protratti fino a notte inoltrata… Alle 17.00 in punto è iniziato un coinvolgente aperitivo house, scenograficamente accompagnato dalle rosseggianti fumate di approvazione emesse dal vulcano, cui è seguita un’intrigante cena-spettacolo con intrattenimento “piano e voce” by Nicola Panebianco, direttore dei musical Jesus Christ Superstar, Evita e Tommy. Dalla Mezzanotte in poi, di nuovo balli scatenati, accompagnati da torta, celebrazioni e Champagne a fiumi. Tanto per non farsi mancare niente, pochi nottambuli patentati, hanno fatto l’alba nell’altra discoteca dell’isola, Megà. A segnalarsi per abnegazione e voglia di festeggiamento sono stati la giornalista Eva Spampinato, Mario “The Voice”, la modella-cocktail ed avvocato praticante Veronica Lavore, la promoter Elisa Russo ed i ragazzi del Muretto (sorta di privé esclusivo), alias quello che “ma le curve no, soprattutto in motorino, a notte fonda”, quello che funge da “risposta eoliana a Rocco Siffredi”, quel dj “con gli amici che vogliono andare a manetta con il gommone degli altri”, quell’altro dj che si auto-definisce “lo scagnozzo” e quel capitano di battello «che entra ed esce dallo scalo Pertuso (il porto più piccolo del mondo) in 12” netti». Ma i festeggiamenti non sono ancora finiti e i locali da celebrare, pure. Fra i club che sanno emozionare, premiazione d’obbligo per il Miù di Marotta di Mondolfo. Dopo anni di successi come Jicky, il locale di Jaqueline

Donna ha innestato un’ulteriore marcia in più, grazie all’ennesimo restyling. In primis, rinuncia al suffisso J’adore che aveva a sua volta sostituito il raddoppio del nome. Poi, sposa le nuove tendenze del loisir, compattandosi ed esaltandosi mediante un’opportuna suddivisione in due aree, differenziate ad arte. La zona Miù vera e propria risulta ora composta di ristorante-spettacolo e pista da ballo, mentre altro giro, altro regalo e soprattutto altro ingresso per The Black Room, dance floor più spiccatamente giovanile, da aprire solo il sabato. Risultato? Scacco matto in quattro mosse per un locale che i fratelli Mengucci, figli di Jaqueline e il direttore Maurizio Girolimetti vogliono sensuale più che mai. Del resto, lo slogan è proprio La Nuova Seduzione… Dalle Marche al Lazio, precisamente a Gaeta, per un altro doppio party. Centro della festa, piazza Conca, dove si affac-

Trasparenze DiVino di Gaeta (LT) 53


Tendenze

ciano due locali diversi, ma assolutamente compatibili, a cavallo fra qualità e quantità. Ristorante selettivo e creativamente oscillante fra carne, pesce e vini di pregio il Trasparenze DiVino, street-chiringuito votato ai cocktail ed alle sonorità più coinvolgenti il Christian Bar, le due facce di una stessa medaglia si sono gemellate per dar vita a una notte spensierata e diversificata. Il primo ha fatto emozionare grazie al look newyorkese degli interni, alla competenza nella proposta enologica e a piatti quali gamberoni rossi con lardo di colonnata e scialatielli, fiori di zucca, vongole e bottarga. Complimenti vivissimi a Christian Rosato ed Emanuele Nocella, per la professionalità dimostrata. Il ritorno in città, in quel di Modena, ci è costato l’incontro con la notte più calda dell’estate, ma anche con due realtà da celebrare a dovere, Baluardo della Cittadella e Caffetteria Giusti. La prima location è una discoteca che nasce nell’area fortificata eretta nel XVII secolo da Francesco I e utilizzata nel 1831 come carcere di un celebre cospiratore liberale, Ciro Menotti. La seconda è una bottega storica, attualmente wine-bar, sottoposta ai vincoli delle Belle Arti e caratterizzata da arredi originali in stile liberty. Il trait d’union fra i due locali è stato duplice: per un verso, Andrea Camurri, funambolico pierre di punta delle notti emiliano-romagnole e non solo, per un altro, Sandro “il velino”, gestore del ristorante del Baluardo e dell’intera caffetteria. Quanto agli accadimenti di cui siamo stati testimoni nel corso della nostra visita, va detto che in discoteca abbiamo sperimentato una novità assoluta, la realizzazione di un “Corto” in presa diretta, sulla pista da ballo e ai suoi margini, con attori scelti fra i clienti. Fra le note liete, professio-

Ingrosso, da Dave Guetta e Sven Vath. Complimenti veri a Villa delle Rose, Cocoricò e, soprattutto Echoes, il cui record d’incasso del 16 agosto ha fatto ritornare la nostra mente ai tempi d’oro della collina…

La Tartana Club di Stromboli (ME)

nalmente parlando, l’attivismo organizzativo del Fujiko Staff e la musica proposta dal dj Nicola Zucchi, molto migliorato rispetto all’ultima volta che lo avevamo ascoltato. Da Giusti abbiamo potuto bearci di un aperitivo qualitativo in compagnia del “Club delle Prime Mogli” (fatevi spiegare da Camurri di che si tratta) e di Giorgio Ferrari, alias Marchese Coccapani, ma soprattutto discettare di bollicine con “il Velino”, vero esperto del settore. Alla fine della serata, ci accomunava un desiderio, assaggiare un goccio del contenuto delle bottiglie di Champagne Veuve Cliquot ritrovate nel mar baltico, nel relitto di una nave affondata al largo dell’isola finlandese di Aaland, 230 anni fa. Pare che chi ha avuto la fortuna di assaggiare abbia dichiarato «ha un forte retrogusto di tabacco, grappa e quercia»: ci piacerebbe tanto assicurarcene. Dulcis in fundo, nota di merito per le discoteche di Riccione e Misano, che hanno riportato in Riviera Romagnola, in un breve spazio temporale, tutti i più grandi dj al mondo, da David Morales a Francois Kevorkian, da Luciano a Loco Dice, da Bob Sinclair a Sebastian

Crisi&Divieti A Jesolo (VE), un campeggio ha improvvisamente deciso, dopo anni di convivenza, che il Terrazza Mare fa rumore e disturba i clienti. Denunciato. A Milano Marittima (RA), il Papeete Beach non ha avuto il permesso di fare i suoi decennali aperitivi danzanti (dalle 17.00 alle 20.00, eh!) se non a partire da fine giugno e gli street bar del centro sono stati chiusi a rotazione. A Sabaudia (LT), chiusura del lungomare alle auto, in data 14 agosto. A Varazze (SV), la discoteca Orizzonte si è vista imporre dal Tar di spegnere la musica all’una di notte, per uno sforamento di un decibel (51 con il limite a 50). A Riccione (RN), sei stabilimenti balneari di zona Marano sono stati chiusi, la notte di venerdì 27 agosto, per non aver rispettato i limiti di decibel e di orario. A Porto Rotondo (OT), l’assessore al Turismo ha detto no ai falò in spiaggia. Ad Agropoli (SA), il wine bar Certe Notti è stato fatto chiudere il 14 agosto a causa di un impianto audio “potenzialmente” in grado di disturbare la quiete pubblica. A Villa D’Ogna (BG), addirittura, il sindaco ha vietato di giocare a calciobalilla dopo le 22.00, le 24.00 nel week end. Potremmo seguitare all’infinito, ma è chiaro che questa va considerata come l’estate dei divieti. Alcuni assurdi, altri poco lungimiranti. Perché, se si considera che è stata anche l’estate in cui la crisi si è fatta maggiormente sentire, creare troppi problemi ai turisti che si vogliono divertire non è davvero cosa

Indirizzi Anema e Core Via Sella Orta 39/e, Capri (NA). Tel. 081/8376461 Baluardo della Cittadella Piazza Giovani di Tien an Men 5, Modena. Tel. 059/244309 Caffetteria Giusti Via Farini 83, Modena. Tel. 059/246777 Certe Notti Via Filippo Patella 42, Scaloni del Borgo Antico, Agropoli (SA). Tel. 0974/826862 Christian Bar Piazza Conca, Gaeta (LT) Tel. 0771/462189; 393/9620390 Cocoricò Via Chieti 44, Riccione (RN) Tel. 0541/605183 54

Cortile Capuana Via Luigi Capuana 104, Catania. Tel. 095/534748 Echoes Via Trebaci 49, Riccione (RN). Tel. 0541/694839 Hotel Capo Dei Greci SS 114, km 38, Sant'Alessio Siculo (ME). Riviera di Taormina. Tel. 0942/756984. La Frasca Rotonda Don Minzoni 3, Milano Marittima (RA). Tel. 0544/995877 La Tartana Club Via Mons. A. Di Mattina 33, Stromboli (ME), Isole Eolie. Tel. 090/986025 Ma Via Vela 6/8, Catania. Tel. 095/341153

Megà Loc. Lido Petrazze, Stromboli. Tel. 090/986239 MI.MA Cafè&Pizza Viale Dante Alighieri 67. Tel. 0544/995284; 338/3382416 Miù Via Valcesano 136, Marotta di Mondolfo (PU). Tel. 0721/967389 New Carrubo Via Selva 72, Agropoli (SA). Tel. 338/9058213 Number One Via Vittorio Emanuele 53, Capri (NA). Tel. 081/8377078 Orizzonte Loc. Piani d’Invrea, via Pini d’Aleppo (SV). Tel. 019/90293

Pacifico Viale Romagna 64, Milano Marittima (RA). Tel. 0544/994727 Papeete Beach Via III Traversa 31, Milano Marittima (RA). Tel. 0544/991108 Sunbeach Resort Via Lungomare 1, Squillace Lido (CZ). Tel. 0961/9580001 Terrazza Mare Vicolo Faro 1, Lido di Jesolo (VE). Tel. 0421/370012 Trasparenze DiVino Piazza Conca 20, Gaeta (LT). Tel. 0771/460103. Villa delle Rose Via Camilluccia 16, Misano Adriatico (RN). Tel. 0541/694311


buona e giusta. Troppi egoismi, poca voglia di aprire al prossimo, molto pressappochismo, nessuna volontà di evitare gli atteggiamenti ponziopilateschi hanno peggiorato la situazione. Sarà istruttivo un esempio: in una località italiana, universalmente nota per la sua bellezza, gli alberghi di lusso hanno improvvisamente cambiato idea sulla movida in spiaggia e stanno già pensando di ribaltare la situazione, l’anno prossimo. Cosa è successo? Semplice, la clientela russa si è lamentata di non aver nulla da fare dopo le 22.00 e ha minacciato che, se non si potrà divertire, emigrerà verso altri lidi. Meditate gente, meditate. Per quanto mi riguarda, vista la mala parata, avevo già iniziato a darmi da fare a partire da metà giugno quando, invitato a rendere omaggio a Milano Marittima, designata “Top Summer Location”, avevo pensato di organizzare una cenadibattito per spiegarne i motivi, ma anche per ottenere risposta a una domanda che si stava facendo strada nella mente: possibile che ci sia di mezzo “Tafazzi”? Organizzata una cena-dibattito al MI.MA. Cafè&Pizza, ho approfittato dell’occasione e della presenza in sala di turisti, residenti, imprenditori e commercianti per chiedere loro cosa pensavano effettivamente della situazione. L’equilibrio spiaggia-abitazioni-street bar-disco-alberghiristorazione che era stato raggiunto nel tempo e che ha permesso la nascita di quel “fenomeno Milano Marittima” studiato da molti, eguagliato da pochi, è stato improvvisamente messo in discussione. Al punto da far insorgere un dubbio atroce: «Non sarà che, a sorpresa, sia stata assegnata la cittadinanza onoraria a “Tafazzi”?» Ossia, va bene ridiscutere gli equilibri e cercare di andare incontro alle esigenze di tutti, ma pensare di azzerare di punto in bianco una formula vitale vincente, capace di far incrementare le presenze in loco e caratterizzare a dovere la località, pare un’attività da masochisti. Ritornato a Milano Marittima il 28 agosto, ho casualmente incontrato il sindaco, Roberto Zoffoli, a cena presso il sempre ottimo ristorante La Frasca. Ci siamo salutati e ho chiesto i dati stagionali, ma mi sono dimenticato di dirgli di ritenermi a disposizione per qualche suggerimento ad hoc. Lo faccio da queste pagine, precisando che sarebbero molti i sindaci che necessiterebbero di consigli sulle strategie legate al turismo ludico. Del resto, io non sono stato fermo un attimo, questa estate: oltre alle situazioni descritte, potrei parlarvi a lungo di Santa Margherita Ligure (GE), Castiglione della Pescaia (GR), Ostia (Roma) e Porto Cervo (OT), ma lo spazio è tiranno. Sarà per un’altra volta, anche se la speranza è una sola: in un panorama economico-sociale come l’attuale, non vorrei mai dover essere costretto a citare Nanni Moretti, tirando in ballo lo struggente «Continuiamo a farci del male…»

RAMANDOLO D. O. C. G.

prossimi appuntamenti Belluno, 18 ottobre 2010 ore 20.00 Ristorante La Buona Tavola 2 via Caduti 14 Settembre 1944, n. 34 Serata Ramandolo incontro con i produttori e abbinamenti con prodotti tipici friulani A cura dell’Associazione Italiana Sommeliers del Veneto Delegazione di Belluno Cremona, 12-15 novembre 2010 Fiera di Cremona Il Bontà Salone delle Eccellenze Enogastronomiche Artigianali

enoteche e wine bar selezionati Emilia Romagna Cantina Tumedei V. Ortolani 32 Bologna Tel. 051-540239 Friuli Venezia Giulia Acer V. Manin 16 Udine Tel. 0432-504186 Ai Bintars V. Trento Trieste 67 S. Daniele UD Tel. 0432-957322 Carnia Sapori Sauris di Sopra UD Tel. 0433-866378 Costantini Rist. V. Pontebbana 12 Collalto UD Tel. 0432-792004 Da Benito Largo Diaz 4 Nimis UD Tel. 0432-790019 Enoteca Bischoff V. Mazzini 21 Trieste Tel. 040-380333 Enot. Dawit V. Alpi Giulie 30 Camporosso UD Tel. 0428-63012 Enot. di Buttrio V. Cividale 38 Buttrio UD Tel. 0432-683072 Enot. La Serenissima V.Battisti30Gradiscad’I.GOTel.0481-954539 Gelateria Montereale V.Montereale23PordenoneTel.0434-365107 Rist. Al Monastero V. Ristori 9 Cividale del F. UD Tel. 0432-700808 Rist. Cial de Brent V. Pordenone 1 Polcenigo PN Tel. 0434-748777 Santanna srl V. Maniago 27 S. Quirino PN Tel. 0434-91122 G. Scognamiglio V. Conti 34 Trieste Tel. 040-639582 Trattoria al Grop V. Matteotti 7 Tavagnacco UD Tel. 0432-660240 Lazio Enot. dei Desideri P.le Gregorio VII 17/18 Roma Tel. 06-6381507 Enoteca Trimani V. Goito 20 Roma Tel. 06-4469661 Lombardia Bottega del Vino Peck srl V. Hugo 4 Milano Tel. 02-861040 Cantina la Frasca V. Ticino 15 S. Fruttuoso MB Tel. 039-2726243 Enoteca ai Ronchi V. Galilei 89 Brescia Tel. 030-305354 Enoteca Cotti V. Solferino 42 Milano Tel. 02-29001096 Ottimo Rist. e Gastr. V. S. Marco 29 Milano Tel. 02-62694634 Sarfati V.le Sabotino 38 Milano Tel. 02-58310687 Winner Wines srl V. Roma 27 Leno BS Tel. 030-906374 Toscana Enoteca Bonatti srl V. Gioberti 66/R Firenze Tel. 055-660050 Selez. Fattorie V. Artigianato 50 Montespertoli FI Tel. 0571-670584 Trentino Alto Adige Club Moritzino Piz La Ila Alta Badia BZ Tel. 0471-847407 Enoteca Gandolfi V.le Druso 349 Bolzano Tel. 0471-920335 Veneto Enoteca Centrale V.IVNovembre59MestrinoPDTel.049-9004947 Enoteca Cortina V. Mercato 5 Cortina d’A. BL Tel. 0436-862040 Enot. La Mia Cantina P.le S. Croce 21 Padova Tel. 049-8801330 Quadri Gran Caffè P.zza S. Marco 120 Venezia Tel. 041-5222105

Il Miù di Marotta di Mondolfo (PU)

Consorzio Tutela Vini Colli Orientali del Friuli e Ramandolo www.colliorientali.com www.ramandolo.it


Vino e cucina

cucina abbinata a grandi vini L’arte della

CARLO CRACCO: «AMO I VINI VECCHI, COME I BAROLO O I MONTEPULCIANO DATATI, BOTTIGLIE DEGLI ANNI SESSANTA ANCORA INCREDIBILI»

di Maurizio Ferrari Carlo Cracco ▼

erfetto nella sua divisa da chef, Carlo Cracco ci accoglie con il suo educato sorriso vicentino segno di una personalità cordiale. Nato nel 1965 a Vicenza, papà ferroviere e mamma casalinga, tre fratelli più grandi, scuola alberghiera a Recoaro Terme, prime esperienze al Ristorante Da Remo a Vicenza. Da lì la sua carriera è stata un crescendo: da Gualtiero Marchesi ad Alain Ducasse, dall’Enoteca Pinchiorri a L’Albereta. Sotto la sua conduzione l’Enoteca Pinchiorri ottiene le tre stelle Michelin. A Piobesi d’Alba, nel Cuneese, apre Le Clivie che in un solo anno raggiunge la stella Michelin. Poi il ritorno a Milano. Accettando l’invito della famiglia Stoppani, all’inizio del 2000, dà il via al progetto del ristorante Cracco Peck. Dal 2007, diventando l’unico proprietario, cambia il nome in Ristorante Cracco. Dalla sua cucina escono piatti della tradizione milanese rivisitati in modo contemporaneo, che in pochi anni consentono al locale di guadagnare le due stelle Michelin e lo fanno entrare nella classifica dei cinquanta migliori ristoranti al mondo. Al Ristorante Cracco la cantina, che contiene oltre duemila etichette, è gestita da Luca Gardini, vincitore nel 2009 del titolo europeo dei sommelier e nel 2004 Miglior sommelier d’Italia.

