Mezze stagioni In copertina Francesca Toscano
CNicolaj Lilin Carlotta Monni Sasha Prosperi Anita Inverarity Pax Paloscia Linda De Zen Kirolandia Beatrice Bogoni Alchemical Dancer
STIGMAZINE Benvenuti al numero
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www.stigmagazine.com 1
Fotografia di copertina di Francesco Viscuso
Colophon Stigmazine via Castel Morrone 6 20129 Milano Direttore responsabile Alessandra Giannini editor@stigmazine.com Vicedirettore Olga Orlandi zine@stigmazine.com Caporedattore Rossana Calbi Art direction e progetto grafico Alessandra Giannini Fotografi Luca Boveri, Tommaso Costa, Ivan Lattuada, Laura Penna, Francesco Viscuso Photoeditor Alessandra Giannini Ufficio grafico Franco Lodolo Redazione Francesco Bravin, Rossana Calbi, Cesare Facchetti Amman, Laura Ferrai, Cecilia Granata, Marco Mattaliano, Davide Sivad, Costanza Tagliaferri Illustratori Arianna Armini, Cesare Facchetti Amman, Marialaura Fedi, Alessandra Giannini, Cecilia Granata, Olga Orlandi, Davide “Nebrasca� Failla, Nadia Sgaramella, Shone, Marco Zavan Finito di stampare il 10 Agosto 2018 200 copie 2
Editoriale(love) di Alessandra Giannini @alelove
Le mezze stagioni sono un po’ come le mezze misure, non si usano più. O bianco o nero, siamo nell’epoca degli estremi. Ecco perché anche il clima si adegua e passa dal freddo gelido dell’inverno all’afa torrida estiva. Ci manca la primavera, l’autunno quelle stagioni di mezzo in cui il clima è perfetto, in cui si sta davvero bene a passeggiare all’aperto senza rischiare i geloni ai piedi o le ascelle “pezzate”. Ecco perché abbiamo voluto dedicare un numero alla “mezzeria”. La demi-saison
è démodé e ci facciamo un vanto di averla declinata in un intero e interminabile numero. Siamo outsiders fino in fondo e vogliamo affermare controcorrente che le mezze stagioni esistono e che torneranno di moda, basta con gli eccessi stagionali, inneggiamo alla mid-season! Non vi resta che leggere tutto d’un fiato e perdervi nelle illustrazioni e fotografie scelte con cura per deliziare i vostri occhi, fatelo con calma assaporando questo clima fresco e tiepido che
caratterizza la mezza stagione. Come mi ricorda sempre mia mamma: in medium stat virtus, la virtù sta nel mezzo. Forse un invito a noi artisti, tatuatori a essere più morigerati, a dimezzare le nostre velleità e pretese?! Dimezzare non guasta mai, ma di sicuro non dimezziamo il nostro numero di «Stigmazine» che si presenta sempre ricco e corposo, un numero primavera-autunno da gustare però in tutte le stagioni.
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CoeditOerre NON ESISTE CHE NON ESISTE
Eccome se esistono le mezze stagioni! Mentre scrivo è aprile, piove fitto e dritto come sotto le cascate dell’Iguazú, la temperatura a terra è, a sensazione, di una dozzina di gradi e io vi dico che le mezze stagioni esistono eccome. Anzi, vorrei sapere perché non si riconosce loro un’interezza. Quando sarebbe il miracolo che non si battono i denti e non si suda, se dalle albe gelide e buie dell’inverno si capitombolasse in un tonfo nell’estenuante canicola che stampa l’ombra dell’uomo che se ne va sicuro, sopra uno scalcinato muro!? Quanto a me passerei metà dell’anno a fare pediluvi per reinfondere sangue alle ditine in Raynaud e l’altro semestre a veder nero ogni volta che mi sollevo da seduta. Quando mi ritrovo fra l’uno e 4
l’altro orrore barometrico io vorrei che durasse all’infinito. Per esempio, da poco, sono stata sulla Riviera di Levante per un giorno. Dopo aver scarpinato in alto e aver puntato i piedi giù per la discesa ripida, in una bella luce, con quel refolo fresco che m’asciugava il sudore prima che stillasse, con quel sole sufficiente a togliere la felpa mentre t’inerpichi senza che ti ritrovi a grattarti la rogna come quando ti scotta... dopo questo, sono stata in spiaggia. Se c’è un luogo infernale d’estate è la spiaggia; se c’è un luogo sublime è la spiaggia nelle mezze stagioni: se non è deserta è comunque più sgombra, si fuma senza i conati di vomito, si legge senza la avere puntato sul collo il filo assassino del sole a piombo. Poi ti butti. L’acqua è fredda ma
ti dice che sei vivo: senti la pelle accapponarsi, i capezzoli diventar duri come fagioli secchi e un risucchio vertiginoso nello stomaco; ti esagiti per poco ed ecco che il sangue riprende il circolo come una sabbiatrice e ti senti sodo come un uovo della torta pasqualina. Corri fuori, ti strofini pazzamente e risenti la piacevolezza del clima tiepido. Ti rivesti a metà, ti butti all’indietro e vedi le nuvolette di fumo che espiri aggiungersi a quelle che attraversano il cielo. Se non è una completezza questa io mi domando quando mai avremo l’occasione di sentirci integri? A ogni modo dura poco: poi si torna “in stigmazine”. OERRE
Indice 3. Editoriale(love) 4. CoeditOerre 5. Indice 6. Le interviste impossibili: Djita, Anna, IKEA e l’oleandro 8. Nicolaj Lilin 16. Carlotta Monni 20. Luisa Gnecchi Ruscone 24. Sasha Prosperi 28. Alchemical Dancer 34. Beatrice Bogogni 38. Anita Inverarity 40. Francesca Toscano 46. heArts 52. Kirolandia 54. Linda De Zen 58. Manuel Cossu 64. Pax Paloscia 68. IO SONO QUI! 74. On the Road 80. Strambi notturni 82. L’autunno del medioevo 84. Psicogeografia del tatuaggio 86. Mezze Stagioni 88. My Name Is Earl 90. Nuova Zelanda, dove ci sono solo mezze stagioni 92. Caos, determinismo e e una sola certezza: un lungo, gelido inverno nucleare 94. Self-Ink
Errata corrige numero quattro: Pag. 12 Panthera Kaiuss
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Le interviste impossibili
Djita, Anna, IKEA e l’oleandro Olga Orlandi incontra Djita Salomé Illustrazione di Olga Orlandi Sarà il destino di chi ha malnutrito l’immaginario masticando foglie d’oleandro durante la ricreazione, ma a me capita e ricapita di ritrovarmi in accidenti alla Essere John Malkovich. Accidenti! Appunto: è il grido strozzato che mi è uscito di bocca quando stavo chiedendo all’Anna virtuale di IKEA di mostrarmi tutti i contenitori e... ACCIDENTI! Mi si appalesa nello schermo una che non è affatto Anna... mi si rivolge presentandosi – salve, sono Djita Salomé: in cosa posso esserti utile? Più ancora della cordialità inaspettata, mi sbigottisce l’aspetto della nuova assistente telematica: è una giovane signora d’altri tempi, vestita alla moda elegante degli anni Trenta, ricoperta di tatuaggi old school. Va bene che IKEA è temeraria nel marketing e che persino le bustone gialle che parevano intramontabili, sono state sostituite da quelle blu, ma questa nuova consulente vintage violence è davvero fuori da qualunque logica. E allora l’ho messa alla prova! OERRE – Cos’è? Un attacco informatico? LEI – Non conosco il significato di informatico, posso mostrarti tutti gli attacchi per tende. 6
OERRE – Ma sei seria? LEI – Sono Djita Salomé. OERRE – In effetti potrebbe essere un nome scandinavo. DJITA – Non so risponderti. Non ho memoria di com’era che sono nata e cresciuta, e dove, e quando. So che ho scelto il circo per sopravvivere e, non avendo abilità ginniche, ho potuto solo fare il fenomeno come Lady tatuata. Oggi che non sono più una rarità, il circo mi ha congedata e ho trovato posto qui. OERRE – E ti presenti così vestita e acconciata? IKEA non ha la politica della divisa democratica? DJITA – Forse cercavi divisori cassetti. OERRE – D’accordo, è uno scherzo. Una di quelle indagini statistiche per capire che immagine dà più lustro ai negozi in questi tempi hipster. DJITA – Continuo a non capire: sfoglia il catalogo virtuale per trovare ispirazione. OERRE – Ispirazione? Mi pare che qui l’ispirazione sia tu! DJITA – Se vuoi farmi uno screen shot sono dieci dollari. OERRE – Pensa questa! Si vende le cartoline sottobanco mentre lavora per IKEA: Oh! Guarda che il Nord Europa è lungimirante ma austero, queste furbate ti costano il posto. DJITA – Se stai cercando un diva-
no, non troverai divani da un solo posto, ma posso mostrarti tutti i divani. OERRE – Non cerco un divano! Ormai voglio solo sapere se sto sognando o sono finita in un anfratto del Deep Web. DJITA – Non so se ho capito bene, ti indico tutte le soluzioni per una casa sicura a prova di bambino. La webcam puntata su Djita comincia a fare stranezze, e il suo piano americano con l’acconciatura ondulata dai ferri Marcel, il décolleté tatuato e il resto strabordano e di qua e di là. Non sono sicura di quello che vedo, ma mi pare che Anna con la sua polo gialla abbia fatto irruzione: si azzuffano! Anna è fuori di sé: dice cose irripetibili, afferra Djita per i capelli, la strattona dal vestito e le strappa i fronzoli, finiscono fuori dall’inquadratura. Il sito si oscura. Poi si collega di nuovo. Metto a fuoco un viso anziano con la crocchia: è la signorina Iole, la direttrice della Scuola Montessori; mi fissa con aria severa ma rassegnata e dice in un sospiro – d’altronde l’ho ripetuto mille volte che le foglie d’oleandro sono velenose. Buio di nuovo, vado al Santa Rita a farmi una lavanda gastrica.
