EVA LA PARTIGIANA

ROMANO BERTASA

EVA la partigiana della Val Gandino

CAPITOLO I La Partigiana Eva e la sua famiglia Era una sera di fine Giugno del 1944 e su Gandino, un importante Paese della Provincia di Bergamo, situato nella Val Gandino, stava calando la sera.

Anche quel giorno sulle zone montuose di tutta la Valle c’era stato gran movimento e vari scontri fra TedescoFascisti e Partigiani.

Quella sera Angela stava aiutando la madre a preparare la cena per i suoi tre fratellini, quando improvvisamente irruppe nella stanza un uomo, spaventato, sudato e molto concitato, urlando: “I fascisti mi stanno inseguendo. Aiutatemi!”

Ci fu un attimo di smarrimento e subito Angela, prendendo in mano la situazione, disse alla mamma: “Pensa tu alla cena, arrivo più tardi” e rivolgendosi al fratellino: “Tu Giulio vieni con me, solo per un pezzo di strada.”

Prese dal sottoscala un tascapane già pronto per le emergenze partigiane con lo stretto necessario per due, tre giorni: una torcia, viveri, acqua, alcune armi indispensabili a quei tempi e il suo fido cane Argo.

Argo era un cane da guardia alle mandrie (mucche, pecore, capre), uno stupendo pastore bergamasco di color grigio scuro, obbediente, bonario, che non abbaiava mai più del necessario e a comando, era anche silenzioso.

Prendendo lo sconosciuto per un braccio, quasi strattonandolo, Angela uscì di corsa dal retro della sua casa e s’incamminò nel bosco, seguita dall’uomo alquanto disorientato ed impaurito.

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Giulio, il fratellino, li seguiva con Argo. Non c’era tempo da perdere. Si incamminarono su per un sentiero ripido e pieno di rovi e sterpaglie, con Angela che ogni tanto incitava entrambi: “Forza, dai che quasi ci siamo, manca poco.”

In quegli anni, Angela non era la prima volta che sbrigava e risolveva faccende del genere. Faceva parte di un Gruppo Partigiano della zona, solitamente il suo compito era quello della postina, incarico semplice, ma di una certa responsabilità e pericolosità, era cioè colei che recapitava, porta a porta, missive e messaggi vari, di una certa segretezza, ai partigiani o ai loro familiari.

Angela, dopo gli ultimi avvenimenti e attentati, aveva aderito ad un gruppo locale della Resistenza e nel gergo Partigiano e per gli amici che frequentavano il suo mondo era la Partigiana Eva. Il padre Andrea, chiamato in Guerra verso la fine del 1939, prima a Verona e poi subito al fronte, dopo una fugace e breve licenza premio di una settimana per buon comportamento, a Natale del 1941, aveva scritto sempre più raramente.

Avevano ricevuto due lettere da Udine, dalla Caserma Giovanni Di Prampero, con la quale si diceva in buona salute e poi alcune lettere dopo Pasqua del 1942, dove comunicava di essere a servizio in una famiglia tedesca benestante e molto buona, di essere trattato bene e dove sperava di rimanere. La provenienza della lettera era Dresda.

Angela, dopo la nascita del fratellino Giuseppe, a Settembre del 1942, si era recata varie volte al Comune di Gandino affinché fosse avvisato il Comando Militare della nascita del quarto figlio, poiché secondo la Legge dell’epoca, il soldato, alla cui moglie nasceva il quarto figlio, aveva diritto al Congedo illimitato. Ma di Andrea Bonandrini, classe 1900, nessuna traccia.

Essendo arrivata a casa una cartolina verso Natale del 1942 con un timbro di una cittadina Tedesca (Limburg an der Lahn - Stalag XII-A) e con scritto solo: “Sto bene…ciao…Andrea”, in paese 22

si vociferava che fosse stato fatto prigioniero in Germania e che fosse in uno dei tanti Lager Tedeschi.

Angela, era una ragazza molto avvenente, volenterosa e fiera.

Vent’anni, bionda, di belle maniere, capelli corti, media statura, occhi blu color del cielo e una fossetta sulle guance che la rendevano oltre che simpaticissima, ancora più interessante ed attraente.

