Quando cantava rabagliati

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ANTONIO VALENTINO

QUANDO CANTAVA RABAGLIATI


© A.V. Editoria Via B. Crespi, 1 24021 ALBINO (BG) 1^ edizione febbraio 2018 Stampato in Italia A.V. Editoria è un marchio di A.V. Marketing & Comunicazione Codice ISBN 978-88-94854-05-3

La foto di copertina è: Donne e uomini: Thomas Ashby, Sulmona (AQ), 1909 Pubblicata con l'autorizzazione di "Collezione privata Ashby e l’Abruzzo”- BSR Sulmona del 1909 sicuramente non era il paesino immaginario de La Rocca, tuttavia la foto rende bene l’atmosfera e la visualizzazione dei possibili personaggi.


Gina

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I

Gina nacque che era già una dea. Mariuccia, sua madre, l'aveva partorita nel gennaio del '916, come regalo che il padre, Peppino, le aveva lasciato prima di partire per il fronte della grande guerra. In quel tempo la famiglia viveva in una casa colonica poco distante dalla Rocca e Peppino era uno dei fittavoli di don Augusto, padre del futuro don Eugenio. Gina nacque in casa, come tutti in quel periodo, poco dopo la prima nevicata di gennaio, al caldo dei due bracieri che la levatrice venuta apposta dal piano, aveva fatto portare in camera. Mariuccia non si lamentò più di tanto, perché Gina fu molto brava a scivolar fuori come un pesciolino, dopo neppure mezza giornata dai primi dolorini. Si capì subito che era una bimba particolare: era bellissima. Piccolina e subito rosata in viso, la bocca a cuoricino, venne fuori con gli occhi aperti, spalancati sul mondo nuovo da conoscere. Pur ancora velati, si scorgeva chiaramente sotto la velatura il colore verde smeraldo di quegli occhioni che poi, nel tempo, si sarebbero arricchiti di striature dorate e luminose che avrebbero attanagliati gli uomini come calamite ineludibili. La levatrice legò stretto il cordone ombelicale, tagliandolo appena su, constatò che avesse a prima vista tutte le sue cose e cosette a posto, poi la lavò delicatamente con un panno di cotone, prendendo l'acqua caldina da un bacile che aveva fatto riempire in cucina, versando un po' dell'acqua calda del pentolone sul camino e stemperandola con l'acqua fredda di un altro recipiente. L'asciugò sul ripiano della cassapanca di fronte al letto, la fasciò come s'usava ed infine la porse alla mamma, che subito

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la strinse dolcemente al petto, mentre il pensiero correva al marito, sperduto in chissà quali pericoli, lassù al nord. Aveva quasi nove anni Gina quando lasciò la scuola. S'usava così: completata la seconda o terza elementare, le bambine restavano a casa a dare una mano, avendo una preparazione ritenuta sufficiente per leggere, scrivere e far di conto. Per di più Peppino era tornato dalla guerra senza il braccio destro, perché sulla linea del fronte, quando c'era una ferita grave, i medici preferivano amputare un arto, piuttosto che correre il rischio d'una cancrena in tempi senza penicillina o sulfamidici. Per quanto si dannasse l'anima, era difficile lavorare la terra e badare ai pochi animali della stalla con un braccio di meno. La pensioncina che ottenne dopo un po' di tempo era così poca cosa che decise di scordarsela ogni mese dentro un recipiente di rame sopra la credenza. Ogni sei mesi don Augusto, come una tassa, mandava qualcuno dei suoi a riscuotere l'affitto del podere e della casa e non sentiva ragioni, visto che aveva la fila di richiedenti fuori dal portone del castelletto. D'altronde i mutamenti politici praticamente non erano passati da La Rocca, bianchi rossi o verdi che fossero i governanti, oppure neri come accaduto dopo la marcia su Roma, sempre don Augusto comandava. Poi trasmise il tutto per diritto di discendenza a don Eugenio, quando questi tornò dall'università con la sua laurea in medicina e chirurgia e l'abilitazione professionale. Peppino si risolse allora ad accettare l'aiuto concreto di Mariuccia nel lavoro dei campi, mentre Gina prese ad occuparsi delle faccende di casa e del fratellino Luca, nato quattro anni dopo di lei, considerato che in quel genere di cose il braccio in meno era del tutto ininfluente. Fu così che la bambina si ritrovò donna, perdendo qualcuno