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Lilin Il marchio di Nicolaj
Intervista di Alessandra Giannini Fotografie di Ivan Lattuada
Chi non ha visto Educazione siberiana? Molti sicuramente hanno letto il libro, caso editoriale nel 2009, da cui è stato tratto il film, e tutti di sicuro, nell’ambiente della tattoo-art, conosciamo Nicolaj Lilin, e i suoi racconti sul tatuaggio siberiano. Non tutti sanno, però, che lui è veramente un tatuatore e che vive e lavora a Milano. Lo vado a trovare nel suo studio il Marchiaturificio, in centro città dove lavora con la sua socia Carlotta Monni. Mi colpisce la gentilezza e educazione di Nicolaj, faticosamente me lo immagino in un contesto di delinquenza, non riesco a immaginarmelo armato se non di una penna o di una macchinetta. Ma la sua fermezza e la decisione delle sue posizioni soprattutto quando parliamo della sua terra e della sua gente manifestano un profondo attaccamento alle origini. Lilin ci accoglie nella sala tatuaggio, tappezzata dai suoi disegni e stencil. Sono sempre affascinata dalle contaminazio-
ni, io in prima persona sono un architetto-tatuatrice e so come spesso sia difficile ma stimolante conciliare professioni diverse. Lilin è uno scrittore-tatuatore e voglio assolutamente sapere come convivono in lui queste due professioni. A mio parere hanno in comune la dimensione del racconto, della storia e con questo do inizio l’intervista.
Abbiamo “intervistato” Ötzi nel nostro numero 1. Questo è molto interessante, sono andato a vederla. Io ero molto affasciato dal mondo degli adulti, capivo che si trattava di qualcosa di strano e di misterioso, di un simbolo di appartenenza e cercavo di scavare per
Sei scrittore e tatuatore, in entrambe racconti storie o con le parole o con il disegno, da dove nasce questa ossessione per il racconto? È una specie di curiosità. Io a tatuare ho cominciato a otto anni perché sono cresciuto in mezzo a un mondo fatto di persone tatuate anche se all’epoca non capivo ancora bene chi fossero. Nella cultura russa il tatuaggio è una lingua e il tatuaggio siberiano è il padre di tutti i tatuaggi moderni russi. La mummia tatuata più antica è Ötzi, la nostra mummia siberiana. 9
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Carlotta Monni Madonne milanesi Intervista di Alessandra Giannini
Carlotta lavora al Marchiaturificio con Nicolaj Lilin. Insieme cercano di tradurre su pelle le storie dei loro clienti lavorando sul simbolo e sulla sintesi tra tecnica e grafica. Il suo stile ha una base solida di matrice old school. Carlotta quando hai iniziato a tatuare e perché? Ho iniziato a tatuare, o meglio a imparare, facendo la mia gavetta nel 2008 al Quetzal Tattoo a Milano. La mia è stata una vera e propria vocazione: da quando ho visto il primo tatuaggio su un mio vicino di casa, un’ancora ormai bluastra con una scritta attorno che diceva – amo chi mi ama. Ho subito avuto una forte attrazione inspiegabile e ancestrale verso questa pratica: volevo sapere come si faceva, come poteva l’inchiostro rimanere nella pelle e che strana storia pote17
Luisa Gnecchi Ruscone Le origini del tatuaggio Intervista di Alessandra Giannini Foto di Ivan Lattuada Dopo la mostra STIGMATA – La tradizione del tatuaggio in Italia, tenutasi al Museo medievale di Bologna e l’uscita del libro TATTOO. La storia e le origini in Italia incontro la storica di tatuaggio Luisa Gnecchi Ruscone. L’appuntamento è presso lo studio-museo Queequeg alle porte di Brera. Entro da un angusto passaggio per trovarmi in un cortile vecchia Milano e infine nella piccola sala d’attesa del Queequeg. Mi colpisce la moltitudine di disegni, cataloghi e oggetti che ricoprono soffitti e pareti, lo studio è un museo, pieno zeppo di strumenti da tatuaggio antichi, oggetti ritrovati e curiosità. Luisa Gnecchi Ruscone è moglie del maestro Gianmaurizio Fercioni e con lui lavora insieme anche a loro figlia Olivia. Luisa è una studiosa di tatuaggio con al suo attivo molte ricerche, libri e articoli. Attraversando la sala da tatuaggio mi accompagna in un cortiletto dove le faccio alcune domande. Il libro racconta delle origini del tatuaggio fin dalle sue 20
antichissime origini, con rimandi alla Bibbia, e a Ötzi, la mummia del Similaun. Molto curiosi i riferimenti al Cristo della domenica, figura iconografica medievale che rappresentava Cristo trafitto da più oggetti, comuni strumenti da lavoro, scalpelli, zappe, coltelli, seghe, fusi per la filatura. In questo modo si ricordava ai fedeli che la domenica è un giorno da dedicare a Dio e non al lavoro. Altro scorcio affasciante approfondito nel libro è quello del tatuaggio lauretano. Stampini raffiguranti immagini sacre che venivano tatuati on the road ai fedeli in pellegrinaggio. Infine non poteva mancare Cesare Lombroso e i suoi studi sul tatuaggio criminale. Sbalordita dalle curiosità che mi attorniano nel museo, ne approfitto per fare a Luisa qualche domanda personale e per approfondire qualche aspetto del libro. Come nasce la tua passione per i tatuaggi? La mia passione nasce quando incontro mio marito. Io non avevo tatuaggi e lui era pieno e gli dico: “ti fai del male a fare per
sgorbiarti la pelle”; poi ho capito che invece non c’entra niente il dolore e che la dimensione non è quella. Quando Tommaso Mursia, che era un nostro cliente, ha chiesto a Gianmaurizio di scrivere un libro sulla storia del tatuaggio e lui mi ha detto: “io non ho tempo, fallo tu”. Cosi in un anno mi sono fatta la mia bella ricerca e da lì è iniziata la mia storia degli articoli per quella che allora si chiamava Tattoo Revue e poi è diventata Tattoo Life. Sei tatuata? Continuo a non essere tatuata. Non ho mai avuto voglia. Ogni tanto mi vengono delle idee bizzarre ma alla fine non lo faccio mai. Ci ho messo cinque anni a bucarmi un orecchio. Mi sembrava un gesto irreversibile. Ma la storia del tatuaggio mi appassiona molto. Compagna nella vita e nel lavoro del maestro Gianmaurizio Fercioni, non ti è mai venuta voglia di tatuare? Lo hai fatto? No. Non avendone io, non mi sembrava corretto. Ho tatua-
Sasha Prosperi Mi guardo indietro e vedo un lungo percorso Intervista di Rossana Calbi
Secondo posto nella categoria Avant Garde in occasione della diciannovesima International Tattoo Expo di Roma: un altro premio per Sasha Prosperi. La conosco da circa dieci anni e la prima volta che l’ho vista era sempre in occasione di una convention per il ritiro di un premio, da allora non ha mai smesso. Le ho visto realizzare mille stili e scoprirne uno suo che la rende riconoscibile e unica: Sasha Prosperi non è mai uguale a se stessa, è sempre in continua evoluzione e crescita. Nonostante la sua professionalità e capacità artistica, sempre pronta a intraprendere nuove sfide, è il punto fermo in una spirale d’arte con un immaginario che si lega a riferimenti culturali vividi e precisi. Titolare dal 2001 dello studio aquilano Ju Tattoo lei, è una delle signore del tatuaggio italiano, una di quelle istituzioni che ti rassicurano perché in lei ognuno dovrebbe e potrebbe trovare riferimento, consiglio e soprattutto un sorriso.
