Le variabili del sistema

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ANTONIO VALENTINO

LE VARIABILI DEL SISTEMA (quattro racconti)


Quando un uomo non riesce a vedere alcune delle variabili di un sistema, il “sistema” rappresentato dalle variabili rimanenti può sviluppare proprietà notevoli, anche “miracolose”. (Ross A. Ashby)


il ghepardo


Il clangore metallico lo scaraventò all’indietro. Riconobbe il morso bruciante che, di soprassalto, gli agguantò il ventre. Gli era familiare il tamburo sordo che dal petto stava esplodendo nel turbinio delle carotidi, mentre già serpeggiava nel ringhio cupo delle mascelle. Era un’emozione netta, precisa, che accompagnava la sua esperienza senza tempo: la paura. S’aggomitolò, incassando il collo nel torace. Quasi udiva l’imbizzarrirsi dei peli tra le callosità della pelle. Il respiro superficiale, veloce, incalzante, incarcerava il fine tremore delle labbra. Lo sentiva farsi materia. “Stavo navigando nell’inconsistenza benefica d’un sonno ancora privo di sogni visibili, ed ora eccomi qui - balbettò in quello che avrebbe potuto essere un gergo d’allora -, a scovare precipitosamente tra gli amuleti che pendono dal petto, lo scudo magico che neutralizzi quest’ascolto angosciante”. L’universo era buio, allora. Buio vero. Tangibile. Schiacciava il creato al suolo protolitico d’un mondo sconfinato, compatto, appena scheggiato dalle intermittenze incostanti d’un crinale, d’un bosco inestricabile, d’un torrente senza luce, né origine o destino. “Ci guidava il vento sulfureo, appiccicoso - parve raccontare al vuoto del buio, come se la voce dell’intera massa vivente s’esprimesse nei suoi pensieri fatti d’immagini senza colori, senza contorni, senza dimensioni. “Un vento che volava basso basso, trascinando con sé gli umori inconfondibili delle forme mutevoli emerse dal nero profondo, padre di tutte le cose, e di tutte le cose prin17


cipio uniformatore. “Umori inconfondibili, che vivevamo quali congetture concrete di amici e nemici, di prede e predatori; e veicolava, quel vento, il puntiglioso flottare della risacca del mare pigro e lo sprezzante rancore gelido dell’incombente distesa scivolosa dei Monti Fatui. “Sì, lo sentivamo strisciare. E poi perdersi lontano. Strisciare, come noi, tra le pieghe brufolose della tundra. Ed ululare disperato, come noi, tra i crepacci laminari: risucchiati per sempre all’interno della pancia crostosa del dio dei minerali”. I colpi metallici perseveravano, ritmati. Ad essi orientò il ricettacolo concavo dei padiglioni auricolari. Li udì circoscrivere il mondo da una moltitudine di lati. E udì il muggito continuo, atroce, della crosta infilzata che a tali colpi poderosi faceva eco, mentre ungendosi il capo coll’umore che gli scorreva tra le ginocchia, intonò la nénia lamentosa di prostrazione ad Apophi(1), tenebroso dio dell’orrido buio. Il vento alle sue spalle cresceva. Il coro di voci, di strepiti, di rantoli, di guaiti, vagiti, murmuri, starnazzamenti, sbuffi, mugolii, ragli, palpiti, barriti, ruggiti, soffi, pigolii dei suoi simili, che ancora provavano l’ebbrezza annebbiante del primo salmodiare, s’innalzò come un fungo mostruoso dalla lentezza ininterrotta dell’eterna notte del flocculare della paura, allorché una scarica azzurrognola, repentinamente frammentata in scaglie d’arancio, parve slabbrare la calotta nera, compres18


