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Gaetano Paxia a cura di Elena Paxia
1. Naro è la mia città Sono nato a Naro, un’antichissima cittadina siciliana appollaiata in collina. Dista appena pochi chilometri dalla vallata dei templi greci di Agrigento. Abitavo in via Gaetani. In passato ci abitava anche un certo Conte Gaetani. In seguito il conte emigrò altrove, e vi rimase principalmente la povera gente. Ancora oggi è fortemente radicata in me la presenza di quella cittadina, di quella gente, di quella strada, della mia casa. Ci sono vissuto in un periodo di miseria e di rovine: poco prima, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale. Nell’intimo si resta sempre legati a persone e cose della nostra breve infanzia. La mia strada, come quelle adiacenti alla mia, era vecchia di secoli e abitata da famiglie in gran parte poverissime. Spesso, le famiglie vivevano in abitazioni senza finestre, senza elettricità, senza acqua corrente, senza fognature. Molte case erano costituite da un unico vano. Prendevano luce dalla porta, sempre spalancata. Dentro, solo pochi mobili e i ritratti degli avi, in bianco e nero, appesi alle pareti. Attorno, niente stridore di moto o di macchine: semmai il calpestio di capre e di pecore con le campanelle tintinnanti appese al collo, e il verso felice delle galline. Ogni tanto, per la via passava qualche traballante carrettino siciliano, trainato da un vecchio asinello malandato. Il raglio dell’asino avvisava che un venditore era già sulla strada. Ed ecco la voce cantilenata, araba, del piccolo commerciante, che annunziava la vendita di sale, di limoni e di poche verdure locali, cavoli e cicoria. Altri piccoli commercianti passavano, con le scarpe consumate per il camminare, gridando le loro merci, che pochi compravano, dopo aver tirato sui prezzi. Secoli di pazienza erano presenti in quelle strade, assistite giorno e notte dalla miseria. Qualche donna allevava due o tre polli dentro una gabbia posta accanto alla porta di casa. La sera però, quando scendeva il gran silenzio sotto la luna, la donna trovava un posto in casa anche per i polli. Facevano parte della famiglia. Nelle vicinanze della mia strada, tanti artigiani, falegnami, fabbri e ciabattini, lavoravano di sega e di martello. Spesso mi soffermavo davanti alla bottega del fabbro. M’incantava il fuoco e il fumo della forgia, il suono del ferro battuto sull’incudine da un uomo forte, sudato e scuro in faccia. Un pezzo di ferro in pochi minuti prendeva la forma di fiore, pronto per ornare la ringhiera di un balcone. Che incanto! E poi c’eravamo noi: una baraonda di ragazzini, un po’ selvaggi, con addosso abiti gualciti e malandati. Sulla strada inventavamo tanti giochi, con fantasia infinita. Compagni miei di giochi erano i ragazzi vicini di casa, oltre ai miei fratelli. Amavo anche giocare con mia sorella Elena, più piccola di me. Quante volte, nei nostri giochi, lei era la Regina e io il Re! 13
I ragazzini eravamo tantissimi. In quei tempi, le famiglie gareggiavano nell’avere più figli. La vita si viveva come si prendeva il treno o i bus affollati, facendosi spazio a gomitate, specialmente durante la guerra. La vita non era facile. Anzi, era terribile per tutti. Ogni tanto si tornava a casa sudati, con le facce rosse e sporche, quando si faceva urgente il richiamo della fame e si sperava di trovare un po’ di cibo. Io, mia sorella, i miei fratelli, faticavamo, giocavamo, qualche volta piangevamo, durante quelle lunghe ore di separazione da mia madre, che era al lavoro. Ma poi calava il buio e mi pareva che potesse coprire le miserie della vita, di quel mondo in cui non era assolutamente facile vivere. La mattina, quando il sole vinceva il buio, con il cerchio di luna ancora in cielo, ci stropicciavamo gli occhi e uscivamo dalle case. Era bello sentire l’aria fresca sul viso. Eravamo pronti a scoprire cosa ci riservasse la vita, finché la sera non scendeva tranquilla sulla nostra stanchezza. Ho lasciato il mio paese più di cinquant’anni fa. Non ha mutato il suo aspetto: uguali gli odori, i rumori, l’antica trama di strade. Ogni tanto il richiamo della mia città si fa più acuto e dolente. Il mio compenso, dopo qualche anno di fatiche altrove, è di tornarci. Almeno per un giorno o due. Ogni narese lontano da Naro spesso è duro, triste e senza sorriso. Naro resta la nostra realtà, limitata e precisa. La nostra vera casa. E la città sembra offrirci la sua calda premura. Essa sa tutto di noi: le antiche pene e le ultime gioie. Conserva i nostri ricordi. Nessuno s’inganni: Naro è un paesino, mezzo addormentato sulla collina. È vecchio, come una casa a lungo disabitata e tenuta su col respiro dell’uomo. Il sole spietato, il vento, l’acqua, il tempo, hanno attaccato la sua pietra dorata. L’estraneo, vedendola per la prima volta, ne proverebbe un’impressione di chiara decadenza: molti poveri abituri, strade assolate percorse da uomini dall’aria calma e stanca. Tutto a Naro sa di antichità e tutto s’impone alla venerazione del visitatore. Il tempo e la morte appaiono come naturali e leggeri. A maggior titolo di gloria, i naresi ti indicano il castello dei Chiaramonte. In cima alla collina, sopra pareti di roccia calda, si apre a tutti i venti. Gli occhi si fanno più grandi per ammirare il vasto paesaggio circostante che si carica, verso il tramonto, di lontananza e di rimpianto. Guardando il paese da lassù, esso acquista una lucente purezza. Non sembra più corroso e quasi cancellato dal tempo. Ovunque domina una calma che invita il visitatore alla confidenza e all’abbandono. Numerose antiche chiese finiscono di invecchiare al loro interno nel silenzio e nel buio, dietro facciate di barocca rusticità. Dalla piazza principale, lievemente animata dalla presenza di guardie e impie14
gati municipali, serpeggia il Corso. Fitto di negozi in passato, imponente nei ricordi dell’infanzia, oggi inizia come una straduccia stretta, ingombra di gente. Da qui iniziava la “passeggiata” fino al santuario di S. Calogero: un movimento di gambe e braccia, per mettere insieme i pezzi della giornata, mentre i bimbi guizzavano da ogni lato. In passato, numerose madri sedevano lungo il Corso, davanti alle case, con in braccio bambini avidi, vitali e sempre affamati. La strada si fa più comoda e spaziosa, avvicinandosi alla chiesa del santo Patrono, San Calogero. Infine, laggiù, in fondo, nelle vicinanze del Calvario con la grande croce, si apre l’ampia balconata sulla campagna, da cui si gode un fresco delizioso. E il sole non finisce mai di tramontare sui sogni inappagati.