Ebbene, sì, sono sopravvissuta!!!! Ahahahahah! Effettivamente la prima volta che ho visto e sentito i -15 ho pensato che non sarei riuscita a sopravvivere, ma nel giro di qualche anno ho apprezzato molto questo clima perché rende tutto più reale più
intenso, si percepisce più intensamente il volgersi delle stagioni rimanendo collegati al ritmo della natura. A parte la facile ironia di una calabrese con una pessima circolazione, quanto ami L’Aquila tanto da ricostruire la
Vieni dal mare e adesso vivi in una delle città più fredde d’Italia, ma si può veramente? 25
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Danze alchemiche Intervista ad Alchemical Dancer di Alessandra Giannini
L’alchimia oltre a essere una disciplina scientifica era esperienza di crescita e di liberazione spirituale, un percorso di conoscenza filosofica a tratti mistica. I simboli alchemici segnano le tappe di uno sviluppo spirituale nella ricerca di Alchemical Dancer. Il pecoroso simbolico interiore spirituale e autobiografico è raccontato attraverso pochi colori, bianco nero rosso e oro, linee asciutte e pulite, quasi geometriche. La ricerca coinvolge molteplici simboli e totem, animali, ibridi, alberi, donne e pianeti rappresentati in illustrazioni, xilografie e dipinti su legno. In pochi segni si materializzano ambientazioni oniriche e surreali composte in simmetrie e pattern geometrici, talvolta grafici, talvolta decorativi. Le sue opere trascinano in un vortice emotivo, in un percorso o meglio in una danza serrata costellata di avvenimenti, quasi delle visioni notturne. Come ci racconta il suo percorso nasce da una propria esigenza di guarigione e con tono solenne divengono raccon-
to autobiografico ed esperienza salvifica condivisa. Partiamo dalla scelta del tuo nome, sei una danzatrice alchimista? Come danza e al-
chimia si sposano nella tua vita? Nel mio nome danza e alchimia sono uniti da una relazione di reciprocità. La danza è movimento, il movimento è trasformazione e la trasformazione è un processo alchemico. È un modo per rappresentare l’allineamento tra corpo e universo, sincronizzare le nostre energie con quelle cosmiche. Il nostro corpo non si limita solamente alla parte fisica ma comprende tutta una serie di energie che riceve, elabora, restituisce al mondo esteriore e viceversa. È uno strumento di percezione che ci connette al piano spirituale ed emozionale dell’esistenza. Un esempio di tutto ciò è la danza sufi che è una forma di meditazione per raggiungere l’estasi e uno stato più elevato di coscienza. Ho trovato una canzone From Caterpillar to Butterfly degli Alchemical Dancer Li conosci? No. Ho creato questo nome nel 2011 e all’epoca ancora nessu29
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Beatrice Bogoni Non sono mai stata una bambina normale, per fortuna Intervista di Rossana Calbi Fotografie di Tommaso Costa L’immagine di Beatrice è delicata, fragile e quasi eterea e le sue creature hanno le medesime prerogative, ma Beatrice dichiara la sua forza anche nel suo aspetto, spezzando quell’armonia e sottolineando la drammaticità della sua essenza intima; gioca con se stessa, diventa la sua prima bambola da modificare per usare la sua stessa fisicità come dichiarazione dei suoi intenti artistici. Ho avuto modo di seguire il suo lavoro dal 2015 in occasione della mostra collettiva dedicata al film Fantasticherie di un passeggiatore solitario, fino alla sua personale Bright Blemish, un progetto espositivo personale in cui l’artista di San Donà di Piave ha usato le bambole per raccontare quello che è il nostro dramma costante: l’incapacità di accettazione che abbiamo di tutto ciò che ci appartiene. Del nostro mondo interno, delle nostre paure, che dichiarate nelle sue opere sono drammaticamente comuni e quindi, forse, più affrontabili. Come nasce il progetto legato agli oracoli? Li hai inventati
totalmente o ti sei ispirata a qualche studioso della materia? Il progetto nasce da un profondo e radicato desiderio: quello dell’avere un mazzo di carte divinatorie creato proprio da me, il MIO mazzo di carte. È un percorso iniziato circa una decina di anni fa, e il mazzo di oracoli Il Baule Dei Giochi ne è solo la prima manifestazione. Girano voci che io stia già lavorando alla seconda! Da bambina, giocavo con un mazzo di tarocchi trovato a casa di mia nonna, senza sapere che cosa avessi tra le mani; sentivo che quelle immagini mi chiamavano, non so spiegarlo, ma ricordo ancora nettamente la sensazione di potere e mistero che suscitavano in me. Da adolescente ho iniziato a documentarmi, studiare e collezionare i primi mazzi, e ora eccomi qui: i tarocchi e le carte per la divinazione sono, insieme all’arte, la mia grande passione. Amo follemente il fatto che questi “semplici” pezzi di carta possano aprire delle porte dentro di me. Adoro usarli come mezzo per conoscermi profondamente e, con
piacere, poter aiutare anche gli altri a fare lo stesso. I personaggi e le immagini de Il Baule Dei Giochi provengono dalle mie profondità. Incarnano, nella loro imperfezione, le maggiori suggestioni di cui i miei sogni parlano. Non sento di aver davvero creato queste immagini: ho più che altro la sensazione di aver portato alla luce qualcosa che già esisteva, da qualche parte. La carta per me è un feticcio, la annuso, la tocco e me ne circondo nonostante accumuli la polvere che mi fa starnutire come uno Yorkshire imbizzarrito, tu che rapporto hai con la carta? La carta è la superficie sulla quale il mio mondo interiore diventa visibile. Le sono molto grata. Sono un po’ vecchia in questo, preferirò sempre quella che io chiamo arte tradizionale, fatta di pennelli, inchiostri, e carte impolverate. Bright Blemish, il progetto in esposizione permanente presso la galleria Parione9 35
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Francesca Toscano Consapevole dell’utilità del verde Intervista di Rossana Calbi Fotografie di Francesco Viscuso —Ho bisogno di ricreare casa di mia nonna. Questa fu la mia richiesta per l’allestimento di Exit Voto, mostra di un paio di anni fa presso Parione9 Gallery. Francesca ascoltò i miei ricordi e la mia preghiera di ricreare il posto dove l’idea della mostra era nata: una vecchia casa di un paesino calabrese piena di cose inutili e di mille santini che hanno disegnato la mia infanzia più dei libri illustrati.
di ferma staticità, le creazioni di Francesca Toscano fermano semplicemente il tempo. Architetto paesaggistico e floral designer, due professioni che nel Bel Paese hanno il giusto rilievo? In Italia è più facile che si cerchi un giardiniere piuttosto che un paesaggista, nonostante siano due professioni completamente diverse, come del resto quella del floral designer che viene
spesso scambiata per quella del fioraio. Se da una parte la richiesta di professionalità sta aumentando, dalle istituzioni e da qualche privato, la maggior parte delle persone è ancora invischiata nel capire quale sia la differenza tra le varie competenze. Però a me sembra che quello che stia accadendo, l’attenzione crescente per il verde, la sua riqualificazione nei contesti urbani, la riappropriazione degli spazi aperti, ma anche il ritor-
Francesca Toscano ti ascolta in silenzio, elabora un progetto che non ti dice, e inizia a fare tacitamente. A volte riporta all’ordine Nina, la deliziosa cagnolina stracciatella che porta sempre con sé, e ricomincia con le sue mani a intrecciare fiori con altri oggetti in una continua ricerca non della perfezione ma di una decadenza che osanna in una bellezza caduca. Tutto sta per morire per sgretolarsi, ma riesce ancora a prendere forma rinvigorendosi non di vivido colore, ma 41
FRANCESCA PIZZO
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HEARTS exhibition by 31 women
heArts Introduzione di Rossana Calbi progetto fotografico di Laura Penna testi i Laura Penna e delle artiste ritratte
heArts per la terza volta qui racconta le sue protagoniste: in ogni numero quattro artiste descrivono un momento quello dello scatto fotografico di Laura Penna, nel corso di questi racconti e nell’esperienza che abbiamo vissuto lo scorso settembre con gli shooting a porte aperte nella galleria Sala Blu di Roma, la fotografia di Laura si delinea come immediata e priva di tempi lunghi. Laura sente la figura e l’anima che ha davanti, la studia e la conosce e costruisce con lei un’empatia immediata, ogni sua protagonista è a suo agio e riesce a dire nel suo volto quello che è.
FRANCESCA PIZZO Nasce e vive a Bologna ma ha sangue siciliano nelle vene. Da bambina disegna, studia danza classica e prende lezioni di chitarra e canto. Dopo avere frequentato l’Accademia di Belle Arti espone i propri lavori in Italia e all’estero fino a quando non decide di dedicare più tempo alla musica e inaugurare il duo Melampus. Oggi è tatuatrice e sta per cominciare le date del suo nuovo progetto Cristallo.
LO SCATTO PER FRANCESCA
PER LAURA
Come è stato farsi fotografare da Laura? In tutta onestà? Farmi fotografare da Laura è allo stesso tempo una cosa bellissima e terribile. Il giorno dello scatto ero appena rientrata a Bologna dopo un weekend a Roma e venivo da un altro shooting con un amico fotografo che, nella grande introversione che mi caratterizza, mi aveva traumatizzata. Ero così felice di partecipare al progetto di Laura eppure così scombussolata che ricordo bene di non averle nemmeno chiesto di sedersi un attimo nel mio studio, dove mi aveva raggiunta per fotografarmi. Lei che di esperienza ne ha molta ha capito subito che bisognava cogliere l’attimo e in cinque minuti mi ha immortalata. Il risultato è questo e la ringrazio per avere avuto tanta pazienza con me.
Ho realizzato questo scatto nel meraviglioso e onirico studio di Francesca. Un posto bellissimo nel cuore di Bologna dove si respira arte e musica. Lo scatto prevedeva una piccola preparazione tra cui, attaccare una serie di piccole farfalle sulle spalle di Francesca. Volevo trascinare Francesca in un’atmosfera lontana e ricca di simboli. Avevo già mandato a Francesca lo schizzo dello scatto per farle capire cosa avessi in mente e quando lei mi fece notare che all’interno della mano aveva tatuata una scritta mi sembrò subito una vera magia.