sa sopra di loro. Il vento alle sue spalle montava imperioso. Tremando, con la punta delle dita sfiorò il miracolo dei globi acquosi che colmavano gli anfratti della fronte. “La paura del mutamento - avrebbe potuto sorprendersi a raccontare di lì a un paio di millenni -, la paura della visione d’azzurro e d’arancio che sfrondò l’interminabile territorio del potere del dio dell’eterna notte, accrebbe la nostra povertà, fatta di gesti elementari, pressati sul pulviscolo incolore del manto che copriva e circoscriveva di granito, di feldspato, di argilla scivolosa e molle le nostre movenze usuali”. Solo allora si levò, rauco e stentoreo, il potente suono del richiamo di Epiphenomenon(2), la cui voce infine annichilì il coro della paura. Così, nel vento che si trascinava a strati sovrapposti, lo sentì spandere la saggezza di generazioni, e reiterare nell’orgasmo di vibrazioni che avvolgeva d’angoscia la fitta muraglia del sottobosco, il rito di conciliazione col temutissimo spirito delle tenebre. Epiphenomenon, colui che aveva per primo guidato l’affiorare del suo gemello; colui che gli aveva fatto vivere l’ansia del predatore ed insieme la rincorsa atroce del predato; colui che accompagnò le palpebre incollate dal rumore del ramo reciso dall’affilata lama di quarzo, e con lo sguardo cieco lo condusse nel terrore del viaggiatore smarrito, le cui braccia mulinanti s’aprivano varchi nella foresta ch’egli stesso andava plasmando; Epiphenomenon, proprio lui, inutilmente s’inerpicò per lo scosceso terreno 19


dell’empiria, inutilmente scavò nella memoria il canto, il sacrificio, la formula misterica che placasse l’invedibile scalpiccio popolante la schiuma vaporosa dell’orizzonte impercettibile. Il vento alle sue spalle cresceva, cresceva.

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L’ANGOLO DIEDRO


I Sollevai le gambe, mantenendo unite le ginocchia. Tirai su le spalle, inarcando la schiena. Irrigidii i muscoli del collo e delle braccia, incrociate dietro la nuca. Mi dondolai lenta e a lungo, indecisa se abbandonare la posizione a barcarola che avevo assunto. Avrei poi dovuto lasciare il letto, se l’avessi fatto. Ruotai stancamente, in obliquo, con un movimento sincrono di tutto il corpo. Appoggiai il piede destro sulla moquette azzurra a pelo rasato. Lo sentii, il piede, chiaramente torpido ed ancora riluttante. Un brivido di freddo mi sferzò la schiena calda e vogliosa di lenzuola. Voltai un poco il capo e con un occhio solo mi accorsi che il mezzo letto di Gigi era vuoto. Con rassegnazione rammentai che quella settimana il suo turno all’ospedale cominciava alle sei. Saranno state le sette circa, le sette e qualche minuto di un lunedì mattina che si trascinava dietro le solite scorie un po’ dolci ed un po’ amare della festa. Le domeniche le immaginavo, le attendevo, come un bel bagno caldo invece della doccia serale sempre di corsa, un extra sul versante erotico, qualche pietanza un po’ ricercata a pranzo, il dolce fatto in casa, la passeggiatina sdrucciolante per i lisi marciapiedi del centro, se la temperatura non era troppo alta o troppo bassa, concedendomi il lusso pazzerellone di lanciare bieche smorfie al mare ondeggiante delle formichine che come noi – passeggiavo con Gigi, se non era di turno - consumava senza meta fissa 35


suole e pavimenti. Queste azioni, nella mia maniera di comprenderle, s’impastavano della loro medesima fatuità, s’impigrivano nel loro senso effimero; essendo, sotto sotto, normali, belle, buone, ma in un certo senso assolutamente insipienti. Non è che passare un paio d’ore al cinema o starsene in casa di amici a giocare a Risiko! potesse sconvolgere le cose. Non chiedetemi poi di spiegare il perché: una cosa è comprendere e una cosa è spiegare e, comunque vogliate prenderla, nessuno potrà mai confutare che così io le avvertivo. In altre parole: ero contenta, soddisfatta delle mie azioni e della mia vita. Eppure mi lasciavano, nel cavo del cuore, netta la sensazione della loro, come dire?, imperfezione. Ogni volta ero, involontariamente, costretta ad illudermi che fossero diverse. M’illudevo che bastasse cucinare un manicaretto diverso ogni domenica o usare un nuovo bagnoschiuma meno irritante per la pelle o passeggiare zigzagando piuttosto che in linea retta o invertire la sequenza ormai consolidata delle manovre sessuali, per venir meno alla loro asfissiante riproducibilità. La sostanza permaneva, il peso netto delle cose della mia vita, restava identico, uguale a se stesso. Nell’angolino più riposto della mia carne scattava il meccanismo che innescava il senso di imperfezione, di regolarità, di reiterazione. Senso che faceva somigliare alla radice tutte quelle azioni. Mi sono convinta che viviamo facendo di ogni granello di sabbia nel quale inciampiamo un continente. Ma, sia ben chiaro, non parlando del con36