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2. Chi sei? Era lento, il treno a vapore. Ansimava attraverso la campagna sudoccidentale della Sicilia. Dopo tante ore, lunghe e lente come l’agonia, mia madre e io giungemmo a destinazione. Il sole calava all’orizzonte, velato di nubi rosse e viola. Oleandri, grandi come alberi, ornavano la piccola stazione del paese sconosciuto. Il piccolo capostazione capì che eravamo forestieri e ci salutò. Ci lavammo alla fontana. Alcuni frammenti di carbone erano rimasti impigliati fra i nostri capelli. Altri si erano sciolti col sudore della nostra faccia, rendendola scura. Mia madre faticava a portare il materasso, richiesto dall’Istituto, che avevamo spedito qualche giorno prima. Era già pronto al nostro arrivo, nel deposito della stazione. Io sulle spalle portavo un sacco di stoffa grezza, che conteneva il mio corredo: biancheria personale e qualche lenzuolo. Anche un grembiule nero, segnato col numero 59. A ogni collegiale veniva assegnato un numero. Io sarei stato il numero 59. Ci arrampicammo in silenzio per gli scaloni disuguali della collinetta, scavati nella roccia arsa e grigia. In cima, una grande ringhiera di ferro girava attorno a una cappella sormontata da una cupola verde. La cappella si affacciava verso una balza scoscesa. Il cancello di ferro dell’istituto era chiuso. Per farci sentire fummo costretti a battere forte con una pietra. Venne ad aprirci un frate basso, mingherlino, col naso adunco e le guance rosse e viola. Egli volse un’occhiata a me, capì che ero un aspirante collegiale e con voce nasale mi chiese: “Chi sei?” Sotto un cielo di inizio d’autunno, davanti a quel cancello di ferro, capii che la mia infanzia era finita. Pensando al mio passato, entrai in un corridoio lungo e silenzioso. Un cane abbaiava, in lontananza.
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3. La signorina Ignazia La signorina Ignazia era una donna anziana, bassa e corpulenta. Portava una folta peluria sul labbro superiore. Lei stessa, scherzando, diceva che i suoi baffi erano più belli di quelli della sua gatta, Regina. Chiamava così la sua micina perché era restia a farsi avvicinare. Se ne stava orgogliosamente appartata, in un angolo del salotto o della cucina, e guardava la padrona con sussiego, seduta sul posteriore, come una regina in trono. Solo quando la Signorina le diceva: “Il tuo cibo è pronto, Regina”, solo allora la gattina, a passo felpato, si avvicinava alla sua scodella e mangiava con calma signorile. La Signorina era mora di pelle. La sua faccia, allungata, era solcata da due lunghe rughe verticali ai lati del naso, un po’ grosso e adunco. Sotto i suoi occhi comparivano due pesanti borse. Spesso erano ricoperte di lacrime. Lei doveva avere avuto un bel viso in gioventù. Una volta vidi una sua vecchia foto e mi parve bellissima. La Signorina pareva sempre in lutto. Il colore prevalente dei suoi abiti, infatti, era il nero o il blu scuro. Sulla testa portava spesso un foulard con fiorellini rossi su fondo blu scuro, annodato sotto il mento. Aveva i capelli quasi completamente scuri, pur non essendo più giovane. Ciocche di capelli spuntavano da sotto al foulard, come ali di cornacchia. I suoi occhi io li ricordo acquosi e di un colore a strati grigio-marrone. Abitava un piano sopra la mia casa. Quando voleva che andassi a trovarla, faceva calare dal balcone, fino all’altezza della porta di casa mia, un panierino costituito da fascette di canna intrecciate. Io capivo. Facevo di corsa le scale e la raggiungevo. Faceva parte dei nostri accordi. Io ero un ragazzino di dieci o undici anni. Che età avesse lei, non lo so. Forse settanta. La sua età, per me, non aveva importanza. Era solo una donna anziana, che mi voleva bene. Si chiamava Ignazia, ma per tutti i vicini di casa, lei era la Signorina. Se non ero in casa, al mio ritorno, mia madre o i miei fratelli mi avvisavano: “Ha chiesto di te la Signorina”, oppure: “fai un salto dalla Signorina”, e io capivo che si trattava di lei. La signorina Ignazia era una persona gentile, cordiale e affettuosa con me. Amava tantissimo i fiori. Ai due angoli del balcone teneva due grandi vasi di gerani, che trasbordavano dalla ringhiera. Ne andava orgogliosa. “Hai notato”, mi diceva sorridendo, “che i petali di questi gerani sono rossi, con un filetto bianco, come un ricamo?” Voleva che anch’io mi appassionassi ai suoi fiori. Questo non avvenne mai, ed era un suo piccolo cruccio. Oggi ne sono pentito. In quel tempo, io ero quasi indifferente alla bellezza dei fiori. Odiavo le esaltazioni esagerate dinanzi a una certa varietà o a un particolare colore di un fiore. Mi parevano solo 17
