le interviste impossibili: Maud Wagner
Best TattooStudios Oink Farm Koji Zel Artisti Stella Tasca Marco Rea Mavda
heArts di
Laura Penna
Tatuatori Otto D’Ambra Nicoz Balboa Lucille Ninivaggi Rems
C ’est Ninà Costanza G.
Le stigmate del CrossFit Architattoo
Arte Intestellare
a regola d’arte
Antr in Art
STIGMAZINE Benvenuti al numero
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www.stigmagazine.com
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Copertina foto di Michele Virgillo disegni di Nina Bucci
Colophon Direttore responsabile e artistico Alessandra Giannini editor@stigmazine.com Vicedirettore responsabile e direttore cultura Olga Orlandi zine@stigmazine.com Caposervizio area artistica Rossana Calbi Fotografi Ivan Lattuada, Veronica Zanusso, Liam Dotz, Michele Virgillo, Michele Sfregola Esperto tecnico Franco Lodolo Scrittori Rossana Calbi, Cesare Facchetti Amman, Cecilia Granata, Francesco Bravin, Laura Ferrari, Marco Mattaliano, Davide Sivad Illustratori Cecilia Granata, Marco Zavan, Pimineta Negra, Cesare Facchetti Amman, Melissa Migliora, Eva Escoms Estarlich Finito di stampare ottobre 2017
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Editoriale(love) @a
ve lelo
Con questo numero intitolato a regola d’arte ho voluto dar inizio alle mie riflessioni sull’architettura e il tatuaggio con la rubrica “architatattoo” rappresento la mia bipolarità di architetto tatuatrice. In questa duplicità artistica cerco un equilibrio dualistico, disegno su un vecchio tecnigrafo i bozzetti dei tatuaggi con compasso e squadrette, progetto schiene e braccia secondo abachi, progetto nel senso etimoologico, pro-gèt-to (dal latino: pro, avanti jacere, gettare), mi immagino come sarà il tatuaggio sul corpo e come potrà cambiare nel tempo. Trasponendo le modalità della composizione architettonica al tatuaggio, traslo l’oggetto dall’ambiente al corpo. E viceversa. Quando ho scelto questo titolo per il numero mi sono chiesta: l’arte può essere soggetta a regole? È difficile incanalare il getto artistico, ma quando questo accade abbiamo un sublime equilibro tra istinto e mente, quando l’arte è “a regola” è armonia.
Alelove
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Coedit(Oerre)
Disegno tatuaggio di Lisa Manfredi
Non ho molto da aggiungere: avete da leggere per i prossimi tre mesi appena voltato pagina. È stato un lavoro piuttosto impegnativo, ma ci è riuscito senza soffrire per via del nostro metodo che non è quello svedese ma quasi: noi si fa quello che si vuole e come e dove e quando e in assoluta autarchia. Funziona, basta una quota di spericolatezza e che ti piaccia. Che più... magari rigrazio taluni e talatri che mette sempre appetito di scartabellare buone pagine. Vediamo: grazie alelove che hai dei gusti buoni come quelli del gelato del Gianni e trovi del tempo fuori dalle ventiquattro ore per fare cose che neanch’io so come. Grazie ai rubricanti che hanno fatto svelti e messo sul piatto roba buona e non ritrita. Grazie a quelli lenti come i modem di trent’anni fa ma che ti infrizzantiscono con le consegne all’extrasistole. Molte molte grazie a quelli che disegnano e ci slavano dalle foto di repertorio tipo quella dei turisti con le braghe tirate su che si fanno il pediluvio nella fontana di Trevi perché “è caldo record”. A proposito: forse abbiamo finito di sudare orrendamnente: è di nuovo tempo di tatuarsi. Personalmente soffro in tutte e quattro le stagioni, ma col fresco, guarendo, mi gratto meno. E se fosse che volete passare ad altro, vi anticipo la tendenza cruelty free: ci pensano i quattrenni con i Caran d’Ache acquerellabili Io ho provato una seduta sperimetale e il risultato è stato due avanbraccia addobbate da esser belle in modo assurdo; una bambina notoriamente esagitata, sprofondata in una concentrazione silenziosissima e genitori beati tra le pizzette. Quindi anticipiamo le tendenze e mandate gli scatti dei vostri tattoo appennarello. Purché gli esecutori non superino il quinquennio. Io scrivo l’ultima pagina che manca e poi si va in stampa. Sono il capo degli ultimi! Quindi dovrei essere più che beata. Santa, direi!
SANTOERRE
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3 Editoriale(love) 4 Coedit(oerre) 6 Architattoers 10 Interviste impossibili, Maud Wagner 12 Otto D’ambra, Come Revillod 20 Juno, Io per te muoro 26 Nina Bucci, Ad occhi chiusi 32 Costanza G, Il corpo è un tempio 38 Michele Virgillo, Corpi celesti 40 Nicoz Balboa, Tra Julie Doucet e la Montessori 46 Lucille Ninivaggi, Radici altrove 52 Rems, For president 56 Best tattoo Studios, Oink Farm 58 Koji Yamaguchi 61 Zel Hand 66 Tips And Tricks, 039 Iron Tattoo 70 heArts 76 Marco Rea, Equilibrio perfetto 80 Mavda Illustrada, Freak show 82 Stella Tasca, Venite qua ove tutto vi parla d’amore e d’arte 86 Roberto Gramiccia, L’uomo e la donna sono fragili 90 Unmade in USA, Karen Roze 98 Quando eravamo degenerati 102 Borderline of the pentagram, Musicisti for-mi-dà-bi-li 104 Antropolistigmazine, Art in Antr 108 Laura filosofica, Arte, artificio e mestiere 110 Siamo fatti anche di stelle, Arte intestellare 112 Maicol e Mirco e gli scarabocchi e… basta. 114 Sportattoo, Le stigmate del CrossFit 118 I pasticci di Ceci, Pasta alla norma vegan 118 La posta dell’hard core
Indice
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Architattoo
Architattoers
Testo di Alessandra Giannini Foto di Michele Sfregola Modella: Manuela Elettra
L
’architettura e il tatuaggio
Quale analogia esiste tra architettura e tatuaggio? Un progetto: noi progettiamo il nostro corpo attraverso il tatuaggio così come l’ambiente in cui viviamo, lo facciamo per sentirci maggiormente a nostro agio e parte di un insieme unitario. Possiamo quindi trovare una continuità tra architettura dell’ambiente e arte del tatuaggio. Committente Il tatuatore come l’architetto ascolta le esigenze del committente o del cliente e si fa artefice di tali idee, come l’architetto il tatuatore è un demiugo: progetta, crea, realizza. Questo rapporto è imprescindibile quando l’artista non è autoriferito ma si rivolge ad un altro da sè. Non è possibile immaginare un’architettura o un tatuaggio senza tenere conto della persona a cui è destinata, i suoi gusti e le sue inclinazione. Mi sono imbattuta su internet in un video di una performance nella
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quale alcune persone introducevano un braccio in un buco presente su una parete e un tatuatore dall’altra parte della parete tatuava sul braccio un disegno a suo piacimento, senza conoscere la persona. Quest’ultima si vedeva tatuato quello che garbava allo sconosciuto tatuatore. Questo è possibile solo quando il tatuaggio diviene una perfomance. Come artchitetti possiamo realizzare una casa senza tenere conto di chi ci andrà ad abitare ? Arte e tecnica “L’Architetto d’oggi, l’Architetto universitario, impari da tutti gli artigiani: impari dal marmista (le superfici lucide, levigate, a martellina, a bocciarda, a scaglia), impari dal falegname, dallo stuccatore, dal fabbro, da tutti gli operai e gli artigiani (è bellissimo)“. “Impari le cose fatte con le mani. Nulla che non sia prima nelle mani. Impari anche, l’Architetto, dall’artigiano come si ama il mestiere: com’è bello farlo per farlo. L’arte per l’arte è lì, non è in una forma di arte senza contenu-
to, ma è nella felicità di farla“. Gio Ponti Amate l’architettura (Pag. 111-112). L’architetto come il tatuatore è una figure al limite tra l’essere artista e artigiano, in entrambi vi è una componente creatrice immaginifica e una poietica. Per “integrare” tra loro arte e mestieri, creazione artistica e produzione industriale seguiamo la lezione dell’architettura totale di Gropius: “Tutti noi architetti, scultori, pittori dobbiamo rivolgerci al mestiere. L’arte non è una professione, non v’è differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano. In rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà, possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa”. Forme espressive e capacità espressive sono regolate da norme. La tecnica è ciò che ci permette di esprimerci a “regola d’arte”, non possiamo esimerci dall’essere del tutto padroni della tecnica per poterci definire artisti.
Abachi Il termine “abaco” deriva dal latino abacus, “polvere”. Infatti il termine originario si riferiva ai primi abachi costituiti da una tavoletta su cui spargere sabbia, è un antico strumento di calcolo, utilizzato come ausilio per effettuare operazioni matematiche, oggi usato in accezione di normogramma, in architettura un’abaco dei materiali è una leggenda dove vengono indicati i materiali di un progettoche si diversificano di volta in volta per esigenza, La combinazione di elementi verifica una stretta dipendenza di ciascun elemento dagli altri. Esiste un abaco del tatuaggio? Possiamo attingere da numerosi database digitali, in cui reperiamo materiali da comporre nel progetto del tatuaggio. Se elaborassimo un abaco del tatuaggio giapponese potremmo inserire sfondi (nuvole, cappe, onde) , fiori (ciliegio, peonie, crisantemi, eccetera), simboli giapponesi (carpe, gheishe, manekineko, eccetera) e combinare tali elementi secondo regole ben precise. Allo stesso modo potremmo definire un abaco per ogni stile dal traditional all’avangard. Possiamo operare al di fuori di un abaco? Certo, allo stesso modo in cui Gaudì progettava la Segrada Familia, è una scelta progettuale. Di sicuro gli abachi se ben fatti possono essere una guida per una esecuzione “a regola d’arte”.
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Intervista a Melissa Migliora di Alessandra Giannini Immagine di Melissa Miglora Differenza tra committente dell’architetto e del tatuatore. Il committente dell’architetto risulta essere un personaggio molto complicato ma ha caratteristiche analoghe al cliente del tatuatore. Le problematiche che si presentano sono simili, come le richieste e, a volte, le pretese. A mio avviso quello che deve fare l’architetto-tatuatore è ascoltare e cercare di capire ogni minima sfaccettatura e cercare di mediare tra le esigenze del committente e le possibilità realizzative. Il cliente non ha sempre ragione semplicemente perché non conosce tutti gli aspetti e le difficoltà del lavoro e deve essere indirizzato verso la soluzione ottimale. Con la corretta comunicazione si spera sempre di risolvere le tematiche complicate e di raggiungere un giusto compromesso tra tecnica ed estetica. Tatuatore e architetto a confronto. Trovo che, ai giorni nostri, il lavoro del tatuatore sia molto più interessante di quello dell’architetto. Ormai l’architetto è risucchiato da vari programmi (CAD e 3D) che hanno tolto almeno la metà della poesia di questo lavoro, un tempo fatto di tradizione e artigianalità. Parte delle riflessioni che si potevano fare disegnando a mano
su carta sono limitate, anche in modo inconsapevole, dall’uso massiccio del computer. D’altra parte il lavoro del tatuatore rimane ancora fortemente artigianale. Non si saldano più gli aghi e le rotative superano gran parte
dei problemi che si hanno dall’utilizzo e dal settaggio delle macchinette a bobine, ma c’è ancora una certa possibilità di scelta che nel mondo dell’architettura e dell’ingegneria è ormai limitata, viste le tempistiche
e le richieste sempre pressanti. Esiste un abaco dell’architetto e un abaco del tatuatore? Ho sempre lavorato nel campo della moda come retail designer, progettando negozi. Nella maggior parte dei casi in questo campo dell’architettura si adotta un abaco che comprende una serie di tipologie di mobili e display che mutano nel tempo in funzione del prodotto che andranno a ospitare, variando le proporzioni a seconda dello spazio che si ha a disposizione e diversificandosi di volta in volta per esigenze espositive. Per questo motivo l’abaco diventa mutevole a seconda del progetto, delle necessità del committente e dello spazio assegnato. Quando si parla di tatuaggio, invece, esistono solide basi da studiare e amare. Mi vengono in mente alcune tavole di Bert Grimm e di Owen Jensen, ad esempio. Parlare di abaco in questo campo, nel senso stretto del termine, potrebbe essere un po’ riduttivo, riconosco però le radici e tradizioni che si tramandano fino ai nostri giorni da seguire, studiare e rispettare.