P

Carlo Cracco e il vino. Quale è il tuo rapporto? In un ristorante il vino è di fondamentale importanza, perché accompagna il pasto ed è in grado di determinare le scelte del cibo. Il vino e il cibo sono le due fonti di maggior piacere: si può mangiare senza bere e bere senza mangiare ma questo significa separare due attività che, unite, possono dare sensazioni uniche. Sono due riti uguali, l’unica differenza sono i tempi: il cibo va consumato subito e quindi velocemente, mentre il bere è lento. Il vino si apre, evolve, cresce, si modifica. Sono due momenti diversi che si possono unire o separare. Personalmente amo il vino, perché da sempre apprezzo

56

l’importanza che riveste, indipendentemente dalla cucina. Nel senso che non è solo una questione di abbinamenti, quello è un fattore legato al lavoro, ma il vino è una delle espressioni più belle di chi produce qualcosa, perché una bottiglia rimane nel tempo, nella memoria. Una bottiglia si può trasportare, una cucina no. Questo significa molto nell’immaginario: per esempio hanno trovato bottiglie di champagne in fondo all’oceano, bottiglie che hanno centinaia di anni. È bello vedere che il vino si è mantenuto per così tanto tempo in fondo al mare e adesso è ritornano su come un tesoro. Il vino fa parte di quei tesori speciali. Hai lavorato con personaggi che hanno fatto la storia della cucina, cosa hai tratto da queste esperienze nel tuo rapporto con il vino? Per esempio Gualtiero Marchesi ha una sua filosofia: cibo e vino vanno consumati separati e in tempi diversi. Io non sono così integralista. Credo che si possa mangiare e bere insieme, e separatamente. Secondo me il vino ha una grande importanza in un ristorante, può integrare un piatto, come può distruggerlo se non è correttamente abbinato. Allo stesso modo un piatto sbagliato può distruggere il vino. Ma il giusto abbinamen-


to è compito del sommelier che aiuta il cliente nella scelta corretta, consiglia quale vino sta bene con il piatto scelto, e quale pietanza abbinare con quello che si sta bevendo. Ma alla fine è il cliente che decide: può anche scegliere di gustare un piatto, bere acqua e dopo gustarsi il vino. Così c’è la separazione tra il piatto e il vino, ma l’importante è che ci sia qualcuno che spieghi il perché dell’abbinamento. Hai mai pensato e creato un piatto in funzione di un vino? Sì, con Luca Gardini. Capita di immaginare dei piatti e con lui ci si confronta per creare l’abbinamento ideale, realizzato per raggiungere il massimo delle sensazioni. Non è facile. Faccio l’esempio dei cannoli di cioccolato e gianduia serviti con la birra. Si tratta di un piatto pensato per quell’abbinamento. La birra diventa una specie di brodo, se si assaggia l’insieme si capisce subito il significato, le sensazioni che questo abbinamento dà, ma è molto difficile spiegare le sensazioni, perché risultano assolutamente indescrivibili. È molto più semplice l’assaggio che la spiegazione.

dato. A me piace tantissimo il vino, ho la mia cantina e metto via i miei vini, però ci sono cuochi che guardano solo la cucina. Gualtiero Marchesi ne è un esempio. Al di fuori dell’ambiente della ristorazione, Carlo Cracco in privato ha delle preferenze sui vini? Mi piacciono molto i vini vecchi, come i Barolo o i Montepulciano datati. Bottiglie degli anni Sessanta che sono ancora incredibili oggi. Ci sono bottiglie di Barolo che non hanno niente da invidiare a qualsiasi francese o grande vino che si dica. Come ci sono grandi francesi di quegli anni che sono veramente unici, dotati di una morbidezza e di un’eleganza eccezionali. Se si ha l’occasione di bere una di queste bottiglie, posso assicurare che è un bere bellissimo. Di recente ho assaggiato un Chablis del 1997, vinificato con uno stile molto

Il tuo ristorante ha una cantina con oltre 2.000 etichette, Non sono tante? Servono davvero tutte? Sono veramente molte. Una buona carta dei vini si può fare già con un centinaio di etichette giuste. Ma più un ristorante è importante più la carta dei vini deve essere all’altezza. Se dovessi andare in un locale importante vorrei poter gustare determinati vini, vorrei poter assaggiare certe annate e allo stesso tempo avere accesso a cose semplici. Facendo il paragone con il cibo, avere una carta dei vini ridotta sarebbe come se un ristorante limitasse il menu a soli cinque piatti. In un ristorante di un certo livello la qualità della materia prima è fondamentale e come chef intervieni in prima persona nel controllo dei prodotti che servono in cucina. Fai la stessa cosa per i vini? Per i vini c’è Luca Gardini che sa fare bene il suo mestiere. Sa scegliere e valutare quali vini e quali annate acquistare. Ha elaborato un suo metodo e cerca sempre di assaggiare quello che si decide di comperare, perché ci sono vini che necessitano di stare in cantina per un determinato tempo, altri che devono essere consumati subito. Siamo una bella coppia: io non mi intrometto mai nel suo lavoro, Luca ha un suo budget con il quale acquista quello che ritiene necessario per il ristorante. Il sommelier è una figura determinante per la riuscita di una serata, non c’è solo il cuoco come primo attore. Ma attenzione, per avere successo un ristorante deve riuscire a creare un giusto mix tra il cuoco e la cucina, il sommelier e il servizio. Solo una volta ottenuto il giusto equilibrio tra queste tre anime si può essere certi del successo, poi bisogna essere bravi poi a mantenerlo nel tempo. Ed è quello che qui stiamo cercando di fare. Per un cuoco è importante avere conoscenza del vino? Ci sono cuochi che conoscono il vino e cuochi che non lo conoscono. Certo se uno chef lo conosce è più completo, ma non è fondamentale per saper cucinare bene. È una questione di carattere e di priorità che il cuoco si è

L Luca Gardini

particolare. Un vino da urlo. Non mi era mai capitata una bottiglia di tredici anni di questo vino. Si possono fare delle scoperte bellissime, come un Barbera del 1997 che ho aperto tempo fa ed era fantastico. Era di un piccolo produttore, ma si trattava veramente di un vino eccezionale. Oggi ci vuole più identità e più coraggio, il vino deve rappresentare il territorio e soprattutto deve rappresentare chi lo produce. È il produttore che alla fine determina il risultato finale. Grazie al lavoro di queste persone ci sono vini eccezionali in territori grandi e piccoli. 57


Vino e campioni

Dalla Coppa del Mondo ai vigneti di

Castiglia

di Paolo Giarrusso

L’AUTORE

DEL GOL CHE

HA REGALATO ALLA

SPAGNA

IL TITOLO

IRIDATO HA ACQUISTATO UN TERRENO PER IMPIANTARE UNA VIGNA CHE DARÀ LAVORO A UN’AREA DEPRESSA

DALLA CRISI

58

26 anni, l’11 luglio scorso è stato il match winner nella finalissima dei Mondiali del Sudafrica che ha consentito alla Spagna di diventare Campione del Mondo, dopo che nel 2008, sempre con le Furie Rosse, era divenuto Campione d’Europa. Se poi, per lui, il 2010 sarà un anno indimenticabile, altrettanto deve dirsi del 2009, allorché si consacrò la sua piena affermazione internazionale con il Barcellona, vincitore di Campionato, Coppa del Re e Champions League. Antidivo, campione e uomo umile e riservato, giocatore che tutti i più prestigiosi club vorrebbero avere, Andrés Iniesta ha intenzione di affermarsi anche come fuoriclasse del vino. Non tutti sanno, infatti, che Andrés è produttore e che, a differenza di molti vip, non ha dimenticato le proprie radici. Così a Fuentealbilla, il paesino di nemmeno duemila abitanti situato nella provincia di Albacete, nella comunità autonoma della Castiglia-La Mancia, dove è nato l’11 maggio del 1984 e dove viene considerato dai suoi concittadini un idolo, una sorta di santone sempiterno, Iniesta sta costruendo la cantina Bodega Iniesta, che darà lavoro a 12 persone del luogo, un’area rurale ancora più depressa dopo la crisi economica degli ultimi anni. L’aver investito parte dei suoi guadagni (circa 9 milioni di euro), nella sua terra natale, dimostrando anche uno spirito di solidarietà non comune, ha indubbiamente ingigantito la considerazione e la stima che già hanno di lui tutti gli abitanti di Fuentealbilla, tant’è vero che il Comune si era già portato avanti intitolandogli una via nel luglio del 2008. Ogni volta che questo campione torna a casa, la sua gente gli dimostra un attaccamento incredibile, commovente: e Andrés ricambia parlando della sua terra come fosse un presepe: su You Tube c’è un suo reportage in quattro pun-

A


CASTIGLIA - LA MANCIA La Castiglia-La Mancia è una comunità autonoma della Spagna. È composta dalle province di Toledo, Ciudad Real, Cuenca, Guadalajara, e Albacete. Capoluogo: Toledo Superficie: 79.463 km² 15,7 % della Spagna Popolazione: 2.043.100 ab. 4,37 % della Spagna Densità: 25,66 ab./km²

tate, in cui si vede anche il primo campetto che ha mostrato agli occhi di tutti la differenza tra chi a calcio gioca e chi con il calcio può fare la storia, il che è puntualmente avvenuto. Quel campetto che ad Andrés mette nostalgia e che gli ricorda i tempi epici in cui mamma, papà, zii o nonni facevano i turni per sciropparsi i 100 chilometri per portarlo ad Albacete, sede della sua prima squadra di club. Ora, grazie alla sua nuova attività imprenditoriale che creerà appunto occupazione per 12 abitanti del paese che, ovviamente, ringraziano, il leader silenzioso del Barcellona e della Spagna avrà un motivo in più per tornare a casa. La decisione di aprire una cantina nella sua città natale risale a poco prima dei Mondiali del Sudafrica, dopo avere acquistato un po’ di tempo fa alcuni vigneti che possano produrre vino di qualità. D’altronde Andrés non ha mai fatto mistero della sua passione per il vino. «Sono affascinato – ha sempre detto – dall’aspetto conviviale del vino, dalle persone che parlano attorno ad un tavolo…» A guidare la cantina Bodega Iniesta, che per ora è in fase di costruzione con tanto di colata di cemento e pilastri portanti, sarà il padre José Antonio che si occuperà di portare a buon fine l’avventura vitivinicola del campione che non sbaglia mai un passaggio e la cui maglia numero 8 è una delle più vendute sulle Ramblas di Barcellona. D’altronde, papà José Antonio ha le idee piuttosto chiare: l’azienda vinicola, che intende esportare in Germania, Gran Bretagna e Giappone, punta a fare 200 mila euro di profitto su un fatturato annuale di 600 mila. La cantina produrrà 700 mila bottiglie di vino rosso, bianco e rosé e, mentre la fama di Iniesta potrà aiutare indubbiamente le vendite, potrebbero volerci decenni perché il marchio si affermi in un mercato molto affollato. A pensarla in tal modo è Felix Yanez, general manager di Vineyard and Wine Institute, di proprietà pubblica, che sovrintende alle viticolture nella regione della Castilla-La Mancia. «Per Andrés Iniesta – sostiene Yanez – è un buon business. Per i suoi nipoti sarà un affare eccezionale». Papà Iniesta è contrario inoltre a una saturazione vinicola in Europa che porta i prezzi al ribasso, mentre è convinto che si debba giocare la Champions League del vino. «Se non si produce il vino migliore – afferma – si soccombe». La Castilla-La Mancia produce circa la metà del vino spagnolo e a Fuentealbilla, intorno alla metà dei suoi duemila abitanti è impegnata in cooperative vinicole, benché nessun gruppo possegga la tecnologia che può permetter-

si quello che vede a capo il grandissimo campione di Spagna e Barcellona. La prima vendemmia della Bodega Iniesta cadrà proprio in concomitanza con l’inizio della prossima Liga, il campionato spagnolo. Facile prevedere come, se il vino Bodegas Iniesta sarà buono come il piede del fuoriclasse del Barcellona e della Nazionale spagnola, il successo sia assicurato e in tutto il Paese siano pronti a dare l’assalto alla sua cantina per svuotarla e brindare ai prossimi trionfi sportivi. Sono in molti, infatti, a pensare che l’intelligenza, la tenacia, l’umiltà e le qualità morali di questo grande uomo ed eccezionale campione, gli consentano di vincere ogni sfida che decide di intraprendere: quella calcistica che lo ha visto lasciare a 12 anni il paesello di Fuentealbilla e la squadra dell’Albacete per cercare fortuna alla Masia, la foresteria dove vivono e studiano i giovanissimi del Barcellona, sino a vincere tutto con il Barça e a diventare Campione d’Europa e del Mondo con la Spagna; quella di scrittore che lo ha visto pubblicare un libro «Un anno in paradiso», assieme ai giornalisti Sique Rodriguez e Dani Sanabre e che, visti gli ultimi trionfi, gli farà prendere di nuovo presto in mano, molto probabilmente, la penna; forse quella cinematografica, visto che a Barcellona c’è chi ipotizza che Tom Barrack, magnate edìle, possibile acquirente della L Andrés Iniesta con la Coppa dei Campioni 2009 casa di produzione cinematografica Miramax, stia cercando di convincere Iniesta a partecipare in qualche modo a un film ispirato alla vita di un campione del mondo di calcio che, grazie alla sua umiltà, ascende ai massimi livelli. Ora anche, ne siamo certi, quella vinicola. Perché, come ha già scritto qualcuno, Andrés Iniesta Lujan, in un mondo di presunti fenomeni, è la normalità al potere: un campione che, in questo momento, è il giocatore migliore del mondo. Non il più mediatico. Non il più forte. Non il più spettacolare. Semplicemente, il migliore. 59


Il Lagunare

Il

vino cullato dalle onde

della

Laguna L La laguna dove il vino riposa per sei mesi

di Isabella Sardo era una volta una bambina piccolissima che, a poche settimane di vita, fu presa dalle braccia del suo papà e bagnata nelle acque della laguna di Caorle. La bimba crebbe e, anche quando era in città, sognava la laguna. Poi, quando in vacanza tornava a Caorle, i suoi occhi ritrovavano quei colori che aveva conosciuto sin dai suoi primi giorni, e quei profumi lagunari che le entravano nelle narici e lì si incollavano indelebili. Quando fu un po’ più grande, un giorno la bimba disse: «Papà, dovresti fare un vino con i profumi della Laguna». E lui, a differenza di tanti altri genitori del mondo, la prese in parola. È nato così – almeno a sentire Alessandro Corbo, il suo ideatore – il vino Lagunare. Nato in collina, nei vigneti di Campodipietra del produttore Ornella Molon, il Lagunare è un vino che fa il suo invecchiamento in botti calate sott’acqua, nella laguna. Cullata dalle onde e dalle maree, la botte rimane immersa per sei mesi, al fresco, infossandosi nel fondale sabbioso, aviluppandosi di alghe, a contatto con

C’

60

pesci, conchiglie, granchiolini e uscendo allo scoperto solo con le basse maree. Questo habitat così inusuale rende un esperimento simile davvero azzardato. Non che sia una novità assoluta quella di utilizzare il fondale marino come cantina, ma

quello che è particolare rispetto a sperimentazioni più o meno analoghe è che la profondità dell’immersione è relativa (circa due metri, ma varia a seconda delle maree). E soprattutto sorprende che in questo caso non ci si trovi di fronte a vini (principalmente spumanti) già imbottigliati, che affinano in bottiglie poste sott’acqua. Ci troviamo, invece, di fronte ad

un vino rosso (cabernet e merlot) che finisce sott’acqua quando ancora è dentro la botte (botti di secondo passaggio di rovere francese da 235 litri) quando, cioè, a causa della porosità del materiale del recipiente, gli scambi tra ambiente esterno e ambiente interno sono più massici e rapidi. Questo rende l’esperimento del Lagunare Rosso un unicum assoluto, e a breve dovranno essere imbottigliati anche un Lagunare Bianco risultato della vinificazione di uve friulano, un Refrontolo Passito (Lagunare Passito) e una Grappa di Lagunare. Stratosfericamente lontano dall’idea di vino semplice e schietto, il Lagunare è chiaramente un vino per chi ama i virtuosismi enologici (ed è disposto a pagarli adeguatamente). A chi è alla ricerca di sensazioni inusuali, a chi cerca ogni mezzo per sorprendere e soprendersi, il Lagunare offre un valido appiglio: è un vino rubino profondo caratterizzato da una trama molto fitta che lo rende impenetrabile. In un primo momento un gradevole ma tutto sommato convenziona-


Quando il vino fa un tuffo in mare Un ristoratore, un “mastro formaggere” e un pescatore di ostriche: sono questi i tre moschettieri che si sono inventati un modo inedito di conservare il vino, immergendo le bottiglie in mare a una temperatura di 10 gradi, utilizzando le acque a largo di SaintMalo come enorme cantina dalle caratteristiche ideali (buio, temperatura costante e, neanche a dirlo, discreta umidità!!!). Un anno dopo l’immersione, le bottiglie sono “ripescate” e degustate insieme alle loro “sorelline” che quegli stessi mesi se li sono passati all’asciutto, in cantine tradizionali. Chi ha avuto la ventura di partecipare a queste “orizzontali” giura che la differenza L Saint-Malo organolettica a cui hanno dato vita i due metodi di conservazione è nettamente percepibile. In particolare, i vini che hanno soggiornato in mare mostrano una morbidezza e una maturità a cui gli altri arriveranno molto più tardi, ma salvaguardano intatta la freschezza e la vivacità dei tannini. Per il prossimo Natale, inoltre, moltissimi enoappassionati sognano già di brindare con bollicine nate a 60 metri sott’acqua: a dicembre verrà infatti immesso sul mercato lo spumante metodo classico Abissi di Bisson. Le bottiglie in questo caso sono state immerse a 60 metri di profondità, a largo di Portofino, e hanno già ampiamente stuzzicato la curiosità dei media e degli appassionati di spumanti. In ognuno di questi casi cresce iperbolicamente il rischio dei furti: malgrado i cantinieri, per tutelarsi da eventuali ladri di vini, mantengano strettamente segreta la localizzazione del punto di immersione delle bottiglie, gli enodiabolik non si lasciano certo scoraggiare. Persino a 60 metri di profondità sono riusciti a scovare e portarsi a casa preziosi flaconi di grande formato (e ancor più grande valore) brindando poi lussuosamente alla e con la refurtiva.

le sentore di ciliege sotto spirito investe le narici unendosi a delle decise (se non eccessive) note boisées. Solo in un secondo momento, concedendogli di aprirsi adeguatamente, il Lagunare offre una tavolozza di profumi originali, che giustificano un’elaborazione così complicata come quella che gli è stata consacrata. Il naso allora si slancia a inseguire una trama olfattiva giocata su note di “fondale di stagno”, alghe, vegetazione lacustre che poi si chiude su caldi sentori di torrefazione. La bocca è marcata da una morbidezza molto invasiva, a cui tenta di far da controcanto una sapidità vivida, dovuta, si è tentati di pensare, al suo breve soggiorno sottomarino. Tenendo però presente che il tasso salino della laguna è estremamente attenuato rispetto a quello medio del mare aperto (17/1000 in laguna, 35/1000 a mare). Un profilo organolettico come quello descritto apre al sommelier nuove prospettive sul fronte degli abbinamenti: un rosso di corpo che stravede per gli abbinamenti col pesce

stuzzica sempre la curiosità dei professionisti del settore; da provare, giusto per iniziare, con isalata di alghe e anguille alla brace, per poi sbizzarrirsi a piacimento azzardando un po’ di tutto, dai crostacei alle conchiglie. Difficile essere precisi nel prevedere l’aspettativa di vita del Lagunare: tan-

nini sensibili e freschezza esuberante lascerebbero però pensare a una possibile evoluzione medio-lunga. L’esperimento inaugurato dal Lagunare lascia aperte alcune domande, la cui sentenza lasciamo allegramente ai posteri: 1) Che apporto finale ha dato il mare a questo vino? Oltre ai già menzionati sentori lacustri, la cosa sorprendente è che il soggiorno sottomarino ha fatto iperbolicamente accellerare i processi di polimerizzazione. Ma nessuno ha ancora capito come mai. 2) Il mercato si getterà, goloso come sempre di “chicche”, su un prodotto atipico come questo? 2b) Il Lagunare diventerà un nuovo status symbol enologico italiano, per cui agiati appassionati investiranno fino a 300 euro alla bottiglia (prezzo degli esemplari a tiratura limitata firmati dai produttori)? 3) Questo vino verrà interpretato come una boutade, un giochetto divertente che lascia il tempo che trova, o stuzzicherà altri produttori a lanciarsi in altre, analoghe, sperimentazioni? 61


