3 minute read
FARO DI SAN VENERIO
Isola del Tino, Portovenere, SP
La Spezia, ore 8.30, Comando Marifari. Un nutrito gruppo di persone attende il mezzo che li deve condurre all’inaccessibile baluardo. L’isola del Tino, proprietà dell’illustre corpo della Marina Militare, è un gioiello dei nostri mari: la potenza della terra, la bellezza della flora, la forza della fede, la paura del nemico, la gioia della luce.
Advertisement
Scolpita dalle trasformazioni geologiche, mostra i suoi calcari scistosi se osservata dal largo delle coste, scrutata dal golfo ascende lentamente come un bosco collinare. Questa attitudine ricorda le mura rinascimentali di Lucca e Ferrara. Esse si ergono dolcemente dall’interno dell’urbe accogliendo il verde per precipitare a picco sul loro orlo. Spalle forti pronte a difendere e schiene dolci su cui arrampicarsi.
Un piccolo battello militare, aroma al gasolio, ci scorta a destinazione. Il gruppo è composto da tecnici radio, membri della Sovrintendenza, storici, marinai e da noi giovani studenti. Approdati al molo veniamo accolti dai guardiani dell’isola, personale della marina con il compito di verficare che nessuno sconsiderato si addentri nel fitto del bosco locale o pensi di accendere fuochi su questo cumulo di potenziali torce.
Il comandante Cirami, oggi a capo della spedizione, sorride come chi, gonfio d’orgoglio, parli delle qualità del proprio figlio. Egli ci guida sul principale sentiero descrivendoci gli edifici, la loro storia e il rapporto con il luogo. Scopriamo che oggi è regno di gabbiani, arcinemici dei marinai, diversi dei quali, portano i segni delle lotte con gli agguerriti pennuti. L’attenzione della guida si sofferma soprattutto su ciò che c’è di militare tra il costruito dell’isola. Tutto appare logoro e sfinito dalla negligenza di cui è vittima. Al termine della salita, il bosco si apre e lentamente iniziamo a scorgere il ciclope di San Venerio che, come un anziano saggio, si è appartato sul luogo più alto del suo eremo. Sorge su una torre di cui non si conosce il periodo di costruzione. Questo, aumentando il mistero, eleva il fascino del luogo. Risaliti lentamente fino ad arrivare alla lanterna, ci addentriamo nell’orbita del gigante fatta di caldo legno e vetri curvi; il sole splende e lo sguardo da quasi cento metri s.l.m. mira vasti orizzonti. Dalla Versilia alle Cinque Terre tutto appare nitido. Sull’isola che ha ospitato il patrono dei faristi, farista egli stesso, vedere ciò che il ciclope vede è una sensazione indescrivibile.
44° 2’10.71”N
10° 2’12.83”E
Faro Di Marina Di Carrara
Marina di Carrara, Carrara, MS
Quando si scende dalla Liguria alla Toscana si può godere della migliore vista delle Alpi Apuane. Giovani e fiere si ergono, sventrate e profanate dagli avidi scavi; mostrano il loro cuore aperto e pulsante: è così grande che lo si può sempre scorgere. Le vie dell’oro bianco che sgorga quasi liquido dalla sommità segnano inesorabilmente i loro fianchi. Gli scarti di questo scempio riempiono i corsi d’acqua che, ormai bianchi, raggiungono il mare carichi della polvere del marmo rubato dalla sua casa.
A Carrara raggiungo Andrea Polenta, amico, collega e pittore, mi accoglie e mi scorta in ogni luogo. Ho poche parole da spendere sul conto .del ciclope, basti pensare che chi abita in questa città sgrana gli occhi sentendosi dire che il proprio porto ospita una casa della luce. Increduli della scoperta, generalmente, passano in rassegna i propri ricordi in cerca di una flebile immagine per poi rendersi conto che un tempo ne erano consapevoli. Comprendo i motivi di questa perdita della memoria giungendo al porto. Esso ha divorato quasi per intero il faro. Arrivando da terra, non si scorge che la lanterna perdersi tra le strutture del cantiere navale. Dal mare è ben visibile, ma sommessamente cede il posto alle Apuane che si stagliano sopra la sua testa. Temo che sia questo il rischio che oggi corrono tutti i ciclopi: prima ancora dell’abbandono, l’oblio.
Terminata la triste ricerca, il Polenta mi conduce a vedere i ruscelli bianchi carichi di marmettola, la stessa responsabile del candore delle acque. Questi luoghi vivono da secoli della pregiatezza della propria roccia; in maniera ormai sconsiderata, i cavatori si riempiono le tasche di questo valore. Consapevoli della bellezza che questa pietra può avere, ne hanno le case ricche e a causa della loro cupidigia si sono addentrati così tanto nelle montange da sfigurarle. Concentrati su questo mestiere hanno perso la volontà di rendere giustizia alla loro città e alla preziosa materia. Vengo accompangato al Duomo, costituito dalla preziosa roccia in maniera così assoluta da renderla insignificante. Un oculo sopra l’altare fa filtrare l’eterea consistenza del sole donandole presenza fisica. Resto ammaliato dalla scena. Abitutato a vedere il marmo tirato a lucido, solo qui comprendo la sua origine terrena: graffi e scalpelli l’hanno reso pietra da costruzione, riportato a materia del luogo. Luce e silenzio riprendono possesso della sacralità intangibile racchiusa da ciò che un tempo fu terra.
43°51’28.68”N
10°14’14.35”E