Melissa Migliora ha conseguito la laurea in architettura nel 2008 presso il Politecnico di Milano e da allora ha collaborato con studi milanesi nel campo dell’exhibition design e del fashion retail, coltivando parallelamente la sua passione per il disegno. Da qualche mese ha deciso di dedicarsi al tatuaggio a tempo pieno, con amore e dedizione.
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Interviste impossibili
Maud Wagner
LA PRIMA A TATUARSI, LA PRIMA A TATUARE E TUTTO IL RESTO È UN CLICHÉ
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ata nell’ultimo ventennio del settecento, prima artista circense poi performer: la prima donna a tatuarsi e tatuare. Maud Wagner passa al secolo come la trasgressione personificata, e invece racconta di quel che ha ancor più sottopelle e si scopre tutto il corredo bon ton. Infondo non c’è contraddizione: old school al cento per cento. OERRE — Che sfiga però: manco una foto a colori! EMME VUDOPPIA — Ti dirò... io non sono scontenta. Lo chiamo l’effetto Partenone, che tutti dicono — pensa che prima di essere immacolato era fantasticamente dipinto. E così s’immaginano anche di meglio che quello che ero. OERRE — Circense e primato dei tatuaggi: che godere nell’essere un fenomeno da baraccone? EMME VUDOPPIA — Da quando ci diamo del tu? OERRE — Hai impedito a tua figlia Lotteva di tatuarsi prima che fos-
Intervista di Olga Orlandi illustrazione di Pimienta Negra
si morta! Dai, non servono Freud o la Montessori per presagire che il giorno dopo i funerali si sarebbe devastata d’inchiostro senza soluzione di continuità! E poi che ipocrita! EMME VUDOPPIA — Il discorso di Freud vale anche al contrario: di cosa ti sorprendi? Le ho dato tempo per pensarci bene e insieme non ho subito l’umiliazione che mi sorpassasse in trasgressione. Mai sentito una madre dire — ho freddo mettiti il golf, ho caldo levati la felpa? Ancora più eclatante — io t’ho fatta, io ti distruggo. Altro che ipocrisia: sono uno stereotipo. OERRE — E i tuoi cosa ti hanno fatto di così terribile per avere uno strazio di figlia così? EMME VUDOPPIA — Ma loro sono morti all’oscuro di tutto: li visitavo con certi pastrani vittoriani mortificanti... Figurati che mi sono sentita dire da mia madre che esageravo in sobrietà! Di certo non sospetti che la Levi Montalcini stava così accollata perché sotto era vulcanizzata dai marchi a fuo-
co, che Piero Angela non va mai al mare perché ha sei capezzoli e che Augias ha l’abbozzo di un gemello mai sviluppato che gli si affaccia all’altezza dei reni. OERRE — Che voglia l’hand poked… EMME VUDOPPIA — Ammetto che è doloroso da subire e faticoso da eseguire, ma non ho avuto cuore di dissuadere Gus: sotto quei baffoni aveva la lacrima facile. D’altronde poteva andarmi peggio: Napoleone scriveva alla moglie — sono di ritorno dalla guerra tra qualche settimana, comincia a non lavarti. OERRE — Fammi capire... border line e patriota?! EMME VUDOPPIA — Certamente: il massimo della trasgressione! D’altronde io son tutta una contraddizione, figurati che svengo se mi taglio con la carta. OERRE — Cosa t’ispira della modernità? EMME VUDOPPIA — La spesa on line, i cerotti per la cervicale, l’app del contapassi per dimagrire.
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Otto D’Ambra Come Revillod
Intervista di Rossana Calbi e Alessandra Giannini
R.C. — Nel tuo passato artistico incorniciavi il corpo artistico, oggi trasformi i corpi. Ci sono comunanze in questi due modi di fare arte? Mi ha sempre affascinato molto comprendere la meccanica delle cose, il modo in cui funzionano e il metodo con cui sono fatte. Ai tempi dell’Accademia studiavo la copia dal vero e l’anatomia artistica. Queste discipline mi hanno aiutato a capire come confrontarmi col corpo umano e parallelamente hanno fatto nascere in me il desiderio di lavorare direttamente su questo elemento. Aver disegnato tanto a lungo il corpo mi ha aiutato a capirlo in tanti piccoli dettagli e mi ha insegnato a relazionarmi con esso e a lavorarlo. Quando preparo un disegno per un tatuaggio lo compongo direttamente sulla pelle, in modo tale che le linee dell’opera seguano naturalmente le linee del corpo. In questo modo si crea uno sviluppo armonioso e fluido tra la storia
da raccontare e il corpo stesso. R.C. — I tuoi lavori sono come dei collage senza l’uso delle forbici; quali sono gli artisti, che usano questa tecnica in modo più classico, che più ammiri? A essere sinceri ci sono moltissimi artisti che ammiro e influenzano in modo diverso il mio lavoro.
Non posso dire di avere un artista che preferisco in particolare. Da sempre sono stato un vorace collezionista di libri a trecentosessanta gradi e naturalmente non sono mai mancati libri di collage. Il mio lavoro è un processo creativo che nasce anche da una ricerca iconografica. Mi documento, prendo spunto, rielaboro. Credo fortemente nell’influenza
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di altri artisti, fondamentalmente per due motivi: il primo è il fascino di condividere idee, concetti e punti di vista con altre persone in questo mondo. Il secondo è perché la condivisione e lo studio di altre personalità artistiche aiuta a capire meglio noi stessi e a trovare la giusta strada per ognuno di noi. Talvolta conosci gli artisti che influenzano il tuo pensiero. Altre volte invece sono totalmente opposti e differenti ma ciononostante percepisci una forte comunanza che ti permette di ampliare la tua visione non solo artistica, ma di vita in generale. Tra alcuni esempi che mi vengono in mente, una pubblicazione che mi ha colpito particolarmente è il catalogo della mostra Wanderlust di Joseph Cornell. Artista americano della prima metà del ‘900 che è stato uno dei più grandi esponenti del collage/assemblage. Gli elementi che compongono le sue opere hanno una varietà infinita e spaziano dalle immagini dei primi anni del cinema, alla geografia, passando per il balletto e l’astronomia. Allo stesso modo, ma con stile completamente differente, ammiro moltissimo il collage rigoroso dei manifesti del comunismo russo. Gustav Klutsis ad esempio, è uno dei maggiori esponenti del Costruttivismo e la sua estetica inconfondibile è stata utilizzata nella propaganda stalinista. Un altro esempio che mi ha sempre colpito è il collage dadaista, movimento europeo degli anni ‘20 che ha fortemente influenzato varie correnti artistiche negli anni seguenti e che ancora si ritrova, rielaborato, in artisti contemporanei. Diciamo comunque che generalmente quando si tratta di collage non c’è mai un’estetica che si possa definire classica. È una tecnica che varia infinitamente a seconda del contesto storico e che permette di
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lavorare con una vasta gamma di materiali. R.C. — La mescolanza delle immagini che diventano simboli è alla base delle tue creazioni, come si trasforma una figura in un’icona? Qualsiasi oggetto/elemento/animale o figura può diventare icona. È il contesto d’utilizzo a modificare il significato dell’elemento. Nella cultura visiva la ripetitività costante di un soggetto in un determinato contesto attribuisce al soggetto stesso un significato che è universalmente riconosciuto. Nel mio caso, nonostante la trasformazione surreale che un determinato elemento può subire nella forma, il significato intrinseco non cambia ma acquisisce una modifica di linguaggio a seconda del contesto utilizzato. Fattori ricorrenti che utilizzo nei miei disegni come cuore, cervello, geometrie a seconda del contesto possono modificare il significato del messaggio che intendo dare all’opera ma il valore espressivo rimane invariato. La condizione fondamentale è la semplicità della composizione che rende gli elementi leggibili e al tempo stesso iconografici. La
giustapposizione di diversi fattori ne rafforza l’iconografia e conseguentemente il messaggio. R.C. — Gli animali diventano totem che dividi e frantumi, quali sono quelli che più cristallizzano il tuo percorso individuale e perché? Non ho un animale che mi caratterizza particolarmente. Nella mia personale visione del mondo siamo tutti animali. L’uomo è un essere dominato da istinti animali nonostante viva in una società creata per agevolare, semplificare e definire uno stile di vita che ci porta a pensare a noi stessi come esseri superiori. La cultura ci impone di perseguire il progresso. Ci impone di circondarci di oggetti superflui che contribuiscono unicamente ad aumentare il nostro ego e a definire uno status symbol e ci fa perdere di vista la nostra natura primordiale e istintiva. In quest’ottica, nel momento in cui rappresento un animale, non lo rappresento fine a se stesso ma lo raffiguro principalmente utilizzandone le caratteristiche che lo definiscono. Tramite la scomposizione utilizzo solo le parti che caratterizzano un animale e che mi permettono di attribuire al di-
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disegno ma il processo non cambia. Si è trattato solamente di passare da una rappresentazione 2D a una 3D. Prima lavoravo sullo spazio, ora lavoro su un corpo. A modo suo è comunque uno spazio con delle varianti che cambiano non solo a seconda del soggetto ma che mutano nel tempo. Penso che il punto chiave sia stato lo studio e l’utilizzo dell’incisione, tecnica che più di tutti si avvicina al tatuaggio. La transizione dai supporti che si studiano e si utilizzano in architettura e nel design e la volontà di provare sempre nuovi materiali mi ha portato molto naturalmente a sperimentare l’incisione su pelle. Ho iniziato a tatuare dieci anni fa quasi per divertimento e ho scoperto negli anni una forma d’espressione a cui prima non avevo mai Considero il tatuaggio pensato. un mezzo espressivo d’arte contemporanea che utilizzo per trasportare su pelle i miei artworks. In questo modo il tatuaggio è semplicemente una tecnica, come lo sono la pittura a olio, l’acquerello, l’incisione o la scultura. Lo strumento e la base cambiano ma il processo creativo rimane costante, cambia solamente il metodo esecutivo. A. G. — Bellissimi tatuaggi su bellissime donne. Sei tu a scegliere la tua “tela” o lei a scegliere te? segno un messaggio particolare. In questo modo do al soggetto una valenza simbolica e lo utilizzo come tramite per raccontare altro. A. G. — Back to the future.... architecture or tattoos? Come hai fatto a passare dall’ambiente dell’architettura a quello del tatuaggio? È stato sicuramente un percorso
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artistico molto naturale. Il minimo comune denominatore è sempre e comunque stato il disegno. Disegno da quando ho memoria. I miei genitori hanno studiato graphic design e per questo motivo sono cresciuto circondato da colori e pennelli e in breve tempo è diventato il mio primo e più naturale metodo di espressione. Può cambiare il supporto su cui
Data la natura del mio lavoro direi che sono loro a scegliere me. Poi ho anche la fortuna di essere bellissimo quindi... A. G. — Evoluzione della specie ed evoluzione del tatuaggio, parallelismi con l’ Das Animalarium del professor Revillod? Come ho detto, colleziono libri a trecentosessanta gradi. Ho un
ampio ventaglio di pubblicazioni che spaziano dall’architettura alla filosofia, passando per la botanica, testi tecnici, tassidermia e arrivando fino ai libri per bambini. Sembrerà strano ma traggo tantissima ispirazione dai libri per bambini ed è proprio in questa sezione che ho recentemente scoperto in una libreria milanese Das Animalarium del professor Revillod. L’utilizzo degli animali nell’arte è sempre stata una costante. Sin dai tempi delle pitture rupestri o degli antichi greci l’uomo ha sempre rappresentato figure di animali o soggetti con sembianze animalesche. Artisticamente nei secoli possono aver mutato il significato e l’utilizzo ma animali e arte sono sempre stati elementi correlati tra loro. Mischiando collage e surrealismo punto a creare un mio personale linguaggio per raffigurare gli animali. Cerco di attribuir loro una
nuova identità, una nuova forma e un nuovo significato. A. G. — Lavori da White Elephant Studio a Londra come si integra il tuo stile in quello dello studio per cui lavori. The White Elephant è il mio studio personale. Costruito per soddisfare le mie esigenze, è un luogo eclettico dove ho fatto convergere tutte le mie discipline artistiche: incisione, tatuaggio, pittura e fotografia. È il luogo dove apro la mente e sono libero di realizzare le mie opere. Ho la mia pressa quindi posso stampare in autonomia, ho i miei materiali per l’incisione, spazio per tatuare e persino una camera oscura. Per questo motivo il mio stile si integra alla perfezione in quanto il White Elephant è semplicemente uno specchio della mia personalità, costruito in un certo senso a mia immagine e somiglianza.