Una ragazza, tutta casa, lavoro e Chiesa, una donna da sposare insomma.

Era occupata presso uno dei tanti stabilimenti tessili della zona, in una Filatura e Lanificio di Gandino ed era una provetta operaia filatrice, ammirata dalle colleghe per la sua laboriosità, competenza e schiettezza, ma apprezzata anche dal proprietario, il signor Alberto Castelli, un bravo imprenditore, uomo onesto e di poche parole.

Il titolare, ól sciùr Padrù, come preferiva chiamarlo Angela, era di una bontà e comprensione eccezionali e vista la bravura e la serietà sempre dimostrate dalla ragazza, a volte la dispensava da certi lavori un po’ pesanti per una ragazza, conferendole compiti più idonei a lei, come andare all’Ufficio Postale a ritirare la corrispondenza oppure occuparsi della vendita nello spaccio dello stabilimento o in magazzino a fare un po’ di inventario, a controllare l’arrivo della merce da lavorare.

Il grande rammarico del signor Alberto era il suo unico figlio Gildo, fannullone e strafottente, che si cullava costantemente nel dolce far niente. Il dispiacere più grande però, per un papà come Alberto era che quel ragazzo si era aggregato a gruppi di pericolosi fascisti della zona, con tutti i problemi conseguenti.

Più volte il signor Alberto aveva proposto ad Angela di fidanzarsi con Gildo, anche per far mettere la testa apposto a quella specie di Don Giovanni da strapazzo, ma niente da fare.

“Non è il mio tipo”, rispondeva educatamente, ma con orgoglio 23

Angela. Per lei non era il momento, aveva altro a cui pensare: il lavoro, un aiuto alla mamma nel gestire la casa, i fratellini, gli animali da accudire, il pensiero del Padre lontano chissà dove e poi, ormai da tempo, l’aiuto concreto che dava come appoggio alla Resistenza.

“Rispetto le tue idee Angela”, rispondeva sempre padron Alberto, “ma pensaci e pensa anche alla tua famiglia che ne potrebbe trarre beneficio.”

Il secondo figlio della famiglia Bonandrini, Giulio, lavorava presso il Copertificio Lombardo di Leffe, di cui era proprietario il signor Daniele Capponi, grande imprenditore e molto benvoluto dal personale.

Rinaldo che aveva 8 anni, dopo la scuola, stava imparando il mestiere di scarpolì presso un amico di famiglia, Eliseo, ciabattino in paese. Il piccolo Giuseppe era il cucciolo della famiglia ed ovviamente era il più coccolato.

Dopo mezz’ora circa di corsa sfrenata, su vari saliscendi per il bosco, con la paura di essere intercettati, i tre uscirono allo scoperto in mezzo ad un prato. Angela aprì una specie di sportellino alla base di una grande quercia, coperto da rami secchi e terriccio, nel quale potevano entrare solo persone non eccessivamente robuste, s’infilò in fretta e furia con l’uomo raccomandando a Giulio di risistemare la chiusura com’era prima e di far subito ritorno a casa con Argo.

Quel cunicolo segreto era appena stato ultimato e c’era voluto la bellezza di quasi un anno di lavoro per finirlo, con partigiani che si davano il cambio ogni tre ore, armati di tutto il necessario per scavare: pale, picconi, torce, viveri ed ovviamente acqua in quantità. Era stato iniziato verso metà Giugno del 1943 e finito verso fine Maggio del 1944.

Lo scopo era, visto i tempi che correvano e non sapendo quando sarebbe finita quella maledetta guerra, di avere una via segreta di fuga, che sfociasse nei pressi della Malga Lunga, dove da poco 24

tempo si era insediato un Presidio Partigiano della 53a. Brigata Garibaldi, la cui gestione era stata affidata, dal Comandante Giovanni Brasi (Montagna), alla squadra del Tenente Giorgio Paglia (Tenente Giorgio), formata da una quindicina di uomini, mentre il Comando vero e proprio della Brigata si era installato a Campo d’Avene, distante una mezz’ora di marcia.