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dei sorrisi larghi e risonanti della breve carriera di scolara, quando con i suoi occhioni aperti sul mondo, tracciava paginate di aste poi di vocali ed infine di consonanti, tutte perfette ed in bella scrittura. Fu anche la prima a leggere senza seguire la scrittura col dito e la prima ad imparare le tabelline a memoria. Ma accettò con orgoglio e tenacia quello che la madre le aveva chiesto di fare, mentre le manine diventavano ogni giorno più forti seppure i calli che comparivano le rubassero la delicatezza del palmo tenero dell'infanzia. Le cose migliorarono. Mariuccia due volte a settimana riusciva ad andare alternativamente, col suo carretto pieno di verdure, frutta fresca ed un cestino di uova, alla piazzetta della Rocca o giù al piano a vendere quel tanto che riusciva per rimpinguare le casse di famiglia e comperare, ogni morte di papa, un paio di scarpe o un vestitino nuovo per i figli. Alla domenica, lavati e rivestiti a festa, si recavano in paese su di un vecchio calessino che faceva parte dei vari aggeggi grandi e piccoli, più o meno arrugginiti ed inutilizzabili, trovati nella casa colonica. Rimesso a nuovo da Peppino tempo addietro con passione e dedizione e tirato dal vecchio cavallo che abitualmente serviva nel lavoro dei campi, faceva bella mostra di sé lungo il breve percorso domenicale in direzione della parrocchia. Andavano per la messa delle dieci, quella che riempiva tutte le panche davanti con i notabili e tutte le sedie impagliate dietro di bottegai, cafoni e, in genere povera gente, modesta e timorata. Comunque, indipendentemente dalla classe sociale, tutti i maschi stavano sul lato sinistro e tutte le femmine sul lato destro di banchi e sedie. Alla fine della funzione le famiglie si ricomponevano, si parlava sul sagrato, si andava a bere un bicchiere da Candido, mentre tra un canto e una predica, prima si erano lanciati sguardi furtivi attraverso il

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corridoio centrale dei due sessi o verso i banchi davanti, alla ricerca di una bella figliola o di un bel giovanotto, di un toccarsi furtivo tra gomiti, o dell'abito nuovo d'alta moda acquistato nei negozi della capitale dalla consorte del Podestà. A quattordici anni Gina era già donna fiorita e non importava che l'abbigliamento fosse modesto come il suo rango sociale e che tenesse gli occhi bassi per la sopraggiunta timidezza. A sedici anni, d'estate, con i vestiti leggeri, ragazzi e uomini fatti le leggevano addosso le forme ben proporzionate di petto, fianchi e cosce. Un fondoschiena che pareva confezionato col compasso. Era restata piccolina d'altezza, un metro e mezzo scarso, ma era un bignè, con i capelli lunghi e neri raccolti a chignon, tenuti con un nastro leggero e nero anch'esso. Se riuscivi a tirarle su il mento quando il sole nasceva o tramontava, e lei apriva gli occhi come quand'era nata, t'imprigionava i sensi quel verde strisciato d'oro che ti brillava nell'anima come un segno del destino. Se poi avesse sorriso a mezza bocca scuotendo leggermente il capo da un lato, restavi catturato dalla malia involontaria di quelle labbra lucide e carnose, appena inumidite dalla lingua dopo il sorriso. Se per caso accompagnava la madre al mercato, col carretto, vendevano sempre tutto, anche gli scarti. Poco importava se di uomini e ragazzi ne circolavano pochi sulla piazzetta e la spesa era soprattutto una cosa da donne. Stavano là solo per vederla darsi da fare con il piatto della bilancia, o scegliere nella cesta dei pomodori o prendere il denaro con un grazie ed un inchino appena accennato e quindi infilarlo con garbo prima nel fazzoletto e poi in una specie di cintura di stoffa che le modellava la vita. Quando poi Mariuccia s'arrischiò a mandarla da sola al mercato della Rocca vicino casa, oltre al guadagno garantito, il