A. G. — In che tipo di contesto si inserisce maggiormente il tuo stile di tatuaggio? Londra, Italia? Oggigiorno non c’è più molta differenza tra Londra e Italia. Cinque anni fa Londra era più eclettica e varia nelle richieste. Ora c’è meno distinzione e le richieste che ricevo sono più omogenee. La scena del tatuaggio è cambiata moltissimo negli ultimi anni. È diventata una dimensione molto più artistica e le persone che si interessano al mio stile vengono da me per rappresentare un messaggio. Naturalmente apprezzano l’estetica del mio lavoro ma non scelgono un disegno perché lo rappresenti finemente a se stesso. È l’espressione di un’idea, un concetto ben specifico che cercano. Ed è anche il modo in cui, in un certo senso, seleziono la mia clientela.
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Alice Juno Aimaretti Io per te muoro
Intervista di Alessandra Giannini Fotografie di Liam Dotz
Juno sta per la regina dell’Olimpo o per un filtro di Instagram? Juno sta per Giunone ed è stata una scelta di mia madre ventinove anni fa, Alice è stato aggiunto per il “santo” battesimo. Tre artiste a cui ti ispiri? Ci sono molte artiste che ammiro e seguo, in particolare modo Moira Ramone, Arianna Fusini, Iris Lys, Alice Totemica, Angelique Houtkamp, Amanda Toy e Morg Armeni. Io per te muoro, tatuaggi umoristici: la lezione è prenderci meno sul serio? Io per te muoro è nato con il mio trasferimento a Reggio Emilia, ho letto questa scritta su di un muro e ho fatto il flash, un tributo a questa città. Penso che a prendersi sempre troppo sul serio si finisca nel ridicolo, quindi anche nel tatuaggio può esserci umorismo e leggerezza. Una scamorza appesa. Così ti definisci nei tuoi post su Instagram. Com’è nata la tua
passione per i tessuti aerei? Questo genere di discipline mi hanno sempre incuriosita, molte volte nei disegni riprendo il mondo circense. Da ottobre ho iniziato un corso di tessuti aerei qui a Reggio Emilia, anche se non credo di poter raggiungere livelli eccelsi lo faccio con passione e mi diverte molto. Fino a poco tempo prima tatuavo e basta, non avevo piaceri al di fuori dei tatuaggi e quello che li circonda, ora ho questo ed è bello dedicarsi anche ad altro. Sei molto sportiva: tra aerei snowboard quali altri sport pratichi? In realtà ho tirato fuori tutta questa sportività negli ultimi anni, anzi in adolescenza potevo benissimo essere la testimonial dell’anti-sport. Vado in palestra, faccio tessuti e con la neve batto le piste con le chiappe, mi diverte molto ma anche nello snowboard non sono una cima. Va bene che il mio “moroso” ha molta pazienza e la prende con filosofia. Come sei diventata tatuatrice?
Amavo i tatuaggi fin da piccola, i miei genitori erano tatuati, così ho iniziato a tatuarmi molto presto. Il passo è stato breve ma complesso, ho comprato un kit per tatuare e ho iniziato a usare amici e parenti come cavie, così è iniziato questo cammino nel mondo dei tatuaggi. Chi sono i tuoi referenti nell’ambito del tatuaggio? Sicuramente Francesco Garbuggino, amo molto i suoi lavori, li trovo geniali come soggetti e tecnicamente solidi, uno schiaffo! Seguo anche Matthew Houston, Bobeus, Caio Piñeiro, Almagro, Dani Queipo, Jelle Soos e molti altri. Hai partecipato alla nostra mostra collettiva Tarot con la carta del Giudizio. Se la carta parlasse per Jodorowsky direbbe: «Io so. Ho visto il Creatore. E allora lo annuncio, semplicemente. Trasporto il richiamo irresistibile della Coscienza. Sono il risveglio, il miracolo che si compie all’interno del tuo essere».
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Cosa ti ha fatto scegliere questo Arcano? Credo sia stata la carta ad avere scelto me e non il contrario. Sono stata felice di aver fatto Il Giudizio, conoscendo meglio la sua bellezza. L’ho reinterpretata in chiave più alchemica, dando una visione di trasmutazione dell’essere umano.
Se non fossi una tatuatrice saresti? Bella domanda!!! Realisticamente avrei continuato a lavorare come grafica. Mi piaceva come lavoro, ma lo stare attaccata tutto il giorno a una scrivania con il computer non era proprio da me.
Quando hai fatto il tuo primo tatuaggio (su te stessa)? Mi sono fatta tatuare per la prima volta a tredici anni, un tribale sulla spalla (coperto pochi anni fa). Invece il primo auto-tatuaggio l’ho fatto nella gamba ed è un pinguino reso come una matrioska. Era un soggetto che volevo fin da bambina, da quando accompagnavo mia madre negli studi di tatuaggi, così anni dopo ho realizzato quel sogno.
Un sogno nel cassetto? Mmm… Ci ho dovuto pensare un attimo. Sicuramente raggiungere delle soddisfazioni a livello lavorativo, arrivare a fare conventions mondiali con artisti che stimo. Poi andare a fare una vacanza in quei posti da cartolina con le palafitte sul mare, quest’anno ci siamo quasi andati vicini, quindi la considero quasi una vittoria.
I colori che non mancano mai nei tuoi tappini? Il rosso sicuramente e il giallo.
Grazie mille per questa possibilità di raccontami e far conoscere i miei lavori. Tarot è stato un bellissimo progetto che ho fatto con molto interesse.
Rotativa o bobina?
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Rotativa, mi trovo molto bene.
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Liam Dotz. Nel 2011 ho avuto il piacere di frequentare un corso con Angelo Tondini, fotografo di reportage milanese, ex allievo del noto Art Kane, grande fotografo visionario americano. Cominciai a studiare seriamente gli autori, i grandi maestri del passato, spingendomi fino alle teorie fisiche dell’ottica, al rapporto fra luce e materia. Ho scattato il Palio di Legnano per conto della Familia Legnanese per quattro anni e nei due successivi come fotografo ufficiale del Collegio dei Capitani. All’attivo svariate pubblicazioni sul giornale ufficiale del Carroccio. (magazine locale della città di Legnano). Nel corso degli anni ho frequentato alcuni workshop, alcuni nomi quali Gianguido Rossi, Simone Angarano, Luca Denardo rispettivamente. Nel mese di gennaio 2016 ho aperto uno studio fotografico nell’interland milanese, dedicandomi principalmente al genere glamour, nudo artistico e boudoir.La mia fotografia è volutamente estemporanea, imperfetta com’è la vita. Includo spesso elementi di disturbo nelle mie immagini, solitamente quello che trovo in giro. Amo la spontaneità e le ricercate, tutt’altro che banali, fotografie alternative/trash.
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La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto. Pablo Picasso
Nina Bucci Ad occhi chiusi
C’est Ninà…Traducendolo alla lettera: È Nina. Adesso vi starete chiedendo perché non ti chiami solo Nina? Oppure perché in francese? O ancora meglio, perché non inglese visto che sono italo-americana? La risposta è molto semplice: suonava bene! Per farla breve, senza entrare nei particolari della mia vita, anche il francese è nel mio DNA. Inoltre ho voluto darmi questo soprannome o nome d’arte perché molte persone, che mi hanno sostenuto e che ancora mi danno la forza di credere in ciò che attualmente sto facendo, hanno ricorso alla medesima affermazione: Nina si vede che l’hai fatto tu; è Nina! Allora, abracadabra: C’est Ninà! Oserei dire, un modo semplice per farsi conoscere ed essere riconosciuta: no?!
Tutti noi vogliamo essere riconosciuti nella società: quindi non diciamoci bugie! I tuoi quadri hanno nomi romantici e nostalgici, come nasce un tuo dipinto? La citazione di apertura, con cui
Sono camaleontica e mi piace l’idea di potermi trasformare nonostante le circostanze del mondo attorno a me. ho voluto iniziare a presentarmi a voi lettori di «Stigmazine», racchiude il succo della mia prospettiva, ovvero quello che proietto e voglio trasmettere è ciò che sento. Pablo Picasso, inoltre, diceva: la pittura è solo un altro modo di tenere un diario. Io dipingo non perché voglio fare l’artista, ma perché necessito in
modo assoluto di poter esprimere, in primis con me stessa, costantemente quello che sento, vedo, respiro, sogno e percepisco del mondo che mi circonda. Tutto per me è arte. Il tuo tema prevalente sono sognanti donnine, quanto ti rispecchiano? Io so no praticamente quasi sempre nei quadri, ma sotto effetto di mutazione. Sono camaleontica e mi piace l’idea di potermi trasformare nonostante le circostanze del mondo attorno a me. Cosa ti fa sentire felice e cosa ti fa sentire triste? Oggi sono felice perché sono mi sto facendo conoscere e sono triste perché… ne parliamo domani e vediamo. Quando hai iniziato a dipingere?
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con sé, sul suo corpo, il suo disegno preferito e farlo vedere a tutti tirando su solo la manica della maglietta. È stato un lampo ad arrivare alla maggiore età ed ho deciso di entrare in un tattoo studio facendo l’apprendista! Il tuo primo tattoo? Su te stessa? A casa mi hanno sempre chiamato Tempesta e quindi: un fulmine sulla caviglia.
Sarebbe meglio chiedermi: quando smetterai di dipingere? Ho sempre avuto un grade impulso verso i colori . Sin da piccola mi buttavo nei colori; era come nuotare su grandi fogli bianchi e io gli davo vita. Nel crescere ho mantenuto vivo questo amore per l’arte, o meglio, per il disegno. È stato il primo amore; e come ogni primo amore ti butti a capofitto senza saperne come ne uscirai. Quindi dopo aver consumato questo primo amore, hai intrapreso una relazione con il mondo del tatuaggio? Eh no, da buona scorpioncina, ho colpito e affondato entrambi i cuori di queste grandi arti. Dipingo e tatuo. E allora da quando e come è nato ménage à trois? Avrò avuto sette anni e mio padre una sera ci portò a mangiare una pizza; nel mentre che aspettavamo la nostra ordinazione ci mostrò il suo nuovo tatuaggio: l’arcangelo San Michele. È stato emozionante! Non potevo credere ai miei occhi: un disegno inciso su pelle. La mia prima domanda fu: ma va via? Mio padre mi spiegò che era impossibile da togliere. Sarebbe rimasto per tutta la vita. A tale notizia mi ha iniziato a girare la testa dalla gioia; ho subito pensato che fosse la cosa più bella del mondo! Immagina una bambina che pensa che può portare
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Sappiamo che ora customizzi denim e capi vintage, come nasce questo progetto e quanto Nina è alla moda? Nina non è alla moda. Le piace la moda, ma non le riesce a star dietro! Per questo custumizzo il vintage. È più facile e mi si addice! Scherzi a parte ho un amico che ha un bellissimo vintage store Jules & Jim a Firenze da cui mi rifornisco per riempire il mio armadio mai sazio . Oltre a essere buoni amici abbiamo iniziato questo progetto Vintage Custumize; progetto in cui lui mi procura vecchie e originali giacche denim o in pelle, e io ci dipingo sopra. Ho avuto il piacere di esporre il tutto a Pitti 2017 e al Vintage Selection 2017 alla Stazione Leopolda sempre a Firenze . Adesso stanno arrivando altre news ma sono scaramantica e quindi aspetto per raccontarle. Quanto l’arte è moda? O viceversa? Vengo da Firenze quindi direi che sono cucite assieme. Sappiamo tutti che Firenze era la vera capitale della moda, basta affacciarsi all’interno delle grandi sale dei costumi di Palazzo Pitti per notare che si passa da abiti antichi fino a quelli moderni, come nell’arte no?! Cosa odi o cosa ami di Firenze? Da buona fiorentina non rispondo a questa domanda. Sappiamo tutti quanto sono orgogliosi i fiorentini di essere fiorentini!