Seguendo uno stretto canale interrato, con tante curve ed in salita, dopo venti minuti si fermarono per riposare in un’ampia grotta, usata come nascondiglio d’emergenza, che aveva un tavolo e appese al muro due torce, due mitragliette “Variara”, in dotazione alle formazioni partigiane e un armadietto con vari viveri di prima necessità.

Per l’acqua non c’erano problemi, infatti dalla parete a monte, fortunatamente, vi era una polla sorgiva d’ acqua che sgorgava naturalmente dalle rocce e che era stata poi incanalata adeguatamente.

Ripartirono subito e dopo un’altra mezz’ora circa, uscendo da una stretta botola, arrivarono all’interno di una piccola abitazione, sbucando da sotto un tavolaccio in una specie di spelonca, una misera e piccola capanna, molto spartana, con all’interno un gran-de camino, quattro sedie, una panca, un armadio e un grande giaciglio.

Angela si apprestò subito ad accendere il camino e la legna non mancava di certo.

Quella piccola baita, di proprietà della famiglia Bonandrini, arrivata in eredità dal nonno paterno Germano, era situata in Valpiana, a circa una ventina di minuti dalla Malga Lunga.

Era una vecchia stalla, parzialmente ristrutturata ed in una zona fantastica: sul retro un pauroso strapiombo sulle rocce e davanti ed intorno estesi e pianeggianti prati verdi.

In tempo di pace, solitamente era meta di scampagnate per la famiglia, soprattutto estive.

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CAPITOLO II Remigio, ovvero il partigiano Orso “Questo per ora è il tuo rifugio”, esordì Angela, “per qualche tempo ti porterò da mangiare io e tu aprirai solo ed esclusivamente a me, dopo un segnale prestabilito. Poi vedremo come vanno le cose e si deciderà il da farsi.

Non ti devi mai azzardare ad uscire, poiché da queste parti, è da un po’ di tempo che il bosco brulica di camicie nere infami e maledette.

Se sospetti un pericolo, apri la botola e dopo averla richiusa scendi a metà tunnel dove prima abbiamo riposato e attendi.

Ma tu adesso dimmi da dove vieni e chi sei?”

“Mi chiamo Remigio”, rispose timidamente il giovane, “Remigio Corti e vengo dalla Val Camonica. Sono nativo di Breno ed i miei sono dei commercianti di formaggi. Scusa, non mangio da due giorni, ho una gran fame e soprattutto ho una gran sete.”

Angela, avendo già intuito tutto, aveva estratto da una bisaccia una specie di pagnotta, che ad un primo sguardo pareva dura e secca, una bottiglia d’acqua ed un salame.

Il salame però, almeno quello, aveva un bell’aspetto, tant’è vero che in quattro e quattr’otto Remigio lo divorò quasi per intero.

Affamato com’era divorò pure la pagnotta, nonostante questa fosse di qualche giorno addietro, sotto gli occhi compiaciuti e divertiti della ragazza.

“Qui sei al sicuro”, proseguì Angela, “non è la prima volta che nascondo qualcuno quassù. Raccontami di te e di cosa sta succedendo dalle tue parti.”

“Innanzitutto”, proseguì Remigio, “ormai siamo a fine Giugno e vorrei sapere se sei a conoscenza che l’esercito alleato è già sbarcato ad Anzio a gennaio e, anche se a fatica, sta avanzando e ci sta aiutando enormemente. La gente ha ritrovato un po’ d’entusiasmo.

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Purtroppo ti do anche la notizia del massacro delle Fosse Ardeatine a Roma, a Marzo, ad opera di quei maledetti Tedeschi: 335 tra civili e militari uccisi in una delle tante grotte della Capitale.”

“Questo lo sapevamo”, lo interruppe Angela, “continua”, e Remigio aggiunse, anche con una certa carica di entusiasmo, che il 6 Giugno era iniziato un grande sbarco in Normandia, a Nord della Francia, da parte degli Alleati con grande successo. Avevano preso nettamente di sorpresa i Tedeschi. “Sono alle porte, dobbiamo aver fiducia!”, concluse il ragazzo.