strani vezzi da ricchi. Quando la Signorina annaffiava i fiori del suo balcone, abbondava con l’acqua e spesso, quando ci trovavamo sotto, annaffiava anche me o i miei fratelli. Io allora alzavo lo sguardo. Mi piaceva vederla lassù, appoggiata al davanzale. Rideva, con la bocca spalancata e un po’ sdentata, quasi a scusarsi per averci bagnati. Da lassù, poi, mi gridava: “Vieni, canaglietta. Devo darti una cosa.” Andavo a trovarla frequentemente. Anche con mia sorella. Specialmente l’ultimo anno, prima che io mi trasferissi in un’altra città ed entrassi in un collegio, per continuare gli studi. A quel punto, ero già grande. Avevo quasi dodici anni. A dire la verità, certe volte mi annoiavo un po’ a stare con lei. Specialmente quando mi narrava, per la centesima volta, gli stessi fatti, quasi sempre tristi, del suo passato. Storie di parenti e amici, ai quali aveva fatto tanto bene. Da loro si aspettava un minimo di riconoscenza, e invece l’avevano profondamente delusa. Mi narrava poi di una sua parente ricca. Si chiamava Loredana. Una donna leggera e sofisticata. La Signorina le aveva prestato danaro, privandosi lei stessa del necessario, ma non aveva ricevuto un soldo indietro. Eppure, quella signora spendeva e spandeva. “Se la sciala, di qua e di là,” diceva la Signorina, “dimenticandosi del debito.” Poi c’era la storia di Arturo. Non capivo bene chi fosse. E mi parlava di quando lei era andata a Palermo, la più bella città della Sicilia. Questa, in parte, era una storia bella. Mi parlava della città, del Palazzo Reale e della Cattedrale, una chiesa meravigliosa e antichissima. Dentro c’erano le tombe di antichissimi re, e le reliquie di Santa Rosalia. Poi mi raccontava di Villa Giulia, dei ristoranti e dei caffè con i camerieri in livrea. Qualche volta, mentre raccontava, prendeva in mano la solita fotografia di Arturo. Mostrava un uomo alto, vestito di un bell’abito scuro, con un cappello in testa e una sigaretta in bocca. Ci piangeva sopra, dicendo: “Maledetto, benedetto, maledetto! Perché, perché mi hai ingannato?” Io non sapevo mai se dovessi odiare quell’uomo, perché a volte lei, prima di riporre la fotografia, la baciava. Il ricordo di quell’uomo era continuo. Era uno dei suoi mali. Dopo avermi parlato, aggiungeva sempre che dovevo fare tesoro di quello che mi diceva. “Per la tua istruzione e per non prendere certe cantonate nella vita!” E insisteva: “Dimmi che hai capito. Così posso dire che non ho perso il mio tempo.” La Signorina viveva da sola, in una casa molto più grande e più bella della mia. Noi eravamo in cinque in una casa costituita da una stanza senza finestre, più uno sgabuzzino. Avevamo pochi mobili. Le sedie erano spaiate. 18
La casa della Signorina era tanto più grande. Ricordo il salotto, col suo bel tavolo intarsiato. Mi piacevano tanto le gambe lavorate di quel tavolo, che finivano a forma di testa di animale. Mi piaceva il suo bel divano, e le sedie a braccioli. Stanze da letto, ce n’erano due. C’era inoltre una grande cucina, con una bella credenza decorata, e una batteria di pentole completa. La maggior parte delle pentole, diceva la Signorina, erano ancora quelle di una sua vecchia zia, morta da tempo. La cucina si apriva sul giardino. Mi piaceva in modo particolare la sua stanza da letto, quella dove dormiva lei, la Signorina. Era più pulita della chiesa, fresca, profumata, spaziosa, tappezzata di carta a piccoli fiori chiari. Era ben ammobiliata, con un bell’armadio a specchio. La testiera del letto, in metallo, aveva due angioletti dipinti, uno a destra e l’altro a sinistra. Incoronavano una bellissima donna giovane con i capelli lunghi, sciolti. La donna era quasi nuda. Sdraiata su un fianco, portava tanti veli trasparenti. Al muro pendeva la cosa più importante per lei, l’acquasantiera, che doveva essere sempre piena di acqua benedetta. Se mancava l’acqua santa, il diavolo ne approfittava per introdursi in quella casa, così diceva la Signorina. Ricordo poi, due grandi rosari e un quadro della Madonna Addolorata, con la spada infilzata sul petto. C’era anche una piccolissima angoliera-libreria. Conteneva libri di devozione, il Vangelo, pochi libri di poesia, racconti, qualche romanzo. Ricordo solo qualche volume, qualche autore: poesie di Aleardo Aleardi e di Ada Negri, un romanzo di Liala, racconti di Luigi Capuana… La Signorina mi diceva che me li avrebbe prestati quando sarei stato più grande: “Quando sarai più avanti con gli studi.” I quadri dell’altra stanza da letto, dove spesso dormiva la nipote, erano diversi: una natura morta con frutta e cacciagione e due ritratti cupi, con la cornice ovale, in bianco e nero, di parenti anziani. La nipote diceva che le persone di quei ritratti, con le facce torve e piene di rughe, le facevano paura. La Signorina la pregava di avere rispetto per gli avi morti, ma finiva con il prometterle che, un giorno o l’altro, li avrebbe tolti. Li avrebbe fatti mettere nella propria stanza. La Signorina voleva che andassi a trovarla spesso. “Fatti vedere ogni tanto” mi diceva. “Tu lo sai che ho bisogno di certi piccoli aiutini.” A distanza di tempo, penso che, vivendo da sola, avesse anche bisogno di un po’ di compagnia, ma questo lei non lo avrebbe ammesso mai. Spesso mi ripeteva che a casa sua non si sentiva mai sola. “Io non mi sento mai sola, ricordalo, caro. Ho l’Angelo Custode, sempre al mio fianco, a farmi compagnia.” Quando arrivavo nella sua casa, fresca e in penombra, quasi buia, spesso avevo la camicia appiccicata sulla schiena, la faccia sudata e rossa di sole, di giochi e di grida. Lei mi asciugava con un lembo del suo grembiule scuro, da cucina. Operazione che doveva ripetere, quando ritornavo dopo essere andato, di corsa, a farle delle piccole spese. 19