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Costanza G. Il corpo è un tempio
Intervista di Alessandra Giannini Fotografie di Michele Virgillo
Quando hai deciso di fare la body-piercer? Già a fine liceo sapevo che volevo fare la body-piercer. Iniziai a bucarmi le orecchie in terza media. Le mie piccole fughe ai tempi in oreficeria, quando ancora il genitore non serviva, agli inizi del liceo già mi informavo sul body-piercing; i primi piercing con l’ago cannula. A sedici anni, il primo vero piercing alla lingua, dopo anni e anni di no al mio desiderio di volerne fare uno. Soffrivo un po’ la vita imposta, con l’ago ricevetti le mie prime forti sensazioni, legate al piacere, al dolore, all’alzarsi da terra, i primi voli. Ero entusiasta di poter dare anche agli altri le stesse sensazioni che ricevevo io. Iniziai a fare i primi piercing durante gli ultimi anni del liceo, conobbi i piercer che all’epoca lavoravano a Firenze, li andavo a trovare in studio. Alle porte della maturità, mentre tutti
i miei coetanei sceglievano gli indirizzi dei prossimi studi, io sapevo già bene quello che volevo fare. Tanta pratica e un obiettivo, mettere soldi da parte e imparare ciò che sarebbe poi diventato il mio amato mestiere. Così feci, avevo diciassette anni. All’epoca non c’erano tutti questi corsi di tecnica di tatuaggio e tecnica di body-pier-
Amo molto il mio corpo, la sua evoluzione, come ha seguito il mio crescere con dedizione e fiducia. cing che ci sono adesso, all’epoca dovevi fare tutto da solo e da una parte forse, ti dovevi sbattere di più. Iniziai a cercare materiale, iniziai a fare piercing agli amici, iniziai a girare le conventions in Italia e proprio a Milano incontrai una persona, Giacomo Bianchi,
che fu per me di grande aiuto per approfondire il mio percorso, e anche un nuovo grande amico su cui poter contare. Avevo ventitré anni. Giacomo lavorava già in uno studio di Firenze, mi prese a lavorare con sé: io imparai tutto ciò che dovevo imparare. Gli anni di lavoro accanto a lui furono pieni di studio, performances e spettacoli. Dopo di che, presi il volo da sola, iniziando a lavorare per vari studi di Firenze e dintorni. In un tuo ultimo post vediamo alcuni tuoi libri, non ho resistito e ho rubato alcune citazioni: (il corpo è lo strumento di conoscenza ed esplorazione del mondo. Il più sincero e fedele forse. È attraverso il corpo che Frida racconta di sé e pure delle proprie emozioni. È attraverso il corpo che conosce ed esplora l’unico orizzonte che realmente le interessi, quello interiore.
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da Gli amori di Frida Kahlo, Valeria Arnaldo, Red Star Press Che rapporto hai con il tuo corpo? Amo molto il mio corpo, la sua evoluzione, come ha seguito il mio crescere con dedizione e fiducia. Mi sono sempre osservata molto; sentita, annusata, tagliata, non piaciuta, amata moltissimo. Sono sempre stata cicciottella in adolescenza. Forse era collegato al mio essere ancora chiusa, raccolta in me, col mio dolore da affrontare, vivere e digerire. Qualche anno fa ho avuto un problema di salute da risolvere, tutto ciò mi ha fatto crescere molto, è stata una lotta vinta e insieme al mio spirito è sbocciato anche il mio corpo. Sono dimagrita molto, è stato come un regalo. Mi sono osservata diversa e mi baciavo le braccia. Così noi donne, come fiori sbocciamo. Ho iniziato a ricevere proposte di lavori da fotografi e ho imparato che l’amore, prima di tutto, è bello ma soprattutto sano riceverlo da noi stesse. Amarsi sempre: la pelle, le ossa, la carne, gli acciacchi.
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Il corpo vs emozioni. Il piercing è una body-modification, qual è la tua filosofia a riguardo? Credo davvero che il nostro corpo sia un tempio. Ognuno di noi è libero di addobbarsi come preferisce, come meglio per esprimere se stesso, al fine di onorare le parti che amiamo. Credo che fin quando rispettiamo il nostro corpo, tutto appare bello anche a chi ci osserva. Il piercing è una piccola modificazione corporea, ma il campo può estendersi anche alla moderna chirurgia plastica, al cambio di sesso, a tante altre cose. Sono a favore fino a che il tutto venga fatto con la piena e reale percezione di sé. Il problema sorge quando le persone non si accettano, quando si addobbano per nascondere, o per seguire tendenze che non hanno niente a che fare con la loro persona. Ma chi siamo noi per giudicare i valori o i dolori altrui? Dovremmo tutti essere in piena sintonia col nostro corpo, valorizzarlo sempre, che sia con gioielli o con una taglia di seno in più; viva i templi e i giardini.
Tu sei già in paradiso, ti sei soltanto addormentato: hai unicamente bisogno di risvegliarti. da Il quarto elemento dell’amore, Osho, Feltrinelli Paradiso o inferno? Sogni o sei desta? Per arrivare al paradiso dall’inferno ci si deve passare, che lo si voglia o no. È così! È la vita, e probabilmente questo passaggio è anche alla base di tutto. Solo col dolore riusciamo a trasformarci, a evolverci e uscirne più forti di prima, con uno stato d’animo diverso, come quiete interna e conoscenza e accettazione di tutto ciò che siamo, siamo stati, saremo. Per mia fortuna, l’inferno l’ho vissuto dai tredici anni: un percorso imposto, non aver potuto avere la libertà di scegliere, un rapporto difficile con mio padre, il sentirmi invisibile e perennemente sbagliata, la droga presente – negli occhi degli amici, nei libri, malvagia e intrigante, vizio innalzante, ali di catene, miraggio illusorio, così magica nei film – il non riuscire a creare felicità da sola, ma sempre tramite qualcosa. Il mal di vivere. Ciò che non fa male a uno, fa male all’altro. Tutto ciò mi ha fatto crescere. Adesso vivo il mio paradiso, il bastarmi a me stessa, il mio mondo interno ha sovrastato l’esterno. Ha vinto l’arcobaleno che mi fa scivolare tutto di dosso. I sogni che hanno sempre fatto parte di me, e che un tempo mi facevano aprire a persone e situazioni negative, continuano a far parte di me anche adesso, che ho imparato a proteggermi come fossi una
casa, un tempo senza finestre, adesso che ho bene in testa ciò chi sono, e cosa voglio. Sognare sì, ma con la testa sulle spalle. Sennò ci si perde nei sogni altrui. A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l’invidia è forse l’unico vizio che non dà piacere. da I vizi capitali e i nuovi vizi, Umberto Galimberti, Feltrinelli Quale vizio capitale cancelleresti dall’elenco per potervi indulgere? Invidi o sei invidiata? Fortunatamente sono sempre stata una persona buona, e ho sempre lavorato sulla mia parte buona. Credo che tutti noi come esseri umani abbiamo la possibilità di scegliere in che modo lavorare, dove e come focalizzare la nostra energia. C’è chi lavora sulla propria parte buona, c’è chi lavora su quella meno buona. Spiritualità o razionalità dell’ego. L’invidia nasce nel momento in cui ci stacchiamo da noi stessi, e ci paragoniamo all’altro. È uno sminuirsi, un non sentirsi a pieno. Probabilmente nasce come debolezza e, da dove e come poniamo la nostra attenzione, si trasforma. Il mondo però purtroppo non è abitato da sola bontà, e la gente sì: è invidiosa. Davanti alla scelta di poter tutti collaborare, cooperare, imparare l’uno dall’altro, molto spesso ci troviamo davanti persone che fanno muro, che ti fanno notare tutto ciò che in te non va, che si approfittano del tuo essere buona. Questo un tempo mi faceva male, quel solito tempo in cui davo più importanza agli altri e meno a me. Adesso mi fa solo capire l’essenza della persona che ho davanti, e di certo, non mi spinge ad approfondire la relazione. Dobbiamo stare un po’ attenti con determinate persone. La vita è movimento ed energia, che trasmetti e ricevi. Le persone luminose sono belle perché riempiono gli spazi, questo può essere meraviglioso per chi emana la solita luce, deleterio per gli invidiosi. Invidiateci pure, peggio per voi. Per quanto mi riguarda, osservo il prossimo, mi piace la gente che ha proprio stile e personalità, da queste persone posso solo trarne vantaggio e piacere, e magari, prendere spunto, ma di certo non le invidio.
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Dall’elenco cancellerei senza dubbio la gola! Cosa c’è di meglio di una bella cena in ottima compagnia? Chi sono i tuoi modelli femminili? Sono cresciuta col movimento Riot grrrl. Bikini Kill, Babes in Toyland, Le Tigre, L7 (adoro!!!), ma come ho amato le Hole non ho mai amato nessuno di questi gruppi. Senza dubbio il mio modello femminile è sempre stata Courtney Love, il suo modo di porsi, di vestirsi, di gridare fan**** al mondo. Mi sono sempre molto ritrovata in lei, nei suoi testi, nel suo vivere i suoi vent’anni. Quando avevo diciassette anni suonavo la chitarra e con altre due amiche ci si rinchiudeva in sala prove e urlavamo. Mini gonne, calze rotte, piedi sugli amplificatori, rossetto rosso. Ho sempre amato molto la musica, mi ha sempre salvata, in qualche modo. Adesso non ho modelli femminili, se non il mio diventare donna, al meglio. Anzi, direi che il mio modello femminile sono tutte quelle donne indipendenti, libere, prive di invidia (appunto), piene di arte, di bellezza e personalità. Non c’è cosa più bella di trovare persone che abbiano idee proprie e progetti di cui parlare, in un mondo pieno di persone che si riempiono la bocca di cose, materialità, e affari che non riguardano la loro vita ma quella degli altri. La vera donna è una dea, tutto il resto è frivolezza superficiale.
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Se non fossi una piercer saresti? Già da qualche anno non sono solo una piercer. Mi piace fare tante cose, sono curiosa, non sopporto l’idea di dover fare un solo lavoro nella vita. Non credo al contratto indeterminato. Mi piace un percorso che abbia novità e dinamicità, e farò di tutto perché possa succedere ora e in futuro. Nel 2012 conobbi un uomo che aveva
dei negozi qui a Firenze, iniziammo un rapporto sentimentale e così entrai a far parte del mondo dell’abbigliamento. Aprimmo insieme un negozio, Iron Fist, iniziai ad apprezzare quella scena che un tempo mi trasmetteva solo consumismo, ne conobbi la sfera artistica. Oltre il pronto moda che vive i nostri tempi, la moda è arte, espressione di sé, stile, unicità e carattere. E così qualche anno
dopo iniziai a lavorare per Sisley, in cui lavoro tutt’ora adesso. Tramite il negozio (in via Roma a Firenze) ho fatto molte conoscenze, persone splendide, fotografi e, come si dice, da cosa nasce cosa. Ho iniziato a fare i miei primi shooting, inizialmente per gioco, poi per pubblicizzare t-shirt e abbigliamento di negozi vintage, infine sono stata scelta come modella per la creazione del catalogo Spi-
tfire, un brand di abbigliamento italiano, e fu per me una giornata meravigliosa, oltre a essere il mio primo shooting importante. Modella, body-piercer, addetta vendite, mi piace tutto ciò che mi permette di esprimermi e stare a contatto con la gente. Hai dei bellissimi pezzi tatuati sul corpo, ci vuoi dare qualche nome di artista che ti ha tatuato?
Il mio primissimo tattoo lo feci che avevo circa vent’anni, un piccolo funghetto dietro l’avanbraccio. Avevo da poco iniziato a fare i primi piercing agli amici, così, lo barattai per un piercing al frenulo. Lo feci a colui che sarebbe diventato poi un futuro collega, all’epoca anche lui alle prime armi con la macchinetta. Il tatuatore in questione, Beppe (aka Il Moio), proprietario adesso dello studio Black Circle Hellectric Tattooing di Figline Valdarno. A seguire, Alberto Ciarchi, Giacomo Bianchi, Il Moio, Samuele Briganti, Gianmauro Spanu, Annaluna Mavridis, proprietaria e tatuatrice dello studio Skins Street di Firenze, dove lavoro tutt’ora adesso come body-piercer. Se dovessi scappare dall’Italia dove andresti? Per adesso non ho l’urgenza di scappare, sto bene e vivo bene esattamente qui dove sono. Non viviamo il bel paese, e su questo ne sono d’accordo. Ma ho sempre sognato di vivermi il viaggio col mio compagno, quindi, quando arriverà l’amore, ci dirà lui dove andare, sicuramente sarà una terra col mare e con tanta natura. Se proprio dovessi scappare, allora scapperei lontano dal frastuono.