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carretto cominciò a circondarsi di api adoranti attorno al miele e di profferte cui lei semplicemente non rispondeva, come non avesse udito, oppure accennava un no con un sorriso ed una lievissima scossa del capo. Da un anno, durante l'inverno, mentre la terra aveva bisogno di minori cure, la madre aveva deciso di incrementare il lavoro attorno al corredo per il matrimonio ed insegnarle l'arte del tombolo, per valorizzare con i merletti tipici la biancheria che poco per volta veniva messa da parte col risparmio del piccolo commercio e un po' della pensione accumulata nel paiolo basso di rame dal padre. Mariuccia aveva cominciato appena la bambina compì un anno a mettere da parte nella cassapanca qualche lenzuolo e qualche tovaglia, ma adesso occorreva passare alle rifiniture con i merletti, le sigle ricamate e le suddivisioni per quantità. Era cominciata una nuova guerra quando Gina, in età che quasi era considerata una zitella e non uno splendido esemplare di femmina bella, dolce e timorata di Dio, non aveva ancora scelto un uomo tra le decine di api e vespe che le giravano attorno, compresi gli uomini sposati che incrociavano alla domenica da Candido, bevendo un sorso di spuma all'arancia. Con l'arrivo delle cartoline poi, tra chiamati e richiamati, in giro di uomini ce n'erano sempre meno. Partì anche Luca, il fratello, con una divisione che finì in Grecia e poi in Russia a difendere quello che già allora era parso a molti un sogno folle e inadeguato. Le cassepanche ricolme delle coperte, tovaglie, asciugamani, lenzuola, biancherie, strofinacci, pentole, coperchi, stoviglie...erano ormai diventate due e aspettavano solo d'essere esposte, come s'usava a quei tempi, dopo aver stabilito la data del matrimonio.

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II

Giovedì 1 ottobre del '942 s'aprì l'anno scolastico per la pluriclasse della scuola elementare. Nell'androne dell'oratorio che ospitava alunni ed insegnante erano disposti, a due a due, i banchi, tutti uguali, con il ripiano inclinato, il sedile ribaltabile a distanza fissa dal ripiano, uno scomodo e distante poggiapiedi in basso e nessuno spazio per conservare quaderni, libri e pennini, se non sistemati in equilibrio lungo il piano inclinato. Tutto uguale, sia che avessi sei anni, sia che ne avessi dieci e più, visto che, soprattutto per i maschi, se non si trovava un lavoro, si lasciavano lì parcheggiati in eterno, pluribocciati in attesa di occupazione, esattamente come i fuoricorso universitari di adesso, fuori dalle scatole delle famiglie per almeno mezza giornata. Come a messa, le femmine stavano nella fila di destra e i maschi in quella di sinistra. I più alti in fondo e gli asini in due banchi vicino alla cattedra, così che le maestre potessero sorvegliare bene quelli più turbolenti, che erano sempre anche quelli che apparentemente imparavano meno. Al tempo della frequenza di Gina faceva sempre un freddo cane in quell'aula riscaldata d'inverno da tre bracieri che non duravano neppure un paio d'ore mentre la maestra, col cappotto addosso, ogni tanto s'inventava qualche esercizio di ginnastica, che non era altro se non un gioco con gambe e piedi per far scorrere sangue che riscaldasse quelle povere creature. Vari anni dopo, preso in un momento di debolezza, don Eugenio fece impiantare una stufa di terracotta sul lato di parete che dava verso la gola del diavolo. Ma l'assemblaggio dei vari pezzi, fatto da un paio di tuttofare del comune, non risultò perfetto ed anche il tubo che avrebbe dovuto far uscire