Ecco, delle spese che le facevo non era mai del tutto soddisfatta. Specialmente del pesce, che le sembrava sempre costoso e poco fresco. Quando lei diceva: “Vediamo cosa hai comprato? Intanto questo pesce...” io aggiungevo: “è costoso e poco fresco.” Allora lei si metteva a ridere e fingeva di inseguirmi per la cucina. E mi chiamava “birbantello”. Beh, si lamentava anche per altre cose. Si riteneva affetta da molte malattie e incompresa da tutti. “Nessuno mi crede”, ripeteva, trascinandosi per la casa. “Solamente io so quello che ho… e la Madonna Addolorata.” Sentiva che tutti la trascurassero solo perché non era più giovane e bella: “Cosa vuoi,” mi diceva, “ormai sono anziana, malandata, un po’ grassa e con una mezza cateratta a un occhio. Chi vuoi che si interessi a me? Anche tu, spesso, non ti fai vedere. Per giorni interi. Non ti viene in mente il pensiero: Chissà come sta la Signorina? Vado a vedere se è ancora viva. Se necessita di qualcosa.” Certe volte smaniava, muovendosi per la casa, specialmente la domenica. Al suono delle campane le veniva voglia di uscire, di andare in chiesa, e mi chiedeva di accompagnarla. Si metteva la cipria sulle guance, si passava il rossetto sulle labbra, si ravviava i capelli, ma poi se ne pentiva. Diceva che era ingrassata, non le stavano i vestiti. O se la prendeva con le scarpe che non le entravano. Diceva che aveva i piedi gonfi, camminare per lei era un martirio. Invano avevo atteso di accompagnarla in chiesa. Allora ci andavo da solo, correndo per non arrivare in ritardo, perché ero chierichetto. Al mio ritorno mi faceva tante domande: “Chi ha celebrato la messa? Cosa ha detto don Gioacchino nella predica? Chi c’era in chiesa?” e così via. Un giorno mi accorsi che trascinava le gambe senza sollevarle e stentava a piegarsi, senza un appoggio. “Eh, figlio mio, i dolori reumatici mi tormentano, notte e giorno. Sono l’espiazione dei miei peccati.” Per fare i suoi bisogni, un giorno, mi pregò di prestarle il braccio, per appoggiarsi. Mentre sollevava le lunghe gonne e le sottovesti, mi ordinò: “Girati!”. Lo disse sorridendo, prevenendo con bonaria malizia la mia curiosità. I dolori la tormentavano. Quasi mai usciva di casa. Non riuscire ad andare in chiesa per la messa, era il suo cruccio maggiore. Il parroco ogni tanto andava a trovarla, per ricevere la sua confessione e comunicarla. Le era grato per il lavoro che in passato aveva svolto per la parrocchia. In preparazione alla mia Prima Comunione la Signorina volle aiutarmi con il catechismo. “Ti spiego e ti faccio ripetere le risposte del catechismo. Così fai bella figura con suor Gabriella” (la mia maestra di catechismo). “Cosa credi,” mi disse, “quando ero più giovane, per anni, ho insegnato il catechismo ai bambini della parrocchia e ricamato alcune meravigliose tovaglie, per l’altare maggiore della Matrice.” 20
Spesso concludeva la conversazione in lacrime, dicendo: “Ormai sono diventata inutile, un peso anche a me stessa.” Io le dicevo allora che non era vero e che era bravissima. Era capace di fare molte più cose di tutte le persone che conoscevo. Mi abbracciava e mi strinse al suo petto, floscio e riposante. Si lamentava, è vero, ma credo che ormai la Signorina si fosse rassegnata a vivere sempre in casa. Con quei ritmi sempre uguali. Con quelle regole antiche e sicure che le erano state trasmesse e a cui la vita l’aveva costretta. Si lamentava maggiormente degli inganni, dei torti subiti in tempi lontani e dei dolori che le procuravano l’insonnia e che erano una tortura. Certe volte la signorina piangeva, in silenzio, mentre passava lo straccio sui mobili. Non sempre ne conoscevo il motivo, anzi, lo ignoravo quasi sempre. Era molto contenta quando, all’improvviso, venivano a trovarla i nipoti, Armando e Maria. Mentre li attendeva, canticchiava per la casa certe vecchie canzoni: “Amato mio”, “Amor, amor, amor”. Poi si passava la cipria sulla faccia, il rossetto sulle labbra e indossava la collana di perle. Allora in casa sua si respirava aria di festa. Lei accoglieva festosamente anche gli amici dei nipoti, che cantavano, bevevano e giocavano a carte. Per loro mi mandava a comprare i taralli e il marsala speciale, al Bar-Pasticceria Contrino, in piazza Garibaldi. Diceva che odiava circondarsi di vecchie signore, più malate e lamentose di lei. “È bello avere attorno tanta bella gioventù. Portano allegria e mi ricordano i vecchi tempi. Quando anch’io ero una giovane ragazzina, sempre allegra.” Una volta, su richiesta insistente degli amici di Armando, si mise addirittura a ballare una specie di tarantella, ritmata dai presenti con il battito delle mani. Faceva dei passi avanti verso il