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Linda De Zen
Guardate in alto e sorridete Intervista di Rossana Calbi Fotografie di Laura Penna
La prima cosa che provi quando ti trovi di fronte a Linda De Zen è imbarazzo, lei ti sorride, e prende la sua penna e fissandoti senza mai distogliere i suoi occhi da te mentre tratteggia sul foglio delle linee continue. Quelle linee sono confuse, si sovrappongono, ma tu stai lì! E alla fine di tutto, ti ringrazia e ti abbraccia. Tu continui a star lì, hai compreso poco di quello che è accaduto e cerchi di recuperare la tua razionalità sentendo che hai perso qualcosa: hai perso il controllo! Ripensi a quello schizzo realizzato senza mai guardare il foglio e vuoi riprenderti quello che hai perso nel suo tratteggio, vuoi salvare quello che credi ti sia necessario, ma non puoi più farlo. Ecco quello che fa Linda Di Zen alla tua anima con la sua arte: ti crea un disagio emotivo, ti fa scardinare degli avamposti su cui avevi basato parte del tuo agire, scardina le tue sicurezze. E vorrei dire che lo fa con la rabbia di Pollock, o con il disprezzo di Francis Bacon ma lei non ti urla
contro, non infierisce sulla tua staticità e incapacità di evolverti come essere umano. L’artista vicentina non usa nessuna forma di aggressività: il suo segno scivola assieme al suo sorriso e tutto è normale, facile, ma tu, mentre lei ti ritrae, stai cambiando e, quando te ne rendi conto, vorresti anche opporti, com’è facile fare di fronte a ogni cambiamento, ma la resistenza non serve a nulla perché le sue linee si sono già sovrapposte alle tue e la mappa dei tuoi connotati sta cambiando. Tutto questo senza nessun ragionamento a monte, senza la ricerca della purezza lineare di Matisse, tutto questo solo perché quegli occhi, i suoi e quelle mani, le sue, non riescono a fare altro che guardarti dentro e farti superare il tuo limite maggiore: te stesso. In mostra a maggio per la sua seconda personale romana, a stanze, nello spazio La Clessidra Sala Blu, Linda De Zen è arrivata da Malo, in provincia di Vicenza lo scorso anno e i suoi taccuini si sono riempiti di volti che raccon-
tano la sua nuova vita quella di un’artista. Sei arrivata a Roma da poco più di un anno e ti sei trovata a gestire un luogo espositivo. Che differenza c’è tra l’organizzare un festival di arti performative e delle mostre? Lo spazio. In entrambi i casi si tratta di immaginare un’atmosfera e tradurla in un’esperienza concreta. Questa possibilità che mi è stata offerta, di pettinare ad arte un luogo per renderlo presentabile e capibile, mi spinge a prendere tutto quello che è la costruzione di un festival, e tradurlo nella parola allestimento di una presentazione artistica. Devo ringraziare Sala Blu e soprattutto Adnan “Paradiso” Slameh che mi hanno lasciata libera di creare a istinto queste idee che si traducono nella presentazione di una terza opera, fusione tra il lavoro dell’artista e la sua messa in scena espressiva. Hai conosciuto moltissime persone in quest’anno che 55
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Manuel Cossu God bless you! Intervista di Rossana Calbi
E fu la fine!
gioco con gli ossimori perché io, in quei colori semplici, ci vedo una ricerca disperata, una cura aggressiva, ma sempre e comunque qualcosa da cui non riesco a staccarmi, e accadrà così anche per voi. Me ne sarete grati!
Non so se ringraziare chi mi consigliò di incastrare il mio astigmatismo sulle figure difformi di uno degli artisti più visionari e semplici su cui io mi sia imbattuta, o dirgli che avevo già tanti problemi nel canalizzare le energie che la mia miopia non aveva di certo bisogno di fissarsi su quei graffi così a lungo. Il mio ottico ringrazia di sicuro! Avevo un conto aperto con lui e qualche domanda fastidiosa se la meritava, ma voi meritate lui! Manuel Cossu è il batterista dei Manges, una delle band italiane punk-rock più conosciute, e va be’, se non fosse abbastanza: dipinge una realtà distorta e lineare, i suoi miti e le sue passioni si trasformano in paure e ossessioni. Scrivere della sua pittura è un
Non ami la tecnologia in generale: cellulare vetusto a cui rispondi poco o nulla (aspetto ancora una risposta ad un sms dal 2015), nessun indirizzo di posta elettronica, almeno questo articolo su carta lo leggerai? Ma forse non importa, invece vorrei sapere quali sono le pagine dei libri che preferisci e perché. Raccontaci i tuoi autori. Ciao Rossana, sì, odio la tecnologia. Avevo già problemi in quinta elementare a rapportarmi con la calcolatrice, continuavo a confondere il tasto della percentuale con quello della divisione. Da lì non mi sono più sbloccato: figurati avere a che fare con un iPhone o un computer… Anni fa mi hanno imposto un Nokia per restare in contatto con il mondo,
– Hai mai visto le opere di Manuel dei Manges? Non so se risponde al tuo genere, però dagli un’occhiata. Magari ci trovi qualche spunto.
il solito Nokia che probabilmente non è riuscito a risponderti (scusa!) comunque ho ancora il Nokia e il mondo è ancora un mistero. Certo che leggerò questo articolo su carta, conta che il mio stato mentale è da sala d’aspetto. Vivo in una sala d’aspetto e in una c***o di sala d’aspetto le riviste su carta sono le tue migliori amiche. I miei autori preferiti sono Mickey Spillane, F.X.
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Pax Paloscia la mia Alice desidera perdersi Intervista di Rossana Calbi
Colore steso che diventa il negativo di uno scatto fotografico, la vita cercata per le strade ritorna sulle strade ma in una chiave diversa, indurita nel tratto ma con colori pastello: la vita ritorna dove è stata rubata. Pax Paloscia semplicemente ne sottolinea i tratti, ne evidenzia la concordanza anche utilizzando elementi discordanti, se c’è una costante nelle opere dell’artista romana è proprio quell’armonia vitale che conserva sempre, che ruba dai passanti, ma anche dai suoi modelli e che restituisce sui muri. Divisa tra Roma e New York, tra le gallerie, la sua ultima mostra personale, Alice Down to the Rabbit Hole, nell’aprile del 2017 da Rosso20sette nella Capitale, e nel 2016 è una delle protagoniste di Scope Art Fair a New York, Pax Paloscia ha un dono molto semplice: la capacità di osservare. Sembra semplice osservare, ma non si riesce a vedere, e neanche semplicemente a guardare. Presi dalle nostre nevrosi non riusciamo a uscire dalla nostra testa ed ecco che ci serve qual-
cuno che ci fermi in questo turbinio costante e perenne. Pax si incanta sempre e si incastra non in dettagli ma sui soggetti, sulla vita e le sue trasformazioni, sul suo divenire; questi sono i temi di un’artista che si muove con diversi supporti: tela, carta, cartapesta, video, che non desidera fermare né chi osserva né se stessa, ma che descrive un frame di quello che ci stiamo perdendo nel nostro incedere.
e gli diamo una voce, uno spazio, ci permettono di cambiare.
