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FARO DI SAN CATALDO

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PENSIERI IN CALCE

PENSIERI IN CALCE

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Il lungomare di Bari è considerato tra i più lunghi d’Europa, percorrendolo emerge il faro di San Cataldo. Erto e rigido si staglia nel cielo con suoi 66 metri d’altezza; rispettato dai tristi volumi eretti con l’espansione urbana i quali, con reverenza, sostano a distanza evitando un confronto che li vedrebbe sconfitti. Lo osservo, perlustro l’area per guardare la piramide ottagonale che lo compone. Essa è troncata da una lanterna raggiungibile posando i piedi su più di 370 gradini.

Prima dell’arrivo della corrente elettrica la luce era proiettata da fiamme alimentate ad acetilene e immagino che portare le bombole da settanta chili potesse far sentire i guardiani di questo luogo superbi penitenti sulla strada della redenzione; penso che, se non altro, raggiungere quella cima debba regalare una visione impagabile.

Cerco di comunicare con i giovani custodi, ma il taccuino alla mano e le domande, indotte dal fascino di questo ciclope, devono essere sospette a militari indisposti dalla mia curiosità che non viene soddisfatta, frenata da discorsi densi di irragionevole livore, percorsi dal timore di svelare segreti di rilevanza strategica.

Mi appunto:

“Approcciarsi privi di armi caricate ad inchiostro.”

Faro Di Molfetta

Sono le 12:45 circa quando termino la perlustrazione della banchina che ospita il guardiano della baia di Molfetta. Nella sua possenza esso riacquista la dignità di faro nonostante le dimensioni da fanale: non molto elevato, ma finemente decorato e ben piazzato sul suo podio alto quanto un piano.

Il sole brucia nei pressi del suo zenith, lungo i moli il calore diventa sempre più insopportabile. Decido di sostare per un pasto frugale avviandomi verso le strette vie che compongono la città storica, bianche e calcaree offrono refrigerio anche a un forestiero. Il percorso si svela piano piano, ogni scorcio narra una città che ricorda la Zaira di Calvino. La memoria è impressa in ogni roccia e in ciascun elemento che compone strutture raffazzonate per permettere agli edifici di appoggiarsi l’un l’atro. Appaiono come anziani che si sorreggono a vicenda per sostenere l’incessante scorrere del tempo e i suoi effetti.

Tutto ha un sapore antico, aspetto logoro ma non trasandato, composto e orgoglioso del suo passato che sembra non volersi staccare da quelle mura e da quei pavimenti. Perfino il forno non può avvalersi delle telecomunicazioni quando entro a causa di problemi di linea. Un ragazzino entra e chiede venti panini per il parroco e gli altri giovani del seminario. La vita sembra essersi arrestata decenni fa in queste vie, troppo strette per rovinose automobili e ancora adatte a freschi piedi pronti a correre per portare il pranzo verso la mensa.

Riavviandomi verso il mare, trovo signori lieti su panchine ombreggiate da palmette, pescatori che districano reti, chiacchiere e brusio di mare, infine, un gabbiano annuncia il mio commiato.