tinente microscopico, siliceo, che pure esiste nel granello di sabbia, bensì dell’opinione ingigantita, pettegola, bovinamente psicologista che artificiosamente costruisce il continente attorno al granello. Continente che riguarda, riflette, noi e non il granello. Ma torniamo al lunedì. Quel lunedì. Mi resi conto che dentro il mio corpo si stava ramificando un formicolio mai provato in precedenza. Il prurito si agitava profondamente, quattro, cinque centimetri al di sotto della superficie della pelle. Per quanto affondassi le dita, le unghie, per grattarlo via, riusciva a sfuggirmi, come un’anguilla, inabissandosi fino al centro della carne.

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thriller, 1971


I

L’odore pungente traversò obliquamente l’aria azzurrata dello squallido ufficio, appiattendosi sull’evanescente margine inferiore della massa stagnante. Flanagan pensò che avrebbe dovuto decidersi, un giorno o l’altro, a cambiare. Avrebbe comperato un condizionatore e, magari, rinnovato l’arredamento. La sigaretta gli appesantì in una smorfia non voluta l’angolo destro della bocca, mentre il filetto acre serpeggiava, spandendosi subito nella nube che ormai minacciava di soffocarlo. Un bel omicidio occorreva: qualcosa di grosso, con relativo consistente gruzzolo. “Basta con le solite storie ammuffite di corna o le manie piccolo borghesi”, si disse passando con disgusto la sigaretta all’angolo opposto. Un omicidio corposo, dalle parti di Manhattan, meglio ancora se tra gli uffici sfavillanti della City. Un bell'omicidio che pagasse il condizionatore, un’accogliente poltrona di pelle vera, una Mustang rosso fuoco ed infine, perché no?, lo sfizio di acquistare la lobbia grigia che Blackwall esibiva sul ripiano in alto a destra della sofisticata vetrina ovest del suo negozio sulla quinta strada. Questo affollava la mente di Tom Flanagan, stravaccato nella decrepita poltroncina girevole, la cui agonia era eclatante fin dai tempi di suo nonno buonanima, che gliela aveva lasciata come unica eredità. Tirò su i piedi, incrociandoli sul termitaio gracchiante che s’ostinava a definire ancora scrivania. Il sudore riempiva i canalicoli scavati 63


dalle prime rughe. Questo pensava nella penombra di caucciù che esauriva le ultime briciole di energia, affogandole nell’afa e nello scotch di quart’ordine. Viveva beato il suo torpore. Si scosse al picchiettare nervoso che udì provenire dalla portavetro. Controluce individuò un profilo femminile sormontare di un paio di pollici il rovescio della scritta “Thomas J. Flanagan” e, subito sotto, “Your Confidential Eye”… … e poi, dico, non ho mai amato le smorfie e le moine, le feste in smoking e le orge, orgine e orgette consumate al riparo da Dio e dagli uomini, tutto il perbenismo lezioso insomma, della gente dei quartieri al di là del fiume. Quartieri alti: puah! Alti per cosa, se non per la pila di dollari che accorrono solo dove ci sono altri dollari. Non li amavo proprio, con tutta la loro prosopopea. Ma i loro quattrini sì. Non mi fregava nulla da dove provenissero. E quella brunetta, col suo luccichio di pietre e pietruzze, la più piccola delle quali sarebbe bastata per pagare i restauri non solo dell’ufficio ma anche di quel buco fatiscente che abitavo in St. Marine Square, con la sua erre biascicata che saltellava tra squilli e cadute gutturali, con la sua interminabile serie di sospiri, con il suo ancheggiare scivoloso, tipico di chi possiede tanti bei dollaroni da potersi permettere la noia quotidiana, sembrava fatta apposta per ricordarmi l’esistenza di un ceto, un censo, cui non avrei mai potuto appartenere. Immaginai la lobbia grigia, adagiata sul velluto verde da64


mascato, solenne e un po’ pacchiano di Blackwall. Aprii i vasistas delle due finestre che “ornavano” la trappola fumosa che era divenuta il mio ufficio. Volevo allentare, diluire il magma soporifero che allignava nella stanza…