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il fumo da uno sfiatatoio sul lato opposto, dopo aver attraversato tutto l'androne e fatto ben tre curve, aveva perdite lungo il percorso, alle giunzioni tra i vari pezzi, per cui il calore si sperdeva ed il fumo finiva per restare a mezz'altezza, impuzzolendo tutta la classe, più che mai infreddolita. Giovedì 1 ottobre '942 invece della solita maestra Fausta che da quasi tre lustri trascorreva nove mesi l'anno su a La Rocca, si presentò in classe un maestro maschio, che non arrivava a trent'anni, biondo con gli occhi azzurri, magro impiccato, vestito d'un abito grigio gualcito e con una sciarpetta blu che faceva due giri attorno al collo, pendendo con un lato dal bordo sfrangiato sul petto e con l'altro dietro, lungo la schiena. I capelli erano lunghi e spettinati come quelli di un artista e le scarpe, tenute da stringhe sottilissime, probabilmente avevano, o erano prossime ad avere, un buco sulla pianta del piede. Completava la figura una cartelletta a portafoglio di cuoio che teneva stretta a fianco con la pressione del braccio destro verso il corpo. Francesco Paolo Cipollone, il maestrino, proveniente da Avezzano, era lì per sostituire la maestra Fausta che s'era ricoverata per un malebrutto durante l'estate. La meraviglia che colse i trentacinque bambini e bambine e le loro mamme che li avevano accompagnati per il primo giorno di scuola era a metà tra la sorpresa di vedere un giovane maschio al posto della solita maestra femmina, un po' zia e un po' cerbero, che da anni insegnava a fare quattro conti e scrivere quattro parole alle giovanissime generazioni del luogo ed ultimamente anche canzoni fasciste al posto dei saltarelli tipici abruzzesi, e la sorpresa di vedere un bellissimo uomo giovane che non fosse in guerra tra i soldati della sua età. Il maestro traversò la minuscola folla salutando ossequioso le mamme e i rari padri della scolaresca. Entrò nell'aula e poi

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girandosi sulla porta d'ingresso chiamò dentro i bambini disponendoli al solito modo. Quindi chiuse la porta e cominciò la sua lezione dopo aver recitato, tutti assieme e all'impiedi, il paternostro. Era arrivato il giorno prima il maestro e, secondo istruzioni, era andato direttamente dal parroco per avere accesso ai locali che gli erano assegnati. Aveva una valigia che aveva visto tempi migliori, chiusa da due cinture e una piccola serratura che bastava guardarla perché si aprisse. Andò ad abitare nel minuscolo appartamento di una stanza e cucina ricavato sul retro dell'oratorio anni prima per la maestra Fausta. Aveva un ingresso indipendente e per l'acqua ed i servizi igienici doveva servirsi del pozzo dell'oratorio e della latrina esterna, una specie di gabbiotto eretto a pochi metri dall'edificio. Il giorno dopo, venerdì, c'era il mercatino sulla piazzetta e, approfittando dell'intervallo, il maestrino decise di fare un giro per acquistare un frutto e della verdura. Fu così che s'imbatté inevitabilmente nel carretto di Gina, ed altrettanto inevitabilmente nei suoi occhi, nei suoi capelli, nei suoi fianchi, nel suo petto, nel suo fondoschiena. La ragazza era come sempre timida e con lo sguardo rivolto verso il basso, per evitare di dover dare troppa confidenza a qualcuno. Il maestrino le chiese con voce calda di acquistare tre pomidoro ed un uovo e lei li preparò in un cartoccio piccolo di carta da zucchero avvolto a cono. Alzò gli occhi quando dovette chiedere mezza lira per il tutto e restò ammutolita da quegli occhi azzurri che la guardavano estasiati e dai capelli biondi scapigliati, così diversi dai colori scuri dei capelli degli uomini del paese. Per un mese, tutti i venerdì alle dieci e mezza Francesco Paolo percorreva i duecentottantasei passi che separavano la scuola dal carretto sulla piazzetta, chiedendo le solite cose e magari aggiungendo qualche patata da lessare.