Remigio era un bel ragazzo, alto e di corporatura atletica, capelli neri alla Umberto, occhi verdi, disse di avere 22 anni ma, con la barba non fatta da qualche giorno e la stanchezza in volto, mostrava più degli anni che aveva, tant’è vero che Angela, interrompendolo e sorridendo quasi a schernirlo gli disse: “Ehi, bell’uomo, non me la racconti giusta sai...ne ho venti io e tu appena ventidue e sembri molto più vecchio… ma va là Don Giovanni, a chi la racconti?”

I due, squadrandosi incoraggiati da una certa sintonia e simpatia naturali, si misero a ridere di gusto.

“Piano piano, non esageriamo coi rumori”, disse Angela interrompendo le reciproche risate, “continua tranquillo il tuo racconto. Ho ancora un paio d’ore buone di tempo poi rientrerò a casa, anche per non preoccupare mia madre.”

“Sono ricercato per un episodio accaduto a Lovere Martedì 7 Dicembre 1943 e da allora sono sempre in fuga, braccato sulle montagne. Con una trentina di amici, attaccammo la sede del Fascio, la Caserma dei Carabinieri e l’Ilva, compresa la postazione del Centralino Telefonico.

Facemmo irruzione con i passamontagna, per paura di essere riconosciuti. Portammo via la Cassa dello stabilimento Ilva perché doveva servire per equipaggiare e nutrire le nostre squadre sui monti, lasciando però le paghe per gli operai.

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Nell’azione fu ucciso il Segretario politico del fascio, Paolo Cortesi che aveva tentato di scappare. La reazione dei fascisti non tardò e all’inizio di dicembre appunto dello scorso anno rastrellarono le montagne del Rifugio Rodari, dove avevamo riparato.

Dopo esserci nascosti per un breve periodo, nelle grotte di Trello, sopra Lovere, nelle quali si entrava strisciando carponi, seppi di tanti ragazzi fatti prigionieri.”

Remigio proseguendo nel suo racconto, riferì poi: “il 20 Dicembre sempre dello scorso anno, un Lunedì, se non sbaglio, ero con mio padre a Sovere con l’incarico di consegnare una partita di formaggi di nostra produzione ad un negozio del centro e mentre scaricavamo la merce, incontrai Lino, un amico d’infanzia, col quale scambiai due parole ed un frettoloso saluto.

Appena dopo, un capo gruppo delle camicie nere di Lovere, conosciuto come il “Baüscia”, passandomi davanti, squadrandomi e puntandomi un mitra addosso, mi disse: “Ma tu non eri uno dei partecipanti alla rapina all’Ilva lo scorso 7 dicembre?”

“Lì per lì cercai di buttarla sul ridere, rispondendogli: ma va là, non so far male neanche ad una mosca e lavoro tutto il santo giorno, lo chieda a mio padre.”

“Occhio”, proseguì il fascista abbassando l’arma, “occhio ragazzo, perché al sottoscritto, a Renzo la camicia nera più furba, smaliziata e migliore della Val Cavallina, non la si fa. Occhio!” e così dicendo s’incamminò verso la casa del fascio al centro della piazza.

Mio Padre, spaventatissimo, capita la situazione, in fretta e furia, frugò in tasca, mi diede un po’ di soldi e mi disse: “Vai Remigio.

Vai, per carità, fai terra bruciata all’istante.”

Abbracciai mio Padre Anselmo, che tremava come una foglia e in quell’abbraccio capii tutto il suo amore e tutta la preoccupazione di padre. Mi voltai e vidi di fronte a me la Chiesa del piccolo paese ed in men che non si dica, la raggiunsi ed entrai.

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Mi venne incontro il Parroco, Don Giovanni Valsecchi, che conoscevo già e che Dio l’abbia in gloria, il quale avendo seguito tutta la scena da una finestra della Canonica ed intuendo subito il da farsi, mi diede un giaccone pesante, uno zaino con alcuni viveri ed indicazioni sul come raggiungere la Malga Lunga in Valpiana, sopra Gandino, luogo in cui si era già installato un nutrito gruppo partigiano.