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la giungla

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“Io non parlo di vendette né di perdoni; la dimenticanza è l'unica vendetta e l'unico perdono.” Jorge Luis Borges (Elogio dell'ombra)


I

La giungla di velluto parve comporsi dell’ostentazione della sua sterminata indeterminatezza. Tale era il fluido intrigo della vegetazione lussureggiante e tanta la delicatezza isomorfica del manto che fu possibile riconoscervi gallerie lisce come strade d’asfalto, piani plurimi collegati da scale a chiocciola nate da una indefinita genialità. Ma lo capimmo dopo; non saprei dire quanto. La lanugine delle immense foglie icosaedriche, ignare della nostra scienza, tratteneva le soffici orme impresse dal nostro incedere: osservando intorno parve che nessuna creatura, almeno tra quelle dotate di una gravità simile alla nostra, avesse mai calcato i pavimenti delicati, il silenzio incolmabile, la tranquillità inesausta della giungla. Ma solo dopo comprendemmo i segni della delicatezza, della morbidezza. Solo dopo sospettammo che avremmo potuto sbagliarci; che l’invincibile bellezza avrebbe potuto sovrastare i regimi del tempo e dello spazio. Non saprei dire quale fu la causa, né il percorso che ci introdusse nella sconfinata regione, né per quale motivo l’immane spinta gelida conferita alla navetta dallo ziniantropònio non riuscisse a muoverci di un centimetro. Grande fu lo stupore e la paura dell’ignoto che ci pervase allorché, nel brillio rarefatto dell’atmosfera, il tendersi dei nostri muscoli filiformi, la lanugine con le sue orme perfettamente conservate, resero inutili i millenni di ricerche che approdarono alla fredda energia grigia che alimentava 91


e sorreggeva la civiltà del nostro essere umani. Ma solo dopo capimmo lo stupore, solo dopo studiammo la paura, solo dopo tali ci sembrarono. Abbandonammo l’abitacolo della piccola Enterprise. Enterprise, cara Enterprise: così sulla fiancata evocammo l’immaginario ricordo di antiche leggende, sognate dai padri nella fallace illusione dell’invincibilità: tra le acque dai vapori rubri o nei cieli dell’universo, punteggiati dagli imbuti millenari traversati all’inseguimento delle supernovae. Ma solo ora posso dire del naturale, spontaneo, indefinito moto che generò in noi la voglia di quel nome: Enterprise, per stringere un nodo sottile che potesse ricondurci alle passioni inalienabili, alle allegre deformazioni sulle quali si infrangeva l’imperfezione del genere umano, ai residui fossili spiralizzati dal desiderio viscerale che conformava l’emozione della devianza. Ma solo un attimo, un anno, un secolo, un’eternità dopo comprendemmo: forse sbagliammo nel giudicare come sapevamo e potevamo. E allora fu dolce e tenero il sentimento, la paura che provammo allo scoccare tonante dell’impotenza dello ziniantroponio; tenero e dolce il profumo emanato dal velluto icosaedrico. Non che il nostro tempo fosse privo di passioni, di emozioni, tutte descritte nei trattati di Archeominologìa. Ad esse si erano sostituite altre passioni, altri sentimenti, altre ingarbugliate pulsioni che ora mi sarebbe difficile spiegare, perché dovrei descrivere le nostre città, il loro ordinamento; dovrei infine addentrarmi nelle discipline medicobiologiche, le uniche che parzialmente riuscirono a trac92


ciare nella lenta e intangibile mutazione di un emivirus proveniente da Ty l’origine della pandemia che frammentò inizialmente l’area limbica e quindi disaggregò le aree associative e della memoria, cui solo una lunga, imprevista, convalescenza dell’intero genere pose il parziale rimedio della rabberciata cicatrizzazione. Così, poco a poco, non solo si persero le emozioni, ma anche il loro ricordo.

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