centro e poi dei passi indietro, tenendo le mani ai fianchi. I ragazzi l’applaudivano. Lei era sudata, stanca, inebriata. Un tardo pomeriggio, mentre il sole in lontananza emanava gli ultimi rossi, vividi bagliori e la luce del crepuscolo sovrastava la via. la Signorina mi condusse nella sua stanza in penombra. Tirò fuori da una scatola rotonda nascosta nel vecchio armadio a specchio, un grande, bel cappello verde con larghe tese a onde, ornato sopra con delle ciliegie rosse, di stoffa. “Guarda”, mi disse con la voce rauca e con gli occhi umidi, “me lo mettevo da giovane. L’ho indossato una volta a Palermo. È stato un regalo di Arturo.” Mi chiese se mi piacesse. Io risposi che di cappelli così belli non ne avevo visti mai. Guardandosi allo specchio, fece dei passi lenti per la stanza. Ancheggiava, con la faccia in su e la bocca chiusa, a punta, volta verso l’alto, a sinistra. Quindi si girò con grazia, e tornò indietro. Si dilungò davanti all’armadio per qualche istante ancora e appoggiò la testa sullo specchio del mobile. Rimase così per circa un minuto, poi alzò il capo ed esclamò, sconsolata: “Arturo, come sono diventata 21
vecchia e brutta! Non venire.” E si asciugava gli occhi con un fazzoletto blu, che teneva nella tasca del grembiule da cucina. Era quasi buio. Ero triste e commosso anch’io. Volevo consolarla, dirle che era bella, insomma che non era brutta. Ma non trovavo le parole. Provavo solo disagio e pena. Quando piangeva, la sua faccia appariva più rugosa e gonfia. E oltre alla pena, non so perché, provavo un senso di colpa. Come se le sue contrarietà, le sue tristezze, dipendessero anche da me, dalla mia incapacità di esprimerle il sostegno di cui aveva bisogno. Allora, a testa bassa, piano piano, mi allontanavo. La Signorina pareva trovare consolazione parlando con Dio e con la Madonna. Aveva una semplice e profonda fede in Dio. Riteneva Dio un suo fedele, benevolo compagno. Sempre presente accanto a lei, in ogni angolo della sua casa. Pronto a seguire i suoi passi. Anche in cucina. Se qualcosa, per sua distrazione, si bruciava in padella o nel tegame, esclamava delusa: “Dio mio, Dio mio, perché hai permesso questo?” Ci teneva pure alle sue casseruole. Dio la doveva aiutare a mantenerle lucide. Mia zia Carmela e altri vicini di casa, la ritenevano una vecchia bigotta e puritana. Osservava quaresime, astinenze e digiuni. Su quelle ricorrenze era informatissima. E vigilava perché anche gli altri le osservassero. Una mattina, in occasione della festa di Santa Lucia, sotto al suo balcone passava tranquilla mia zia Carmela. La Signorina Ignazia la chiamò: “Carmela, ricordati che oggi è Santa Lucia e si può mangiare solo un po’ di riso o, meglio ancora, un po’ di cuccìa.” La cuccìa era grano novello bollito in acqua. La zia, infastidita, rispose che a casa sua il cibo scarseggiava. Digiuni e astinenze erano di obbligo ogni giorno, non solo il giorno della Santa. Subito dopo arrivò, lentamente, con le mani dietro la schiena, il cavalier don Mommino, che la Signorina stimava molto per la sua signorilità. Il Cavaliere, baciando lo scapolare di terziario francescano, si rivolse alla Signorina dicendo: “Gentilissima e amabilissima signorina Ignazia, io sono devotissimo della Santa siracusana, gloria della Sicilia tutta. Oggi è un vero godimento spirituale per me, fare digiuno completo in onore della nostra Santa.” La Signorina, nel vedere che il Cavaliere si professava più osservante di lei, mi parve rimanere un po’ male: “Bene, bene, Cavaliere. Fa bene a osservare il digiuno completo.” In ogni caso, bisogna dire, però, che la signorina Ignazia, per suo conto, faceva tanti voti e promesse di ogni tipo. Pregava a voce alta Dio, perché la illuminasse su ogni cosa. Sospirando, ripeteva sempre: “Gesù, Gesù, illuminami tu” oppure “Cuore Addolorato di Maria, sii la salvezza mia.” Una volta invitò anche me a fare una specie di voto. Insomma, una promessa, alla Madonna. Lei e io ci saremmo privati, per una settimana, di un po’ di cibo, di 22
qualche cibo a noi particolarmente gradito. Era sicura che in questo modo la Madonna le avrebbe lenito un fortissimo suo dolore al fondoschiena e le fitte dolorose tra il collo e la spalla. Accettai di associarmi alla sua promessa e le dissi, con aria di segretezza: “Però manteniamo il segreto su ciò di cui ci priviamo.” Gradì la proposta. Ma io di che cosa potevo privarmi? Rinunziai, forse, a mangiare qualche fico, qualche frutto di cui ero ghiotto. E per me sarà stato un vero sacrificio. Ricordo però, che lei durante quella settimana, mi trattava con una tenerezza particolare. Mi dava del cibo e, carezzandomi la testa, mi diceva: “Questo puoi mangiarlo, nonostante la promessa.” Certe volte, faceva scendere il panierino dal balcone verso il tramonto, quando calava la frescura. Mi chiamava e poi, quasi supplicandomi, con voce accorata, insisteva perché recitassi il rosario con lei: “Altrimenti mi addormento, se lo recito da sola, e la Vergine Santa non mi aiuta” diceva. Il sole tramontava rosso oltre i fichi del giardino, gli uccelli cominciavano a mettere la sordina al loro vigoroso cinguettio, i carri dei contadini tornavano lenti dalla campagna e i pipistrelli cominciavano a danzare nell'aria. Nella penombra della sua casa, lei mi appariva come una povera vecchia affaticata, mite e fragile. Si avvicinava a me. Stringendomi fortemente la mano, insisteva, tirandomi verso la poltrona: “Vieni, vieni, caro, siediti accanto a me.” Certe volte non sapevo come fare, dovevo badare a mia sorella che era piccola, mentre lei non voleva saperne di rosari. Anche se le dava una caramella, mangiata la caramella, si annoiava e mi chiedeva: “Quando finisce questo rosario?”