Turismo

Israele,

una piccola grande sorpresa

di Elisa della Barba

rande come il New Jersey, popolata poco più della Nuova Zelanda, Israele è una piccola grande sorpresa, madre di contrasti a partire dal paesaggio e dalla sua storia che combina vecchio e nuovo, passato e futuro. Israele è una tappa quasi obbligata per quei turisti che vogliono conoscere un Medio Oriente che ha come ingredienti la diversità, ma anche un pizzico di sapore familiare: è differente il clima, internazionale la popolazione, antichissima la storia e la pregnanza spirituale dei luoghi, ma i divertimenti e l’approccio alla qualità di vita strizzano indubbiamente l’occhio all’Occidente. Almeno ultimamente i turisti stranieri sono particolarmente motivati a visitare il territorio, rassicurati dalle nuove campagne pubblicitarie di viral marketing che mostrano Israele da scoprire, in pace e sicuro. E il 2008 ha superato ogni aspettativa, rappresentando l’anno record per il turismo israeliano, sorprendentemente non intaccato dalla crisi: più di tre milioni di turisti hanno visitato il paese, con un 30% di crescita rispetto ai numeri

G

62

del 2007 e un 13% in più rispetto al 2000, anno che deteneva il record di visite finora. Tel Aviv è la città con maggiore occupazione di camere d’albergo (75%), gli hotel sul Mar Morto arrivano secondi (occupancy rate: 70%) e Gerusalemme ed Eilat terzi (68%). Interessante poi verificare che il 25% dei turisti sono stati visitatori ebrei e

L Una famiglia di Drusi ad Haifa (appartenenti a una setta derivata dalla religione musulmana)

▼ Una cucina di Tel Aviv nel quartiere yemenita


L Tel Aviv, spezie al Carmel Market

▼ Il centro di Jaffa

il 66% cristiani (la rimanente percentuale appartenente ad altre religioni o a nessuna). Israele ha accolto invece 2,7 milioni di turisti nel 2009, con un passo indietro dell’11% rispetto al 2008. Il gruppo più numeroso di visitatori, 550.000, arriva dagli Stati Uniti, seguiti dalla Russia (Paese che ha duplicato le sue presen-

ze in seguito all’abolizione da parte di Israele nel 2008 della necessità di visto) che ne ha portati ben 400.000 e da 260.000 francesi. Le altre nazionalità più numerose per quanto riguarda il turismo dall’estero sono quella inglese e tedesca. Il 2009 ha segnato una flessione solamente temporanea: l’aprile 2010 ha segnato un record positivo, contando circa il 26% di turisti in più dell’anno scorso. Inoltre il Central Bureau of Statistics ha calcolato che rispetto ai primi 4 mesi del 2009 c’è stato un aumento del 31% per quanto riguarda i turisti che si fermano per più di una notte in Israele. Tutto ciò ha ovviamente conseguenze positive anche per quanto riguarda il mercato dell’economia che ha creato ben 223.000 posti di lavoro nel turismo nel 2010 (costituiscono il 7,9% della percentuale di occupazione). Il turismo si conferma quindi essere una delle maggiori fonti di ricavo del Paese: nel 2010 ha costituito il 6,4% del Prodotto Interno Lordo e il World Travel and Tourism Council prevede una crescita del PIL al 7,2 % entro il 2020. Stupisce in realtà come il Paese sia 63


Turismo

ISRAELE Capitale: Superficie: % delle acque: Popolazione: Densità: Lingue ufficiali:

L L'esposizione di un antiquariorobivecchi nel grande mercato delle pulci a Jaffa

64

Gerusalemme 20.770 km² ~2 % 7.587.000 ab. 365,3 ab./km² ebraico, arabo

L Uno scorcio suggestivo di un'abitazione di Jaffa ▼ La Medina di Akko

situato turisticamente solo al 51esimo posto nel mondo tra i 181 Paesi esaminati dal World Travel and Tourism Council, considerando l’incredibile offerta di paesaggio, intrattenimento ma soprattutto di luoghi sacri che sono punto di riferimento ogni giorno per ebrei, musulmani e cristiani (e non solo). Gerusalemme è la città più grande sotto controllo israeliano e abbraccia quattro quartieri: quello ebraico, quello cristiano, quello armeno e quello musulmano. Chiamata “la città d’oro” per le cupole scintillanti degli edifici religiosi che nel tempo vi sono stati costruiti, riecheggia di lingue che percorrono veloci le strette strade brulicanti di vita e i confini invisibili dei diversi quartieri. Il tempo sembra fermarsi qui, e dopo brevi contorni d’ombra, investiti da una luce diversa da ogni altro luogo, ci si trova a domandarsi inevitabilmente delle differenze e dei conflitti, della pace e della guerra: unica risposta le pietre dei monumenti che ci circondano, costruiti, distrutti e ricostruiti ancora. Il Muro del Pianto, meta di tutte le anime turistiche che approdano a Gerusalemme, è il monumento più visitato, e uno degli spazi forse più “familiari” nel mondo anche per chi non l’ha mai visto di persona. Altre tappe spirituali: Nazareth, Betlemme, il monte Eliat, Hebron (seconda città sacra del Paese). La seconda città più grande è Tel Aviv, definita da molti la “Barcellona” israeliana. Il quartiere di Neve Tzedek, a sud di Tel Aviv, è stato il primo quartiere costruito al di fuori di Jaffa, la città vecchia (dove ci si perde fra mercatini delle pulci, gallerie d’arte e resti storici), e ricorda una Parigi più intima dell’originale, unita all’energia di New York e all’ambiente internazionale di Londra. Akko, città situata nel nord, è uno degli insediamenti più antichi di Israele, abitato per la maggior parte da ebrei. Da visitare, la moschea di Jezzar Pasha (costruita nel 1781), l’hamam al-Basha e la cittadella, costruita in epoca Ottomana come fortezza. Da vedere, Haifa, porto e centro industriale ma soprattutto culla di una popolazione multietnica e multireligiosa: se infatti la maggioranza è di origine ebraica, vi è anche una percentuale di presenza musulmana, cristiana e drusa e la città è anche la sede spirituale della religione Bahai. Cesarea, situata sulla costa fra Tel Aviv ed Haifa, presenta antichi resti romani, gallerie d’arte e tramonti mozzafiato.


L La luce del tramonto a Cesarea

Masada, tra i siti storici più visitati, è divenuta nota perché teatro del suicidio collettivo da parte degli ebrei in seguito all’assedio dei Romani di questa fortezza durante la prima guerra giudaica. Molti dei siti turistici sono stati nominati Patrimonio mondiale dell’umanità. Israele non solo è costellata di luoghi storici suggestivi, ma presenta anche un’offerta diversificata per chi non è appassionato di turismo culturale o religioso. Spiagge di diverse tipologie, sentieri naturalistici per lunghe camminate, deserti da esplorare, fondali per immersioni, piste sciistiche durante l’inverno che si tramutano in percorsi da arrampicata durante la primavera, parchi naturali e vita notturna. Tanti i punti di richiamo, dunque, per i turisti di tutto il mondo.

Difficile cercare di fare un confronto con la situazione turistica italiana in questo caso: Israele sta iniziando a recuperare terreno per arrivi turistici se guardiamo al passato, ad anni che sarebbe impossibile definire facili per molti motivi. È l’inizio di un lungo cammino che dovrà sanare ferite profonde. Il turismo italiano non ha finora dovuto fare i conti, almeno nel recente passato, con conflitti politici o militari che fossero anche lontanamente paragonabili a quelli di Israele. Proprio per questo l’Italia gode di un’immagine di Paese accogliente, solare e sicuro che si è costruita (quasi) da sola negli anni: mancheremo di organizzazione svizzera e forse il nostro inglese non è da manuale, ma è impossibile negare che da noi si possa entrare in un supermercato senza essere perquisiti da cima a fondo da una guardia armata o che si possa camminare per strada tranquilli senza avvistare posti di blocco armati in ogni dove. Provvedimenti senza dubbio necessari per Israele ma deterrenti per i turisti, almeno fino a poco tempo fa. Si dovrà dunque aspettare ancora un poco, statistiche alla mano, per mettere in atto una lotta fra pari. La concorrenza comunque spinge al continuo miglioramento, quindi ben venga, c’è però come sempre un campo in cui difficilmente altre nazioni possono eguagliarci: quello gastronomico. Va detto che per quanto riguarda Israele non bisogna sottovalutare sia la qualità della cucina etnica sia l’importanza della tradizione legata ad essa. Le categorie non sono mai corrette, specie quanto si parla di un territorio con così grande numero di differenze culturali, ma la cucina israeliana si potrebbe dividere fra Ashkenazita e Sefardita. La cucina Ashkenazita rimanda agli immigrati ebrei provenienti dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, la Sefardita si riferisce agli immigrati ebrei dai paesi del Medio Oriente. È per questo motivo che la cucina Sefardita è ricca di spezie aromatiche ed erbe mentre quella Ashkenazita è più “dolce”. Come anticipato, in realtà la cucina di Israele riflette le usanze, gli ingredienti e i luoghi nei quali gli ebrei hanno vissuto nei secoli addietro prima di tornare in Israele, portando influenze del Medio Oriente, del Mediterraneo, della Spagna, della Germania, dell’Est: molti dei piatti che troviamo in Israele si sono “trasferiti” in questo luogo dopo 3000 anni di storia altrove. Arrivati in Israele con alimenti ridotti all’essenziale e dovendo affrontare l’austerità dei primi tempi dalla nascita di 65


Turismo L La baklava, un dolce tipico, in una pasticceria di Haifa ▼ Succo di melograno appena spremuto

66

Israele (1948), gli immigrati non potevano permettersi sprechi o lussi. La cucina ebraica è una cucina prettamente povera, fatta di ingredienti semplici. Negli anni ’70, comunque, si è sviluppata una cucina “fusion” che tende a unire diversi stili con nuove sperimentazioni culinarie che aggiungono ingredienti o ricette più pregiate ed elaborate. Tutto questo unito a un’attenzione particolare per la cucina Kosher (che in ebraico significa “adatto ad essere mangiato”), regime alimentare dettato dalla religione ebraica e utilizzato in particolar modo, oltre che quotidianamente da tutti i praticanti, in concomitanza delle feste ebraiche. Fra i piatti più comuni (e deliziosi), ricordiamo l’humus, una purea di ceci, olio e limone, e la tahine, che ha la stessa consistenza ma ha come ingrediente principale i semi di sesamo, entrambe da accompagnare con il pane locale, la pita; i falafel, polpette di ceci fritti, forse tra tutti il più tipico “street food” in Israele, la zuppa di lenticchie, spesso ottima, comprata nei piccoli baracchini di home-cooking in cui ci si imbatte passeggiando. Non può mancare il pesce, reperibile sulle coste del Paese, fresco e servito intero, in stile Mediterraneo, grigliato, fritto o in forno e accompagnato da diverse salse. Protagonisti anche molti tipi di verdure, frutta secca e frutta fresca, dolce e succosa: per strada si possono acquistare succhi freschissimi di melograno pronto da bere e tutta la frutta viene utilizzata sia come dessert che come accompagnamento nei secondi piatti (ingrediente comunemente uti-

lizzato è il dattero). Uno dei dolci tipici è la baklava, di origine turca, composto di pasta phyllo, ripieno di noci e servito condito con sciroppo di zucchero. Per quanto riguarda la produzione vinicola, è stata parte fondamentale della storia ebraica fin dai tempi della Bibbia. Oggi Israele produce vini di altissima qualità. Negli anni ’90 è ufficialmente iniziato il boom delle cantine e ad oggi Israele ne conta più di 140. Nel 2009 Israele ha esportato vini per 22 milioni di dollari e si calcola che per il 2010 l’ammontare annuale raggiungerà i 30 milioni. Il fondatore dell’industria vinicola moderna israeliana fu il barone francese Edmond James de Rothschild che fondò alla fine dell’800 la Carmel Winery, ad oggi la più grossa compagnia vinicola in Israele. Metà della produzione vinicola annuale (15 milioni di bottiglie) è esportata negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Insieme a lei, l’altra gigante è la Golan Hights Winery: insieme le due compagnie coprono più del 90% delle esportazioni e, insieme alla Barkan Wine Cellars, dominano il mercato domestico. Nonostante possieda solo un quarto del territorio che si coltiva in Libano (che ha un curriculum di 4000 anni di produzione vinicola), grazie all’utilizzo pionieristico di tecniche avanzate per la produzione vinicola e all’ampia fetta di mercato in cui esporta, Israele si è fatto strada velocemente. Cinque le regioni coltivate a vigne: la Galilea, che dà molti dei vini più prestigiosi; le colline della Giudea, la regione del Samson (o Shimshon) che detiene il territorio coltivato più vasto (40% di tutto il Paese); il Negev, che nonostante il terreno desertico produce grazie a nuove tecnologie di irrigazione; e lo Shomron (o Samaria), perfetto per il clima tipicamente mediterraneo. Si producono principalmente vini ottenuti da uve francesi, come il Cabernet Sauvignon, lo Chardonnay, il Merlot, il Pinot Noir e il Sauvignon Blanc, ma ultimamente stanno emergendo anche il Riesling, il Gewürztraminer e il Syrah. La maggioranza dei vini prodotti è Kosher, seguono cioè le leggi ebraiche e vengono approvate da un rabbino, ma il campo si sta decisamente allargando e la classificazione dei critici include ormai vini israeliani Kosher e non: il metro di valutazione è la qualità. Che si brindi, dunque, alla magia dei vini, da dovunque provengano, e a un futuro promettente (e pacifico): come si dice in Israele, “L’Chayim”!


Oli d’Italia

Buon compleanno

Extravergine QUESTA DENOMINAZIONE MERCEOLOGICA RISALE AL 13 NOVEMBRE 1960, ANCHE SE L’INTRODUZIONE DEL TERMINE “VERGINE” È CONTENUTA IN UN REGIO DECRETO DEL 1936 di Luigi Caricato

Q

uesta mia nota stupirà senza dubbio tutti. L’olio extra vergine di oliva è un prodotto merceologicamente giovane. Tra breve compirà solo cinquant’anni. Altro che prodotto antico dal passato millenario. Non è così. Dalle olive si è sempre ricavato l’olio, è vero, ma il succo di oliva che si estrae, pur così salutare e buono, quello per intenderci che si ottiene per semplice spremitura del frutto, ha assunto solo di recente il nome di olio extra vergine di oliva. Da soli cinquant’anni, appunto, e non è certo un dato secondario questo. Gli oli che non rientrano nei parametri definiti dal legislatore non possono infatti fregiarsi di tale appellativo. La denominazione di olio extra vergine di oliva risale per l’esattezza al 1960, con l’emanazione della legge numero 1407 del 13 novembre. Tutti noi siamo abituati all’idea di aver in tavola una buona bottiglia di extra vergine per condire le più svariate pietanze, ma ne ignoriamo fatalmente i natali. Quando lo scorso 10 giugno chi scrive ha riferito dei cinquant’anni dell’extra vergine, nell’ambito di un seminario di formazione rivolto ai giornalisti, tutti sono rimasti sorpresi e senza parole. In verità, l’introduzione del termine “vergine” è antecendente. Risale al 1936, in seguito al Regio decreto numero 1986 del 27 settembre. Si trattò di una decisione politica con la quale si optò in particolare per la dicitura di “olio sopraffino vergine di oliva”. Per una maggiore chiarezza, va detto che l’espressione “vergine” non è stata certo tra le più felici, perché nonostante le intenzioni del legislatore non chiarisce il vero valore del prodotto, né tantomeno mette in evidenza la naturalità di ciò che altro non è che un puro succo di oliva. Non solo: paradossalmente, l’espressione successiva, quella di extra vergine, ha portato le masse a non capire sin da subito la vera qualità del prodotto. Ci sono voluti almeno due decenni per far comprendere che l’olio extra vergine di oliva è di fatto qualitativamente migliore rispetto a un più comune olio di oliva. L’espressione “extra” suona inoltre un po’ artificiosa, perché rimanda a qualcosa che sta “al di fuori” e che in qualche modo si aggiunge ad altro. Nel contempo, tuttavia, la parola “extra” è un aggettivo che sta per qualcosa di “al di fuori della norma”, buona dunque per indicare qualcosa di “superiore” o, addirittura, di “straordinario”. Di conseguenza, l’olio extra vergine di oliva sarebbe come tale un olio di per sé straordinario. Ma ciò non è stato sufficiente, perché tale forzatura linguistica non ha giovato alla fine nel fare chiarezza tra i consumatori. Infatti è 68

solo ora, a distanza di cinquant’anni, che si è finalmente capito, del tutto o quasi, il vero senso della categoria merceologica in questione. Ma non per tutti vale tale considerazione, perché nei Paesi che iniziano a conoscere gli oli ricavati dall’oliva, resta l’incertezza sulle tante, eccessive, denominazioni di vendita. Sono quattro quelle disponibili al dettaglio: olio extra vergine di oliva, olio vergine di oliva, olio di oliva e olio di sansa di oliva. I nuovi consumatori non comprendono le differenze. Molto spesso accade che una categoria merceologica inferiore, qual è quella dell’olio di oliva propriamente detto, venga ancora percepita, soprattutto all’estero, come un prodotto di qualità superiore allo stesso extra vergine. Tradotto in inglese, l’ambigua espressione pure olive oil non aiuta a discriminare. Tornando al nostro Paese, e a quei Paesi tradizionalmente consumatori, il termine olio extra vergine di oliva è da considerare ormai storicamente acquisito. Non lo si potrà più modificare, e non avrebbe oltretutto alcun senso cambiare denominazione in corso d’opera. Ciò che è fatto è fatto: la logica che ha portato a una classificazione merceologica un po’ dubbia resta ora un punto fermo. Nulla nasce dal caso: l’esigenza di inventare l’olio extra vergine di oliva è stata in parte spinta dai consolidati interessi commerciali che pochi grandi gruppi dell’epoca detenevano. Per altro verso, c’è da dire a onor del vero che all’epoca non era disponibile una grande qualità delle produzioni olearie. E così, piaccia o meno, la realtà è quella che ora ci ritroviamo. A chi scrive sarebbe piaciuto di gran lunga che l’olio extra vergine di oliva si denominasse sic et simpliciter “succo di oliva” anche perché rende meglio l’idea della naturalità del prodotto, dal momento che si tratta della semplice spremitura di un frutto, l’oliva appunto; ma un nome diverso, come già chiarito, oggi non è più possibile: la gente non capirebbe. Nell’antichità avevano però idee chiare: la voce araba azzait si traduce infatti in “succo di oliva”, e da qui peraltro deriva l’espressione spagnola di aceite. Non potendo ora far più nulla, accontentiamoci dunque dell’olio extra vergine di oliva così com’è. Festeggiamo con orgoglio i suoi primi cinquant’anni. In fondo, tale denominazione merceologica, nel bene o nel male, è frutto della fantasia nostrana. Il resto del mondo ha seguito la nostra rotta. Certo, resta il rimpianto di non aver azzeccato l’espressione giusta, quella di “succo di oliva”, appunto, ma tant’è. Preparatevi a una grande festa. Sarò io a organizzarla. Vi terrò informati.