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È attraverso il corpo che conosce ed esplora l’unico orizzonte che realmente le interessi, quello interiore.*
Michele Virgillo
Corpi celesti
Intervista di Alessandra Giannini Fotografie di Michele Virgillo
In questo articolo abbiamo scelto di raccontare le storie di Nina e Costanza, una pittrice e tatuatrice e una piercer. Due donne molto diverse tra loro, ritratte dagli scatti di Michele Virgillo; il suo sguardo mette in luce la natura gioiosa e spontanea della donna, spesso ritratta nella natura a esaltare il carattere fiabesco dei suoi personaggi. Le muse di Michele sono donne forti e romantiche, ironiche ma profonde. Nei suoi scatti in bianco e nero arriviamo all’essenza delle protagoniste, quasi ne possiamo accarezzare l’anima. Quando hai iniziato a fotografare? Ho iniziato da molto piccolo: mio padre mi ha “attaccato” la passione, a quattordici anni già avevo la mia macchina. Mi chiamo Michele Virgillo, con doppia elle finale, tutti sbagliano il mio cognome, abito a Firenze dove sono nato cinquantuno anni fa, fotografo da quando sono bambino. Penso la quasi la totalità delle mie foto in bianconero, qui
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mi trovo a mio agio con i contrasti. Mi piace il ritratto ambientato. Non fotografo mai in studio. Ho bisogno di spazio per le mie foto. Scatto con una Nikon 3DS e mi piace scattare con ottiche fisse: 50 mm, 85 mm. Questo sono io fotograficamente.
Non scatto mai in studio, mi sentirei compresso in una scatola, non è roba per me. Amo l’aria: quando scatto devo respirare a pieni polmoni. Le tue muse, come le scegli? Ti capitano, le cerchi? A volte mi capitano: l’amica dell’amica che per esempio mi colpisce e allora l’invito a farsi fotografare, o mi capita anche che per un determinato lavoro sia io a cercare il profilo più idoneo alla mia idea iniziale. Il bianco e nero è una scelta, cosa
rappresenta per te? Il bianconero è una scelta dopo moltissimi anni di colore, già stampavo in camera oscura ma da qualche anno la quasi totalità dei miei scatti è in bianco e nero; mi piace perché è senza vie di mezzo. Mi piace usare contrasti forti, i bianchi specialmente, non sono mai stato un grigio in definitiva. Il tuo colore preferito? Il verde!!! Sono il fotografo ufficiale del quartiere Verde di San Giovanni nel Calcio storico Fiorentino. Fotografia analogica o digitale? Adesso soltanto digitale, fino a un paio d’anni fa, facevo ancora qualcosa in analogico ma sempre in bianco e nero. Ti piace la camera oscura? Tantissimo. Purtroppo per problemi agli occhi, l’uso degli acidi che mi dava fastidio, sono anni che non entro più in una camera oscura.
Le tue modelle non sono suicide girls, ma come le definiresti? Normalissime ragazze che puoi trovare in un pub, in un rave o a un aperitivo elegante. Non fotografo per categorie, non mi piacciono. Suicide Girls: una moda, un brand, un’etichetta? Sinceramente non so, una moda forse, un modo per dire: ecco faccio parte di questa banda di fiche. Sinceramente, vado oltre. Scatti spesso in esterna, nella natura. Yann Martel scrive ne La vita di Pi — La natura può allestire spettacoli straordinari. Il palcoscenico è immenso, le luci strabilianti, le comparse infinite e il budget per gli effetti speciali illimitato. È così anche per te? Hai colto l’essenza, brava! Amo scattare all’aperto o usare locations abbandonate, dove ci sia luce naturale, amo i boschi e la luce. Non scatto mai in studio, mi sentirei compresso in una scatola, non è roba per me. Amo l’aria: quando scatto devo respirare a pieni polmoni. Sei tatuato? No, non ho tatuaggi, ho un terrore folle degli aghi, anche se tutte le mie amiche tatuatrici mi dicono che dovrei provare, vediamo a ottobre compio cinquantadue anni, magari mi faccio un regalo.
ché credo che sia la rappresentazione migliore del secolo XXI. Ogni epoca ha le sue muse, la donna ideale, quella rappresentata nelle fotografie, nel 2017 io la donna la vedo tatuata.
e per l’onore del nostro colore e di Firenze intera, ecco mi son fatto prendere dall’adrenalina come sempre quando parlo del calcio storico, scusa.
Raccontaci Firenze: il calcio storico. Il calcio storico, roba da pazzi! Per chi non lo conosce in due parole: una sfida tra i quattro quartieri di Firenze divisi in quattro colori; Verdi (il mio quartiere), Azzurri, Bianchi, Rossi. A giugno si svolge la manifestazione con una sfilata per le vie del centro di cinquecentotrenta figuranti che rappresentano tutte le milizie e le corporature della Firenze del 1500, dopo si arriva in Santa Croce e lì, in un’arena ricoperta di sabbia ventisette contro ventisette calcianti: comincia la guerra! La partita è un mix di rugby, pugilato, lotta e altro. Poche regole: l’avversario va sconfitto in qualsiasi modo. La palla va depositata in una rete che percorre tutta la parte verticale del campo e si chiama caccia, chi vince le due semifinali il 24 giugno gioca la vittoria nel giorno del patrono di Firenze: San Giovanni. Molti ci criticano definendoci violenti, ma non è vero, il gioco è questo, giochiamo per la vittoria
Ti piace farti fotografare o stare al di là dell’obiettivo ti mette a disagio? Non mi capita spesso di trovarmi dall’altra parte dell’obiettivo, ma quando ci sono non sono per niente a disagio, sono leggermente egocentrico. Se non fotografassi cosa faresti? Roba dura, non ho idea! La fotografia è molto della mia vita, non so risponderti sinceramente. Un progetto futuro, un sogno nel cassetto, uno scheletro nell’armadio. Un progetto futuro: continuare questa bella collaborazione con voi per esempio. Un sogno che non si realizzerà mai: una mia foto in copertina del «TIME». Uno scheletro: non aver mai studiato fotografia, sono un autodidatta. *Valeria Arnaldo, Gli amori di Frida Kahlo, Red Star Press, Roma, 2016
Le tue muse sono spesso tatuate, perché i tatuaggi sono fotogenici o c’è altro? Non mi interessa che i tatuaggi siano fotogenici, mi capita spesso di fotografare ragazze tatuate per-
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Nicoz Balboa Tra Julie Doucet e la Montessori
I mille interessi di una fumettista, blogger, tatuatrice, mamma e soprattutto artista Intervista di Rossana Calbi La prima volta che ho visto le sirene tristi di Nicoz Balboa erano bruciate nel legno e mi incantavano dalle pareti della galleria della Capitale MondoPop, che, ahimè, ha chiuso ormai da anni: nel 2012; adesso le sue donne disegnate fortificano le foto di William Baglione in Baglione vs Balboa (ovvero: donne nude che ti fanno in culo) fino alla fine di luglio all’Hangar Tattoo Studio di San Lorenzo, sempre a Roma. Impossibile per Nicoz rimanere lontana dalla sua città: Roma, ma in questi anni è diventata mamma, tatuatrice e ormai, dopo la pubblicazione di Born to Lose con la Coconino Press, entrata a far parte del gruppo Fandango nel 2009, è solennemente una fumettista. E tutto questo, tutto il suo divenire è nella sua graphic novel. Born to Lose è la sua crescita, la sua trasformazione, la sua accettazione rispetto ai cambiamenti: Born to Lose è la
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storia di Nicoz Balboa, un’artista in piena evoluzione che presenta le sue nuove sirene in asana contorte nel progetto Yoga on My Skin, in mostra fino al 30 settembre 2017, presso Amaneï a Salina, nelle Eolie, in collaborazione con
non avevo idea che stavo facendo quello che stavo facendo l’obiettivo era disegnare tutti i giorni ossessivamente quello che succedeva; adesso mi rendo conto che l’ho fatto probabilmente per capire quello che vivevo Parione9 Gallery. Born to Lose è la tua prima graphic novel tutta tua, ma prima cosa c’è stato? Quali sono state le pagine pubblicate che
ricordi con più soddisfazione? Born to Lose in realtà non è la prima cosa tutta mia che esce, però diciamo che oggettivamente è il progetto più completo e “adulto” di cui per il momento sono molto fiera ed è il primo che esce con una casa editrice storica. Le prime pagine pubblicate sono state quelle fotocopiate per le fanzine che facevo prima con le mie
amiche del liceo, «Catholic Girls», e poi c’è stato sempre al liceo questa raccolta di fumetti che si chiamava «Caccapiscia». Ce ne sono stati altri nel tempo e negli anni; fino almeno a dieci anni fa ogni tanto fotocopiavo questi fumetti e li producevo, poi l’avvento dei blog ha sostituito le fotocopie, ha velocizzato la distribuzione, l’autoproduzione anche se virtuale. Parallelamente ho partecipato a varie antologie e come cose personali tutte mie avevo fatto uscire, una decina di anni fa, il fumetto Les Larmes de Crocodile e in Italia, sempre più o meno dodici anni fa, uscì il fumetto Nicozrama ed era edito dal Cen-
tro Fumetto “Andrea Pazienza”.