Appena fattosi buio, sgattaiolai da una porticina sul retro della Canonica, ma le maledette camice nere in agguato spararono vari colpi di mitra ad altezza d’uomo, senza che riuscissero a colpirmi ed io più veloce di una lepre li seminai.

Dopo due giorni di continuo girovagare fra i monti, sentendo l’abbaiare di un cane e sentendomi ancora braccato, nel tentativo di cercare un riparo, vidi casa vostra e saltando il muretto del vostro orto, bussai alla vostra porta, sperando nella buona sorte ed eccomi qua.”

Remigio, proseguì tutto d’un fiato… “Penso che tu abbia saputo anche dell’eccidio di Lovere, di quei poveri tredici ragazzi ammazzati il 22 Dicembre scorso”. “Sì”, lo interruppe Angela, “sappiamo tutto. Penso tu abbia capito che anch’io faccio parte della Resistenza. Sono in un gruppo della Val Gandino e aiuto chi viene a rifugiarsi da queste parti.” Ridendo scherzosamente, porse la mano al ragazzo dicendogli: “Piacere sono la Partigiana Eva” e lui di rimando: “Molto piacere e molte grazie, sono il Partigiano Orso e vorrei che ci chiamassimo con questi nomi, almeno fin quando siamo in azione”, pronunciando queste parole quasi come se fossero la firma di un patto.

Nello stringersi amichevolmente la mano, per un momento, scordarono i tragici momenti che erano costretti a vivere, a causa di quella maledetta Guerra e sorridendo, guardandosi fissi negli occhi, furono come attratti l’una verso l’altro per un non so che di simpatia a pelle e nell’avvicinarsi sempre più, si scambiarono un timido bacio sulle guance.

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Quel bacio breve e frettoloso parve invece ad entrambi lungo, romantico e piacevolissimo.

Subito Eva si riebbe dalla stretta di mano e da quel bacio galeotto e si tuffò in fretta nella botola per il ritorno, scomparendo subito alla vista di Orso.

Poco dopo Eva ritornò, ripetendo ad Orso che in caso di pericolo reale, doveva buttarsi nella botola chiudendo il coperchio con sopra il tappetino. Poi chiese ad Orso se avesse armi. “Una pistola”, disse lui ed Eva, estraendo dal tascapane una mitraglietta “Variara”, gli disse: “Tieni anche questa. Ti può essere utile. La sai usare no?” e dopo aver avuto un sì, come risposta, stava per andarsene, quando, prima di ributtarsi nel tunnel, colta da dubbi gli gridò: “Hai capito tutto? Sei sveglio?”, salutandolo e ridendo forte, facendo però in tempo a sentire e a dire il vero, con una certa soddisfazione, l’ospite che assonnato, bisbigliava, “Sì, sì, grazie Eva, a domani.”

Era ormai buio fitto ed Angela prima di entrare in casa incontrò Gildo, il figlio del suo Padrone.

Gildo stravedeva per lei, ma, purtroppo per lui, non era corrisposto.

“Angela”, l’apostrofò Gildo, “vai in giro a quest’ora?”

“Buonasera Gildo. Sono uscita a trovare nonna Marietta, la signora anziana che abita in fondo alla via, portandole anche delle uova”, rispose pronta Angela e i due si scambiarono freddamente una buona serata.

Entrata in casa e approfittando che la mamma stava mettendo a letto i suoi fratellini, si sedette a tavola per mangiare.

Quel giorno la mamma aveva preparato uno dei suoi piatti preferiti, le polpette di carne con insalate varie del loro orto, che Angela, solitamente tranquilla nel mangiare, divorò in fretta.

La casetta, di proprietà della famiglia, era situata nella zona degli opifici nel fondo valle di Gandino, sulla strada per la Valpiana, a 31

quasi dodici chilometri dalla Malga Lunga, ed era frutto di molti sacrifici dei suoi genitori.

La cucina era spaziosa ed ospitale, un grande camino sempre acceso dal mattino, sul quale ardeva sempre legna povera di pino, vecchio, più che antico, vissuto, un tavolo rettangolare ampio al centro, delle sedie robuste, fatte a mano dal nonno Germano.