. Quando potevo, evitavo di portarla con me. Se acconsentivo a restare, alla signorina brillavano gli occhi umidi. Tenendomi la mano sulla spalla, mi sorrideva con affettuoso compiacimento. Io, pazientemente, fissavo i grani che passavano fra le sue dita nodose. Spesso, in realtà, anche in mia compagnia, lei chiudeva gli occhi durante la recita delle Ave Maria. Si assopiva o addirittura sognava, con il rosario tra le dita. Io, allora, alla chetichella, mi allontanavo. In seguito le dicevo che ero andato via a preghiera conclusa. Ma non mi credeva. A volte, quando era proprio stanca, si sedeva sulla poltrona a braccioli e mi voleva accanto a sé: “Fammi compagnia”, mi diceva con la voce affaticata. Intanto mi porgeva qualcosa di speciale da mangiare o una caramella morbida, ricoperta di zucchero, alla menta. E mi raccontava certi fatti del suo passato. Tornava a parlarmi della bella città di Palermo, di Villa Giulia. Era una grande villa con parco vicino al mare, con tante palme e fiori di ogni specie. Mi parlava anche dei Quattro Canti e della bella via della Libertà, con tanti negozi meravigliosi, e dei suonatori di organino per le strade, a cui lei gettava una moneta dalla finestra dell’albergo. Loro facevano a gara a suonare per lei e, inchinandosi, la salutavano 23
togliendosi il cappello. Infine, lei ritornava sul discorso di Arturo. Non capivo bene se parlasse di una persona viva o morta. Non le mancavano momenti di allegria senza fondamento, o di cui io non capivo il motivo. Ora lacrimava, ora rideva, mentre guardava certe vecchie foto dei genitori, dei parenti, di lei giovane con il cappello sulla testa. Forse le ricordavano momenti tristi o belli, di quando era ragazza, pensavo. E sospirava… sospirava. Io mi sarei sentito vile, a sgattaiolar via mentre era così sofferente. Qualche volta era proprio depressa, avvilita, sfiduciata. Stava male e si riteneva abbandonata, anche da Dio e dai santi. Pensava di essere la donna più sfortunata del mondo. Pensava che tutti stessero meglio di lei e se la godessero, mentre lei sola era condannata a soffrire, come l’Addolorata ai piedi della croce. Secondo lei, stava meglio persino il suo canarino, in gabbia. Ecco, ancora non ho parlato di Carlino, il canarino. In cucina, appesa a un gancio, la Signorina teneva una gabbia per uccelli, con dentro un canarino giallo. Il povero uccellino, ora si dondolava su una minuscola altalena, ora beccava un po’ d’insalata, ora, agitando le piccole ali in quella piccola prigione, cantava meravigliosamente. Lo chiamava Carlino. Mi diceva che era quello il nome del signore che glielo aveva regalato, con tutta la gabbia. “Questo uccellino”, mi diceva, “forse è un incrocio di una canarina e di un cardellino.” Io non capivo. Né so, veramente, come facesse quel canarino a sopravvivere. Quando la Signorina faceva colazione, gli dava un pezzetto di biscotto. A pranzo gli metteva nella gabbia un po’ del suo cibo: rosso d’uovo, cicoria, cavolo, persino aglio. Gli dava anche un po’ carbone che, diceva, “gli disinfetta l’intestino.” E quando la voce del piccolo uccellino giallo le pareva poco squillante, gli faceva ingerire un pezzetto di cipolla. Si riteneva esperta. “So quello che faccio”, diceva, “ho letto un libro su come si allevano gli uccelli.” Spesso si intratteneva a parlare con Carlino: “Beato te, Carlino”, gli diceva, con la faccia accostata alla gabbia, “che canti, salti, mangi e bevi. Io porto la croce dei miei dolori, non posso neanche camminare.” Altre volte gli diceva solo: “Canta, canta, Carlino. Goditi la vita. Non sei, certo, vecchio e malato come me. Non si è fatta sentire la tua amata oggi? Mi sembri giù di corda.” La porta della cucina si apriva su un grazioso giardinetto. Anche una piccola finestra guardava verso il giardino. I suoi vetri erano spesso ricoperti di vapore e di fumo. Il cielo azzurro, di là, pareva così lontano! Anche il sole pareva eclissarsi alla vista. La Signorina amava tenere la casa in penombra, ma trascorreva momenti magici alla luce di quel minuscolo giardino. Lo curava con faticosa dedizione. Cono24