Raccontare noi stessi è forse la cosa più facile, in fondo dovremmo conoscerci al meglio, o serve scrivere e disegnare di noi per imparare a vedere cosa ci gira attorno e cosa ci passa per la testa? Io opterei più per la seconda opzione: quando io ho iniziato a disegnare questo diario che si chiamava MOMeskine all’inizio e che usciva mensilmente su un blog non avevo idea che stavo facendo quello che stavo facendo l’obiettivo era disegnare tutti i giorni ossessivamente quello che succedeva; adesso mi rendo conto
che l’ho fatto probabilmente per capire quello che vivevo, all’epoca non te lo saprei dire io sono la regina dell’incoscienza quando faccio le cose quando è stato il momento di pensare a una pubblicazione è stato lì che mi sono accorta che il personaggio, perché è un fumetto autobiografico, ma si tratta di un’esagerazione di me, aveva un’evoluzione; la vita di questo personaggio andava da un punto iniziale a un punto finale. Per Born to Lose è stata fatta una selezione di una prima parte di questi diari, dei primi due anni e qualcosa. Siccome, poi la vita non è lineare: il libro raccoglie questi due anni in cui io tutti i giorni ho disegnato. Ovviamente pubblicare tutti e due gli anni, pagina per pagina, avrebbe richiesto troppo, sarebbe stata la Treccani e quindi questa selezione è stata fatta per alleggerire un po’ la mole. Mentre selezionavo il lavoro mi sono accorta che avevo vissuto certe cose e le ho viste un po’ da fuori: è stato come vedersi un po’ dall’alto. Tra le dediche sul volume ne troviamo una a Julie Doucet, autrice canadese di diari a fumetti quali Dirty Plotte e My New York Diary. Qual è il tuo rapporto con quest’autrice? Julie Doucet è la persona che mi ha insegnato a fare fumetti, anche se lei non lo sa, adesso un po’ lo sa. Io ero appassionata di fumetti da tempo: i super eroi, prima ancora Dylan Dog, poi ho scoperto anche i fumetti americani indipendenti, e nel ’96 mi è capitato sotto mano un numero di Dirty Plotte e lì sono rimasta fol-
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gorata, ho avuto l’illuminazione e ho detto: ok, si possono anche fare i fumetti così, raccontando se stessi, raccontando la propria vita e la cosa rimane comunque interessante, almeno per me lo è! Quando penso ai miei gusti ho sempre apprezzato lavori autobiografici o fintamente autobiografici o, comunque, in cui la voce narrante fosse soggettiva. Prima di scoprire Julie Doucet portavo sempre con me Il giovane Holden di Salinger, infatti, è nelle citazioni iniziali, quindi quando ho visto che si poteva fare un fumetto in quel modo da un punto di vista oltretutto femminile e con tematiche anche femminili. Per esempio, mi ricordo benissimo la storia in cui lei si sveglia e dice: Cavolo, il Tampax è pieno! Allora adesso leviterò! E si alza con la forza della mente e vola per tutta casa in posizione orizzontale per arrivare sopra il water e girarsi per non perdere gocce di sangue per strada con il Tampax pieno. Quella tipologia di racconto per me fu determinante, quindi per
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questo la dedica. Poi la cosa tipo fan le inviai il link del blog in cui pubblicavo il MOMeskine e lei, dopo un po’ di mesi, mi scrisse una mail in cui definiva i diari addicted, infatti, in questi giorni sto prendendo forza per dedicarle un libro a penna e spedirglielo in Canada: per me lei è molto importante. Di passioni ne racconti tante: dalla musica di Gipsy Rufina alla cucina proposta da Vegan Riot, il libro di Paolo Petralia. Una mi ha incuriosito molto: la Montessori. Cosa ti ha insegnato la pedagoga anconese? Io sono molto sensibile alla musica, che detto così sembra una cosa farlocca, però ascolto molta musica mentre lavoro, sono abbastanza monomaniacale. Ho dei periodi in cui ascolto un solo artista, una sola band spesso anche un solo disco o addirittura anche solo una sola canzone a ripetizione tutto il giorno. Ho avuto questo ‘periodo Gipsy’, che poi non si è mai interrotto, in cui ascoltavo molto molto Gipsy e nel frattempo l’ho contattato e venne a suonare
qui a La Rochelle, siamo anche diventati amici l’ho anche tatuato. Vegan Riot, è una realtà che merita, il sito anche prima del libro era una fonte a cui attingevo, non sempre riesco ad essere vegan, non sempre riesco a rimanere vegetariana. Spesso ho delle ricadute, soprattutto a causa della mozzarella. Tu mi chiedevi della Montessori, quando è nata mia figlia mi sono interessata alla Montessori, a leggere libri e documentarmi su approcci “alternativi” rispetto all’educazione, alla nutrizione, all’accudimento dei bambini. Ho cominciato interessarmi a varie scuole di pensiero diverse. Soprattutto perché quando ero incinta non mi sono per niente documentata perché ho pensato — va be’, che ci vuole? I figli sono una cosa istintiva, che devi fare? — quando invece è nata mia figlia mi sono resa conto che non era tutto istintivo che era una cosa molto difficile partorire e allevare un essere umano; mi andava di farlo in maniera cosciente e non applicare regole per sentito dire soprattutto perché mi suo-
navano male, soprattutto qui in Francia molti approcci fanno l’elogio del distacco, della freddezza, della disciplina e io vengo da un contesto anche culturale in cui la disciplina e l’ordine non mi stanno molto simpatici. Perché avrei dovuto applicarli con la carne della mia carne?! Leggendo e rileggendo mi sono approcciata a degli scritti di Maria Montessori e il suo approccio all’educazione mi sembrava molto pertinente si vede che lei ha studiato l’approccio e l’apprendimento per poi creare un metodo, non è un metodo creato in teoria e poi applicato a forza sui bambini. Quello che mi ha insegnato è che ogni bambino ha un periodo sensibile per l’apprendimento e ha voglia ed è spinto a imparare le lettere, quindi a leggere, i numeri, i colori oppure la vita quotidiana: allacciarsi le scarpe o versare l’acqua, in quei periodi bisogna nutrire la fame
di conoscenza del bambino. Perché poi nutrendo questa loro fame impareranno molto in fretta. Si deve rimanere all’ascolto dei bisogni del piccolino. È una cosa che io ho provato a fare ed è stato illuminante alzare le antenne invece di imporre delle attività o delle nozioni, basta solo aspettare che la voglia venga da parte del bambino e la voglia arriva, non c’è da preoccuparsi, il bambino è curiosissimo: ha voglia di imparare. Pagine scansionate, sporche e tracciate velocemente con i colori e disegni dettagliati sulla carta prima e sulla pelle poi: uno stile poliedrico ma sempre riconoscibile. I tuoi personaggi sono antropomorfi un po’ come te, un’anima delicata e romantica e l’altra punk. Alla fine Cappuccetto Rosso picchia il lupo? Sì, forse mi sa che forse che siamo un po’ di persone qua dentro. O semplicemente sono dei discorsi
e quindi dei linguaggi diversi. L’approccio del tatuaggio rispetto al diario grafico sono due necessità e due campi di azione molto diversi. Alla fine Cappuccetto Rosso picchia il lupo? No, alla fine vanno a braccetto. Vanno a bere. Nel tatuaggio non sono sola, sono di fronte alla richiesta di un cliente anche se io, poi, metto la mia mano, metto il mio stile ma non perdo mai di vista la richiesta della persona perché è la persona che se ne va con il tatuaggio addosso per tutta la vita, quindi non mi succede mai di imporre un disegno, io disegno sempre per la persona in realtà. Anche se sono fortunata perché spesso i clienti mi chiedono cose che mi piace realizzare. Per quel che riguarda il diario grafico sono da sola di fronte alla pagina, a volte proprio di fronte a un’incazzatura o a una gioia e quindi tutto molto più diretto, più sporco e istintivo.
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Attualmente vivi a La Rochelle quale storia ti piace di questa città sul mare? In realtà La Rochelle ha una storia di resistenza, di ribellione, ha una storia molto carica. Non sono molto brava a raccontare le storie non mie. Ci devo pensare, poi un giorno te lo dirò. Il tatuaggio è arrivato alla fine, è arrivato dopo la pittura, le mostre, dopo tua figlia, tu eri già Nicoz Balboa del Punk Surrealism, eri già un’artista e sei diventata una tatuatrice dal ’99, un supporto nuovo o una nuova prospettiva? Il tatuaggio e il disegno hanno sempre viaggiato su due binari paralleli, uno per “necessità”: il disegno, quindi la voglia di raccontarmi, fumetti ne faccio da quando sono bambina, autoritratti ne faccio dall’asilo. Il tatuaggio l’ho scoperto al liceo, negli anni ’90, ed è una cosa che mi ha sempre appassionato, mi sono sempre fatta tatuare. All’epoca che non c’era Internet e mi compravo le riviste: stavo lì con le amiche chiedendomi cosa mi dovessi tatuare, quale stile. A parte due settimane in cui ho fatto la cameriera, già da quando avevo diciannove anni facevo la piercer , poi quando mi sono trasferita a Parigi ho cominciato a fare piercing in uno studio in cui poi sono diventata shop manager: preparavo le postazioni, gli aghi e tutto il necessario. Mi sono fidanzata con Guicho (tatuatore francese, specializzato in stile giapponese n.d.r) il padre di mia figlia, insieme abbiamo aperto
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uno studio a La Rochele: in realtà è un lavoro che ho sempre fatto quello della tatuatrice. Ho fatto il primo tatuaggio tanti anni fa, era il ’99, su un mio collega piercer in uno studio dove lavoravo a San Giovanni (Roma n.d.r.), per tanti anni ho tatuato gli amichetti, ma non avevo mai unito tatuaggio e disegno semplicemente perché per me un tatuaggio era un linguaggio a parte e quindi richiedeva un certo tipo di stile un certo tipo di soggetti, per un po’ di anni ho provato a disegnare cose da tatuaggio e devo dire che l’effetto era molto kitsch. Finché un giorno, la mia cara amica Anna Tufano, artista anche lei, mi chiese si tatuarmi un disegno che era su una mia biografia: un lupo con una donnina, io non pensavo che avrei potuto unire i due linguaggi. È lì che vedo il mio punto di svolta. L’effetto è stato soddisfacente non tanto dal punto di vista grafico, ma dal punto di vista della realizzazione, cioè mi sono divertita. Era il 2012: ho postato questo disegno su Facebook e da lì si è aperta una porta: molte persone mi hanno detto se tatuassi le cose che facevo sui quadri, ed è stato un bel regalo dalla vita perché ho unito due cose che pensavo non si sarebbero mai potuto unire. Quali tattoo artists ti ispirano e riempi di cuoricini su Instagram? Quello che io realizzo nel tatuaggio è legato all’illustrazione e al disegno, anche se poi dal punto di vista della realizzazione, non tanto del soggetto, cerco di mantenere alcune cose tecniche canoniche del tatuaggio tipo le linee, il
colore, il nero. Cerco di rimanere nel linguaggio del tatuaggio, anche se non nel disegno, infatti, se nel diario grafico uso anche molti acquerelli, macchie di colore, nel tatuaggio non farò mai tipi di tatuaggio con macchie di colore che escono e sbordano, perché proprio ho una sorta di timore rispetto alle due cose. E qui ti rispondo alla domanda: in realtà, i tatuatori che seguo su Instagram sono molto canonici, legati al tatuaggio tradizionale anche neo-tradizionale, come li chiamano, anche giapponesi. WEB nicozbalboa.wordpress.com/momeskine/ fandangoeditore.it/categoria-prodotto/marchi-editoriali/ coconino-press/ amanei.com
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Lucille Ninivaggi Radici altrove
Intervista di Alessandra Giannini Trasposizione da bobina audio di Francesca Mastroianni Fotografie di Veronica Zanusso Qual è il tuo percorso di studi e come ti ha portato a fare la tatuatrice? Ho frequentato solo il liceo artistico, non ho potuto permettermi di studiare altro, non volevo pesare economicamente su mia madre e sono sempre stata molto attiva e ho iniziato subito a lavorare per essere indipendente, ho iniziato con il fare la commessa, poi la babysitter e ho fatto un sacco di altri lavori fino a che una mia carissima amica mi ha fatto entrare in un ufficio stile??? cosa che dieci anni fa non era facile, serviva una formazione specifica e invece io entrai in punta di piedi, ho iniziato facendo le fotocopie e presto fui il tutto fare dello studio. Mi sono comprata il computer da sola, e da autodidatta ho studiato computer grafica. Il tatuaggio è sempre stato un sogno nel cassetto, mi sono sempre tatuata legando ogni mio tatuaggio a un
ricordo spesso sofferente tanto che ho iniziato a un certo punto a stravolgere questa cosa e a farmi tatuaggi felici. Un giorno parlando col mio migliore amico ho detto — mi piacerebbe cambiar vita; se tornassi in dietro tatuerei.
Sì, la parola Roots io la lessi su una rivista. È nato Roots perché le mie radici arrivavano da altrove, io ho mille interessi
Il tuo stile viene spesso collocato in altre categorie se dovessi dare un nome allo stile con cui tatui quale sarebbe? Faccio seriamente fatica anche io, non è new school né new traditional, le linee grosse si alternano a linee più sottili, il disegno piatto e poco tridimensionale, appartengono allo stile traditional, all’inizio venivo presa in giro perché definivano i tatuaggi come “gentili”, quando mi chiedono la tigre tradi-
Mi ha regalato la macchinetta e l’ho subito provata su di lui, quando ho fatto il primo tatuaggio tremavo in modo surreale. Ho fatto fatica a mollare tutto, provenendo da una famiglia con una mamma single e un fratellino e senza sicurezza economica, sono cresciuta cercando la sicurezza e la serenità che mi erano mancate, poi una volta vinta la paura mi sono lanciata.
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zionale io non riesco a farla arrabbiata, un mio amico mi disse — è impossibile che anche il soggetto più tremendo disegnato da te non sia mai arrabbiato — perciò un giorno li ho definiti tatuaggi gentili. Oggi si realizzano tatuaggi ad hoc per la persona; la interpreti, studi come si veste e che musica ascolta, tutto questo por-
ta al disegno che realizzo per il cliente. I tatuatori sono talmente tanti che ognuno realizza uno stile proprio non è più possibile ridurre gli stili a categorie. Tatui soggetti colorati onirici, quasi fiabeschi. Cosa ti ispira quando prendi in mano la matita e da dove attinge la tua fantasia?