Avevano poi una piccola stalla con due mucche, razza frisona, un asinello, un maialino, due caprette, una decina di galline, il fedelissimo pastore bergamasco di nome Argo ed un piccolo appezzamento di terreno coltivato ad orto.

C’erano quindi uova, latte e burro in abbondanza, c’era del formaggio, insomma non se la cavavano poi così male.

Angela aveva appena terminato di mangiare quando dalla finestra vide passare Tripolino(1). Lo chiamò e lo invitò in casa chiedendogli se avesse mangiato. Egli rispose col suo consueto sorriso scanzonato: “Oggi ancora no, Eva” e pronunciò il suo nome talmente piano che ad Angela sfuggì una risatina.

“Bravo Tripolino”, commentò, “sempre prudente e allora questa sera mangi da noi.”

Dopo averlo ben rifocillato, gli raccontò gli ultimi avvenimenti: l’arrivo di Orso, il nascondiglio segreto. Gli chiese di aiutarla, perché era solito, nelle sue numerose e quotidiane scorribande, transitare da Cima Valpiana alla Malga Lunga e tutti i monti circostanti.

Tripolino, dopo aver chiesto ancora informazioni ad Eva sul nuovo ospite in baita, da piccolo partigiano fedele fino alla morte, rispose prontamente: “Agli ordini Eva” e in un battibaleno sparì.

Angela, nei giorni a seguire, sul posto di lavoro, non fece parola con alcuno dell’ospite partigiano, era pericoloso a quei tempi, non tutte erano persone fidate e non tutte facevano parte dei gruppi di Resistenza.

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La mattina del 29 Giugno 1944, un Giovedì, per tutta la Val Gandino ed in particolare nelle zone del Monte Farno, della Valpiana, del Pizzo Formico in Peia, di Montasei, del Monte Croce di Leffe, c’era un via vai di camionette tedesche e pattuglie a cavallo, affiancate da fascisti Italiani e quindi Angela non riuscì, o meglio non rischiò, per qualche giorno, di raggiungere Orso alla capanna. Tuttavia non era preoccupata, perché di viveri ne aveva in abbondanza, importante era che lui non azzardasse una uscita allo scoperto.

Orso, dopo l ’ultima visita di Eva, stette ben rintanato nel suo nascondiglio segreto e soprattutto, stanco delle fatiche dei giorni passati e trastullato dal canto allegro degli uccelli nel bosco che assaporavano ormai l’atmosfera estiva, sprofondava spesso in lunghi sonni ristoratori.

Non fu facile trascorrere quei giorni nel dolce far nulla, senza un libro o un giornale da poter leggere, senza alcuna notizia degli avvenimenti bellici in corso.

Ogni tanto spiava all’esterno da una finestrella posta sopra il camino cercando sempre di non far rumore, ma nessuno passava, nemmeno il ragazzo di cui Eva gli aveva parlato, Tripolino. Era nel silenzio assoluto, interrotto solo dal rumore, dai versi o dai lamenti di qualche animale di passaggio.

Nel frattempo, in quell’ estate del 1944, la Resistenza armata all’oppressore si stava enormemente espandendo, il pressapochismo dei primi tempi dopo l’8 settembre 1943 stava cedendo progressivamente il passo a forme più organizzate, anche se non mancavano le contrapposizioni e le diversità; fu la stagione dell’ottimismo, dell’illusione che la guerra stesse per finire per l’effetto dell’avanzata Alleata.

La Resistenza bergamasca, in quel periodo, mise al suo attivo alcuni significativi successi militari (Fonteno – Corna Lunga e Passo della Manina).

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Il successivo affievolirsi e indebolirsi dell’offensiva alleata facilitò l’organizzazione dei rastrellamenti nazifascisti e anche la Resistenza bergamasca finì per subire pesanti sconfitte (Petosino, Malga Lunga, Cornalba).

Vogliamo ricordare alla popolazione della Val Gandino i fatti avvenuti proprio in Gandino, Martedì 11 luglio 1944 quando furono uccisi due Partigiani, Giovanni Cazzaniga e Tolmino Fontana.

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L’uccisione a Gandino di Giovanni Cazzaniga (Maistrak) e Tolmino Fontana (Magnanino)

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