Fotografia, acrilici, carta, tela; usi elementi poliedrici per creare un multistrato artistico. Come organizzi il tuo lavoro in questa poliedricità tecnica? Ho iniziato a fotografare Chiara qualche mese fa per strada, poi in studio. Abbiamo usato maschere, coinvolto i suoi amici, i miei, esplorato quartieri e scoDove va la tua Alice? perto strade nuove di Roma. La mia Alice desidera perdersi. Tutte queste immagini e video Non vuole più controllare ogni sono venuti fuori da questo persuo passo, ogni sua emozione, corso fatto insieme a lei e mi decide finalmente di lasciarsi hanno dato la possibilità di reaandare a un flusso di immagini lizzare tele, disegni, collage e un simboliche che la condurranno piccolo film sul tema di Alice alla in un viaggio attraverso la cono- scoperta di sé stessa. scenza di se, dei suoi angoli nascosti, dei suoi angoli bui. Non Laura Lombardi ha scritto il dobbiamo allontanarci troppo, tuo testo critico per la tua mosono le nostre immagini interne stra personale e anche per il che ci guidano, che se lasciate tuo volume edito da Drago: Let libere di venire fuori possono the Kids Play, come nasce quefarci scoprire una nuova parte di sta collaborazione? noi. Se abbandoniamo per un at- Nasce prima di tutto dal fatto che timo la paura di guardarci dentro siamo sorelle! 65
Rubrica Unmade in USA
On the road di Cecilia Granata Foto di Luca Boveri Troviamoci dove ci eravamo lasciati al numero scorso, per ricominciare il viaggio e addentrarci in California. Poco dopo il confine con l’Oregon, seguendo la costa (l’alternativa è l’autostrada 5, molto più rapida ma poco scenografica), ci troviamo immersi in paesaggi mozzafiato. Da un lato si estende il Pacifico, sognatore e assassino, dall’altro si affollano i magnifici corpi dei Redwoods, le sequoie, presenze sovrane in tutto lo Stato. I Redwood National and State Parks offrono sentieri magici e campeggi degni degli horror più tamarri. A proposito di cinema, uno dei temi di questo viaggio, aggiungo che poco prima della foresta di Redwoods, al Palmer Westbrook Ranch, sono state girate alcune scene di E.T. l’extra-terrestre. Proseguendo a Sud, potete fermarvi per una pausa a Eureka, dove non sono stata, ma che dalle foto sembra carina. Inizia qui la contea di Humboldt e se ne avete abbastanza di sequoie o siete più appassionati di altri tipi di verde, vi farà piacere scoprire che vi trovate all’interno del cosiddetto Emerald Triangle, il triangolo smeraldo, ovvero la regione a più alta produzione di cannabis degli Stati Uniti. Enjoy the ride. Continuando a scendere, prima di arrivare a Fort Bragg, vi segnalo un’altra chicca cinefila: sembra che la scena dell’inseguimento sullo scooter volante 74
con Luke Skywalker e la giovane principessa Leila, sia stata girata a Chetham Grove, nel Grizzly Creek Redwoods State Park. A Fort Bragg, due fermate degne: la Glass Beach e i bellissimi Giardini Botanici. La glass beach è una spiagga composta di frammenti di vetro colorato (e smussato). L’effetto è incantevole, purtroppo il posto è sovraffollato, anche da fastidiosi individui che, armati di secchiello, sottraggono vitrea bellezza alla spiaggia per farci collanine new age e altre stupidaggini. Certo, mi direte voi, paragonata alle Cinque Terre o la Costa Amalfitana, la spiaggia coperta di spazzatura industriale (i vetri sono il risultato dello scarico in passato dei residui di una fabbrica di bottiglie) ci fa un baffo. Non posso smentire, ma il fascino dell’America è in altro, e i fondi di bottiglia multicolore non fanno che alimenta-
re un meraviglioso immaginario pop, che coltivato in questo viaggio ci lascerà innamorati. Prossima fermata, Mendocino, un piccolo gioiello sulla costa. Non c’è molto in effetti, ma l’atmosfera è piacevole, e la posizione incantevole. Consiglio di dormire al Mendocino Hotel (trovate anche dei Groupon), un bell’edificio giallo affacciato sulla scogliera, e di visitare il negozio bio all’interno di una chiesa sconsacrata. A Mendocino si svolge anche un festival del cinema. Io, che sono notoriamente sfigata, ci ho incontrato Pierce Brosnan. Se voi siete anche solo normodotati in quanto a fortuna, sia mai che ci incontrate Leo Di Caprio (chiamatemi che arrivo). Lasciandoci questa deliziosa cittadina alle spalle, incontriamo dopo una cinquantina di miglia il faro di Point Arena. Potete visitarlo e secondo me ne vale la
pena, fa molto racconti di marinai e tempeste, soprattutto nelle (frequenti) giornate di nebbia. Proseguendo, si arriva ad attraversare Bodega Bay, un paesino abbastanza insignificante dove però Hitchcock ha girato The Birds. Da lì Point Reyes, altro bellissimo parco naturale che termina in un faro. Siamo quasi a San Francisco, se prima di arrivare in città cercate una pausa e un po’ di relax, potete sostare a Stinson Beach, una delle spiagge più frequentate dagli abitanti di S.F. Se pensavate di fare un tuffo, ri-pensate, come dicono qui: dopo il Triangolo Smeraldo, vi trovate ora nel Triangolo Bianco, ovvero l’area preferita dagli squali bianchi per nutrirsi. Un’altra tappa piacevole è Muir Woods: un breve e semplice sentiero vi condurrà attraverso un bosco fiabesco dove i tronchi delle sequoie formano impressionanti colonnati come in una cattedrale naturale. Attenzione ai weekend, è impossibile trovare parcheggio e il bosco si riempie di visitatori. Arriviamo dopo poco a Sausalito, caratteristica cittadina che offre una panoramica completa di San Francisco; potete fermarvi per un caffè prima di attraversare finalmente il Golden Gate Bridge. Siete quindi a San Francisco, da vedere tutta, anche se in effetti non è grandissima. Vi consiglio tutte le classiche turistate, da Alcatraz ad Haight-Ashbury e vi elenco alcune cose da fare assolutamente: un salto al Musee Mecanique, sala giochi vintage con amenità strabilianti. Si trova al Fisherman’s Wharf, dove i non-vegetariani possono anche gustare la specialità, il Clam Chowder, una zuppa di pesce servita nella pagnotta di pane a pasta acida, tipico di San
Francisco. Poi però diventate vegetariani, dai! Imperdibile il Museo di Walt Disney, all’interno del parco di Presidio, vicino al luogo dell’unico omicidio in città dello Zodiac (finalmente riesco a sfoggiare un po’ delle mie competenze criminologhe) e anche vicino alla statua di Yoda. Un altro fantastico e atipico museo è il Cartoon Museum, che propone mostre di artisti nel campo dei fumetti. Inevitabile un mega burrito a Mission, dove dovete anche ammirare i bellissimi murales, tra cui quello pazzesco che ricopre interamente il Women’s Building, una sorta di edificio-rifugio per donne in difficoltà. Per un po’ di attività fisica, suggerisco una classe da Yoga to the People, sulla 16th Street. Se, come me, siete appassionati e puristi della disciplina, vi informo che questo non è davvero yoga, è più, diciamo, yoga da ashtag. In particolare #yogapants #yogabutt #yogaeverydamnday. La location però è davvero bella (superata la barricata di homeless pazzerelli che dovrete scavalcare per entrare) e un po’ di cardio non ha
mai fatto male a nessuno. Preparatevi a sudare copiosamente. Per consultare gli orari qui: yogatothepeople.com. L’alternativa davvero yoga, la trovate altrimenti all’ Iyengar Yoga Institute of San Francisco, oppure al San Francisco Sivananda Yoga Vedanta Center. Nota a parte: esiste anche uno Sivananda Ashram nelle colline oltre Sacramento. Potrebbe essere una tappa interessante se siete devoti a una pratica tradizionale e avete tempo nel vostro viaggio per una deviazione dedicata. L’ashram è meraviglioso, immerso nel verde, con uno stagno, animali liberi, templi di Shiva, Lakshmi e Durga in cima alle colline o nel boschi adiacenti, mensa comune che prevede karma yoga, due ore di canto dei mantra al giorno, meditazione, pratica delle asana e pranayama, puja e orari da ashram. Scusate la deviazione, torno a S.F. e cambio decisamente toni, ricordandovi di prenotare un anticonformista tour al San Francisco Armory, tempio di kink.com di cui vi avevo parlato in un altro numero della ru-
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Il museo sulla pelle
L’autunno del medioevo di Cesare Facchetti Amman Illustrazione di Cesare Facchetti Amman e Olga Oerre Orlandi
Un libro famoso di Johan Huizinga si intitola l’Autunno del Medioevo e racconta di quando il mondo dell’Europa alle soglie del Rinascimento raggiungesse vette di incredibile complessità e complicazione gotica, cortese e favolosa. Tutto, dai tornei alle feste, dalla guerra ai funerali, dai pranzi di gala alle solennità religiose festeggiate nel paese era regolato: la vita si trasformava quasi in un gioco di ruolo. L’arte di questo periodo, fatta di unicorni, mostri e trafori gotici è un connubio tra la fantasia più sbrigliata e la precisione più puntigliosa. Quando guardo il Livre de portraiture di Villard de Honnecourt penso che quegli animali stilizzati in geometrie astratte siano un repertorio perfetto per i tatuatori, sia per questioni di stile, sia perché l’uomo del medioevo vede gli animali attraverso il codice cifrato dei bestiari, dove a ogni creatura è associato un simbolo, un vizio o una virtù, dunque l’ermellino è la purezza intransigente e il pellicano l’amore che sacrifica se stesso. Il Livre de portraiture è un manuale o repertorio di bottega, redatto da Villard de Honnecourt a uso degli artisti, che potevano trovare esempi di come rappresentare figure animali e umane in differenti atteggiamenti e ottenere sicuramente le loro proporzioni. 82
Quando guardo i trafori della facciata della cattedrale di Strasburgo, oppure quelli della torre dipinta alle spalle della Santa Barbara di Jan van Eyck, mi chiedo se qualcuno se li sia mai tatuati sulla schiena, per trasformarli in un tappeto mistico di geometrie fiorite. Il rosone è la totalità rotonda, il cosmo, la perpetua e immobile circolazione. I trilobi, i quadrilobi e i cuori sono le foglie, i fiori e il rigoglio della creazione che in perpetuo vegeta e cresce. Le lancette e le ghimberghe sono, rispettivamente, le alte partizioni verticali delle finestre e i triangoli che sormontano le cornici esterne degli archi. Essi sono le frecce puntate verso quel cielo a cui noi, utenti del tattoo, aneliamo, essendone tanto lontani a causa della nostra madre, perdoname. Che, a proposito di madre, perdoname; il tardo medioevo dedica le sue grandi cattedrali quasi in blocco a Notre-Dame, la Madonnina Santa che illumina i nostri tricipiti, e chissà mai che ci metta una buona parola. L’araldica invece, grande ossessione del tardo medioevo, spopola nel mondo tattoo, e il significato di questa cosa sta sicuramente nel fatto che sia il mondo della nobiltà e delle corti che il mondo criminale, da cui proviene molto del gusto del tatuaggio moderno, sono stretta-
mente regolati dall’onore e dai suoi codici. Nell’illustrazione che ho realizzato insieme a Olga Oerre Orlandi ho proprio voluto immaginare un cavaliere dal corpo di acciaio disegnato da un’armatura di lancette, rosoni, quadrilobi, ghimberghe e gattoni, cioè da tutto quell’alfabeto di decorazioni che rendono così fantasmagoriche le cattedrali costruite nell’Europa del Tre-Quattrocento. Concludo con l’osservazione che la più grande pittura del tardo medioevo è forse quella di piccole dimensioni, realizzata con colori preziosi e oro per illustrare i libri, sulla pergamena, che, per quanto non più viva, è pelle.