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Ogni volta restavano entrambi fulminati. L'uomo si presentò come il nuovo maestro della scuola, cosa che Gina sapeva già perfettamente, poi poco per volta cominciò col chiederle il nome, l'età, dove abitasse ed in chiesa, alla domenica, non le staccava mai gli occhi di dosso, perdendo le risposte corrette ai vari et cum spirito tuo e le parole della predica... Quindi, preso un minimo di confidenza, fu la volta di notizie più personali: quanti in famiglia, la vita di tutti i giorni, la scuola fatta. Ecco, la scuola, fu lì che il maestro trovò il varco giusto. Finì per convincerla che poteva aspirare alla licenza di quinta elementare e che lui sarebbe stato lieto di darle lezioni gratuite, al pomeriggio, a casa sua. Fu così che, chiusa la scuola e mangiato un boccone, alle due dopo mezzogiorno, il maestrino s'incamminava lungo il chilometro e mezzo di distanza dal paese della casa colonica di Gina. La prima volta che lo vide anche Mariuccia restò senza fiato in gola. Poi, schiarendosi la voce, lo invitò ad entrare nello stanzone che era al medesimo tempo ingresso e cucina. Il tavolo al centro era pulito e con un paio di quaderni poggiati da una parte, alla luce di un paio di lanterne che pendevano dal soffitto. Il maestro salutò poi si sedette ad angolo con Gina, mentre Mariuccia gironzolava per controllare con la scusa di aver qualcosa da fare o restava seduta in un cantuccio a lavorare la lana. Dopo aver ripassato alfabeto, addizioni e sottrazioni, il maestrino prese a raccontare un po' di storia patria e geografia nazionale mentre moltiplicazioni e divisioni si facevano largo nella mente della giovane ormai confusa da quei capelli biondi continuamente ravviati, da quegli occhi chiari che le trapassavano i vestiti, dalle storie e geografie che parevano un sogno magico nella sua mente fatta di campagna, La Rocca, Sante Messe con saltuarie scappate giù piano per aiutare la mamma al mercato di città.

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Qualche volta Francesco Paolo restava a cena, complice Mariuccia che, da un lato, voleva sdebitarsi per le lezioni e dall'altro capire se era la volta buona per una figlia quasi zitella seppur bellissima. Peppino, tra una cucchiaiata di zuppa di fagioli ed un bicchiere di vino, cominciò ad informarsi sul conto dell'ospite. Era una storia triste quella del maestro, a malapena scampato dal terremoto che nel '915 aveva distrutto Avezzano e una buona fetta di quella parte della regione. Divenuto orfano di padre, restato sotto le macerie della fabbrica dove lavorava, mentre lui e la mamma l'avevano scampata per il solo fatto che erano per strada quando, circa alle otto del mattino, il mondo crollò. Ma fu dura arrangiarsi, divenuti di colpo poveri e senza casa, con la madre che cercava qualunque tipo di lavoro per tirare su il pane quotidiano. Mariuccia aveva le lacrime agli occhi, ogni volta che il maestro raccontava un pezzo della sua vita, e prese a benvolerlo sempre piÚ, mentre parlava dei libri di quarta, quinta mano, acquistati per andare a scuola, dei pomeriggi trascorsi come garzone di bottega per racimolare qualche soldo in piÚ, dopo che si erano trasferiti a Roma, visto che la madre, con l'aiuto del prete, aveva trovato lavoro in casa di un ingegnere, dove faceva la serva, come s'usava dire allora, e dormivano assieme in un letto da una piazza sola, su nel solaio dell'abitazione. Scampato il servizio militare quale orfano ed unico sostentamento della famiglia, visto che la madre era pagata interamente in nero, e diplomatosi maestro di scuola elementare, avevano finito per tornare nella Avezzano parzialmente ricostruita, dove lui faceva supplenze e dava lezioni private e lei lavorava come domestica ad ore. Fintanto che era giunta questa supplenza annuale a La Rocca, che aveva colto al volo, visto che erano soldi sicuri ogni mese e gli veniva messa a disposizione una piccola dimora gratuitamente.

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S'era ormai a dicembre e di lì a quattro giorni ci sarebbe stata la festa dell'Immacolata Concezione. La settimana precedente c'era stata la prima nevicatona dell'inverno incipiente e si faceva fatica a muoversi, senza spazzaneve o altre diavolerie moderne. Quel venerdì mattina la porta della scuola restò chiusa. Non c'erano bidelli allora ed i maestri dovevano arrangiarsi in tutto, comprese le pulizie che facevano di tanto in tanto con gli alunni stessi o con qualche mamma di buona volontà. Il maestro aveva la febbre e restò nel bilocale cui si accedeva dal retro dell'oratorio. Dalla piazzetta imbiancata Gina, dove aveva trascinato a fatica il suo carretto di frutta e verdura per il consueto mercato, s'accorse che, poco distante, i ragazzi erano ancora tutti ammassati fuori del portoncino d'ingresso della scuola e cominciavano a correre d'intorno, tirandosi palle di neve o giocavano a campana, con quadrati disegnati alla buona, dopo aver ricavato un po' di spazio asciutto tra la neve. Qualcuno, festoso, dopo un po' cominciava a tornarsene a casa. Non resistette. Prese il coraggio a due mani, coprì il carretto con il lenzuolo che usava lungo il percorso da casa alla piazzetta per proteggere la mercanzia, e si diresse verso l'oratorio. Superò la porta della scuola e scartò il gruppetto di bambini che ancora giocava lì davanti. Sempre lungo il perimetro dell'edificio fece ancora una trentina di passi e poi svoltò a destra, sul retro. Ancora una decina di passi e fu davanti al portoncino, che non aveva né campana né battente. Bussò una, due, tre volte, aumentando la forza. Udì una voce indistinta e poi dei passi. La voce roca chiese chi fosse e lei pronunciò il suo nome. La serratura schioccò, facendo un paio di giri, poi la porta s'aprì ed il povero maestro apparve con un pigiama a righine azzurre su fondo grigio e con una coperta sulle spalle, acconciata come