GLI ASSAGGI Nel bicchiere. È giallo dai riflessi verdi, limpido. È un fruttato di media intensità, con freschi sentori di pomodoro verde e chiari rimandi al carciofo. Al palato ha buona fluidità, avvolgenza ed eleganza. Amaro e piccante nella media, ben dosati e persistenti, dal gusto vegetale. In chiusura le note di mandorla verde e frutta bianca, una lieve punta piccante.

SICILIA

Azienda agricola Rosellina Di Salvo “Kibò” Dop Val di Mazara, da agricoltura biologica: da olive Nocellara del Belice e Biancolilla.

L’abbinamento. Linguine con zucchine, capperi e menta; porri marinati con macedonia di agrumi; cozze gratinate al limone e nocciole. Azienda agricola Rosellina Di Salvo, via Enrico Albanese 19, 90139 Palermo, tel. 091.329924, eleonorabriguglia@gmail.com, www.kibofarm.com

Nel bicchiere. Giallo dorato dai riflessi verdolini, è limpido. Al naso ha sentori fruttati leggeri di pomodoro verde, banana e mela. Al palato è morbido e carezzevole, con sensazioni di amaro e piccante lievi e armoniche. Gusto vegetale, chiude con note mandorlate. L’abbinamento. Farfalle con fave, melanzane e aneto; insalata al sedano e arancia; bocconcini di maiale agrodolci.

CALABRIA

Cooperativa Valle del Marro – Libera Terra “Castellanense” da agricoltura biologica: da olive Ottobratica e Sinopolese.

Cooperativa Valle del Marro – Libera Terra, via S.S. 111, n. 129, 89013 Gioia Tauro (RC), tel. 0966.505020, info@valledelmarro.it, www.valledelmarro.it

Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdolini, è limpido. Al naso ha sentori fruttati leggeri di carciofo e cardo, puliti e freschi. Al palato è morbido e avvolgente, di media fluidità, armonico, con amaro e piccante in buon equilibrio e gusto vegetale. In chiusura toni mandorlati e una lieve punta piccante. L’abbinamento. Pomodori, cannellini e mais alle erbe aromatiche; bucatini alla carbonara di zucchine e bottarga; pollo al curry con cipolla e miele.

ABRUZZO

Azienda agricola biologica Le Ripe “Le Ripe” da agricoltura biologica: da olive Gentile di Chieti e Leccino.

Azienda agricola biologica Le Ripe, contrada Colle dei Gesuiti 44, 66011 Bucchianico (CH), cell. 338.7215167, info@leripe.com, www.leripe.com

Nel bicchiere. Giallo dai riflessi verdolini, è limpido alla vista. Al naso ha note fruttate leggere, vegetali, con chiari rimandi al carciofo. Al palato è morbido, con una sensazione di dolcezza al primo impatto e lieve piccante che si apre progressivo. Ha gusto vegetale di ortaggi e richiami di mandorla ed erbe di campo in chiusura. L’abbinamento. Insalata alle erbe e pinoli; trofiette con scampi e broccoli; involtini di fesa di tacchino con cremolata di verdure.

ABRUZZO

Tenuta San Biagio “San Biagio” da agricoltura biologica, ottenuto da olive in gran parte Gentile di Chieti e in parte Leccino e Moraiolo.

Tenuta San Biagio di Nicola Marino, loc. San Biagio, 66050 Fraine (CH), info@tenutasanbiagio.it, www.tenutasanbiagio.it

69


Birra di qualità

birre

Le che profumano

di vino… di Maurizio Maestrelli

LA

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE, CARATTERISTICA SALIENTE DEI BIRRAI ITALIANI,

LI HA PORTATI A VARCARE L’ULTIMA FRONTIERA DELLA SPERIMENTAZIONE.

QUELLA

CIOÈ CHE PREVEDE UNA CREATIVA

PREDILETTO DELL’UVA…

utunno, tempo di vendemmia in vigna. La fibrillazione sale tra operatori e produttori, ben consapevoli che in questo breve periodo ci si gioca buona parte dell’annata in divenire. Da qualche anno a questa parte tuttavia, si può anche affermare che l’attesa dei viticoltori è condivisa da molti birrai italiani. Potrebbe apparire strano, detta così, semplicemente, ma nel nostro Paese il contatto tra birra e vino si verifica molto più spesso di quanto si potrebbe essere portati a credere. E per contatto intendiamo un contatto fisico vero e proprio che prevede l’impiego di acini d’uva, di mosto, di lieviti da vino nella produzione di alcune tra le birre più interessanti. Il fenomeno è da un lato sintomatico della caratteristica libertà di espressione del movimento birrario artigianale italiano, privo di consolidate tradizioni alle spalle, e dall’altro un processo di avvicinamento alla grande cultura del bere nazionale, che è storicamente e naturalmente riconducibile al vino. La vicinanza è, in certi casi, anche paesaggistica. Per arrivare, ad esempio, a Piozzo, sede dello storico Le Baladin, si attraversano le zone più prestigiose del Barolo. In altri casi invece, è una vicinanza di tipo familiare. Il produttore parmigiano Renzo Losi è figlio di un produttore di Malvasia dei Colli di Parma. Si potrebbe quasi filosofeggiare che il mondo agricolo, nel suo com-

A

70

“CONTAMINAZIONE”

CON IL FIGLIO

plesso, ha molte più connessioni di quante si immaginano e che tutto quello che deriva dalla terra, siano i cereali sia la vite, ha le medesime radici. Sta di fatto che la fantasia, la ricerca anche in campo birrario del concetto di terroir, le storie personali (o le passioni) e un pizzico di voglia di stupire hanno permesso oggi di identificare almeno tre ceppi birrari che manifestano una qualche connessione con il vino. Il primo è quello più propriamente riconducibile alla materia prima ovvero l’uva. Il già citato Renzo Losi, di Panil, produce la Settembre con un 5% di uve Barbera, Nicola Perra del sardo Barley ha inizialmente conquistato la sua meritata fama grazie alla BB10°, birra che prevede l’impiego di una percentuale di mosto cotto (sapa) di Cannonau, Riccardo Franzosi, del birrificio piemontese Montegioco, ha realizzato la sua ottima Tibir utilizzando il mosto fiore delle uve di Timorasso dell’amico Walter Massa. E ancora, l’altrettanto piemontese, emergente, birrificio LoverBeer produce ben due birre con uva da vino: la BeerBera, con Barbera d’Alba, e la D’uvaBeer con mosto di uva Freisa; mentre il consolidato e affermatissimo Leonardo Di Vincenzo, del laziale Birra del Borgo, si è spinto, con la sua birra chiamata Equilibrista, a impiegare ben il 40%


DEGUSTAZIONE

RULLES ESTIVALE

Produttore: Brasserie Artisanale De Rulles – Rulles (Belgio) Distributore: Interbrau (www.interbrau.it) La Rulles è la birreria di uno dei giovani talenti emergenti del Belgio, capace di tranquillizzare chiunque potesse temere una futura omologazione del gusto anche nella vera Patria della differenziazione birraria. La Estivale rientra nel ristretto ambito delle birre da provare almeno una volta nella vita. Colore dorato, leggermente velato, ha eccezionali profumi freschi di luppolo, varietà americane, e di frutta bianca. Al palato si offre con un corpo leggero, 5,2% vol, ma di carattere, con un finale estremamente gradevole. Birra da abbinare a fritti vegetali, a formaggi morbidi e a primi piatti con condimenti delicati.

MILOUD

Produttore: Birrificio Artigianale Lariano – Dolzago (Lecco) www.birrificiolariano.com Nato nel 2008, il Birrificio Lariano si sta facendo conoscere con alcune produzioni interessanti tra le quali spicca la Miloud, una bitter in stile inglese ben luppolata e da 4,2% vol. Si presenta di un colore ambrato carico, una schiuma color crema ma compatta. Al naso si percepiscono immediatamente i sentori erbacei del luppolo e alcune note agrumate, soprattutto il pompelmo. Offre un iniziale attacco dolce al palato subito però sovrastato da un amaro pulito e abbastanza persistente. La si consiglia come aperitivo, ma si abbina bene anche a piatti di verdure (asparagi, broccoli) e carni non troppo aromatiche.

di mosto di Sangiovese delle Tenute di Bibbiano. Un secondo ceppo invece prevede l’utilizzo di lieviti tipicamente da vino come ad esempio il Saccharomyces Bayanus, molto impiegato nella spumantistica. Lo utilizza Panil per la Enhanced. E lieviti da vino ricorrono anche nella Lurisia 6 di Teo Musso, il creativo artefice del piemontese Le Baladin, nella Biancaneive e nella Sensuale del birrificio Citabiunda di Neive, in provincia di Cuneo, o nella ChampAle del ligure birrificio Scarampola. Infine il legno che in realtà è sempre stato legato alla storia della birra da quando, i Galli, ne riempivano le capienti botti. Oggi sono sempre più numerosi i produttori italiani di birra che possono vantare un discreto numero di barrique in cantina. L’elenco è davvero lungo e qui, ci teniamo a dirlo, incompleto: in Emilia Panil, Toccalmatto e Birrificio del Ducato, in Abruzzo Almond ’22, in Lombardia Birrificio Italiano, Menaresta, Freccia, nel Lazio Birra del Borgo, in Piemonte Montegioco, LoverBeer e, ovviamente, Le Baladin. Proprio l’incontenibile Teo ha, da poco, sancito definitivamente questa sorta di alleanza tra vino e birre inaugurando ufficialmente la Cantina Baladin nella sua Piozzo. Si tratta forse del progetto finora più completo di sperimentazione birraria in barrique da vino con il coinvolgimen-

DUVEL Produttore: Duvel Moortgat Puurs (Belgio) Distributore: Dibevit Import (www.dibevit.com) Il nome “diabolico” le ha portato fortuna e oggi la Duvel si può legittimamente considerare come una birra di fama internazionale. Amata e apprezzata tanto in Belgio quanto in Italia. Il segreto del suo successo sta forse nello straordinario equilibrio tra la forza, raggiunge gli 8,5% vol, e il corpo rotondo, senza sbavature, di completa soddisfazione. Colore dorato e schiuma candida, compatta, la Duvel ha profumi intensi di frutta e una sottolineatura erbacea donatale dal luppolo, al palato è ricca, intensa, estremamente persistente. Se in Patria la consumano anche come aperitivo, si suggerisce di accompagnarla con piatti di carne rossa, alla griglia o arrosto, o con un tagliere di formaggi a pasta compatta e di media maturazione.

to di alcune decine tra le più famose cantine vinicole italiane: Antinori, Donnafugata, Sassicaia, Caprai, Cottanera, Felluga… Due le birre destinate a nascere entro la fine del 2011: una dalle botti che hanno precedentemente contenuto vini bianchi, l’altra da botti che hanno invece conservato vini rossi. Le bottiglie inoltre porteranno in etichetta il nome della cantina vinicola che ha fornito le barrique e il loro debutto sul mercato sarà vincolato “all’approvazione” dei titolari della cantina stessa. Insomma, il riconoscimento, anche da parte dei protagonisti del mondo del vino, della dignità delle birre artigianali italiane. Da questo punto di vista, uno straordinario passo in avanti rispetto a pochi anni fa. Ma, quello che più ci interessa in questo momento, è il fatto che le birre fin qui solo citate, per comprensibili ragioni di spazio, hanno dimostrato ampiamente di essere delle birre eccellenti e molto godibili, arricchite da profumi e sfumature diverse, ma intriganti e stimolati sia per l’assaggiatore professionista sia per il semplice appassionato. Insomma, semmai vi fosse venuto il sospetto, quella delle “birre di vino” non è una trovata di marketing o il segnale di un qualche squilibrio mentale dei birrai italiani. Solo una nuova strada da percorrere, la cui lunghezza sarà confermata esclusivamente dal valore del contenuto della bottiglia. 71


Distillati

The Balvenie l’arte

di saper attendere di Angelo Matteucci

SCELTA,

STILE DI VITA E MISSIONE

DI UNA DISTILLERIA CHE SVOLGE DIRETTAMENTE TUTTE

LE OPERAZIONI, COMPRESA

LA COLTIVAZIONE DI UNA PICCOLA QUANTITÀ DI ORZO

72

a distilleria The Balvenie, costruita da William Grant nel 1892 a Dufftown nella regione Speyside, cuore della tradizione del single malt scozzese, si trova nella medesima proprietà delle consorelle Glenfiddich e Kininvie. La filosofia di Balvenie è considerata una scelta, uno stile di vita e una missione. Lo si comprende parlando con le persone che vi lavorano interrottamente da più di 50 anni, a dimostrazione dell’attaccamento alla distilleria e al proprio compito che portano avanti con grandissima professionalità e tenacia tipicamente scozzese. The Balvenie è praticamente l’unica distilleria che svolge tutte le operazioni direttamente in distilleria stessa, compresa la coltivazione di una piccola quantità di orzo prodotto in campi adiacenti la proprietà. L’orzo raccolto non è certo sufficiente a coprire il loro fabbisogno, ma è una chiara dimostrazione di voler rimanere legati alla tradizione quando, nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, le distillerie facevano parte integrante delle fattorie. Vi lavora da oltre 50 anni Dennis McBain, esperto Copper Smith, ovvero fabbro e saldatore delle strutture in rame per riparazioni agli alambicchi e agli impianti nelle sale di distillazione. Un’altra figura come Dennis, sempre più rara al giorno d’oggi, è il mastro bottaio Ian McDonald che nel 2009 ha festeggiato i 40 anni in azienda. Pur avendo apportato alcune modifiche e ampliamenti nel 2008 (chi scrive ricor-

L

da i macchinari tradizionali funzionanti tramite pericolosissime cinghie e pulegge oggi giustamente sostituite) The Balvenie rimane a tutti gli effetti legata alla tradizione e all’arte di saper attendere. All’interno della distilleria è prodotto circa il 10% del totale fabbisogno di orzo maltato con una lavorazione continua praticamente per tutto l’anno. L’orzo è immerso in ampie vasche per circa due giorni, tempo necessario per iniziare la germinazione. Successivamente è trasferito su pavimenti di un grande capannone a più piani dove rimane a germinare per ulteriori cinque giorni. Quando la germinazione è giunta al punto giusto, prima che la piantina fuoriesca dalla cariosside, il malto verde (così e chiamato in questa fase) è inserito in un forno tradizionale a pagoda dove è essiccato per le prime sei ore con calore e fumo di torba e per le successive quarantadue ore con calore prodotto da carbone. Si ottiene così un orzo maltato di eccellente qualità. Le fasi successive comprendono l’estrazione del contenuto zuccherino del malto tramite macinazione dei chicchi e immersione in acqua calda seguita dalla separazione della parte solida dal liquido dolce al quale è aggiunto il lievito. Al termine della fermentazione la “birra” è convogliata nelle due sale di distillazione per un duplice passaggio in alambicchi costruiti appositamente per The Balvenie. Si ottiene così un distillato dal contenuto alcolico di 69/70° che è diluito con acqua di distillazione per portarlo a 63,5°. A


questo punto inizia la fase della maturazione in barili rigorosamente di rovere, seguita passo passo da grandi esperti che continuano a controllare con pazienza ogni fase. The Balvenie, distribuita da Velier di Genova, si presenta in bottiglie particolarmente attraenti in una veste tradizionale che comprende eleganti astucci, offrendo alla propria clientela una gamma di indubbio valore. Tra questi scegliamo: The Balvenie Doublewood 12 anni di invecchiamento, la pietra miliare della distilleria. Dopo essere maturato per oltre 10 anni in barili di rovere americana utilizzati nel Paese d’origine per l’invecchiamento del bourbon, il whisky di malto è trasferito in barili di rovere spagnola che hanno in precedenza contenuto vino sherry oloroso. Questo duplice passaggio in legno di diversa origine è un’ottima combinazione che opera in perfetta sintonia. Il barile americano trasforma nel tempo il nuovo distillato ammorbidendolo e rendendolo soffice con l’aggiunta di alcune note di dolcezza e morbidezza dovute al mais, componente fondamentale del bourbon whiskey e con l’acquisizione di numerosi aromi terziari. Il barile spagnolo dona note di colore più marcato oltre ad aggiungere aromi e gusto di equilibrio e corpo rendendo il whisky ricco, di grande struttura e di notevole persistenza. La qualità The Balvenie 15 anni Single Barrel è composta da piccole partite di poco più di 300 bottiglie numerate, tante quante ne possono uscire da un unico barile dopo quindici anni di invecchiamento. Ogni barile, per le sue caratteristiche e per la sua collocazione in una specifica zona del magazzino (interviene il microclima) durante i lunghi anni di invecchiamento, offre un malt whisky unico, irripetibile, diverso dal contenuto degli altri barili come sanno bene gli esigenti consumatori appassionati di questa tipologia di Balvenie. Il 2009 ha visto l’introduzione di The Balvenie Madeira Cask 17 anni, invecchiato per la maggior parte del tempo in barili americani prima di ottenere il “finish” di vari mesi in barili provenienti dall’isola di Madera dove sono stati uti-

lizzati per la maturazione dell’omonimo vino, fino a raggiungere complessivamente almeno 17 anni di invecchiamento. Le sue note aromatiche sono ricche e complesse, speziate unite a frutta cotta e marasca. Il gusto è profondo, quasi austero con piacevoli note di vaniglia, di spezie e di frutta essiccata come datteri e fichi. Straordinaria è la piacevolissima persistenza tendente al dolce terminante in note di legno di rovere. Continuando la nostra carrellata scopriamo un’altra specialità, The Balvenie Portwood 21 anni. David Stewart Malt Master, in azienda da 48 anni, seleziona barili americani molto speciali che hanno saputo resistere per oltre vent’anni senza deteriorarsi mantenendo così perfetto il prezioso whisky. Considerata l’evaporazione annua del 2% possiamo immaginare che, al momento del travaso di questo nettare in barile portoghese, la quantità rimasta sia circa la metà del distillato originale. Al termine del periodo complessivo di oltre 21 anni il prodotto imbottigliato al grado alcolico di 47,6° è grande delizia per i fortunati consumatori con le sue note aromatiche di frutta autunnale, fico, cako, prugna californiana, dattero, uva passa, di spezie assortite, di tabacco e cioccolato fondente. Il gusto soddisfa appieno il più raffinato palato per la sua struttura soffice e cremosa, la dolcezza del miele di castagna e di torrone. La persistenza è lunghissima con note speziate e di liquirizia. Terminiamo con The Balvenie 30 anni. La scelta dei barili deve essere particolarmente attenta e controllata nell’arco di 30 anni, tanto quanto Kenny William, che opera in qualità di Maltman, avrà lavorato in distilleria tra qualche mese. Qui la selezione è tra barili americani ed europei (spagnoli) il cui contenuto è invecchiato separatamente per tutto il periodo. Ogni volta la selezione per l’imbottigliamento è responsabilità di David Stewart che deve assemblare i malti dei vari barili, tutti trentenni o oltre, per raggiungere il più alto risultato. La caratteristica di questo prodotto è la morbidezza, con note di miele, di tabacco da pipa, di cioccolato, frutta candita, scorza di arancia candita, spezie e leggerissimi toni di rovere. Il palato conferma quanto risulta all’olfatto sottolineando la dolcezza, la morbidezza con note di cioccolato e torrone. La persistenza eccellente e morbida terminante in dolcezza. A chi ha intenzione di recarsi nelle Highlands scozzesi consigliamo vivamente una visita alla distilleria The Balvenie su prenotazione programmata in anticipo per piccoli gruppi ai quali viene riservata la massima attenzione, caratteristica della distilleria.