Quando ho iniziato pensavo di tatuare solo in bianco e nero e non a colori. Sicuramente subisco influenze dai tatuatori che mi piacciono e poi identifico nel disegno le mie emozioni. La mia psicologa mi chiese di farle vedere i miei disegni e mi disse — Vedi? Questa sei tu, sempre con un velo di tristezza che sai rendere fiabesca. I miei soggetti non sono davvero tristi, però oggettivamente quando li rappresento non sono mai felici perché la vita non è mai davvero felice, per questo io amo inserire nei miei disegni cuori infilzati, rossi con gocce nere. Io con i clienti voglio sempre parlare e quando realizzo il disegno e vedo poi la persona per l’appuntamento mi rendo conto che è proprio per lui o per lei. Come è nato Roots, il tuo studio di tattoo in viale Bligni, 2 a Milano? Un giorno mi fermai un attimo a pensare a cosa fare, mi dissi io voglio solo stare bene, mi apro senza dar fastidio a nessuno il mio micro spazio. Ne parlai con Gianpaolo, era il mio parrucchiere storico, io sono sempre stata un amante dei capelli, e con Alessandro il mio migliore amico. Con un po’ di paura e incertezza e con l’aiuto del mio fidanzato e con la sua esperienza, lui aveva delle attività commerciali e ci ha spronato, abbiamo nascere Roots, con l’idea di stare bene insieme. È interamente una tua idea? Sì, la parola Roots io la lessi su una rivista. Roots è nato perché le mie radici arrivavano da altrove. Io ho mille interessi, mi piace mo-
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dernariato ad esempio, ho pensato: non limitiamoci solo a capelli e tattoo vorrei lavorare con l’artista che fa le scarpe che possiamo appendere in vetrina, non abbiamo spazio qua dentro e usiamo la vetrina e ogni volta la riempiamo di cose differenti, abbiamo avuto libri fotografie, abbiamo avute tante piccole collaborazioni. Questa cosa vogliamo ampliarla, ma non per guadagnare ma per raccontarci. Quando qualcuno entra e vede e cose che piacciono per noi è un valore aggiunto che diamo e che ci fa sentire più a casa, perché tutti i posti possono essere bellissimi ma se chi ci sta dentro non è bello la magia un pò svanisce. Qui è un buco e nonostante questo siamo stati accolti benissimo, anche se ci sono delle scomodità. Quando su c’è gente e anche qui è pieno è davvero un delirio magari la gente si stanca però con il fatto che c’è un buon umore, il negozio continua ad andare avanti molto bene. Noi stiamo cercando due parrucchieri e uno shop-manager per ciò che concerne il tattoo. Chi volesse appoggiarsi da noi è il benvenuto, però non vogliamo ingrandirci troppo perché abbiamo creato questo negozio basandoci sull’intimità. I colori che non mancano mai nei tuoi tappini? Io uso molto un colore che volgarmente si chiama blu Tiffany. Il rosso c’è sempre, amo molto il colore della papaya, i colori che virano sul rosa, il color caramello, i gialli bassi anche l’ocra. Hai mai sperimentato il trucco
permanente? Certo, ho fatto le sopracciglia con il semipermanente. Solo questo. Bobina o rotativa? Io uso tutte e due ma preferisco la bobina ho provato a tatuare solo con la rotativa ma mi devo far male alla mano altrimenti non sono contenta. Ormai ho l’abitudine di lavorare con il peso e le vibrazioni della bobina e se uso una macchina troppo leggera non mi piace molto. Io sono amante della bobina. Modelli femminili a cui ti ispiri? Donne che hanno sofferto molto come Frida Khalo e Tamara de Lempicka. Nella vita reale un modello è la tatuatrice Ylenia Manzoni che oggi è per me anche un’amica. Cani o gatti? Ovviamente cani. Se non fossi una tatuatrice saresti? Una dog-sitter era il mio piano b. Il tuo primo tattoo? Io e Alessandro, il mio amico che mi ha regalato il primo kit, eravamo nel bagno di casa e gli ho fatto una lettera in aramaico.
Veronica Zanusso, fotografa di questo servizio. Di Milano, classe ‘79. Lavora per 15 lunghi anni come stilista e grafica tessile, ma non sopporta le costrizioni e abbandona! Quasi per caso scopre la fotografia, si appassiona e si immerge completamente in un nuovo mondo. Adesso lavora come grafica e fotografa di ritratti, eventi, food... ed è felice.
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Rems For president
Intervista di Alessandra Giannini
Rems, cosa rappresenta questo soprannome o acronimo? Il mio soprannome deriva dalla tag che usavo quando facevo graffiti, ho iniziato ad appassionarmi di writing quando avevo dodici anni, all’epoca con qualche amico giravamo per Milano e hinterland e iniziavamo a far conoscere le nostre tag, col passare del tempo tutti hanno iniziato a chiamarmi Rems e quando sono approdato nel mondo del tatuaggio è stato spontaneo continuare a usare questo nome. Quando hai deciso di iniziare a tatuare? Il periodo, nel quale ho iniziato seriamente a pensare a fare del tatuaggio la mia vita, risale agli anni della scuola superiore. Durante quel periodo continuavo a crescere come writer e disegnavo moltissimo, contemporaneamente s’iniziavano a vedere i primi tatuaggi tra amici e compagni di scuola e a questo punto che iniziò tutto: capitava sempre più frequentemente che ricevessi richieste di disegni personalizzati
da portare ai tatuatori, vedere gli amici che tornavano con i miei disegni sulla loro pelle mi fece capire quale fosse la mia strada. Hai iniziato molto giovane già con le idee chiare e in poco tempo sei riuscito a emergere in un ambiente complicato, che consigli daresti a futuri giovani apprendisti? Ciò che consiglio è un percorso opposto a quello che ho fatto io da autodidatta, col senno di poi ho imparato il valore dell’apprendistato che in apparenza sembra scontato ma non è mai banale: sperimentare, ricreare e fare un percorso di crescita all’interno di uno studio valido dentro al quale si possano migliorare le proprie abilità, imparare i trucchi del mestiere e sviluppare uno stile e un’identità propria. Sei passato dallo stile tradizionale al realistico com’è avvenuta questa mutazione stilistica? Seguendo sempre il principio della continua sperimentazione ho iniziato a usare tecniche proprie del tatuaggio realistico nella
struttura dei miei tradizionali e questo ha portato a una graduale mutazione verso il realismo. A oggi mi occupo di realistico black&grey ma non amo chiudermi dentro una categoria. Sei passato anche dai colori solidi del tradizionale al bianco e nero nel realistico, raccontaci questo passaggio. L’abbandono del colore è stato dettato dalla volontà di apprendere al meglio le tecniche che caratterizzano il black&grey, ho quindi momentaneamente messo da parte l’utilizzo dei colori per imparare a padroneggiare bene il nero. Per la mostra Sacred Underground hai realizzato un dipinto su tavola da skate dove hai santificato un’icona rap. Cosa rappresenta il rap per te? Il rap rappresenta una costante nella mia vita: ho iniziato ad ascoltarlo da bambino e mi ha sempre accompagnato, dalla scuola al writing, dai concerti al sottofondo che metto in studio mentre lavoro.
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A oggi seguo molto la scena rap/trap americana e quella italiana, tra note leggende e nuovi talenti. La canzone che hai ascoltato di più? Direi per il versante americano Run Away di Kanye West, per quello italiano Una volta Sola dei Club Dogo, alla quale sono particolarmente affezionato per i ricordi legati all’ascolto. Collezionisti di tutto il mondo si rivolgono a te per le tue mini scarpe realistiche: una moda, una passione, una forma di feticismo? Indubbiamente una passione, anch’essa iniziata diversi anni fa. Cerco di tenermi sempre aggiornato sulle release e, quando posso, faccio camp out, essendo un “vizio” condiviso con parecchi amici e un fenomeno che si sta espandendo anche in Italia, ho pensato di iniziare a tatuare le sneakers preferite di qualche amico è da lì è iniziata questa cosa delle sneakers tattoo, cosa c’è di meglio di unire due passioni? Il ritratto è sicuramente una delle forme artistiche più complicate. Sulle pagine dei social network: tatuatori improvvisati trasformano il nipotino in un zombi, tu, invece, riesci a cogliere l’essenza del personaggio che ritrai, quali sono le qualità per esser un abile ritrattista? Amo molto i ritratti perché mi danno la possibilità di mettermi in gioco, riuscire a dare un’espressione identica a quella del soggetto di partenza è una bella sfida. Personalmente penso che i punti focali siano occhi naso e bocca, che contribuiscono in maniera maggiore alla resa espressiva e quindi al risultato finale. Mi sono innamorata del tuo ritratto di Undici, di Stranger Things, sei riuscito a rappresentare il suo mitico sguardo, con che personaggio della serie ti sei identificato? Quel tatuaggio è nato in una serata in cui parlavo con un’amica proprio della serie, lei mi disse che era fissata con Undici, così ci siamo accordati per farlo. Personalmente non c’è nessun personaggio specifico col quale mi sono immedesimato, ma ho apprezzato particolarmente la figura di Dustin. Bobina o rotativa? Abitualmente uso Cheyenne ma delle volte, specialmente per le miniature, mi affido alla bobina in particolare quella realizzata da Stizzo alla quale sono molto affezionato. Quanto conta una buona preparazione del disegno prima dell’esecuzione del tatuaggio? Inizialmente passavo ore e ore a disegnare, specialmente quando tatuavo altri stili, oggi per il tipo di lavori che eseguo creo progetti grafici ed elaboro fotografie, rimanendo fedele ai miei studi da grafico. Se non fossi un tatuatore saresti? IL PRESIDENTE.
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OINK FARM
Intervista di Alessandra Giannini Fotografie di Ivan Lattuada
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Koji Yamaguchi Iniziamo dal maiale, l’OINK di OINK FARM, il tuo studio di tatuaggi: cosa rappresenta il maiale nella cultura giapponese? Si tratta semplicemente del nome dello studio, non ha alcun collegamento con il Giappone. OINK è un gioco di parole, dove si nasconde il termine ink, inchiostro. A parte questo, il maiale è un animale che mi piace. Il tatuaggio giapponese è ricco di simbologie, ad esempio, la carpa koi molto diffusa ha un significato preciso, lo vuoi raccontare? La leggenda giapponese narra di una carpa coraggiosa e perseverante, che riuscì a risalire una cascata superando ostacoli e spiriti malvagi. A quel punto gli dèi, impressionati da tanto coraggio, la trasformarono in un dragone. Cosicché la carpa divenne in breve tempo il simbolo di chi aspirava a fare grandi cose senza aver paura di affrontare le avversità. La carpa è anche simbolo di coraggio: se catturata affronta la lama del coltello senza ombra di paura, così come un samurai affronta la lama nemica. In Giappone si dice che, a differenza degli altri pesci che tentano di fuggire, quando è sul tagliere la carpa non trema. Rimane immobile. Nella simbologia essa rappresenta successo, coraggio, forza di volontà, determinazione, intelligenza, perseveranza, buona fortuna e trasformazione.
Si possono tatuare temi della tradizione gia pponese senza comprenderne la cultura? Sicuramente sarebbe meglio conoscere la cultura e i significa(n)ti che si celano dietro a ciò che si tatua. In ogni caso, attualmente, il tatuaggio giapponese si è trasformato. C’è chi preferisce lo stile tradizionale, e chi invece opta per il new style. Vi sono poi molti tatuatori che provano a mescolare gli stili tra loro. Per quanto riguarda il mio gusto personale, l’importante è che un disegno mi piaccia a livello estetico. Oggi, in Giappone ci si tatua? Non saprei rispondere con precisione a questa domanda, poiché ormai sono molti anni che vivo qui in Italia, lontano dal Giappone. Posso però dire con certezza che in Giappone la gente comune si tatua con più frequenza rispetto a vent’anni fa, quando il 90% della mia clientela era composta da mafiosi. Come il tatuaggio giapponese è rimasto legato alla Yakuza? Penso vi sia rimasto in parte legato, ma al contempo credo che i componenti della Yazuka, oggi come oggi, si tatuino molto meno rispetto ai vecchi tempi. Questo perché ormai si tratta di “uomini d’affari”, e il tatuaggio non si confà all’immagine che devono trasmettere. Il tuo primo tatuaggio?