sceva ogni pianta, ogni fiore, ogni filo d’erba. Vi piantava il basilico profumato, il rosmarino e tante altre piante aromatiche, oltre all’aglio, alle cipolle e al prezzemolo. Ogni tanto conservava per me una parte della sua frittata, appena preparata. La parte sua la aveva già consumata. Mi ripeteva gli aromi che ci aveva immesso: “lo avverti il basilico, la senti la mentuccia?” Io le dicevo di sì, ma in realtà ci badavo poco. Amava tantissimo la menta e il gelsomino, che a casa sua non mancavano mai: “Profumano e rinfrescano la casa” diceva. In casa sua, due vasi di porcellana traboccavano di fiori. Stavano negli angoli del salotto. Certe volte si esaltava o si commuoveva dinanzi alla bellezza di qualche fiore. Si rammaricava profondamente se un fiore da lei amato, le appariva macilento. Prediligeva le viole del pensiero, la dalia viola, la azalea coi fiori gialli, i garofani rossi e bianchi e la citronella profumata. Andando in giardino ripeteva: “Vado a far visita ai miei figli”, e carezzava i petali dei fiori con le sue mani gonfie e storte per l’artrosi. In autunno la vedevo a volte con la testa in su, a fissare le foglie accartocciate, tinte di rosso, sul punto di cadere dal ramo. D’inverno, dietro la finestra della cucina, col cuore in pena, guardava gli alberi spogli sotto un cielo grigio perla. Una volta venne ad abitare con la signorina Ignazia, una sua nipote, Maria. Era, forse, figlia di una sua sorella abitante in una bella città vicina. Ogni tanto, veniva in visita il fratello di Maria, Armando, un ragazzone alto, massiccio, burlone e spiritoso. Diceva che era felicissimo di tornare, ogni tanto, dalla zia, anche per rivedere, a Naro, certi suoi carissimi amici. La Signorina era contentissima, quando c’era Armando. La faceva ridere tanto. Purtroppo la sua presenza durava poco. La zia lo invitava a restare e lui diceva sempre: “Sono costretto a lasciarti, zia. Domani devo tornare al lavoro.” Maria aveva occhi grandi e capelli biondissimi. Qualcuno dei vicini di casa la chiamava “la Nordica”, forse perché la maggioranza delle ragazze del paese erano brune. Maria era sicura di sé, di carattere forte, poco arrendevole. Quando la giovane era adirata, la Signorina le diceva che nella mente doveva avere “qualche spiritello ribelle.” Maria amava uscire di pomeriggio e spesso restava fuori di casa fino a dopo il tramonto. La Signorina allora stava in pensiero. Spesso le ricordava di stare attenta: “In paese diranno che frequenti troppo i ragazzi, ‘gli uomini’ dicono qui.” E Maria con prontezza le rispondeva: “Non badare a quello che dice la gente, zietta cara. Lascia che dicano quello che vogliono. Non sono qui per fare la monaca di casa. Non faccio niente di male. La guerra è finita da tempo, grazie a Dio. Godiamoci la vita in santa pace.” Certe volte ero presente nel momento in cui Maria si preparava per uscire. Le 25
bastavano pochi minuti davanti allo specchio: un filo di rossetto, una spazzolata ai capelli ed era pronta a raggiungere gli amici. Se la zia era in giardino, mi diceva: “Tanino, avvisa tu la zia che sono uscita.” L’accompagnava una scia di profumo. Era felice. Cantava mentre si allontanava, scendendo per le scale. La zia le perdonava tutto, anche perché la nipote con lei era sempre affettuosa e gioviale. Anche con me era sempre gentile. Una volta la vidi con gli amici davanti al bar Contrino. Mi vide anche lei e volle offrirmi un gelato. La signorina Ignazia era fanatica dell’ordine e della pulizia. Tutto il giorno era intenta a pulire ogni angolo della casa. Ogni mattina apriva le finestre e scopriva i letti perché prendessero aria. Cercava di intrappolare la nipote nella sua rete di piccoli doveri quotidiani Avrebbe voluto che Maria si alzasse presto e l’aiutasse, ma non riusciva mai a convincerla. Maria avrà sofferto molto durante la guerra. Ripeteva spessissimo che amava la libertà: “Tutti abbiamo diritto di essere liberi.” Un giorno, guardando in alto, fuori della finestra, aggiunse: “Liberi, come quelle nuvole lassù, che fanno bello il cielo.” La zia, guardandola, un po’ seria e un po’ sorridente, le disse: “Senti, nuvola, tua madre, scrivendomi, mi ha chiesto di controllare le persone che frequenti.” Maria rispose che lo aveva capito. Aggiunse che era stanca di frequentare le persone consigliate dalla madre. “Sono persone ricche, cortesi, elegantissime, ma false e senza cuore.” Diceva che a lei piacevano gli amici di Naro. “Hanno una cordialità semplice, paesana, alla buona. Sono sinceri, leali e hanno un cuore grosso così.” “Tua madre”, continuò la Signorina, “mi faceva capire che sei venuta da me principalmente per allontanarti dal tuo fidanzato. Un giovane che, stando a quello che afferma lei, è un vero gentiluomo.” Maria, visibilmente stizzita, rispose che di quell’uomo non voleva più sentirne parlare. E raccontò la sua storia. Aveva incontrato l’ex fidanzato nel viale principale della sua città, in un’ora centrale del pomeriggio. Non lo conosceva. Le era parso una persona affidabile. Presto, si fidanzarono. Le parve di poterlo amare. Ma conosciutolo bene, aveva capito che non era fatto per lei. Era geloso in modo assurdo, irragionevole. “Non voleva me, zia cara, cercava solo una moglie di buona famiglia, da possedere come un bene privato. Non mi lasciava respirare. Era sempre serio e imbronciato. Era un macigno sulla testa. Non sapeva godere di nulla, neanche delle piccole cose, come mangiare un gelato e fare una passeggiata.” Alla fine, al fidanzato lei lo aveva detto chiaro e tondo: “Tra di noi è finita.” Era stata schietta con lui. La signorina Ignazia, con tono pacato e riflessivo, le disse: “Cosa vuoi? Da che mondo è mondo, l’amore non ha mai recato, a noi donne, felicità e consolazione.” Fece capire alla nipote che anche lei aveva avuto le sue storie d’amore e 26
