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FARO DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO
San Benedetto del Tronto, AP
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Aggirandomi per le vie che segnano prima Porto d’Ascoli, poi la vicina San Benedetto del Tronto, rimango confuso. Enormi hotel limitano la vista, la strada lungomare è curata, ma da essa non si vede il mare, nascosto da innumerevoli chalet. Come mai la bellezza del mare deve essere percepita solo da chi ha la facoltà di permettersi la stanza più alta?
Superato l’intrico di strade e stradine tutte parallele, raggiungo il luogo in cui il GPS mi ha condotto. Scendo dall’automobile, senza realizzare di essere già al cospetto di quel che andavo cercando. Al di sopra della mia testa è lì che mi osserva. Mi stupisco della sua lontananza dalla riva, probabilmente la sconsideratezza umana è riuscita perfino a spostare un luogo da sé stesso. Non più pronto a stagliarsi nel cielo, ora questo gigante si confonde alle spalle della foresta di pennoni delle innumerevoli navi presenti nel porto. Avviandomi verso il lido, mi rendo conto di quanto la città sia avanzata anche verso il mare: un lungo molo costellato di sculture e dipinti si spinge verso l’orizzonte.
Il sole iniza a tuffarsi nella pianura marina, e per la prima volta riesco a pernottare in una località che ospita una casa della luce. Mi porto ai suoi piedi e vedo i fasci determinati dalla lanterna che ne definiscono la propria caratteristica. Dalla distanza si vedono unicamente lampi di luce, al cospetto di questi monoliti, contrariamente, si possono vedere le lame che sono spesso rappresentate nelle illustrazioni.
Mi spingo verso Grottammare su consiglio di chi questo luogo lo conosce bene. Il borgo, così curato e così autentico, mostra la sua storia su ogni angolo e su ogni pietra. Decido di mangiare qualcosa nella piccola piazza, i sapori di questo luogo saziano il mio stomaco e il mio spirito. Un portico al di sotto di insegne sistine è la scena di una battaglia tra innamorati deturpatori e indignati contemplatori. Un cartello recita:
“Siete pregati di non esternare la vostra coglionaggine spacciandola per amore deturpando ciò che ha resistito per secoli prima dell’arrivo di alcuni selvaggi”.
Scendendo verso valle, il lampo del faro, immerso nella città, si contende il paesaggio con un’enorme luna che posa il suo riflesso sul velo del mare.
13°50’42.38”E
Caldo da schiantare, cielo segnato quasi da nessuna nube. L’assistente digitale mi consegna a una piccola strada che, inerpicandosi, abbandona la statale. Dead end penso. Scendo dal veicolo e il faro che andavo cercando si mostra tra le frasche a insolita bassezza. Mi dirigo verso di esso incuriosito.
Osservandolo a metà del suo fusto, capisco che pone le sue radici più in basso. La ricerca di un ingresso accessibile non porta ad alcun frutto.
Rammaricato, scorgo operai intenti ad effettuare interventi di manutenzione, medici curanti di un entità che non sembra nemmeno appartenere a questo luogo.
L’unica via per poterlo osservare sembra essere quella dalla sommità della collina che si pronuncia verso l’entroterra. Una scala pensata per giganti dà il via a un sentiero che si inoltra nella selva attraversando frutteti e orti. Proseguo lungo le recinzioni di un giardino, felice di avere finalmente l’obbligo di muovermi sulle mie gambe e non più sulle ruote. Girato l’angolo, numerosi latrati raggiungono il mio orecchio spaventandomi a morte. Quattro cani difendono, con la propria voce, un passaggio che pare essere pubblico. Spronato dallo spavento decido di proseguire.
Passo dopo passo, la natura muta: gli steli che si disponevano dignitosamente ai lati del sentiero, presi d’audacia, iniziano a lanciarsi varso le mie gambe. Abituato a camminare in montagna, non mi stupisco poichè risulta normale camminare accarezzati sugli stinchi dalla natura, talvolta. D’un tratto, ho l’impressione di percepire un respiro bestiale nel sottobosco. Mi volto, nessun movimento. Cercando di non spaventare chi mi accompagna evito di menzionare l’accaduto. Spingendo i piedi sempre più innanzi questi inziano a sparire: gli steli ormai ricoprono inesorabilmente tutto. Di nuovo mi sembra di udire un ansito tra le frasche. Ormai inquieto, decido che non è più il caso di proseguire oltre. Propongo di tornare verso il basso, confessando solo all’arrivo alla macchina della sensazione di una presenza osservante. Comprendo di non essere stato l’unico a udirla.
Raggiunta la riva, la torre di luce si mostra nella sua interezza, fiera e candida. Ripensando all’accaduto dell’ascesa, ho l’impressione che questo ciclope fosse complice di chi ci ha intimato di non proseguire oltre, la sua volontà era di mostrarsi unicamente dal suo lato migliore.
43°37’22.16”N 13°30’56.71”E