Fari Di Barletta

Seguendo le indicazioni delle mappe digitali, mi ritrovo all’imbocco di un molo di cui non scorgo la conclusione, una torre si eleva in lontananza. Decido di sostare in un bar lì vicino: sedie in plastica rossa sbiadita, si intravede ancora il logo dell’azienda di gelati al centro, classico bar di mare aperto ormai da tempo. Entro e tutto continua a presentarsi secondo i canoni del luogo: gestione familiare, la madre gentile che serve il caffè, la figlia che appare e scompare dal bancone. Interrogo il padre sulla situazione dei fari lì vicino. Afferma che quello più piccolo, di epoca borbonica, sarà presto riattivato. Non convinto della risposta, mi appresto a chiedere informazioni al guardiano del cantiere che, molto gentilmente, mi dice di non saperne molto ma che forse l’avrebbero rimosso, ma data la poca conoscenza dell’argomento mi dirotta alla capitaneria. Risalgo in macchina e mi dirigo verso le risposte. Il cartello sulla porta mi informa della chiusura pomeridiana del presidio. Dalle carte scopro che il molo dirimpettaio a quello dei fari si estende per la stessa lunghezza. Il bellissimo castello della città mi scorta verso la mia destinazione, segnato da numerosissimi interventi si mostra orgoglioso della sua forma. Spingo i primi passi lungo la banchina e volgo nuovamente lo sguardo alla fortezza, ormai distante. Ora che non occupa più la totalità della mia vista china la testa, abbassa lo sguardo, si nasconde dietro filari di alberi. Più imponenti, alte e meschine si ergono le industrie, troneggiano sulla città mostrando il loro dominio totale. Tutto sembra sparire sotto la loro mole che brilla di riflessi sui grossi tubi che le compongono. Lasciandomi alle spalle questo scempio, risalgo verso il mare aperto. Bagnanti si godono la giornata limpida mentre continuo a camminare per un chilometro per porgere i miei ossequi al protettore di questo golfo. Carico come un mulo, oltre il peso di ciò che porto meco, sento qualcos’altro: realizzo di essere l’unica persona, in quel frangente, in tenuta urbana e con delle borse; questo viene notato dai bagnanti che, incuriositi dal mio atteggiamento, mi chiedono di scattare loro delle foto con la macchina. Decine di minuti in questa situazione, sotto il sole a picco, mi estraniano dalla realtà, finchè non giungo al cospetto del faro. Il ritorno lo affronto a passo svelto, sguardi di estranei continuano a posarsi su di me e, raggiunta la terraferma, riparto come un alieno che abbandona un pianeta che non gli appartiene.

Faro Di Manfredonia

Raggiungo Foggia, una delle città d’Italia più martoriate dalla meschinità umana: segnata prima dal potere distruttivo della guerra, poi dalla cupidigia di chi si è occupato di riempire le proprie tasche anziché ridare splendore alle proprie strade e alle proprie case; oggi nominata esclusivamente per gli effetti della criminalità organizzata. Comprendo a pieno i motivi del detto “fuggi da Foggia”. Mi accorgo di come la bellezza del luogo alberghi e riverberi ancora in chi si nasconde tra le mura domestiche e la esterni con la propria gentilezza e la voglia di sedersi a chiacchierare anche con un parente mai conosciuto prima. La strada che collega il capoluogo alla città marittima è larga e percorsa da infiniti autoarticolati, così carichi di pomodori da farli straripare a ogni curva, ma l’aspetto più incredibile di questa faccenda rimane il ritrovarsi poi a dover acquistare unicamente pomodori di Sicilia: la globalizzazione ci pone di fronte continuamente controsensi che ci ostiniamo ad ignorare. Il golfo sembra aver accolto serenamente il mio arrivo, questa volta non solo, ma accompagnato da mia cugina. Contatto la capitaneria di porto, mi concede il contatto dell’ultimo guardiano del faro di questo luogo. Sotto consiglio di chi mi scortava decido di chiamare subito e scettico eseguo la telefonata. Una voce calma come acqua di lago risponde e mi comunica di poterci incontrare ipso facto sotto la lanterna.

Ottavio Greco ci attendeva lieto sulla soglia d’ingresso al faro, sul gradino che ha visto il posarsi dei suoi piedi innumerevoli volte negli ultimi 17 anni. Occhi grandi e ingialliti, aver mirato per quattro decenni, giorno e notte, l’incresparsi delle onde ha conferito agli stessi il medesimo colore dei suoi baffi, segnati dal fumoso tabacco di numerosi e leali sigari.

Una volta accomodati, inizia il racconto del servizio in numerosi fari: San Venerio, Punta Maestra, San Cataldo, San Vito, concludendo questo lungo pellegrinare all’ombra del prisma poligonale che assiste muto alla nostra conversazione. Ciò che ci racconta è l’esatta antitesi della vita a cui siamo abituati oggi. Il saper attendere quieti, la compagnia unica di un libro, l’assenza di questo continuo essere in contatto con tutti tranne che con se stessi. Sembra che l’insieme delle moderne ansie e preoccupazioni non abbia mai albergato nel suo cuore. Che non sia forse questa l’educazione impartita dai ciclopi?

Nel suo sguardo si legge la passione di una vita dedicata a questo mestiere, si riempie di umidi riflessi al ricordo dei giorni passati nelle torri di luce. Totalmente rapito dalle sue parole e da quello scrutarmi, non vedo più le sue pupille, ma solamente il mare che si specchia nei suoi occhi.

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