73


Il sughero

Tutto il

tappo

minuto per minuto DALLA PIANTA ALLA CANTINA: IL PROCESSO DI PRODUZIONE DEL SUGHERO, UN MATERIALE DALLE CARATTERISTICHE UNICHE, IDEALE PER LA CHIUSURA DELLE BOTTIGLIE di Davide Oltolini l sughero è un prodotto naturale, ricavato dall’estrazione della corteccia della Quercus suber L, comunemente definita, non a caso, quercia da sughero. Si tratta di una pianta sempreverde che cresce nelle regioni del Mediterraneo, quali l’Italia (principalmente in Sardegna, regione dalla quale proviene il 90% della produzione nazionale), il Portogallo, la Spagna, la Francia, il Marocco e l’Algeria. Il sughero è un materiale che possiede caratteristiche uniche, difficilmente riproducibili artificialmente: risulta leggero, elastico, comprimibile e resistente alle abrasioni. Possiede, inoltre, eccellenti proprietà isolanti, acustiche e termiche, oltre che ignifughe. Si tratta, tra l’altro, di un prodotto completamente naturale, riciclabile e riutilizzabile, il che lo rende, di certo, definibile un materiale ecosostenibile. La suberina rappresenta la sua componente principale (per circa il 45%) ed è, a sua volta, composta da acidi grassi e alcol organici, che rendono il prodotto impermeabile ai gas e ai liquidi. Tale sostanza, inoltre, “lega” le celle, che ne compongono la parete strutturale a forma di prisma pentagonale o esagonale. Una simile struttura e la particolare composizione, fanno sì che il sughero risulti elastico e isolante, oltre a farne un pessimo conduttore termico. Nella sua composizione figurano, inoltre, lignina, ovvero una componente legante (per il 27%), polisaccaridi (12%), acido tannico, che contribuisce a donargli il colore (per il 6%), acqua, glicerina e altri elementi (per il 4%). Proprio grazie a queste particolari caratteristiche naturali il sughero, trasformato in tappo, sembrerebbe rappresentare il tipo di chiusura ideale delle bottiglie di vino, cioè la migliore soluzione possibile rispetto a qualunque altro materiale naturale o artificiale. Una delle caratteristiche peculiari della quercia da sughero è, certamente, la sua particolare longevità, ovvero la sua vita media, corrispondente a circa 200 anni, associata a una grande capacità di rigenerazione: durante il ciclo vitale della pianta, infatti, la corteccia si rigenera all’incirca ben 16 volte. La decortica, l’operazione attraverso la quale il sughero

I

74

viene prelevato dalla quercia, è un processo estremamente rispettoso dell’ambiente e della pianta stessa e può essere paragonato alla tosatura di una pecora. Viene effettuata solo nei mesi di maggio, giugno e luglio, quando la linfa si posiziona tra il fusto della pianta e la corteccia ed è quindi possibile toglierla agevolmente. Si tratta di un’operazione esclusivamente manuale, realizzata da tecnici esperti, e rappresenta una delle attività agricole meglio pagate al mondo, poiché sono un numero esiguo di persone possiede le competenze e la manualità necessarie al suo espletamento. È importante sottolineare che il sughereto mediterraneo risulta alla base di un sistema ecologico unico al mondo. Ad esso è, infatti, legata la sopravvivenza di numerose specie di fauna autoctona (24 specie di rettili e anfibi, 160 di uccelli, 37 di mammiferi), nonché la salvaguardia dell’ambiente. Questo ecosistema include varie specie di formiche, api, farfalle, nonché la lince iberica, il felino a maggior rischio di estinzione (solo un centinaio gli esemplari ancora in vita) a cui le foreste di querce da sughero offrono cibo, riparo e possibilità di riproduzione. A ciò si aggiunge un’ampia varietà di uccelli, di cui alcuni in via di estinzione come, ad esempio, l’Avvoltoio monaco, la Cicogna nera e l’Aquila imperiale. I sughereti del bacino del Mediterraneo non implicano solo la preservazione della biodiversità, ma svolgono un ruolo fondamentale anche nella lotta contro la desertificazione, contribuendo al mantenimento del suolo, aumentandone la capacità idrica ed agendo come efficace barriera contro l’avanzamento del deserto nei Paesi nord africani e del sud Europa. La produzione di sughero, inoltre, crea migliaia di posti di lavoro ed è stimato che più di centomila persone nel Mediterraneo dipendano direttamente o indirettamente da questo tipo di industria. Tale produzione nel nostro pianeta raggiunge, attualmente, circa 300 mila tonnellate annue, il 52% delle quali, ovvero oltre 150 mila, si deve al Portogallo, indiscusso leader mondiale, mentre l’Italia si piazza, tra i produttori, al terzo posto con il 5,5%. Le azien-


L Carlos Santos di Amorim Cork Italia

L Dino Marchi, presidente Ais Veneto, assiste alla produzione di tappi monopezzo

de portoghesi operanti nel settore del sughero producono circa 40 milioni di tappi al giorno e contano circa 12 mila lavoratori. Tale attività rappresenta un fattore molto importante per l’economia del Paese, se si pensa che nel 2008 ha raggiunto un valore di 823,7 milioni di euro. I prodotti maggiormente esportati sono, ovviamente, i tappi (552 milioni di euro) ed i materiali per la bioedilizia (165 milioni di euro). L’Europa, nel complesso, è il maggiore importatore dal Portogallo, mentre in termini di volumi, i tre paesi che principalmente importano sono: Francia (18,8%), USA (16%) e Spagna (11,6%). Amorim Cork Group, una delle più grandi multinazionali di origine portoghese occupa, all’interno del mercato internazionale, un ruolo di leadership, producendo, da sola, oltre il 25% della globalità dei tappi in sughero, cioè 3 miliardi di unità l’anno su un totale di 12 miliardi. Fondata nel 1870 da António Alves de Amorim, produttore di tappi a Vila Nova de Gaia, vicino a Porto, seconda città del Portogallo, è tutt’oggi proprietà della medesima famiglia giunta, ormai, alla 4a generazione. Oltre a essere il primo produttore mondiale di chiusure in sughero, Amorin si occupa anche della produzione, per mezzo di agglomerati in sughero, di coperture per pavimenti e parquet, ma anche di componenti per equipaggiamenti sofisticati, ad esempio per le automobili, le centrali nucleari e, addirittura, per le stazioni spaziali. Per contrastare il grave problema del “sapore di tappo”, dovuto alla presenza nel sughero del Tca (tricloroanisolo), grazie agli studi all’avanguardia del proprio dipartimento di ricerca e sviluppo, l’azienda portoghese applica una particolare strategia preventiva. Il sughero viene, infatti, sottoposto a bollitura grazie a un processo innovativo ad acqua circolante. Successivamente avviene la vaporizzazione in contenitori senza pressione a una temperatura compresa tra 105 e i 115 gradi centigradi, con un sistema, introdotto dal 5 gennaio 2009, che ha permesso di ridurre il Tca del 40%, abbattendone drasticamente la soglia di percezione. È, inoltre, stato realizzato il sistema Rosa (Rate of Optimal Steam Application), un processo di rimozione, della durata di un’ora, del Tca dai granuli, basato sul principio della distillazione a vapore controllata, ed anche il Rosa Evolution, che ha consentito, attraverso un processo della durata da una a quattro ore, di rimuovere di fatto il Tca dai tappi in sughero, riducendo di ben l’80% il livello. Con le sue 22 filiali il gruppo è presente in ogni Paese vitivinicolo del mondo. Nella nostra penisola, che rappresenta il secondo Paese imbottigliatore al mondo ha, ad esempio, sede la Amorim Cork Italia che, da tre anni, è diventata azienda leader nel mercato nazionale. Fondata

nel 1999 a partire da una partnership con un’altra azienda che operava nel mercato della distribuzione di tappi in sughero sin dal 1970, la società ha insediato il proprio stabilimento a Conegliano, nel cuore dei colli trevigiani, e fornisce tappi in tutto il paese. Amorim Cork Italia, di cui Carlos Santos è Amministratore delegato, conta trentadue dipendenti e una forza commerciale composta da venticinque agenti e tre addetti commerciali. Nel 2009 ha venduto oltre 300 milioni di tappi per un fatturato di oltre 29 milioni di euro. Le fasi produttive che avvengono in Italia sono principalmente quelle della personalizzazione del prodotto con, tra l’altro, quattro differenti sistemi di timbratura (a fuoco, a induzione elettrica, tramite laser ed ad inchiostro). A Conegliano si effettua lo stoccaggio di ben 30 milioni di tappi di tutte le tipologie, con una rotazione media di quaranta L Rondelle di sughero giorni. Qui è, inoltre, operativa una camera di stabilizzazione e trattamento microbiologico, nonché l’ufficio di controllo qualità. Dal dicembre 2009 Amorim Cork Italia è impegnata in un progetto pilota, nell’area di Valdobbiadene (TV), denominato “Tappoachi?”, per la raccolta e il riciclo dei tappi in sughero. In soli pochi mesi ne sono stati raccolti oltre 220 chili. Il progetto sperimentale è stato proposto da Rilegno, dal Consorzio per i servizi di igiene del territorio (Cit) e da Savno (Servizi ambientali Veneto nord orientale). Il Comune di Valdobbiadene, noto per la produzione del vino Prosecco, è stato scelto quale “apripista” in di questo progetto in quanto con i suoi 10.825 abitanti e la presenza sul suo territorio di numerosi wine bar, enoteche e ristoranti, rappresenta un’ideale area di test. Amorim acquista i tappi raccolti, poi il sughero viene smistato e separato da eventuali materiali estranei, quali plastica, carta o metallo e, successivamente, macinato, compresso e trasportato negli stabilimenti portoghesi, dove viene rimacinato e lavorato per poter essere riciclato. 75


Cinque Terre

Poesia e fascino di un

vino

che rispetta

l’ambiente di Ludovica Schiaroli

QUELLA DELLE CINQUE TERRE È UN’AGRICOLTURA EROICA: LE UNICHE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE SONO RAPPRESENTATE DA TRENINI MONOROTAIA UTILIZZATI PER IL

TRASPORTO DELL’UVA E

DI QUALCHE ATTREZZO.

IN

QUESTA ZONA LE

STRUTTURE DEVONO RISPETTARE REGOLE FERREE A TUTELA DI RISORSE E PAESAGGIO

76

Q

uindici chilometri di costa, tutti in verticale, da punta del Mesco a punta Merlino. Roccia, scogli, mare. E cinquemila abitanti divisi tra Riomaggiore, Vernazza, Manarola, Corniglia e Monterosso che con tenacia resistono alle asperità della natura e al crescente flusso turistico. Perché da quando nel 1997 le Cinque Terre sono diventate Patrimonio dell’Umanità Unesco sono state prese d’assalto dai turisti: «Si tratta soprattutto di stranieri, i primi furono gli americani, oggi sono in aumento i cinesi e gli australiani», precisa Franco Bonanini, presidente del Parco Nazionale delle Cinque Terre. Bonanini ha le idee chiare e un approccio diretto, quasi “sentimentale” con la sua terra, che conosce e ama profondamente. Nato negli anni Cinquanta, ha vissuto i cambiamenti causati dalla costruzione della strada asfaltata che, interrompendo il secolare isolamento di queste terre, ha facilitato l’arrivo dei primi turisti mentre continuava inarrestabile la fuga dei giovani dalla campagna. L’apertura della cantina sociale delle Cinque Terre e il pro-

getto del Parco sono nati, appunto, con l’intento di dare lavoro ai molti piccoli viticoltori e scongiurare l’abbandono del territorio. «Quando ero ragazzo io, e ancora fino a vent’anni fa, i giovani se ne andavano e chi rimaneva cercava lavoro alla Spezia, era una questione culturale, la terra era fatica, sfruttamento, e nessun guadagno» racconta Bonanini. «Questi ragazzi che laggiù erano destinati a una vita da comprimari, qui sono diventati i protagonisti di una rinascita». Oggi il Parco dà lavoro a circa 200 persone, occupate in varie attività, per lo più legate al turismo. E grazie a questo indotto sono state riaperte le biglietterie delle stazioni e ripristinati gli antichi sentieri, le vigne e i famosi cian, i muretti a secco. Il Parco inoltre gestisce bar, ristoranti, ostelli, produce marmellate, biscotti, salse e naturalmente vino. Ma se da una parte il turismo rappresenta una fonte importante di introiti – sono circa due milioni i turisti che visitano queste terre ogni anno – dall’altra il rischio è quello dello sfruttamento del territo-


in alto a sinistra Walter De Batté

in alto Vernazza e i suoi vigneti

a sinistra Uva delle Cinque Terre in appassimento a destra Franco Bonanini, Presidente dell'Ente Parco Cinque Terre

rio con una conseguente perdita di identità per chi ci vive. Il paradosso di questa terra, fortemente antropizzata, è che non va difesa dall’intervento dell’uomo, bensì bisogna preservare (dall’abbandono e dall’incuria) quanto l’uomo ha fatto, conquistando con fatica e sacrificio terrazzamenti e fasce da coltivare. Si dice che nel corso dei secoli gli abitanti delle Cinque Terre abbiano costruito undicimila chilometri di muretti a secco, due volte la grande muraglia cinese. Di questi, purtroppo, ne restano in piedi solo settemila. A ragione si parla di agricoltura eroica perché ancora oggi si lavora a mano e le uniche innovazioni tecnologiche sono rappresentate da trenini monorotaia utilizzati per il trasporto dell’uva e di qualche attrezzo agricolo. Bonanini conosce le contraddizioni della sua terra e ritiene che l’unico modo per garantirle un futuro sia perseguire un progetto di sostenibilità ambientale e salvaguardia del territorio. Dal 2001 esiste un “marchio di qualità ambientale” e le strutture che vi aderiscono devono rispettare alcune regole: ricette tipi-

che realizzate con cibi a chilometri zero, utilizzo di prodotti locali e un consumo attento e consapevole delle risorse. «Abbiamo puntato sulla piccola ricettività, pensioni, affittacamere e appartamenti, niente grandi alberghi. Chi invece volesse ripristinare uno dei tanti rustici abbandonati sulle fasce, deve impegnarsi a coltivare il terreno attiguo» puntualizza Bonanini. Il Parco amministra con severità e rigore il territorio e i risultati ottenuti premiano le scelte fatte: secondo la Guida Blu, edita da Legambiente e dal Touring club italiano, i comuni e le spiagge delle Cinque Terre sono fra le più pulite della Penisola. Certo i problemi non sono ancora tutti risolti, alcune polemiche sono nate per il progetto di prossima attuazione di una funivia che collegherà le Cinque Terre alla vicina Val di Vara. Per quanto riguarda invece la superficie vitata «se negli anni Trenta del secolo scorso si poteva contare su 800 ettari, oggi ne sono rimasti solo un centinaio», afferma Marco Rezzano, delegato Ais della Spezia. Tra le fasce “protette” del parco hanno trovato il loro habitat anche

specie prima mai censite, come i cinghiali, che dotati di un olfatto strepitoso selezionano e mangiano i chicchi d’uva più dolce. Walter De Batté in pochi anni ha dimezzato la produzione di vino: «Da cinquemila bottiglie sono passato a circa 1500!». Coltivare questa terra è un lavoro eroico: se in pianura per un ettaro di terra bastano 200 ore di lavoro, qui ce ne vogliono 2000. «È una pietra che ti scappa dalle mani» aggiunge Rezzano, «in più c’è l’aggravante delle condizioni meteorologiche: il mare è una delizia, ma anche croce. Perché la salsedine regala sapore all’uva ma porta anche tante malattie…». Eppure negli ultimi anni le aziende vitivinicole sono cresciute, e ad oggi se ne contano una ventina. A Monterosso ci sono Begasti, Buranco, Sassarini e la Cooperativa di Levanto, a Vernazza e a Corniglia si trovano invece Cheo e La Polenza, a Manarola c’è gran fermento, i produttori sono molti e fra questi la Cooperativa Agricola delle Cinque Terre, Luciano Capellini, Forlini Cappellini, Tobioli, Burasca, Crovara e Bisson. A Riomaggiore ci sono inve77


Cinque Terre ce Litan, De Batté, Terra di Bargon, Giuliani e Pasini, a Possa, Campogrande, Albana La Torre, Arrigoni e la Cooperativa Sentieri e Terrazze. Quest’ultima con la collaborazione del Parco e dell’Università di Torino dal 2009 sta portando avanti un progetto di recupero dei vitigni storici. Piccabon, Bruciapagliaio, Frappelào, Rossese, vitigni di cui si era persa la traccia ma che erano parte del patrimonio ampelografico di questo territorio. I vitigni tipici sono il Bosco, l’Albarola e il Vermentino con i quali si produce un bianco secco, il Cinque Terre, che è stato il primo vino ligure a ottenere la Doc nel 1973, e un vino dolce, lo Schiacchetrà. Dei tre il più utilizzato è il Bosco, il suo sapore neutro e la sua buccia spessa e resistente lo rendono particolarmente adatto per l’appassimento, infatti è il più vocato per lo Schiacchetrà. Questo vino ottenuto dalle migliori uve appassite, ha le sue radici nella cultura dei popoli del Mediterraneo, «era il vino della festa ma anche dell’ostentazione di una ricchezza che non c’era» aggiunge Marco Rezzano. Un vino prezioso, raro e a volte molto costoso. D’altronde coltivare la vite in questo territorio è lavoro durissimo, che inevitabilmente si riflette sul prezzo finale della bottiglia. Le produzioni sono

L Vigneti sul mare a Corniglia

esigue, da un minimo di duemila bottiglie a un massimo di diecimila che sono quelle prodotte dalla Cooperativa Agricola delle Cinque Terre. Nonostante le molte difficoltà, Rezzano è ottimista, crede nella sua terra, ma soprattutto riconosce in questa nuova generazione di produttori un approccio alla viticoltura rinnovata che bene fa sperare per il futuro del vino delle Cinque Terre.