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fosse un tabarro. Il cuore le batteva in petto e rimbalzava nelle orecchie, ovattandole. Fece due passi dentro ed ebbe un moto di compassione ed al tempo stesso di tenerezza osservando le povere cose che erano nella stanza d'ingresso che fungeva anche da cucina. Sulla destra un tavolo di legno, piccolo, con tre sedie impagliate alla meno peggio d'attorno; dietro una credenza d'un verdino indefinito, logorata dal tempo e dall'uso, con i vetri delle antine annebbiati; di fronte il camino, che serviva per cucinare e riscaldarsi, con i mattoni anneriti ed un'ampia griglia sul piano, dove appoggiare pentole e tegami per la cottura; di lato la finestra chiusa con persiane che dava sul lato interno dell'oratorio. Francesco Paolo aveva i capelli più disordinati del solito. La salutò e le chiese il perché di quella visita tanto gradita quanto inattesa. Gina ristette un pugno di secondi in silenzio, tormentandosi le mani incrociate per l'ansia e col tamburo del cuore nelle orecchie. Disse che era preoccupata, avendo visto la scuola chiusa. Poi fu solo silenzio, mentre il maestro allargava le braccia e con esse la coperta che lo copriva come un tabarro. Sorrise avvicinandosi a Gina ed anche lei fece un mezzo passo in avanti. Finì per abbracciarla, quasi nascondendola sotto la coperta, mentre la febbre, quella che non riesci a curare, scoppiava nelle vene di tutt'e due. Durò un paio d'ore, poi Gina si ricordò del carretto incustodito sulla piazzetta. Si rivestì in tutta fretta e lo salutò con un ultimo bacio, sgattaiolando fuori guardinga dopo essersi accertata, dall'uscio appena schiuso, che non vi fosse nessuno nei paraggi. Con un sorriso diverso dal solito scoprì la mercanzia che erano ormai le dieci e mezza del mattino e più tardi, tornando a casa con ancora un paio di cassette piene di frutta e ver-

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dura, raccontò a Mariuccia che c'era stata meno gente al mercato, forse per la neve o forse perché il freddo cominciava a tagliare veramente la faccia dei paesani. Quel pomeriggio il maestro non si presentò per la consueta lezione e Gina, come ricordando trasalita, disse alla madre che al mattino la scuola era restata chiusa e che qualcuno le aveva detto che il maestro era malato. Mariuccia espresse il suo rincrescimento e disse che il giorno successivo sarebbero andate a trovarlo, per sapere come stava, portando delle uova e del brodo vegetale. Il sabato la scuola restò ancora chiusa, ma un cartello scritto a mano con bella calligrafia, affisso sulla porta, avvertiva che la chiusura era temporanea e che da lunedì 7 le lezioni avrebbero ripreso il normale corso. Verso le dieci Mariuccia e Gina bussarono alla porta ed il maestro era già vestito col suo abito grigio e la sciarpetta d'ordinanza. Fu sorpreso un poco di vedere Mariuccia, ma accettò di buon grado la visita, le uova e il brodo. Raccontò di stare molto meglio e che forse un angelo era passato per farlo guarire in fretta. Intanto guardava Gina, che abbassò gli occhi. Finì che non trascorreva giorno che non trovassero il modo di fare all'amore, fosse solo un bacio appassionato rubato mentre era uscita per prendere l'acqua al pozzo proprio mentre lui arrivava al casolare, o fosse un'ora nella stalletta, in terra, sulla paglia, dopo aver finto che il maestro avesse finito prima la lezione per tornarsene al paese. Dopo un po' Gina prese a chiedere quando Francesco Paolo avesse avuto intenzione di parlare al padre Peppino di fidanzamento e matrimonio. Il maestro scantonava, alludendo alla sua posizione lavorativa precaria, alla sua mamma lontana da preparare alla notizia, alla bellezza della ragazza che forse meritava qualcosa di meglio di un povero maestro di paese.