approfittò di quel momento per parlarne. Venni così a conoscenza di tante cose che la Signorina non mi aveva raccontato mai. Da adolescente aveva frequentato, in modo innocente, un ragazzo. Si erano scambiati qualche parola, la domenica, sotto il sole, tornando a casa dalla Messa, mentre suonavano le campane. Ma i genitori le avevano proibito di frequentare quel ragazzo. Secondo loro, non era adeguato a lei. Un giorno, il ragazzo voleva offrirle un Cinzano al bar e lei come risposta, dovette dirgli che non potevano più vedersi. “Allora si obbediva, si obbediva sempre ai genitori”, aggiunse. Disse poi che qualche anno dopo, a una cena, aveva conosciuto un altro uomo, un imprenditore. Proveniva da Palermo. Si chiamava Arturo. Era un bell’uomo e aveva tanti soldi. Già dopo la seconda o la terza volta che uscivano assieme, lui le disse che l’amava e lei gli credette. “Ero una ragazza desiderosa di amare e di essere amata. Mi lasciai travolgere.” Temendo che i genitori si opponessero ancora, quando Arturo le propose di fuggire con lui a Palermo, lei si lasciò convincere. “Non ero povera, ma finii col fare anch’io la fuitina, come fanno le ragazzine povere, spesso per evitare le spese del matrimonio. Io lo feci per vero amore. Seguii Arturo a Palermo.” E aggiunse che, purtroppo, venne a sapere ben presto che l’uomo era sposato. Lo venne a sapere proprio al ristorante dell’albergo, dove risiedeva la coppia da alcuni giorni. “Era uscito. Mi aveva detto che ci saremmo visti al ristorante, all’ora di pranzo. Tardava. Ero preoccupata. Un ingenuo, vecchio cameriere, con la testa calva, mi rivelò la verità. Lo conosceva bene. Mi vergognai da morire. Appena tornato, capii che Arturo era imbarazzato. Lo tolsi io dall’imbarazzo. Dissi che avevo saputo. Lui provò a recitare la scena del pentito, le solite cose. I miei occhi erano una sorgente di lacrime. Chiedeva perdono e diceva di avermi amata davvero.” Arturo le promise che se restava a Palermo, in attesa di una probabile separazione dalla moglie, non le sarebbe mancato nulla. “Non mi garbava l’idea di fare l’amante, forse per tutta la vita”, disse la Signorina. Ricordava tutto. Diceva che era una luminosa giornata di aprile. La gente passeggiava al sole. Avrebbe potuto essere felice anche lei e invece era nel buio più profondo. Disse che “sull’orlo della pazzia”, si trovò a braccia incrociate sul treno. Partì da Palermo, ma non volle tornare alla sua città. In quei tempi, una ragazza che fuggiva di casa con un uomo suscitava enorme scandalo. A una ragazza scappata di casa, che tornava sui propri passi, toccava l’isolamento, l’emarginazione, da parte di amici e parenti. I suoi genitori non la cercarono, ma non la diseredarono nemmeno. Molte ragazze fuggite di casa, invece, perdevano ogni diritto all’eredità. 27
Fu così la Signorina era arrivata al mio paese. La sorella di suo nonno l’accolse senza entusiasmo. La Signoria Ignazia l’assistette fino alla morte e ne ereditò la casa. Sospirando forte, disse: “A volte mi chiedo se sia successo davvero. E così sono rimasta sepolta in questa casa.” E dopo qualche istante: “Sarò ridicola, ma voglio essere sincera: l’ho sempre aspettato. Il suo ricordo mi ha perseguitato per tutta la vita.” Disse che durante la guerra aveva pregato, perché lui non soffrisse. E che senza la fede sarebbe crollata, si sarebbe disperata. Poi, guardando la nipote: “È vero che è triste la solitudine, ma vivere tutta la vita con un uomo che non si ama, penso che sia un vero inferno. Hai ragione, se non lo ami, lascia il tuo fidanzato.” Maria abbracciò la Signorina: “Grazie. Non sapevo nulla di te, zia. Tu hai fatto le tue scelte. Secondo me, hai pagato troppo. Comunque, non ti preoccupare per me. Non resterò sola.” Quel giorno, mi allontanai mentre la zia si lasciava andare sulla poltrona e invitava Maria a sedersi accanto a lei. Il sole rosso era circondato da nuvole viola. Tramontava. Non so quale sia stato il futuro di Maria. Partii, poco dopo, per il collegio e non la rividi più. Non rividi più neanche la signorina Ignazia. Nella sua casa, poco più di un anno dopo, abitavano altre persone. Chiesi sue notizie a mia zia Carmela. Mi disse che, poco dopo la mia partenza, la Signorina aveva attraversato un periodo di grande tristezza. Era morto un suo parente di Palermo e lei da quel momento si era lasciata andare. I parenti erano venuti a riportarla nella sua città di origine. Lì era morta, subito dopo. Io capii.
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