Walter De Batté: la rivoluzione della tradizione La fama lo precede, si parla di vino delle Cinque Terre e spunta il suo nome. Walter De Batté è quello che non ti aspetti: ex dipendente dell’Arsenale della Spezia dove lavora nel settore delle armi subacquee, si avvicina al mondo del vino frequentando un corso Ais. Nel 1991 inizia il suo percorso di vignaiolo e poco dopo abbandona il lavoro per

I vini delle Cinque Terre descritti da due degustatori Doc Il Cinque Terre si presente con un colore paglierino intenso con sottili riflessi dorati, brillante e di buona scorrevolezza. La ricca dotazione olfattiva è disposta in prevalenza su nitidi sentori di agrumi e fiori di campo con lievi accenni di salvia e macchia mediterranea. In bocca è caldo, morbido e pieno, supportato da piacevoli note di sapidità e freschezza che lasciano presagire un’ottima capacità di evoluzione nel tempo. Temperatura di servizio 12° - Antonello Maietta, vicepresidente Ais Lo Schiacchetrà è un vino dai sentori mediterranei. Dorato, quasi ambrato, con evidenti note di arancia candita, fichi secchi, albicocca disidratata e un lieve sentore di miele. Sul finale è presente una nota balsamica e iodata. In bocca è dolce e morbido, ma straordinariamente equilibrato grazie a componenti sapide e marine che lo rendono unico e inimitabile. Molto persistente e longevo. Temperatura di servizio 14° - Marco Rezzano, delegato Ais della Spezia

78


L’ A RT E S P U M A N T I S T I C A

dedicarsi a tempo pieno alle vigne di famiglia (pochi ettari che poi incrementerà). «Ragionando sulla degustazione ho iniziato un percorso personale che vedeva il territorio il centro della mia ricerca». Il bacino del Mediterraneo, da Pisa a Barcellona, è la zona limine in cui De Batté riconosce le sue radici. I vitigni di riferimento sono il Bosco, il Vermentino e l’Albarola, cioè quelli definiti dalla Doc, ma anche il Rossese, il Ciliegiolo, il Roussane… e tutti quei vitigni che hanno viaggiato lungo le coste del mare magnum negli ultimi mille anni. I vini nati da questa sperimentazione si chiamano “Prima Terra” e per scelta portano sulla bottiglia la dicitura “vino da tavola”. Walter ama sperimentare, oltrepassare i confini che il disciplinare impone per seguire invece il suo gusto personale. La volontà è quella di confrontarsi con altre zone, la Borgogna soprattutto, e di rivoluzionare il concetto tradizionale di lavorazione dell’uva. Perché “la buccia è territorio”, e De Batté fa macerare a lungo i suoi vini bianchi, anche quattro, cinque giorni sulle bucce. «All’inizio maceravo a freddo, ora procedo a caldo, in questo modo riesco a estrarre tutte le caratteristiche del vitigno». De Batté segue il suo istinto, assaggia il vino e attraverso i sensi ne guida la fermentazione e l’affinamento, senza controllare temperature o fare chiarificazioni e filtraggi. Un percorso personale influenzato dalla sua grande passione per la filosofia antica, che gli fa dire che in ogni bicchiere va cercato l’elemento dionisiaco, perché Dioniso – unico dio a sorgere dalla Terra – è il compagno di viaggio ideale di chi ama il vino, la stella polare, la guida per cogliere in ogni bicchiere la poesia e il mistero di questo prezioso nettare.


Storia

La piantata, magica simbiosi padana

di Riccardo Castaldi agando per la campagna della Pianura Padana e scrutando con curiosa attenzione l’orizzonte, con un po’ di fortuna è ancora possibile scovare il profilo di una delle ultime piantate rimaste, sorta di fossile viticolo, testimonianza di un sistema di coltivazione della vite e di un’organizzazione del territorio agreste inesorabilmente legati al passato. La piantata o alberata si presenta come un lungo filare in cui le viti si sviluppano avvinghiate a tutori vivi, ovvero ad alberi di varie specie, anziché a pali e a fili come invece avviene negli impianti moderni. Pur essendo un elemento in grado di caratterizzare e di contraddistinguere il territorio ed essendo parte integrante di quella biodiversità di cui sempre più spesso abbiamo sentito parlare negli ultimi anni, la piantata non è economicamente compatibile con la moderna viticoltura, che pur decantando il territorio e le sue particolarità, pare sempre più orientata verso la standardizzazione delle forme di allevamento e dei paesaggi viticoli. La piantata, evolutasi nel corso dei secoli come risposta alle caratteristiche pedoclimatiche del territorio, ha un significato agronomico e fisiologico che non sono sicuramente dettati dalla casualità per cui, prima che scompaia definitivamente, è doveroso comprenderne

V

80

quantomeno la logica e le peculiarità, senza trascurare l’importanza socio-economica che essa ha rivestito nell’azienda agricola fino al secondo dopoguerra. I Dagli Etruschi ai giorni nostri La piantata affonda le proprie origini nel periodo in cui le tribù paleoliguri, che popolavano le terre emerse della valle del Po prima dell’arrivo degli Etruschi – come riportato da Francesca Finotto – iniziarono a portare la vite selvatica fuori dai boschi nel tentativo di trasformarla in coltura, allevandola maritata a un tutore vivo e secondo un sistema che prevedeva la potatura lunga. Furono comunque gli Etruschi, che per primi diedero una forte connotazione economica alla viticoltura, a diffondere le piantate in coltura promiscua con cereali in tutta l’Italia centro-settentrionale, razionalizzando e migliorando le tecniche messe a punto dalle popolazioni che li avevano preceduti. Il fatto che gli Etruschi allevassero la vite maritata a un albero, consentendo un elevato sviluppo della vegetazione, in contrapposizione agli alberelli allevati nelle isole mediterranee dai Greci, più che un diverso modo di intendere la viticoltura deve essere considerato come la conseguenza diretta della necessità di assecondare l’elevato rigoglio vegetativo delle viti, riconducibile alla


L Una piantata tra coltivazioni di grano

fertilità e alla buona disponibilità idrica dei terreni alluvionali della pianura padana. Con l’arrivo dei Romani la coltivazione della vite maritata a tutore vivo, denominata arbustum gallicum in quanto diffusa nei territori della Gallia Cisalpina, venne ulteriormente intensificata e con essa anche la diffusione delle piantate. Le testimonianze della presenza delle piantate in epoca romana si trovano in numerose opere letterarie, tra cui quelle di Marco Terenzio Varrone, Caio Plinio Secondo, Columella ed Erodiano. La caduta dell’Impero Romano sancì una significativa contrazione della viticoltura, che sopravvisse per lo più presso strutture ecclesiastiche o protetta all’interno della mura cittadine, e il temporaneo abbandono della piantata. Verso la fine dell’XI secolo la coltivazione della vite prese nuovamente a intensificarsi e la piantata ricomparve, ancora in coltura promiscua con cereali ma con un ruolo più importante rispetto al passato in quanto, nel giro di alcuni secoli, divenne un elemento intimamente associato alla sistemazione idraulica del territorio e alla suddivisione regolare degli appezzamenti, delineando un paesaggio che si è conservato praticamente intatto per secoli fino al secondo dopoguerra. Vale la pena ricordare come la piantata sia stata nobilitata dall’attenzione prestatagli da Leonardo da Vinci, che

nel 1502, in occasione di un soggiorno in Romagna, rimase colpito da come le viti crescessero «come ghirlande attorno agli alberi», prendendo numerosi appunti e realizzando un disegno, attualmente conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. I Uva ma non solo Le piantate prevedevano come sostegno vivo principalmente l’olmo, oltre ad acero campestre, salice, pioppo, tiglio, corniolo, carpino, quercia, gelso e vimini; a queste essenze legnose erano intercalate varie specie da frutto, quali melo, pero, susino, cotogno, ciliegio, mandorlo, castagno e noce, che contribuivano al sostentamento della famiglia contadina, dando vita a quell’ingegnoso sistema definito “agricoltura a tre piani”, con cereali, leguminose e foraggere in quello più basso, uva in quello intermedio e frutta in quello superiore. Il ruolo delle specie arboree non da frutto andava ben oltre il semplice sostegno, dal momento che oltre a proteggere con la propria chioma la vite dalle gelate primaverili e dalle grandinate, fornivano legname sia per riscaldamento che per costruzione; con le loro fronde gli alberi contribuivano inoltre all’alimentazione del bestiame nel corso dei mesi più siccitosi e, nel caso specifico del gelso, permettevano l’allevamento del baco da seta. 81


Storia Nell’ambito di una medesima piantata erano presenti più varietà di uva, differenti tra di loro per epoca di germogliamento, in modo da aumentare la probabilità di salvaguardare parte del prodotto nel caso si verificassero gelate primaverili; la differente epoca di maturazione dei vari vitigni consentiva inoltre di ampliare il periodo di raccolta, in modo da poter sfruttare l’uva come fonte alimentare per più mesi. Il sistema delle piantate, che costituiva un’unità caratteristica di paesaggio, era perfettamente integrato con l’ambiente naturale, tanto che molti artisti e letterati che hanno attraversato le campagne della Pianura Padana tra il Settecento e l’Ottocento lo hanno descritto paragonandolo a un bosco o a una foresta. Sotto il profilo strettamente ambientale, si deve considerare come l’agro-ecosistema caratterizzato dalla presenza delle piantate fosse molto più complesso e diversificato rispetto a quello estremamente semplificato della moderna agricoltura, che prevede ampie superfici a monocoltura, e consentisse la sopravvivenza di un numero elevato di specie di insetti, uccelli, piccoli mammiferi e rettili in equilibrio tra di loro. I Una piantata particolare Le piantate, presenti in Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e Piemonte – in quest’ultima regione il sistema era conosciuto come alteno – delimitavano appezzamenti di larghezza in genere compresa tra 30 e 35 metri; nell’ambito di ciascuna piantata, in corrispondenza di ciascun tutore erano messe a dimora solitamente 4 viti, sia per ripartire il carico produttivo sia per cercare di far fronte a eventuali disseccamenti dovuti ai freddi invernali durante i primi anni di sviluppo. I tralci delle viti, che divenivano cordoni permanenti, erano fatti sviluppare da un tutore all’altro, ovvero nel senso longitudinale della piantata, dando origine a una parete produttiva pressoché continua, e già dall’epoca Romana venivano chiamati festoni. In Romagna, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, 82

si iniziò a far sviluppare i tralci anche perpendicolarmente rispetto al senso longitudinale della piantata, iniziando a delineare le caratteristiche della piantata romagnola. Questo particolare tipo di piantata presentava tutori vivi ogni 5-7 metri, in corrispondenza dei quali erano messe a dimora 4 o più viti, allevate con un tronco di circa 2 metri. Su ciascun albero, a circa 2 metri dal suolo, poco più in basso del punto di inserimento delle branche, venivano posizionati perpendicolarmente al filare 2 pali di legno di circa 2 metri di lunghezza, denominati schioppi; all’estremità degli schioppi erano fissati 2 fili che correvano parallelamente alla piantata, sui quali erano legati i tralci, detti tirelle. I tralci, che prendono origine dall’estremità del tronco, venivano fatti passare tra le branche del tutore e quindi legati ai fili tramite ramoscelli di Salix viminalis, altresì conosciuto come vimini. I tutori vivi, in Romagna rappresentati da olmo e, dopo l’arrivo della grafiosi, da acero campestre, ogni 4 anni venivano scalvati, ovvero capitozzati. L’uva prodotta nell’anno successivo alla scalvatura, definita inguanéna, aveva un valore commerciale inferiore rispetto a quella degli anni successivi, definita invece broccaticcia, in quanto più abbondante, più tardiva e più facilmente colpita da malattie fungine. Le tirelle, che erano 5-6 per pianta, venivano rinnovate ogni circa 4 anni, per cui si aveva a che fare con una forma a cordoni semi-permanenti; i tralci che crescevano sui cordoni erano inizialmente potati solo ogni due anni poi, partendo dalla zona di Faenza, si iniziò a potarli annualmente. L’introduzione di tutori morti, il restringimento del sesto di impianto e l’eliminazione definitiva dei cordoni permanenti, sostituiti da tralci rinnovati annualmente, trasformarono progressivamente la piantata romagnola nella pergoletta romagnola, forma di allevamento ancora piuttosto diffusa nella pianura delle province di Ravenna e Forlì-Cesena.


Vino che passione!

vino

Il dell’ingegnere di Fabio Brioschi

LA

STORIA

DELL’AZIENDA AGRICOLA

“IL MONTICELLO” DELLA FAMIGLIA NERI PARTITA PER GIOCO

DALLA PRODUZIONE DI

300

BOTTIGLIE DA

REGALARE AGLI AMICI: OGGI È UNA DELLE ECCELLENZE ENOLOGICHE LIGURI

Alessandro e Pieluigi Neri 84

e c’è una storia che confermi l’espressione “il vino è passione”, è quella della famiglia Neri di Sarzana, in provincia della Spezia. L’amore per il vino li ha letteralmente cambiati e ha cambiato le loro vite. In meglio, si intende... É il 1982 quando a casa Neri l’arrivo di un’eredità inaspettata apre scenari non solo imprevedibili, ma forieri di grandi cambiamenti: il papà Pierluigi eredita da una zia una piccola casa colonica con due ettari di terreno, di cui mezzo a vigna di Vermentino mista a vitigni vari. Lì per lì è una sorpresa, forse un peso, un piccolo pensiero. Che farne? Papà fa l’ingegnere, la mamma Maria Antonietta è appena andata in pensione dopo tanti anni di insegnamento elementare, i figli Alessandro e Davide sono ancora studenti, il primo in ingegneria, il secondo studia agraria alle superiori. Il bello dei Neri è che prendono tutto come se fosse un gioco e, piano piano, dal gioco si lasciano conquistare: iniziano con le bottiglie da regalare a Natale agli amici e oggi ne fanno 60mila. Forse non moltissime, è vero, ma nella zona l’azienda agricola “Il Monticello” di Davide e Alessandro Neri è una delle più grandi e affermate con i suoi dieci ettari di vigne, non proprio pochi da queste parti. «Nel 1982 – ci racconta Alessandro, il maggiore dei due fratelli Neri – la Doc non esisteva ancora. Non sapevamo bene che farne di questa vigna, nessuno di noi si era mai occupato di campagna, né tanto meno di vigne. Certo, mio fratello Davide studiava alla scuola agraria, ma era stata una scelta poco consapevole... Fu papà ad avere l’idea di fare il vino da regalare agli amici a Natale e fu una grande idea. Fu divertente e coinvolgente, ci mettemmo tutti la testa, costringendo anche la mamma ad aiutarci. Il primo esperimento fu una vinificazione in bianco; raffreddammo il mosto con l’acqua del pozzo e poi imbottigliammo 300 bottiglie tutte con etichette disegnate a mano. Sai che successe? Il nostro vino fu molto apprezzato e gli amici tornarono a chiedercene altro! Da lì venne l’idea di mettere in piedi una piccola azienda, per ricavarne almeno quel tanto

S


da tenere pulita la campagna, che altrimenti sarebbe presto andata in La prima vigna dell’azienda malora. Non ti dico le prese in giro da parte dei contadini della zona, con i quali oggi abbiamo ottimi rapporti. La prima annata “seria” vide settemila bottiglie e piano piano cominciammo ad affinare la tecnica e a migliorare gli strumenti». Il gioco prende la mano ai Neri e la tranquilla famiglia di Sarzana decide di provarci e vedere com’è. Intanto papà Pierluigi da buon ingegnere ci si mette seriamente, frequenta corsi su corsi per imparare davvero a fare del buon vino e ogni tanto si porta dietro i figli, che guardano, imparano, si lasciano sedurre da questa avventura nata per caso. «Per un po’ l’azienda – ha continuato Alessandro – è andata avanti guidata da nostro padre, che però lavorava ancora come ingegnere e aveva un sacco di lavoro. Nel 1996 mio fratello Davide e io abbiamo deciso di provarci e abbiamo chiesto a papà di rilevare l’azienda per lavorarci seriamente. Eravamo ancora tutti e due studenti universitari, io di ingegneria e mio fratello di agronomia. Papà è stato davvero bravo, ha accettato subito, un po’ per via del fatto che era oberato di lavoro e così si sarebbe tolto un peso, un po’ forse perché ha capito che ci volevamo mettere seriamente la testa. Davide e io ci siamo seduti intorno a un tavolo e abbiamo fatto un vero e proprio business plan, cercando di programmare tutto, obiettivi, costi, investimenti, finanziamenti. Grazie alla giovane età di Davide AZIENDA AGRICOLA “IL MONTICELLO” abbiamo goduto anche di alcuni finanziamenti pubblici e siamo par- VIA GROPPOLO 7 - 19038 SARZANA (SP) titi. Abbiamo chiesto la collaborazio- TEL. 0187621432 - FAX. 01871851432 85