Cesare Facchetti Amman, milanese, classe 1978, è storico dell’arte, guida turistica e pittore.
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Laurafilosofica
Mezze Stagioni di Laura Ferrari Illustrazione di Davide “Nebraska” Failla Mezze stagioni: sostare sulla soglia senza decidere un habitus? Commentavo con un’amica in occasione di un aperitivo in Porta Venezia, Milano, che la soglia dei quaranta anni richiede un cambio totale di pelle. Il cambio della stagione qui è tanto radicale che non è sufficiente cambiare l’armadio. La difficoltà sta nel fatto che, se non si sono indossati nel frattempo alcuni abiti chiari e riconoscibili, oppure certe divise, proposti dai ruoli sociali, in particolare per una donna il cambiare pelle al cambio della stagione significa dismettere quella vecchia e non identificarne però con facilità una nuova da indossare, restando, per così dire, senza-pelle per dei periodi più o meno lunghi, come ne Il racconto dei racconti, la donna scorticata o ancora come diceva Anzieu che nel suo Io-pelle (1987) – in cui l’involucro del corpo è molto di più di una confezione, così che cambiare abito in questo caso significa ritornare per forza a guardare da vicino se stessi (il contenuto), o almeno essere portati a farlo, anche se con grande fatica. Sulla soglia delle stagioni quindi si può restare senza nulla di nuovo da indossare, nudi e tremanti, forse spaventatissimi (durante le mezze stagioni c’è una più alta incidenza dei disturbi d’ansia) oppure nudi e sorridenti, un po’ malandrini, come Pan nell’erba, concedendosi di ritornare 86
un poco a uno stato di origine, di animalità corporea senza etichette in cui tutti abbiamo vissuto, da cui tutti veniamo e di cui ricordiamo poco o nulla: e in cui possiamo non essere né animali né dei, ma semplicemente delle creature affacciate al mondo. Di questo sostare un po’ inquietante, di certo scomodo, in un passaggio tra due dimensioni o stagioni, scrive J. Hillman nel suo Saggio su Pan del 1972: – La figura di Pan rappresenta la coazione istintuale e nel contempo offre il mezzo mediante il quale la coazione può essere modificata attraverso l’immaginazione. Agendo sull’immaginazione, partecipiamo alla “natura” dentro di noi. Ordinando la seconda Menabrea, ci chiedevamo allora insieme alla mia amica cosa possa suggerire la figura semi pelosa e semi animalesca di Pan (o di altre creature sulla soglia tra l’animale e l’umano, come le Melusine o le sirene o i centauri che insegnano l’arte della medicina agli dei ufficiali) suggerendoci l’utilizzo dell’immaginazione come strumento per stare nella condizione disagevole della nudità interrogativa al cambio delle stagioni. Forse che, una volta dismessi (perché non ci vanno più bene) gli abiti della prima metà della vita, quelli sui cui si era tanto investito con giovanile adamantina sicurezza, e non essendo pronti a indossare i
cappotti che si dice dovremmo portare negli ‘anta’ per essere riconoscibili in nuovi ruoli, forse in mezzo ci sta un po’ di indulgente cazzeggio: ma non nel senso di un dissolutezza verso il fondo, ma nel senso di un andare benevolmente a zonzo, un fare i flâneurs, incontrando a volte per caso cose che non pensavamo ci piacessero (e invece sì), un legittimarsi a non darsi definizioni, anzi, a pensarsi altrimenti, ricollegandosi con le cose che arrivano nel momento presente in modo spontaneo e organico, a volte come strane coincidenze (che dieci anni fa sarebbero stati segni in vista di una delle nostre missioni!) o come incontri fortuiti o come improvvisi riconoscimenti di cose che avevamo sempre avuto sotto il naso. Nella mezza stagione, specialmente se scomoda, si può quindi cogliere l’occasione di rilassarsi un attimo rispetto alle magnifiche sorti e progressive e fare l’esercizio di sostare sulla soglia senza giudicare quello che sta succedendo, senza aspettative, senza attaccamenti. E scrollandosi anche un po’ di dosso gli Laura Ferrari bazzica gli argomenti limite ed è per questo che studia, ama e pratica la filosofia e le psicologie del profondo e va curiosando in diversi, piccoli abissi quotidiani.
Habitus rappresenta l’Io interiore, chi siamo davvero, in relazione all’esterno e all’interno di questo flusso magico e spesso caotico cui diamo il nome di vita. Il nostro Io dunque, relazionandosi a se stesso e alle percezioni dirette e indirette che ne coinvolgono l’esistere, si chiede chi sia. L’uroboro a destra definisce questa domanda, che è, di fatto, il punto di partenza di tutte le risposte. L’uroboro, circolare, racchiude le colonne dello spazio e del tempo, sui quali capitelli i più saggi hanno da sempre speso qualche parola; sia per i fedeli dell’attuale che per i turisti annichiliti e decadenti del futuro.
abiti che, negli anni, ci erano stati cuciti addosso e avevamo portato più o meno accondiscendenti. Nel presente, a zonzo, si possono anche trovare pezzi di noi stessi nuovi e inaspettati, dimenticati. Si può iniziare anche ad avere un po’ di bontà per sé, per la propria pelle esposta e scoperta in assenza di abiti adeguati disponibili. In questa mezza stagione consiglierei i pratici esercizi di cui ci fa testimonianza M. Milner nel suo Una vita tutta per sé del 1934: altra epoca, ma situazione uguale di smarginatura, per dirla alla Ferrante, di sbarellamento sulla soglia, a dimostrazione che il cambio di stagione può cogliere impreparata la professionista affermata, l’impiegata dipendente,
la madre, la nullipara. Per tutte le pratiche della cura di sé nel presente, qui, su questa mattonella, su questo punto del pavimento, qui sulla soglia, senza fretta di passare oltre: elenchi delle cose che amo, attenzione alla “farfalle” (pensieri apparentemente marginali che mi svolazzano nella mente, come il magnifico esempio dei pensieri di rancore contro il conducente dell’autobus che arriva in ritardo) e giochi con la fantasia, immagini, creatività figurativa, tutto ciò che consente di dare forma a quello che a parole e con la testa non si può dire né capire, lei con le sue categorie, a dare i nomi a tutto e scomode etichette alle stagioni.
Nebraska #, alias Davide Failla, nasce a Caltagirone nel ‘91. Artista visivo, predilige in particolar modo l’illustrazione, la pittura e la decorazione. Ha esposto in Italia: prevalentemente in Sicilia.
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Rubrica The Borderline of the Pentagram
My Name Is Earl di Marco Mattaliano Illustrazioni di OERRE Io sono una persona. La persona è morta molto tempo fa. È una presenza: un’assenza e una presenza. Io sono assente in quanto persona, in quanto individuo; sono presente come veicolo, come passaggio, come bambù cavo… posso diventare un flauto: solo un bambù cavo può diventare un flauto.* Se è vero che l’ego è un agglomerato di esperienze, di conoscenze e competenze sempre acquisite dall’esterno ma che poi vendiamo come meriti e capacità auto-generate, così ci permettiamo di dire agli altri (ma soprattutto a noi stessi): «Io sono un...»; con questa premessa allora, nella mia facciata c’è una delle finestre (o forse il portone? Devo chiedere all’architetto) con scritto sopra “pianista jazz”. Come tanti della mia stessa specie, a meno che uno non sia nato negli anni ’20, afroamericano, in Gerogia, nel Kansas o in qualche altro stato nordamericano, il jazz, in Europa e ancor più in Italia, è spesso una scoperta individuale. Come ci si arrivi è un processo del tutto soggettivo, paragonabile ad una conversione religiosa. C’è chi scopre Dio in carcere, chi se lo trova confezionato in casa. Nel mio caso la Bibbia nel comodino di un motel fu un paterno vinile di Duke Ellington con88
tenente arcaiche e misteriose versioni dei suoi grandi classici: Mood Indigo, Caravan, Black and Tan Fantasy. Titoli esotici, date di incisione distanti nel tempo, una timbrica naive resa ancora più suggestiva dalla pessima qualità della registrazione, una totale epifania di coloeur locale, una ventata d’aria fresca vecchia di 70-80 anni. C’è poi l’aspetto pratico della questione. Sì, perché questa musica fatta di miliardi di note spesso cattura l’attenzione – com’è naturale che sia – di chi già suona uno strumento e, in base al proprio specifico strumento, il neofita (il Sadhaka) si rivolge più nel dettaglio al singolo jazzman del passato quale guida da seguire verso la liberazione. Se Duke Ellington fa spesso da apripista al jazz in generale, nel caso specifico del pianoforte questa funzione la svolge Thelonious Sphere Monk. La cosa mi ha dato spesso da pensare dal momento che Monk è, tra i pianisti jazz, il peggiore. O meglio: non è un pianista! È un grande compositore, un grande teorico, un ricercatore dell’armonia, ma non un pianista nel senso occidentale del termine: ma tant’è. Ed eccoci al punto della questione: Bud Powell. Earl “Bud” Powell, l’uomo della provvidenza.