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Finché, verso la chiusura della scuola, Mariuccia, che s'era accorta che la figlia era cambiata, che lavava per conto suo la propria biancheria intima, che aveva uno strano sorriso che le illuminava il viso e gli occhi, e contemporaneamente qualche raro velo di tristezza e preoccupazione che la portava a lunghi silenzi, seduta vicino al camino, anche quando l'aria s'era stemperata col sopraggiungere della primavera, capì che occorreva fare qualcosa. Aveva ripreso ad aiutare Peppino nel lavoro dei campi, Mariuccia, visto che il figlio ormai grande era al fronte, dando così più spazio a Gina ed il suo amante per la loro ginnastica travolgente. Ma il sospetto era grosso. Tanto che Mariuccia un giorno lasciò il marito nel campo con una scusa e rientrò a casa alla controra. Dentro non c'era nessuno. Né in cucina né nelle tre stanze. Tornò sullo spiazzo davanti casa e poi si diresse con passo svelto in fondo, dove dietro il pozzo avevano la loro stalletta. Li sorprese su un giaciglio di fieno, senza dubbio alcuno sul tipo di lezione che il maestro stava impartendo alla figlia. Non vi furono urla o tragedie. I ragazzi si ricomposero alzandosi in piedi e liberandosi dei fili di fieno restati addosso e tra i capelli. Mariuccia chiese a Francesco Paolo di prendersi le sue responsabilità, perché la loro era una famiglia onesta. Il maestro assicurò il suo amore per Gina, provando a tirare ancora fuori il fatto che era ancora un semplice supplente di scuola. La donna ricordò che lassù, in montagna, avevano imparato che per ogni problema c'era una soluzione e che da loro, se uno mangiava un certo frutto, doveva poi comperarselo, senza tante storie e senza perdere tempo. Gina non disse una parola, ma in cuor suo era contenta di porre fine a quella storia clandestina e di sposare quell'uomo bello, gentile e istruito, che la faceva sognare nella mente e

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nel corpo. S'era ormai al 16 giugno e in settimana la scuola chiudeva l'anno scolastico. Il maestro disse che entro pochi giorni sarebbe tornato a parlare con Peppino. Il tempo di contattare la madre per metterla al corrente della novità. La scuola chiuse il giorno 18 giugno 1943, di venerdì. Quella mattina il maestro aveva già pronte tutte le pagelle, che distribuì alla classe. Alle dieci e mezza, come tutti i venerdì, durante l'intervallo raggiunse il carretto di Gina nella piazzetta ed in un orecchio le sussurrò che alla sera sarebbe andato a trovarla, per chiarire le cose con Peppino e Mariuccia. Lei sorrise e lo baciò su una guancia, così, davanti a tutti quelli che erano in piazza.

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III

Non arrivò mai. Qualcuno disse che alle due del pomeriggio l'avevano visto incamminarsi con una valigia squadrata e la borsa da lavoro sottobraccio, a piedi, lungo lo sterrato che conduceva al piano. Lo cercarono a lungo, ma tra i tanti Cipollone di Avezzano, nessuno sembrava ricordarsi di un Francesco Paolo, che faceva il maestro. Quando avevano perso le speranze, incapparono in un parroco di mezz’etĂ che ebbe un sobbalzo sentendo parlare di capelli biondi, occhi azzurri e vestito grigio. La descrizione gli ricordava la storia di una sua giovane parrocchiana, il cui fidanzato era sparito di colpo circa un anno e mezzo prima, alla vigilia delle nozze, lasciandola sola con un bimbo nella pancia e la vergogna dipinta sul volto.

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