Vino che passione! L’ingresso della cantina

L’impianto fotovoltaico

86

ne di un grande enologo, Claudio Icardi, che è stato con noi sino all’anno scorso e che ci ha insegnato a fare i vini rossi, introducendo la barrique in azienda: fino ad allora, infatti, facevamo solo il Vermentino. Al principio facevamo fatica a vendere il nostro rosso: da questa zona vocata per il Vermentino nessuno si aspettava vini rossi di qualità e tutti storcevano il naso. Eravamo costretti a regalarlo pur di farlo assaggiare ai nostri clienti. E poi anche quello ha cominciato ad avere i suoi estimatori. Oggi facciamo due Vermentini, due rossi a base Sangiovese, un rosato, un passito e la grappa di Vermentino». L’assunzione della guida dell’azienda da parte di Davide e Alessandro Neri ha significato per questa piccola esperienza il raggiungimento di una svolta: non più la piccola azienda “giocattolo”, ma la scelta di provare a mettere in piedi una struttura complessa e ambiziosa, con macchine moderne e la continua ricerca di un prodotto migliore, con la propria filosofia e le proprie caratteristiche. I due giovani sanno che si deve investire e ci si deve far conoscere: dopo la seconda annata “professionale” decidono di tentare la strada del Vinitaly. «Siamo al Vinitaly già da dodici anni – ci dice soddisfatto l’ex studente di ingegneria – e all’inizio, producendo solo 12mila bottiglie, eravamo visti in modo strano dagli altri espositori e dagli addetti. Però, ci credevamo e credevamo che quello fosse il posto giusto per creare relazioni, conoscere gente, imparare qualche cosa. E così è stato... Facevamo fatica a vendere i nostri prodotti, anche se di qualità, perché avevamo prezzi piuttosto cari e il nostro costo di produzione era fra i più alti. Abbiamo deciso, innanzitutto, di investire in risorse umane, dall’enologo a chi ci cura la campagna. Oggi i nostri vigneti da un ettaro, ettaro e mezzo possono essere considerati fra i più grandi vigneti collinari di tutta la Liguria e l’azienda è una delle più solide». I vigneti del Monticello sono sparsi un po’ dappertutto intorno a Sarzana e solo quello originario dell’eredità è nei pressi della casa colonica dove oggi ha sede l’azienda. La vendemmia, secondo le parole di Alessandro, è un “casino”. «In vigna le piante sono tutte mischiate e vendemmiare è davvero difficile. Noi, poi, facciamo la vendemmia selettiva e quando facciamo la formazione dei vendemmiatori, in genere il giorno prima della vendemmia, mi rendo conto che è davvero impegnativo. La scelta di fare una vendemmia di tipo selettivo è dovuta al tentativo di cercare di mantenere l’acidità finale del prodotto abbastanza alta e ottenere dei vini che possano durare nel tempo. Iniziamo a fine agosto con la prima raccolta,


che viene vinificata in bianco e fermentata con lieviti autoctoni. La seconda vendemmia avviene dopo qualche giorno e riguarda le uve con una colorazione media, i grappoli seminascosti. Le uve vengono diraspate senza schiacciarle e quindi vengono messe in una pompa soffice per la macerazione carbonica, la vasca quindi viene collegata a quella già in fermentazione. La terza vendemmia la facciamo a fine settembre e poi mettiamo le uve nella pressa a 5°C. I tre prodotti poi vengono miscelati e ci permettono di ottenere un Vermentino con acidità intorno ai 6,3, un vino un po’ più duraturo del Vermentino che si fa in zona, che ha un’acidità intorno al 5,2. All’inizio è stato difficile, ma oggi qui in zona, quando vendemmiamo noi, vendemmiano tutti, segno che ci rispettano e che guardano a noi con attenzione». Dall’anno scorso tutta l’azienda è condotta con il sistema biodinamico, introdotto al Monticello dall’enologo Claudio Icardi. «Abbiamo sempre avuto il pallino della difesa dell’ambiente – ha commentato Alessandro Neri – fin da quando abbiamo avviato l’attività, ma grazie a Claudio Icardi la scelta del biodinamico è stata costruita con consapevolezza e passione. Sette anni fa la Regione Liguria fece una legge che obbligava i viticoltori a utilizzare gli esteri fosforici come pesticidi. Il risultato per noi fu che l’anno successivo due vigneti erano infestati dal ragno rosso, che aveva potuto dilagare indisturbato senza altri insetti intorno. Abbiamo fatto un trattamento intensivo con l’olio di vaselina e l’abbiamo eliminato, ma da allora abbiamo deciso di non usare più i diserbanti e non utilizzare più i prodotti sistemici: solo rame e zolfo. Grazie a Icardi abbiamo sperimentato per tre anni le soluzioni biodinamiche su un podere e, visto il buon risultato, dall’anno scorso lo abbiamo esteso a tutta l’azienda. Inoltre, abbiamo installato dei pannelli fotovoltaici e abbiamo un impianto da 20kW che ci permette di essere quasi autosufficienti, riducendo le immissioni di CO2 in atmosfera». Alessandro e Davide Neri sono realmente convinti che l’agricoltura possa e debba tutelare il territorio, inserendosi nel panorama antropizzato di questo bell’angolo di Liguria con discrezione e cercando di conservarne la tipicità. Accanto all’azienda agricola è nato un agriturismo con cinque appartamenti, sempre tutti presi d’estate, ma non solo. Ognuno con il suo ruolo, qualcuno più attivo e altri meno, tutti i membri della famiglia Neri ruotano attorno a questa esperienza nata quasi per caso e che oggi ha, oltre i due titolari, altri tre dipendenti. «Non è la strada per arricchirsi – ci dice accomiatandosi Alessandro – ma di certo è quella giusta per noi. Sembra uno scherzo, ma solo pochi giorni fa, parlando con uno dei nostri dipendenti, che sono anche degli amici, abbiamo confrontato i nostri guadagni: lui prende più di me! Però, tutto sommato, va bene così...».


Storie di vino

Viaggio nella capitale del

Gutturnio

di Emma Delbono

alorizzare i prodotti del territorio, puntando sull’innovazione e sulla qualità, nel rispetto dell’ambiente e della storia locale. È con questo spirito che i fratelli Adriano e Gianfranco Gaiaschi proseguono nel solco di una lunga tradizione di famiglia. Quella che nel 1855 portò un ingegnoso fattore, Pasquale Gaiaschi, a gettare i semi di quella che oggi è una delle realtà più interessanti della Val Tidone: la Gaiaschi Terenzio & Figli. Siamo sui Colli piacentini, nella parte occidentale della provincia. Qui, sui primi promontori che si incontrano dalla “bassa” andando verso gli Appennini, troviamo Ziano Piacentino, grazioso centro di origini medievali che con poco più di 2.500 abitanti (comprese le frazioni) è considerato una sorta di piccola capitale del Gutturnio. Tra le Doc più “antiche” d’Italia, frutto del matrimonio tra Bonarda e Barbera, il Gutturnio vive oggi una delicata fase di transizione, simile a quella attraversata a suo tempo dal Barbera piemontese. Con il passaggio dal frizzante alla versione ferma alcuni produttori stanno infatti progressivamente uscendo dal mercato locale per imporsi a livello nazionale. E la chiave, naturalmente, non può essere che la ricerca. La stessa che in molti anni di lavoro ha ispirato Gianfranco, il più anziano dei due fratelli, a metterne a punto una versione ingentilita con il Cabernet Sauvignon. E che spinge Adriano, il più giovane, ad applicare ai 35 ettari di vitigni di proprietà dell’azienda (su complessivi 42) il metodo della coltivazione integrata, che prevede, secondo le direttive Ue, un uso ridotto dei pesticidi.

V

88

Ma andiamo con ordine, partendo dalla storia, non priva di spunti affascinanti, di questa piccola azienda, giunta oggi alla sua quarta generazione. Nella metà del XIX secolo l’ultimo erede dei Guffanti, una famiglia di nobiluomini originaria del Pavese, possedeva numerosi poderi attorno alla località Colombaia, dove oggi si trova la cantina. Poco inclini all’attività imprenditoriale, affidano la gestione delle terre a Pasquale Gaiaschi. Questi, fin da giovanissimo, coltivava un sogno: poter un giorno coltivare la propria terra. Progressivamente, acquista i terreni messi in vendita dai Guffanti, cominciando a lavorarli personalmente. Al figlio Romeo toccò in sorte la Colombaia. Un’eredità enorme per il figlio di un fattore nato nullatenente, che sarebbe poi passata alla terza generazione. Il figlio Terenzio, assieme alla moglie Maria, focalizza l’attività dell’azienda, che fino ad allora aveva anche una parte di cerealicolo, unicamente sulla produzione di uva e amplia la proprietà fino a farla diventare, già negli anni sessanta, una importante realtà locale. Già sul finire del decennio Gianfranco, allora studente all’Università di Agraria della Cattolica di Piacenza, affianca il padre nella gestione. Appassionato di vinificazione, intuisce molto presto le potenzialità del Gutturnio, di cui alcuni anni dopo ne sperimenterà l’invecchiamento. Qualche anno dopo lo raggiungerà Adriano, di dodici anni più giovane. I due fratelli sviluppano ulteriormente l’azienda e abbandonano la vendita di uva all’ingrosso, portando “in casa” le fasi dell’intera catena produttiva e puntando sulle


eccellenze di questa terra: oltre al Gutturnio, l’Ortrugo. E, naturalmente, la Malvasia, che proprio nel piacentino viene coltivata nella sua versione più pregiata: l’Aromatica di Candia. Oggi, l’azienda produce otto tipologie di vini, tra rossi e bianchi. Tra questi, oltre al “trilogo piacentino” appena citato, il Bonarda, il Barbera, il Cabernet Sauvignon, il Müller Thurgau e il Pinot grigio. Adriano si occupa della coltivazione dei campi, Gianfranco della vinificazione. Di Gutturnio, l’azienda ne produce tre tipologie: quella più tradizionale, il “vivace”, con metodo di imbottigliamento Charmat. Il Gutturnio tranquillo d’annata, con imbottigliamento non prima di settembre dell’anno successivo alla vendemmia. Infine, il “Terre di Guarone”, invecchiato in botti grandi di rovere. Dallo scorso anno, inoltre, l’azienda ne propone una selezione limitata, con sette anni di invecchiamento (normalmente è di tre). «Il Gutturnio è un vino che per sua natura si presta molto bene all’invecchiamento – spiega Gianfranco Gaiaschi – negli anni ’80 siamo passati da un vivace, che continuiamo a produrre perché la clientela locale ce lo chiede, a una parte di esso destinato all’invecchiamento in rovere, selezionando i vigneti con più di vent’anni di età». La “ricetta” dei Gaiaschi è quella tradizionale: 60% di uve Barbera e 40% di uve Bonarda. È di questi ultimi anni l’apporto di un 15% di Cabernet Sauvignon, che ha consentito di ridurre l’acidità tipica della Barbera. Il risultato è un vino corposo, ben strutturato, dal profumo di frutta secca, dal sapore pieno e armonico. La passione per l’innovazione ha spinto

Adriano e Gianfranco Gaiaschi in vigna

l’azienda a trasformare un altro vino, l’Ortrugo, da semplice vino da tavola (usato tradizionalmente per tagliare il Malvasia) a prodotto dalla forte personalità. La pigiatura viene fatta in bianco, senza le bucce, lavorando il prodotto a freddo, con una fermentazione controllata, che non supera i 18 gradi e che ne esalta profumi e sapori: «In questo modo – precisa Gianfranco – siamo in grado di eliminare il più possibile i tannini verdi, quelli che conferiscono al vino un retrogusto amaro». Infine, la Malvasia. Pochi lo sanno ma la versione piacentina, l’Aromatica di Candia, rappresenta l’eccellenza italiana. Accanto a quella secca, da qualche anno i Gaiaschi ne producono una da dessert, a bassa gradazione alcolica, dal sapore aromatico e fresco: la “Luna Gialla”. «Si tratta di un mosto parzialmente fermentato che abbiamo pensato per una clientela giovane e aperta alla contaminazione – aggiunge Gianfranco – dopo la pigiatura viene raffreddata e portata a 3,5 gradi, a fronte dei sei gradi tipici del Malvasia più tradizionale». Ottima per intingerci il “Buslàn” (la ciambella) e i “Buslanêi” (le ciambelline), dolci tipici di queste parti. 89


Vino e architettura

Bio-bottiglie di

bollicine pronte da

degustare

di Alessia Cipolla

prodotti enogastronomici rappresentano uno dei pochi talenti “inimitabili” dove siamo ancora i maestri indiscussi: il resto è stato spesso copiato, imitato, svilito. Nessun altro, in nessuna altra nazione al mondo potrebbe realizzare un Brunello o una Falanghina, una mozzarella o un culatello: sarebbe diverso perché il prodotto è ancorato al territorio di origine. Nasce e cresce in una certa terra, respirando una certa aria. Il legame tra prodotto e territorio è insito soprattutto nel vino, che porta un nome, fin dall’antichità, unito a un luogo, a un territorio, a un dialetto, a una precisa localizzazione topografica. Il nome di un vino, figlio della terra, battezzato dall’uomo, è sempre strettamente collegato alla storia dei differenti territori di produzione ed è un marcatore culturale e sociale. I luoghi dove farlo crescere dovrebbero essere più sani, rispettati, tutelati e culturalmente avanzati. Tutela ambientale, salvaguardia, uso razionale delle risorse di un territorio dovrebbero essere concetti entrati nella mentalità oltre che nel linguaggio comune, ma spesso non è così. Il paesaggio non è un talento ma un valore, una grande ricchezza, un bene complesso e dinamico da proteggere. È il risultato di un processo di identificazione dell’uomo in un territorio che egli stesso contribuisce a definire. La vigna, gli ordinati filari delle viti, i loro colori, i sistemi di allevamento e il cavalcapoggio o girapoggio sono tra i disegni più affascinati del nostro territorio, già morfologi-

I

90

camente meraviglioso. La linearità dei campi arati, dei frutteti moderni, dei terrazzamenti, la composta, ordinata, precisa e rigida composizione geometrica del paesaggio è il frutto del lavoro dell’uomo, che ha antropizzato il territorio, sfruttandolo, ma ha anche creato bellezza, rendendolo, spesso a fatica e con grandi sacrifici, affascinante e famoso in tutto il mondo. Così facendo lo ha anche tutelato e salvaguardato. Fino alla nostra era di mancanza di rispetto: a breve da salvaguardia del territorio si passerà a salvaguardia dell’incolumità dei suoi abitanti. La terra ferita si sta

L L'area di vinificazione


ribellando. Una risposta al degrado territoriale è lo sviluppo sostenibile, una non-risposta è il condono edilizio. Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo che prevede di preservare il più possibile la qualità e la quantità del patrimonio e delle riserve naturali, per permettere alle future generazioni di proseguire nello sviluppo in un regime di possibile equilibrio ambientale. Conoscere il territorio, attraverso l’analisi delle caratteristiche storiche, naturali, estetiche e delle loro interrelazioni, l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, la determinazione di misure per la conservazione dei caratteri connotativi delle aree tutelate per legge e dei criteri di gestione e degli interventi di valorizzazione paesaggistica degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico, è un’azione da adottare per non perdere L La barricaia

un patrimonio storico e culturale di inestimabile valore. Continua il viaggio in Italia attraverso le nuove cantine realizzate tra il 2001 e il 2009 . CANTINA BARONE PIZZINI - PROVAGLIO D’ISEO (BS) È un’architettura coerente a una missione intrapresa dall’azienda Barone Pizzini, una delle più antiche della Franciacorta, già da molto tempo: rispettare e valorizzare l’ambiente circostante. Una grande attenzione e cura verso tutto il processo produttivo del vino che parte dalla vigna fino alla bottiglia, passando per la cantina: prodotto, ambienti, spazi e processi interamente bio. La cantina realizzata dall’architetto Claudio Gasparotti, terminata nel 2007, è stata costruita con materiali, tecnologia costruttiva e impian91


Vino e architettura tistica dell’architettura ecocompatibile e si allinea in perfetta coerenza con la produzione di vini da agricoltura biologica. A breve verranno prodotte circa 500mila bio-bottiglie di bollicine Franciacorta Docg. Architettura ecocompatibile è un’altra possibile risposta al degrado territoriale. Non è un settore dell’edilizia ma la scelta concreta di creare luoghi che sappiano rapportarsi in maniera equilibrata all’ambiente in cui intervengono, privilegiando l’utilizzo di materiali rinnovabili, tecnologie edilizie in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e ricercando soluzioni ecologiche che tengano conto dell’impatto ambientale del costruito. Non vuol dire costruire seguendo la tradizione ma reinterpretando la tradizione. Sviluppo e ricerca, nell’ottica dell’architettura bioecologica, non sono solo termini che guardano al futuro, ma tengono conto anche del passato, del possibile recupero di tecniche antiche o moderne ma orientate verso la limitazione dei consumi energetici e di materiali naturali, magari della zona. In questa cantina, bioclimatica, a basso consumo energetico, la qualità dell’aria nei locali interrati risulta ottimale grazie a un sistema naturale di raffrescamento geotermico che, attraverso tubi collegati con l’esterno, permette una continua circolazione di aria fresca. Le acque piovane vengono recuperate per essere poi utilizzate per l’irrigazione delle aree verdi della cantina. Un nuovissimo sistema di fitodepurazione permette alle acque utilizzate dalle lavorazioni di essere restituite in acqua limpida grazie all’utilizzo di piante appositamente scelte come “depuratrici”. È stato da poco realizzato un sistema di pannelli fotovoltaici da 55kWp, che rendono autonoma la produzione, sottolineando l’attenzione dell’azienda per le energie da fonti rinnovabili. Un oggetto architettonico com92

posto da materiali naturali, legno e pietra, ma anche una macchina dalla tecnologia impeccabile. Due parallelepipedi che si intersecano a forma di T. Quattro affacci verso i quattro punti cardinali, la facciata nord-ovest è rivestita in lamelle di legno che coprono un’intercapedine di ventilazione addossata ai muri portanti, mentre il resto dell’edificio è rivestito in pietra locale. Anche la copertura è stata realizzata in legno. I 6000 metri quadrati dell’edificio sono suddivisi in tre livelli di cui due interrati. Il visitatore viene ricevuto nella zona centrale dell’edificio, in un ambiente accogliente con un’ampia vetrata sui vigneti, adiacente alla zona uffici, dove verranno realizzati un locale vendita e un’area dedicata agli eventi. Si accede poi all’area di produzione passando attraverso la zona degustazione con vetrate a diretto contatto con la cantina e verso l’ambiente circostante. Da lì parte il percorso di conoscenza del vino. Nella zona di produzione una passerella che segue il perimetro rettangolare dell’edificio si affaccia sul gruppo di autoclavi in acciaio e sul processo produttivo del vino, permettendo una visione dall’alto delle lavorazioni. La passerella termina in una zona più ampia dove vengono organizzate serate di degustazione. L’illuminazione è stata realizzata attraverso luci dalla tonalità gialla, in quanto, pare, diminuiscano la presenza di moscerini in cantina. A quota meno cinque metri si trova l’area di vinificazione, imbottigliamento, stoccaggio e altri uffici, mentre a meno dieci metri si trova la barricaia, la zona del remuage e lo stoccaggio. Un edificio semplice, geometricamente rigoroso ma ricco di dettagli interessanti che, elegante e discreto, si insinua tra i vigneti senza voler primeggiare.


Vendemmia 2010

Clima ma

pazzo

ottima

vendemmia di Francesca Cantiani a pazzia del clima di quest’anno non ha penalizzato la vendemmia che, secondo le prime stime di Assoenologi, produrrà 45,5 milioni di ettolitri di vino e mosti, in linea con i 45,4 milioni del 2009. La qualità, complessivamente buona, è però eterogenea, anche nell’ambito della stessa regione. Ma il verdetto finale dipende dall’andamento climatico di settembre. Sul fronte quantitativo l’Italia risulta divisa in tre parti. Il Nord manifesta incrementi di produzione abbastanza omogenei che vanno dal 5% di Veneto e Friuli Venezia Giulia al 10% di Piemonte e Lombardia. In calo invece la produzione nelle regioni centrali (Emilia Romagna -5% e Toscana -10%) e nelle due grandi Isole (Sicilia -20% e Sardegna -15%), mentre nelle regioni meridionali si è registrato un incremento del 5% (Lazio, Abruzzo, Campania) con punte del 10% in

L

94

Puglia. Il Veneto (8.585.000 ettolitri) si conferma per il quarto anno consecutivo la regione italiana più produttiva. Veneto, Emilia Romagna, Puglia e Sicilia insieme producono 26.650.000 ettolitri, ossia quasi il 60% di tutto il vino italiano. La situazione illustrata da Assoenologi, comunque, potrà essere confermata solo a metà ottobre: il pieno della raccolta in tutt’Italia avviene nella terza decade di settembre, per concludersi tra fine ottobre e metà novembre. «Da qui – precisa il direttore dell’organizzazione di categoria dei tecnici del settore vitivinicolo – l’inattendibilità di previsioni fatte in luglio, con tanto di quantità e qualità. In particolar modo per un’annata eterogenea e difficile come questa». I dati definitivi della vendemmia saranno, come di consueto, presentati da Assoenologi a fine ottobre.