Prima di Internet e, di conseguenza, di Youtube, vigeva l’usanza arcaica di scambiarsi i CD. Un giorno mi capitò tra le mani un disco antologico di Bud Powell; era in una di quelle collane allegate a qualche rivista; possibile che il numero trattasse del bebop. La foto in copertina ritraeva un omone dall’occhio un po’ spento, baffoni ben curati e sigaretta. Si appoggiava al pianoforte. Be’, fu una rivelazione. Le tracce erano un susseguirsi di virtuosismo e ritmica indiavolata. Ovviamente il colpo di scena fu Tempus Fugit, un pezzo a dir poco violento. Ostinati velocissimi della mano destra e schiaffoni sulla tastiera con la sinistra. Superato l’incanto iniziale e ancor più, riascoltando con maggiore attenzione, chiunque si accorge di un fatto divertente: Bud canta mentre suona, ma questa è una cosa in realtà piuttosto consueta tra i musicisti jazz, lo si sente fare persino a Glenn Gould! Tuttavia, quello di Bud Powell non è esattamente un canto, bensì una sorta di rigurgito demoniaco che spesso entra nel microfono in maniera più incisiva del pianoforte stesso. Eppure, approfondendo col tempo la conoscenza di questa straordinaria figura, ci si accorge dell’immensa dolcezza di quest’uomo afflitto da gravis-
Per «Stigmazine» partecipo principalmente con la mia metà sinistra: il mio lato guasto. Quello dell’acufene, dell’orecchio pinzato, del mignolo a scatto, della gamba pigra. Per il resto mi limito a cercare di non vivere nello stato orribile di quieta disperazione*, a costo di essere sempre assonnata, precaria, ortoressica, senza patria, senza Dio, senza capelli e senza unghie. Per il resto di quel che resta ho due sole convinzioni: per me, basta che funzioni* e poi ritengo che hanno tutti ragione*. NOTE *quieta disperazione è di Thoreau *basta che funzioni come il film di Allen *hanno tutti ragione: così s’intitola un libro di Sorrentino
simi problemi di droga e alcolismo che negli anni ’50 e ’60 si curavano con robuste scariche di elettroshock. Sotto certi aspetti ricorda Beethoven. Dopo averti trascinato nei gorghi di terrore e tempesta che il sublime genera si ricorda che tu sei umano e umanamente ti concede una tenera carezza. Basti ascoltare composizioni come Celia (dedicata alla figlia) o Bouncing with Bud per capire lo spirito dolce e anche giocoso che aleggiava in questo pianista. Il suo periodo fu il bebop. Non riuscì, anche per via dei problemi mentali e fisici, a seguire l’evoluzione del linguaggio jazzistico, eppure tutti i pianisti jazz gli sono debitori. Ascoltando il primo Bill Evans si fatica a credere che a suonare non sia Bud Powell, Kenny Barron lo cita con orgoglio.
Non a caso è dedicato alla sua figura Round Midnight, film che vede tra gli attori Herbie Hancock e Dexter Gordon. Una curiosità: negli anni ’60, come tanti altri jazzmen, ormai datati, Bud si trasferì in Europa. Qui continuò una prestigiosa carriera. Tra le varie incisioni di quel periodo ce n’è una che vorrei citare: Stoccolma, 23 aprile 1962. Oltre a Straight, no Chaser della durata di venti minuti (improvvisa su circa sessanta chorus!) c’è una versione di There is no Laughing Matter dove Bud canta. Non come ho detto sopra: canta davvero. *Osho, La mente che mente Commenti al Dhammapada di Gautama il Buddha, Feltrinelli, Milano, 1997, pag. 38
Marco Mattaliano nacque a Milano trentacinque anni fa. Crebbe e cominciò lo studio del pianoforte; a esso affiancò quello dei poeti classici. Non pago, indagò le tortuose vie del jazz, della composizione e della musicologia. Per ora è tutto.
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Antropolis
Nuova Zelanda di Francesco Bravin Illustrazioni di Arianna Aramini e Oerre Ebbene sono appena tornato da un posto molto lontano dove le mezze stagioni ci sono eccome, anzi, potremmo dire che tutto l’anno è come una lunga mezza stagione in cui si passa dalla primavera all’autunno e di nuovo alla primavera. AOTEAROA! No, non è un’imprecazione savonese, ma il nome indigeno della Terra della Lunga Nuvola Bianca, cioè la Nuova Zelanda, terra dei Maori e per così dire patria del tatuaggio. La Nuova Zelanda si trova quasi agli antipodi rispetto all’Italia e ha anche una forma molto simile, anche se in realtà è un po’ più vicina all’equatore di noi e un po’ più a est dei nostri veri antipodi. Per capirci, la città di Auckland, nell’Isola del Nord, si trova più o meno agli antipodi della città spagnola di Malaga. Si creperà di caldo – penserete voi – e invece no: perché è vero che fa più caldo in quanto sono più vicini all’equatore, ma è anche vero che si trovano in mezzo all’Oceano Pacifico, con correnti oceaniche fredde e gelidi venti polari che arrivano per direttissima dall’Antartide: così l’estate non è calda come la nostra e raramente le temperature superano i trenta gradi, ma allo stesso tempo l’inverno non è freddo come il nostro, per cui raramente le temperature scendono sotto i dieci gradi. Ovviamente l’Isola del Sud è un po’ più fredda di quella del Nord, e poi ci sono le Alpi Neozelandesi che si coprono facilmente di neve, ma in 90
generale il loro clima è molto più tiepido in inverno e più fresco in estate rispetto al nostro. Come un’unica lunga mezza stagione. Se siete appassionati di tatuaggi saprete che i popoli polinesiani, fra i quali i Maori, sono stati quelli che più di qualunque altro hanno fatto uso del tatuaggio e addirittura il termine tatu deriva proprio dalle lingue polinesiane; come del resto altri termini ben noti agli antropologi, come mana e tabu/tapu. Il mana è una sorta di essenza spirituale che può permeare persone, oggetti e luoghi; quindi, ad esempio, una persona di successo è considerata avere molto mana, e un qualunque oggetto che abbia usato è a sua volta carico di mana; dunque chiunque indossi un amuleto o talismano carico di mana l’assorbirà. Il termine tabu che fra i Maori compare come tapu, indica invece qualcosa di sacro e quindi proibito, magari perché pericoloso. Ad esempio, la città di Auckland sorge in una zona vulcanica e quindi in città si trovano ben cinquanta coni vulcanici spenti, anche se l’area sottostante è ancora geologicamente attiva; ognuno di questi coni vulcanici è tapu, sacro e proibito: si può arrivare fin sul bordo del cono, ma non ci si deve entrare. Le ragioni reali sono ovvie: è pericoloso! Ma dichiararlo tapu suggella il divieto assoluto. Discorso simile per una bellissima area di fumarole e acque termali, nei dintorni della cittadina di
Rotorua, area che si chiama WaiO-Tapu, cioè letteralmente “acque sacre” o “acque proibite”: in effetti nessuna persona sana di mente penserebbe di gettarsi in un lago di fango sobbollente a settanta gradi e oltre, oppure in una pozza dai colori traslucidi, tra il verde veleno e il giallo brillante che emana un forte fetore di uovo marcio. Poiché, a volte, il buonsenso non basta, meglio metterci un’interdizione rituale, un tabu, appunto. Veniamo a parlare finalmente di tatuaggi! Come avrete già sentito dire più volte, i tatuaggi maori hanno sempre un significato, cioè non sono solo belle decorazioni, ma raccontano una storia; così uomini e donne maori si tatuano per tutta la vita, aggiungendo dettagli man mano che si verificano eventi importanti. Così alcuni tatuaggi raccontano la loro appartenenza, cioè il clan da cui provengono, altri ancora dicono se sono sposati, altri raccontano il loro vissuto; ci sono poi tatuaggi che riproducono le forme dei talismani in giada che a volte portano al collo, come il koru, cioè il ricciolo che ricorda sia un’onda marina sia un ricciolo di felce, oppure l’amo da pesca dell’eroe culturale Maui, e via dicendo. Un tempo si tatuavano anche in faccia, ma ultimamente quest’usanza sta un po’ sparendo, o meglio, quando si presenta l’occasione che lo ri-
chiede, i Maori che preferiscono non tatuarsi in faccia ricorrono a dei tatuaggi temporanei, che si possono facilmente lavare. Mi è stato spiegato che fino agli anni Ottanta i tatuaggi facciali erano ancora piuttosto comuni, ma poi sono andati sparendo, salvo che fra i membri delle gang criminali, per cui oggi avere un tatuaggio permanente sul viso può generare un po’ di diffidenza. Farsi un tatuaggio maori è una forma di appropriazione culturale da parte di un occidentale-europeo? Si tratta di una sottile forma di colonialismo? La domanda non è peregrina, perché spesso gli occidentali si sono appropriati di elementi e forme culturali delle società coloniz-
zate, banalizzandole e commercializzandole, incuranti del profondo significato simbolico che potevano avere presso quelle popolazioni. Allora, dovremmo sempre evitare di appropriarci di elementi culturali altrui? Non si rischia così di arrivare a culture chiuse e cristallizzate, al riparo da qualsiasi contaminazione? La questione è complessa e merita una riflessione: le culture, infatti, sono sempre state aperte allo scambio e al mescolamento e quindi dovrebbe essere possibile cogliere rispettosamente elementi culturali provenienti da lontano senza che questo sia necessariamente un rapporto coloniale di spoliazione culturale. I Maori sembrano aver trovato un
buon equilibrio fra il desiderio di preservare e rispettare la propria cultura, e allo stesso tempo renderla fruibile e conoscibile al mondo. Innanzitutto, in molte località della Nuova Zelanda è possibile assistere a spettacoli che mettono in scena aspetti centrali della cultura Maori, i costumi, il cibo, le danze, i canti, i tatuaggi e soprattutto la famosissima Haka, cioè quella danza di guerra che ben conosciamo grazie ai mitici rugbisti degli All Blacks. Questi elementi culturali non sono gettati in pasto ai turisti come banale folklore, ma sono presentati e spiegati dettagliatamente e i visitatori stessi sono invitati a comprendere e rispettare regole e usi Maori.
Arianna Aramini è nata a Siracusa nel 1995, dopo la maturità artistica si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Roma, ed è laureanda al corso di Pittura.
Francesco Bravin è antropologo materialista, centauro guzzista, schermidore storico e raffinato gourmet. 91
Siamo fatti anche di stelle
CAOS DETERMINISMO E UNA SOLA CERTEZZA: UN LUNGO, GELIDO, INVERNO NUCLEARE di Davide Sivad Illustrazioni di Marco Zavan Il 9 agosto del 1945 Charles W. Sweeney sganciava Fat Man, l’ultima bomba nucleare mai usata in guerra. I suoi venticinque chilotoni uccisero sul colpo più di ventimila abitanti… della città sbagliata. Charles aveva l’ordine di bombardare la città di Kokura, ma quella mattina era nuvoloso sopra il bersaglio primario, quindi Charles sganciò l’ordigno atomico dai cieli leggermente più limpidi di Nagasaki. Le nuvole ostacolarono comunque l’esperto pilota, che mancò di parecchio il centro della città. Infatti, tre giorni prima, la meno potente Little Boy esplodeva sopra il centro di Hiroshima mietendo molte più vittime: settantamila. Grazie allo sviluppo tecnologico, l’uomo ricrea temperature più alte di quelle del Sole e venti più veloci di quelli su Nettuno. Eppure, settantatré anni dopo Nagasaki, ancora non riusciamo a prevedere il meteo di domattina. Questo perché ogni singola molecola dell’atmosfera interagisce con le altre in un domino impazzito in cui tutte le tessere sono collegate e in perenne movimento. Il tempo atmosferico è quindi governato dal caos. Oppure no? Proviamo a tracciare la successione degli eventi in un sistema 92
che solitamente consideriamo randomico. Cominciamo con qualcosa di semplice: il lancio di una moneta. Per conoscere il responso della moneta che sta vorticando in aria (testa o croce), dobbiamo sapere qualcosa della moneta: a che velocità si sposta, in che direzione, a che velocità ruota, la massa, la forma e poi c’è l’aria: la densità, la temperatura, la presenza di correnti nella stanza. Inoltre è importante il contesto: la distanza dal tavolo su cui atterrerà la moneta, la precisa direzione e intensità dell’attrazione gravitazionale; per non parlare degli effetti magnetici, della forza di Coriolis e degli effetti relativistici che agiscono su qualsiasi cosa si muova. Predire il lancio di una moneta
non è banale, ma, conoscendo questi fattori, dovrebbe essere possibile. Tuttavia, per stabilire se uscirà testa o croce, abbiamo preso in considerazione soli fattori fisici, dimenticandoci del fattore primario: il lancio stesso. Prevedere l’esito prima del lancio sarebbe, come dire, diabolico. Nel XVIII secolo, il francese Laplace fu il primo a pensare a un’intelligenza che, conoscendo le leggi dell’universo, nonché la posizione e l’energia di tutte le particelle che lo compongono, potesse predire il futuro. Questa intelligenza immaginaria ha preso un nome cazzutissimo: il demone di Laplace. La sua diabolicità sta nel riuscire a prevedere anche le azioni di un essere
pensante. Perché questa predizione sia fisicamente possibile, il nostro cervello non dovrebbe essere nulla di più di un agglomerato di particelle in balia delle leggi dell’universo. Oggi sappiamo che il cervello è una macchina estremamente complessa, ma la sua imperscrutabilitá potrebbe avere i giorni contati: esiste un apparecchio composto da tre pulsanti collegati a un computer, collegato a sua volta a dei sensori di attività elettrica. Questi sensori vengono appoggiati sulla testa di una persona e alla persona viene chiesto di schiacciare uno dei tre pulsanti. Dopo poco, il computer registra il movimento elettrico del cervello legato a ogni scelta e riesce a far illuminare il pulsante scelto, prima che la mano della persona l’abbia raggiunto, o addirittura prima che la mano si muova. Tuttavia, questa macchina legge la scelta, non la prevede. Cosa spinge una mente a prendere le decisioni che prende? Cosa ti ha spinto a leggere questa frase? È estremamente difficile dare una risposta, ma è sicuramente più
difficile pensare che, all’interno del nostro cervello (un organo che funziona con l’elettricità), le leggi dell’universo non valgano. Qualunque sia la risposta, la nostra vita rimarrà insondabile come una scatola di cioccolatini. Durante le mezze stagioni, saremo eternamente in dubbio fra ombrello e prendisole. Tuttavia c’è una stagione che può essere comandata dall’uomo e questo perché, al mondo esistono migliaia di bombe atomiche; alcune made in USA si trovano persino in Italia. Nel 2014 è stato calcolato che, se cento bombe esplodessero assieme, i cento funghi atomici porterebbero nella stratosfera abbastanza polveri da impedire a parte del calore del Sole di raggiungere il suolo. Senza il calore solare si registrerebbero temperature inferiori a quelle degli inverni dell’ultimo millennio, con la differenza che questo inverno nucleare durerebbe decenni. Uno scenario apocalittico, sempre che il modello utilizzato per prevederlo sia affidabile.
Link di approfondimento: FORZA DI CORIOLIS: wikipedia.org/wiki/Forza_di_ Coriolis#Collegamenti_esterni youtube.com/watch?v=i2mec3vgeaI IL DEMONE DI LAPLACE: focus.it/scienza/scienze/ esperimenti-mentali-il-demone-di-laplace
Davide Sivad è fondatore dei GAM: Giovani Astrofili Milanesi, organizzano incontri aperti e open air per osservare le stelle, è anche nello staff dell’associazione LOfficina, incaricata delle attività divulgative e didattiche del Planetario di Milano.
Marco Zavan è un ragazzo sempre fra le nuvole a cui hanno ripetuto sempre due cose: come sei alto e belli i tuoi disegni. Cerca di trasferire quello che passa per la mia testa su carta; a volte funziona, a volte no... | www. marcozavan.com | @Marco_sketch
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Self-Ink
Selfie
A cura di Alessandra Giannini
Iniziamo la rubrica del fai-da-te perché ormai siamo tutti manager di noi stessi, campioni del selfie, con le nostre effigie su Instagram, Facebook e Twitter, per citare solo i più famosi. Siamo tutti bravi ad auto-fotografarci, autoprodurci, auto-raccontarci, quindi, abbiamo deciso di tacere, e per toglierci anche un po’ di lavoro redazionale, facciamo fare tutto a voi. Ovviamente, nelle domande irriverenti c’è la mano di Olga Orlandi ma siccome l’idea balzana del selfie è venuta a me mi sono assunta l’onere e l’onore di curare la rubrica. MI CHIAMO Alfredo Meschi
FASE DEL MOMENTO Artivism & Performare h24, 24/7
MI CHIAMANO Alfre
E PRIMA Cacciatore/pescatore, purtroppo (forse anche un po’ di disturbo bipolare?)
IN ARTE MeschiX CHE ARTE Performance art CHE PARTE La parte dei più oppressi fra gli oppressi. BACKGROUND/UNDERGROUND/SFONDO/BW e/o COLORE Il mio background è quello del Teatro Sociale brasiliano, che insegno da vent’anni. Il mio underground è anarchico, radicale, minimalista. Lo sfondo è senz’altro intersezionale. Il bianco e nero sono le 40.000 X nere tatuate sulla mia pelle (un tempo) bianca. Il colore è il rosso che si accende sui volti del pubblico che incontro. Rosso di commozione, a volte rosso di rabbia. SOUNDTRACK Meat Is Murder degli Smiths, come potrebbe essere altrimenti? Ma anche Senza dio né stato di Mezzosangue. 94
E DOPO? Forse ancora disturbo bipolare… AL PRIMO; SECONDO E TERZO POSTO PER ME Mio figlio Elia e la Lucha. Mia figlia canina, Trudy, e la Lucha. ¡Lucha siempre hasta el final! QUANTO SOCIAL, QUANTO SOCIEVOLE, QUANTO SOCIALE, QUANTO SOCIOLOGICO Social: molto mio malgrado. Socievole: vedi sopra il bipolarismo. Sociale: dalla prima all’ulti-
40.000 X tatuate sulla mia pelle, rappresentano il nmero degli animali uccisi nel mondo OGNI SECONDO, solo per soddisfare il nostro palato.
ma X. Sociologico: fate voi. QUELLO CHE NON HO E NON MI MANCA: Il denaro. NON POSSO FARE A MENO DI/ VORREI SAPER FARE A MENO DI Combattere. FREQUENTAMI A/DA/CON A giorni alterni, DA oggi, CON disincantata passione. PER fare la revolution! STIMMATE Un’impronta digitale scarificata a forma di X, una marca auricolare gialla all’orecchio sinistro, un amo da pesca per pesce spada al destro. E quei quarantamila tatuaggi che seminano altre stimmate in giro per il mondo.
Fotografia di Sara Morena Zanella