Pillole

Elezioni dei presidenti regionali Durante i mesi estivi sono proseguite le elezioni dei presidenti. Novità ai vertici regionali arrivano in Lombardia, con la nomina di Fiorenzo Detti, e nelle Marche, con la scelta di Domenico Balducci. Sono riconfermati alla presidenza delle rispettive regioni: Osvaldo Baroncelli (Toscana), Mariano Francesconi (Trentino), Dino Marchi (Veneto), Quirino Raffaele Piccirilli (Emilia) e Camillo Privitera (Sicilia). DOMENICO BALDUCCI – MARCHE C/o Rist. Hotel Gentile da Fabriano Via G. Di Vittorio 13 60044 Fabriano (AN) Tel. 0732/627190 – Cell. 333/5788926 – fabriano@aismarche.it OSVALDO BARONCELLI – TOSCANA C/o B. Ricevimenti Catering Via Orvieto 22 59100 Prato (PO) Tel. 0574/40.18.96 – Fax 0574/48.41.39 Cell. 348/87.15.954 – 320/66.44.516 – presidente@aistoscana.it FIORENZO DETTI – LOMBARDIA C/o Segreteria Ais Lombardia Via P. Castaldi, 4 20124 Milano (MI) Tel. 02/29010107 – sede@aislombardia.it MARIANO FRANCESCONI – TRENTINO Via G. Ferrari 2 38068 Rovereto (TN) Tel./Fax 0464/419404 Cell. 339/1305364 – mariano.francesconi@aistrentino.it – info@aistrentino.it DINO MARCHI – VENETO Vicolo San Lorenzo 9/10 31044 Montebelluna (TV) Tel./Fax 0423/61.51.54 – Cell. 328/8479668 – presidente@aisveneto.it QUIRINO RAFFAELE PICCIRILLI – EMILIA C/o Ristorante Picci Via XX Settembre 4 42025 Cavriago (RE) Tel. 0522/371801 – Fax 0522/577180 – Cell. 335/6171366 – qpiccirilli@libero.it CAMILLO PRIVITERA – SICILIA C/o Enoteca Il Tocco di Vino Via Vittorio Emanuele 194 95024 Acireale (CT) Tel./Fax 095/7634215 – Cell. 333/5815102 – info@iltoccodivino.com

95


Libri

SULLO SCAFFALE COME CONOSCERE E DEGUSTARE IL VINO Autore: Editore: Prezzo:

Luciano Imbriani De Vecchi 13,90 euro

di Natalia Franchi

MICHELE RACCONTA

STORIA DI UNA FAMIGLIA DEL VINO IN PIEMONTE A cura di: Giovanni Ruffa e Paola Gho Editore: Semidivite Prezzo: 25,00 euro

Se vogliamo dare ragione – come mi sento di fare – al gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826) secondo cui il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono, il nostro Paese dovrebbe dormire sonni assai tranquilli. Buona cucina e buona cantina (il cui ruolo accanto alla cucina è fondamentale) non mancano certo agli Italiani, a tutt’oggi produttori della maggiore varietà di vini al mondo e, insieme ai francesi, primatisti per quantità e qualità dei vini fini e superiori prodotti. A Luciano Imbriani, giornalista bresciano attento osservatore degli aspetti culturali della moderna enogastronomia, il merito di aver realizzato un testo di facile utilizzo e subito consultabile, adatto anche a chi non sa niente (o quasi) di vino e vuole informazioni rapidamente applicabili. Un libro che può aiutare anche il lettore più esperto a costruire la propria cantina “essenziale” ed essere sempre preparato in ogni occasione gastronomica, senza con ciò investire un capitale. Se il vino è infatti sempre più di moda, sceglierlo e abbinarlo non è cosa che si improvvisa. Il libro apre con una necessaria elencazione dei vitigni classici, cui segue una attenta e nel contempo semplice analisi delle sensazioni olfattive e gustative che si colgono nei vini di buona fattura. Ecco allora farsi spazio deliziosi sentori individuabili in vini di facile bevuta: crosta di pane in Champagne e Spumanti metodo classico; liquirizia in Barolo, Nebbiolo e Sangiovese; silice e pietra focaia nello Chablis. È poi la volta di una panoramica su bottiglie e bicchieri di ogni forma e tipo. A proposito di bottiglie, una nota curiosa sui formati della Champagnotta, la bottiglia in vetro resistente (deve resistere a una pressione di 7-8 atmosfere) tipica dello Champagne. Se tutti conoscono il formato Magnum, l’equivalente di 2 bottiglie, in pochi conosceranno il Balthazar (16 bottiglie), il Nabuchodonosor (20 bottiglie) e l’enorme Melchizedec (40 bottiglie), esclusiva di portafogli “dotati”. Nella seconda parte, il volume guida il lettore fino a costruire veri e propri menu, accompagnando ogni portata con il vino più indicato a esaltarne i sapori. Per ogni piatto – antipasti, primi, secondi e dolci – sono proposti abbinamenti con vini prodotti nel nostro Paese, di cui sono indicate le principali caratteristiche (colore, gradazione alcolica, temperatura di servizio).

Una storia per immagini scritta con il cuore. Raccontata per “lasciare una traccia, ma anche per indicare una strada”. Il secondo volume della collana Semidivite, voluta da Michele Chiarlo, racconta la sua vicenda umana e di produttore, insieme alle tradizioni e alla vita delle colline piemontesi da cui tutto ha originato. Le immagini contenute nel volume sono una selezione – parecchio suggestiva e in bianco e nero – della raccolta di scatti commissionati ogni anno, dal 1997, in occasione della vendemmia, a grandi fotografi chiamati a registrare – con il proprio estro – «il gesto finale di un anno di lavoro sulla terra». In italiano e inglese, l’impianto narrativo dell’opera si muove lungo due canali paralleli: da un lato, il racconto in prima persona di Michele Chiarlo, delle sue vicende familiari e della sua fortunata realtà aziendale; dall’altro, la vita sociale, le usanze, le tradizioni, i sapori e i colori del territorio piemontese di cui Chiarlo si fa portavoce discreto, consapevole di essere parte di una realtà ben più grande a cui essere fieri di appartenere e orgogliosi di poter far conoscere. Tra le tante illustrate nel libro, mi piace ricordare un’usanza del Piemonte vignaiolo: il pranzo di fine vendemmia offerto dai padroni di casa ai loro collaboratori; un modo per chiudere in bellezza la stagione del raccolto e per ringraziare chi ha lavorato in vigna. A casa Chiarlo questo costume si è sempre rispettato, ma con una novità, o meglio un rito ripristinato dalla signora Pinuccia: la bagna caoda, con la “o” che si pronuncia “u”. Piatto identitario come nessuno, la bagna caoda richiama alla memoria la storia antica e singolare degli acciugai, gli ancijué, i venditori ambulanti che un tempo giravano le cascine piemontesi con il caruss, offrendo la loro merce, arricchendo così con un piccolo reddito aggiuntivo i risicati bilanci familiari di lavoratori agricoli.

Il vino spiegato.

Lasciare una traccia per indicare una strada.

96


SAPEREBERE Autori: Editore: Prezzo:

Fulvio Piccinino Graphot 9,50 euro

Fulvio Piccinino è un barman che ha molto da dire ai bevitori, soprattutto giovani. A lui va infatti il merito di aver dato avvio al progetto “Saperebere”, un’attività di formazione e sensibilizzazione al bere consapevole che coinvolge anche ragazzi disagiati. Basta dunque agli ignobili intrugli fatti con alcolici di dubbia provenienza, all’origine del binge drinking, lo smodato “bere per bere” recente piaga per la gioventù del nord Europa e ormai poco estranea anche agli usi nostrani. I drink di qualità devono tornare a essere “prodotti da meditazione” e non da tracannare in piedi al banco bar. Il volume apre con una considerazione preziosa per comprendere la vera essenza della professione di barman: un uomo che, da dietro il bancone, ha una conoscenza profonda e intima del cliente, un confidente discreto con amicizie importanti pur nella sua attività “operaia”; un operaio aristocratico, insomma. È secondo tale accezione che il mestiere di barman va recuperato e valorizzato, dopo un progressivo impoverimento scaturito dalla perdita della tradizione. Il barman odierno sembra sempre più un semplice porgitore, per comodità, mancanza di preparazione e a causa di una certa pubblicità che orienta il consumatore verso prodotti standardizzati. Non c’è bevanda alcolica che sfugga all’esame dell’autore. Per ognuna, dalla birra al sake, dal vino ai liquori, vengono riportate – con linguaggio assai semplice – l’origine e le caratteristiche di diffusione, fortune e momentanei oblii. Apprendiamo così che il sake, bevanda alcolica tradizionale giapponese, è ottenuta dalla fermentazione del riso e non, come molti pensano, dalla sua distillazione. Scopriamo che la paternità della wodka appartiene alla Polonia, mentre la Russia reclama i natali delle prime distillerie e rivendica una “v” al posto della “w” nel definire il distillato “vodka”. Il gin, invece, vede la luce ad opera di una coppia di farmacisti olandesi come rimedio per i reni affaticati e come digestivo. Il rum, distillato ora tipico della zona caraibica, ha origine nella fascia equatoriale dell’Asia (India e Filippine) dove la canna da zucchero veniva distillata già nel primo millennio per ottenerne l’arak. Chiude il volume la storia dei cocktail internazionali – dal cocktail Martini al Bloody Mary – con tutta la classe e la tradizione che li distingue da intrugli quali l’”Angelo azzurro” o il “kamikaze”. Bere classico, bere bene.

VINIBUONI D’ITALIA 2010 Autori: Editore: Prezzo:

Mario Busso, Luigi Cremona Touring Editore 22,00 euro

Ispirata alla tradizione enologica italiana e volta a valorizzare le radici locali, il territorio e la tipicità, la guida Vinibuoni d’Italia dà un segnale preciso ai consumatori e al mercato italiano ed estero. La riscoperta dell’importanza dei vini autoctoni italiani è infatti un passo fondamentale verso la distinzione e la produzione di prodotti unici e di qualità, soprattutto in un momento storico quale l’attuale, segnato dalla crisi economica e da un forte irrigidimento delle normative di somministrazione delle bevande alcoliche. Quella della globalizzazione e della competitività sempre più spinta, è una sfida che può essere colta solo puntando sulla tipicità del nostro territorio, quale potente strumento di marketing. Infatti, sfortunatamente il nostro Paese non può contare su una promozione compatta e finalizzata; si pensi che se in Austria 5 aziende producono il 70% del vino commercializzato, in Italia ne servono 35.000 per raggiungere la stessa quota. A questa parcellizzazione appare dunque più che opportuno contrapporre la forza della particolarità se, come ha correttamente affermato Carlo Cambi, non siamo più nel mercato del prodotto, ma nel mercato del valore dove la merce ha contorni più sfumati: è la cultura e la materializzazione di un certo modo di essere. Vinibuoni d’Italia è dunque una guida unica nel panorama editoriale italiano e internazionale, la sola dedicata ai vini da vitigni autoctoni, cioè a quei vini prodotti al 100% da vitigni che sono presenti nella Penisola da oltre 300 anni. I vini inclusi nel volume sono il frutto di un processo di selezione eccezionale per impegno e per trasparenza. Oltre 80 i degustatori riuniti in 20 commissioni di lavoro che operano nella loro regione di competenza. Più di 18.000 i vini arrivati in degustazione, 2.000 in aggiunta rispetto al 2009. Mille e settanta le aziende inserite, a rappresentare l’espressione più elevata del panorama produttivo italiano dei vini da vitigni autoctoni. Da segnalare, infine, una chicca che risponde in pieno al più recente sentire in fatto di consumi: la segnalazione delle aziende a conduzione biologica e biodinamica. Tutta la classe dei vini coronati. 97


Io non ci sto

La

crisi imperversa,

ma il mondo del vino non cambia di Franco Ziliani a parola d’ordine di questi tempi (ma in verità lo è da oltre un anno a questa parte) è che con l’attuale crisi, che non accenna ancora a passare, il mondo del vino debba profondamente cambiare. Che non possa andare avanti come se niente fosse sperando nell’italico “stellone” e augurandosi che abbia a passare al più presto “’a nuttata”, senza mutare, con convinzione, non solo linguaggio e stile di comunicazione, ma ripensando le proprie ragioni e abbandonando l’eccessiva grandeur, l’enfasi, una certa megalomania che aveva adottato, quasi come una seconda pelle, negli anni delle “vacche grasse”. Gli anni dell’illusione dello sviluppo continuo, dell’espansione dei mercati, quando crescere, in termini di ettari vitati, di bottiglie prodotte, di prezzi, era l’imperativo cui non ci si poteva sottrarre. Eppure anche se in molti dicono che le cose non possono più andare come prima, se i segni della crisi sono quanto mai evidenti, con un mercato delle uve che non dà più soddisfazioni e non è affatto remunerativo, perché gli acquisti da parte dei grandi imbottigliatori si sono rarefatti o avvengono a condizioni tutt’altro che favorevoli, e perché ormai si preferisce comprare vini già fatti (disponibili in abbondanza) che uve da trasformare, non si vedono in giro grandi segni di cambiamento. Certo, i prezzi di molti vini oggi sono improvvisamente in calo, perché l’andamento dei mercati ha costretto molti che ieri vendevano a dieci (eccome se vendevano, soprattutto se i vini potevano godere del sostegno mediatico di parte della stampa e di determinate guide) a proporre gli stessi vini a sei, cinque, quattro, per tacere delle condizioni non ufficiali (pagamenti a “babbo morto”, robusta scontistica tipo compri dieci paghi cinque), che vengono proposte in… camera caritatis. L’impressione è che si tratti però solo di cambiamenti tattici, cui tante aziende si vedono, obtorto collo, piaccia o non piaccia, costrette, per cercare di stare a galla, per alleggerire scorte e magazzini, e non di una seria presa di coscienza che porta a cambiare molte cose. A conferma di questa refrattarietà al cambiamento voglio citare due elementi, diventati quasi dei must negli anni scorsi per ogni produttore che si rispetti, che hanno finito però con il rappresentare dei costi aggiuntivi per quel “Pantalone” del consumatore. Parlo dell’affinamento in barrique, naturalmente barrique delle migliori tonnelleries, e barrique rinnovate ogni anno, perché il contatto con il legno fosse di primo passaggio, scelto per quasi ogni vino (quelli dei testardi tradizionalisti a parte) avesse un minimo di ambizione e puntasse a farsi riconoscere come grande, o presunto tale. In secondo luogo, meno diffuso, ma diventato nel corso degli anni un elemento distintivo, un modo di farsi notare, di conferire importanza al vino, l’adozione di improbabili bottiglie iper pesanti (anche un chilogrammo) contro quelle normali da 410 grammi e poco più, bottiglie personalizzate e stravaganti con spalle altissime e fogge particolari, tali da richiedere molto spesso un costoso apposito stampo. Intendiamoci, non mi sto riferendo alle bottiglie delle “bollicine”, che per loro natura devono essere più spesse e pesanti per sostenere la pressione del liquido contenuto,

L

98

ma di bottiglie adottate soprattutto per farsi notare, per spiccare sullo scaffale, per emergere e fare la “differenza”. Bottiglie più costose, che richiedendo più vetro per la loro realizzazione sono più complesse da eliminare e quindi producono più inquinamento all’atto del loro smaltimento. Non dovrebbe essere solo una coscienza ecologica e un pensiero “verde”, che fortunatamente va diffondendosi anche nel mondo del vino, a far pensare che di simili espedienti il mondo del vino possa fare a meno, ma norme elementari di buon senso che portano a eliminare, qualora superflui, costi supplementari. Eppure avete letto da qualche parte di aziende che utilizzano queste “armi improprie”, veri e propri corpi contundenti anche quando sono vuote, strumenti di difficilissima gestione anche da parte di chi deve servirle a tavola (sommelier in primis) e lo fa con fatica, che dichiarassero – ed in questo caso un simile pronunciamento sarebbe stato anche un valido argomento per farsi notare, a costo zero – di aver rinunciato a avvalersene per risparmiare e per ritornare a normali bottiglie? Personalmente, nonostante la campagna anti vetro pesante lanciata meritoriamente dal sito Internet Wine Surf di Carlo Macchi, di simili rinunce non ho avuto notizia e vedo anzi che sugli scaffali le improbabili bottiglie pesanti continuano a spiccare, dando l’idea che le aziende che le utilizzano siano persuase che farsi notare in quel modo paghi ancora e soprattutto che ci siano consumatori convinti che a una bottiglia più grossa, più plateale corrisponda una qualità superiore. Il che, basta pensare alle normalissime bottiglie utilizzate in Francia per i Premier cru di Bordeaux o per i migliori Bourgogne, è assolutamente falso. Quanto alle barrique, alla rinuncia al loro utilizzo, mentre si diffonde sempre più la pratica del secondo, terzo, quarto passaggio (perché cambiare ogni anno carati costa un sacco di soldi e spesso il legno nuovo stravolge le caratteristiche dei vini e il consumatore si è stufato di spremute di rovere), si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di produttori che sostengono di averle abbandonate. Ho raccolto personalmente da un piccolo ottimo produttore valdostano, Di Barrò, la notizia della rinuncia ad affinare i suoi rossi in carato, e ho preso atto con favore, considerandola un evento la notizia data a inizio agosto dal vignaiolo-blogger Giampaolo Paglia sul blog della sua azienda produttrice di validi Morellino di Scansano, del ripudio della barrique «perchè non ci piaceva più quello stile di vino, specialmente abbinato al Sangiovese e al Ciliegiolo». E perché «in sostanza, in questi ultimi 10/15 anni è cambiato il mondo del vino, e sopratutto sono cambiati i miei (nostri) gusti». Eppure questa sana dose di realismo non fa notizia, non appare trendy, rischia di apparire “di retroguardia” o “stravagante”, più della news, assolutamente old style, recapitata via mail prima di ferragosto dalla pr di turno, della prossima inaugurazione di una “nuova cantina XY, progettata dalla prestigiosa architetto e designer WZ e dall'architetto TXZ”. Mi dispiace ripetermi, ma come non dire, anche in questo caso, che “io non ci sto”?


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.