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Il primo tatuaggio l’ho eseguito sulla mia gamba, da apprendista, e ritraeva tre fiori di ciliegio. Invece il primo tatuaggio che ho fatto per un cliente del mio maestro, sulla coscia, rappresentava una maschera Han’nya. Alcuni tra i tuoi riferimenti artistici? Prima di iniziare a tatuare studiavo disegno grafico, settore in cui ho anche lavorato. Per questo motivo tuttora apprezzo molti lavori svolti da disegnatori grafici e illustratori. Fin da piccolo sono sempre stato appassionato di fumetti, e in questo campo vi sono molti artisti che apprezzo. Hai avuto dei maestri? Sì, ho avuto un maestro di tatuaggio. Il suo nome è Hori-Cho. Ho vissuto qualche anno con lui, svolgendo il ruolo d’apprendista alla vecchia maniera. Vivevo nel suo studio, aiutandolo nelle pulizie e facendogli da autista. A quei tempi non potevo pronunciare la parola no, poiché l’unica parola concessami era il sì. In pratica ero il suo schiavo, ma è un’esperienza che mi ha fatto crescere e mi for-
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mato. E mi va bene. Hai iniziato con il tebori? Sì, ma ho smesso. Come si è evoluto il tuo stile di tatuaggio? Inizialmente non conoscevo nulla del mondo del tatuaggio, ma d’istinto mi piaceva quello tradizionale. Dopo qualche tempo, però, mi sono stancato e ho cominciato a mescolare ciò che mi piaceva della tradizione giapponese alla grafica e allo stile fumettistico. Attualmente sto progettando un altro cambiamento. Quando ti sei trasferito in Italia? Sono atterrato in Italia nel 1999, a Treviso, dove ho lavorato per qualche tempo in uno studio di nome Macchia Nera, con Andrea Bobbo. Dopo questa esperienza ho conosciuto un grafico, Fabrizio Urettini, e abbiamo iniziato a collaborare. La collaborazione andava bene, quindi abbiamo aperto uno studio di grafica: Studio Orange. Io e Fabrizio abbiamo lavorato insieme parecchi anni, durante i quali ho tatuato pochissimo. Ma un bel
giorno ho cominciato a sentire una forte nostalgia nei confronti della mia vecchia passione. Così ho deciso di abbandonare lo studio, trasferirmi a Milano e cercare lavoro come tatuatore. In questa città ho iniziato a lavorare per lo studio Milano City Ink. Cosa ritrovi di giapponese in Italia e viceversa? Il carattere delle persone e l’organizzazione sono completamente differenti. Comunque in entrambi i paesi si mangia bene. La tua esperienza da attore al Milano City Ink? Un’esperienza molto interessante, ma al contempo difficile per via della tensione che mi procurava. Fare l’attore non è il mio mestiere. Bobine rotativa o aghi tebori? Rotativa. A tavola: pasta o soba? Pastoba! Un sogno nel cassetto? Nessuno.
La tua premessa è no fashion-tattoos. Il tatuaggio non può essere moda? Penso che il tatuaggio si stia evolvendo sempre di più e questo è un bene. Ci sono tantissimi giovani talenti che iniziano a tatuare e nel giro di pochi anni raggiungono qualità eccezionali. La gente si tatua sempre di più e porta addosso pezzi sempre più grandi e sperimentali. Poi esiste il rovescio della medaglia, per questo mondo in espansione, e, come al solito, sono i soldi che rovinano tutto. Oggi il tattoo è un grande business, dove chi lavora col cuore preferisce rimanere underground e restare fuori da questo sistema, altri invece preferiscono riempirsi le tasche. Sì, ora il tattoo è abbastanza di moda ma non me ne preoccupo, perché appena finirà il fenomeno, rimarranno i tatuatori e i tatuati che stanno facendo le cose seriamente. Raccontaci chi sei in poche righe. Richiesta difficile! Quello che sono è dato dalle esperienze che ho vissuto e che mi hanno formato. Mi piace pensare che potrò cambiare nel corso della mia vita, ma di base potrei definirmi una persona che ama viaggiare, un po’ timida e introversa, ma abbastanza ribelle e un grande senso di giustizia. Sono nata in campagna e amo le cose semplici e il contatto con la natura. Sono alla continua di ricerca di… Non riesco mai a capirlo!
Zel Hand
Iniziamo dal maiale, l’OINK del tuo studio, raccontaci il maiale cosa rappresenta per te. Il maiale è un animale molto intelligente. In realtà è stato scelto come mascotte dello studio quasi per scherzo. È un gioco di parole dove si nasconde la parola INK.
Il tuo studio è una farm, come assomiglia a una fattoria? La farm ospita tanti animali e ogni tatuatore che viene a trovarci e lavora con noi, fa parte di questa fattoria. Ogni artista da oink farm contribuisce a far funzionare questo posto e a contaminarlo con il proprio estro creativo. E come ogni fattoria, c’è tanto lavoro da fare e in questo caso, se si vuole avere un buon raccolto, c’è bisogno di lavoro di squadra. Lavori con le fotografie vintage con il fotomontaggio, oggi il tatuaggio è aperto alla contaminazione di altre modalità espressive? Il mondo del tatuaggio si sta aprendo molto in questo senso. Questo perché i nuovi tatuatori spesso vengono da percorsi artistici diversi. Dal writing, dalla grafica, dall’illustrazione, dal video o dalla fotografia. Questo ha portato una ventata di aria fresca che in Italia inizia a farsi sentire per bene. Ovviamente all’estero è partita prima questa spinta. Ma non c’è fretta. Posso dire che la gente è pronta a questa contaminazione; il mondo del tatuaggio è pronto ma ancora
molto attaccato alla tradizione. Tatuaggio vs grafica. Oggi il tatuaggio profuma di grafica. Tutti i tatuatori si fanno influenzare moltissimo da questo mondo e viceversa. Quello che cambia è il supporto. I tatuatori lavorano su commissione, come i grafici, ma su un supporto vivente, sanguinante e, a volte, sofferente. I grafici non si sporcano le mani in questo senso. Posso dire però che entrambi lavoriamo sulla potenza visiva e abbiamo a che fare con la composizione e l’equilibrio cromatico e molto altro. Il mondo della grafica è pulito e digitale, più libero per certi aspetti. Nel tatuaggio, ci sono più limiti per il fatto che la pelle ti costringe a scartare delle idee fichissime che però non possono essere supportate. Però noi tatuatori ci possiamo divertire moltissimo perché lavoriamo con il corpo, le forme, l’anatomia e il movimento. E in più creiamo un legame con ognuna delle persone che tatuiamo. Cosa difficilissima ma molto molto interessante. Tatuaggio vs arte. L’arte. Chi può dire cosa è arte? Per me l’unica arte possibile dovrebbe essere gratuita e visibile per tutti. E in questo la street art vince su tutte le altre espressioni. Anche la natura che ci circonda è arte per me. Poi il creatore ancora non si conosce, ma non è importante, meglio così. Quello che ho sempre odiato è il dare così tanta importanza all’artista piuttosto
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che all’opera realizzata da esso. Il nome, la fama e tutte quelle stupidaggini, sporcano la vera essenza di quello che dovrebbe essere Arte. Nel mondo del tattoo succede lo stesso. Un nome sembra avere più importanza del tatuaggio in sé e questo per me è alimentato soprattutto da questo giochino dei social-network e dalla popolarità basata su numeri, likes e roba simile. L’arte astratta può essere tatuata o il tatuaggio deve per forza essere un simbolo riconoscibile? Il tatuaggio non deve per forza essere un disegno definito e riconoscibile da tutti. Per me ognuno dovrebbe tatuarsi e sapere dentro di sé ciò che rappresenta quel segno indelebile. Anche un semplice punto può avere grandi significati, l’importante è attribuire un senso a quel punto. L’arte astratta, a livello estetico e visivo, funziona molto bene applicata su un corpo.
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Chi guarda dall’esterno questo genere di tatuaggi non potrà mai sapere cosa significa veramente. E questo aggiunge una nota di mistero in più e rende più personale il proprio tatuaggio, più privato. Il tuo primo tatuaggio? Il primo è sempre su noi stessi, questo vale per la maggior parte dei tatuatori. Il mio primo tatuaggio è stato realizzato a mano, con ago e filo, di notte. Ricordo di averci impiegato ben tre notti, punto dopo punto, intorno al mio simpatico ombelico. Poi ho fatto altre prove su di me con le attrezzature, più o meno, giuste. Alcuni tra i tuoi riferimenti artistici. Da giovanissima ero molto attratta dall’art nouveau. Poi ho iniziato a scoprire l’arte africana e di conseguenza Picasso, grande artista. Molto interessanti anche Hokusai e Hiroshige. L’arte futurista, il surrealismo, l’action painting. La
storia dell’arte è tutta bella e ogni corrente è in relazione ad un certo periodo storico. L’arte contemporanea la capisco meno, ma forse perché l’umanità è in un periodo storico incomprensibile, quindi va bene non capirci niente, non saprei. Se mi chiedo con quale artista vorrei passare una serata a fare domande a raffica, risponderei Bosch. Hai avuto dei maestri? Certamente! Devo tutto a chi ha voluto credere in me quando decisi di intraprendere questa strada. Non è stato facile trovarlo però. Il mio maestro è stato un tatuatore della vecchia scuola che lavora nei pressi della mia città di origine, in Veneto. Ancora collaboriamo e lavoriamo insieme ogni tanto. Siamo molto legati e ci conosciamo molto bene, ormai da più di dieci anni. Non è mai stato un capo e mi ha sempre spiegato tutto su aghi, bobine, tecniche, contaminazione cro-
ciata, rapporto con i clienti. Credo di essere stata fortunata, anche se penso che per questo tipo di rapporti quello che può veramente fare la differenza sia la fiducia reciproca e la voglia di imparare. Origami coloratissimi o bianco e nero minimal. Raccontaci questa tua dualità. Più che dualità, mi annoio facilmente e questo mi porta a cercare sempre nuovi generi da proporre nel tatuaggio. I soggetti coloratissimi giapponesi in realtà sono il risultato della mia voglia di colore dopo aver passato anni a fare tribali e usare solo nero. Mi sentivo incompleta tecnicamente e quindi ho iniziato a proporre disegni colorati in tema giapponese, perché adoro questa cultura. Ora invece sto tornando al nero e a quella che credo la mia vera natura, ovvero linee, geometrie e pattern. Mi piace però continuare a fare tutto quello che sono capace di fare quindi quando mi chiedono tribali li faccio ancora volentieri, come i tatuaggi giapponesi o il nuovo genere astratto. È utile specializzarsi in uno stile e lasciar perdere il resto, di questi tempi. Ma ho scoperto che facendo così si diventa pigri e ci si ripete troppo. Sono per il cambiamento sempre e comunque. Bobine o rotativa? Le macchinetta a bobina la ho usate fin da subito e mi ci sono trovata bene, soprattutto quando ancora si usavano i tubi di acciaio, belli pesanti. Poi col passare del tempo, facendo questo lavoro tutti i giorni, anno dopo anno, la rotativa mi ha aiutata a non rovinarmi le mani, essendo più leggera ed eliminando le vibrazioni. Devo dire che ora ho eliminato del tutto la bobina e uso solo macchinette rotative. Poi aggiungiamo l’avvento degli aghi a cartucce e il gioco è fatto. Ritengo che sia molto più comodo e meno usurante a livello fisico. Bianco e nero o colori? Il nero è quello con la quale son partita e ha il suo fascino. Sicuramente molto più facile del colore, è, infatti, apprezzato da molti tatuatori alle prime armi. Chi decide di tatuare solo in nero, per me è un poco pigro e si limita molto. Il colore è tutta un’altra storia. Ogni colore va steso in un certo modo e sono tutti diversi tra loro. Un casino insomma. Per non parlare della scelta dei colori da usare per rendere un tatuaggio bilanciato e leggibile. Poi aggiungici la carnagione che cambia da persona a persona: è un duro lavoro e ci si sbatte sempre la testa, anche se tatui da vent’anni. A me piace il colore e se all’inizio, per smania, usavo un sacco di toni e colori diversi, ho imparato che in realtà ne bastano veramente pochi per rendere potente un tatuaggio. Penso che continuerò a usare sia il nero che il colore. C’è ancora tanto da studiare. Un sogno nel cassetto? Il mio sogno nel cassetto rimane lo stesso da quando ho diciessette anni ormai, ovvero riuscire a diventare completamente autonoma e indipenden-
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te da questo stretto sistema chiamato società. Non credo molto nelle regole che questa società impone: produci, consuma, crepa. Per fortuna sono riuscita a fare il lavoro che desideravo e mi ritengo una persona abbastanza libera e molto fortunata per questo. In realtà il mio sogno (o utopia) è quello di arrivare a poter vivere senza aver bisogno di soldi e autoprodurmi i beni di prima necessità con le mie stesse mani. È una scelta estrema, lo so, ma spero di invecchiare così, in qualche villaggio o comunità sperduta e fare una vita semplice.
Ivan Lattuada nasce a Milano nel ‘75, attratto dall’avventura si trasferisce a Milano e poi a Dublino, si specializza in ritratto fotografico, nudo, reportage e natura morta.
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tips and tricks _ tattoo machines
039 iron
Intervista di Alessandra Giannini e Franco Lodolo a Luca Caio Caglio Still life di Marco Triolo Prima qualche domanda al creatore. Come ti è venuta l’idea di costruire macchinette per tattoo? Lavoro da quattordici anni in uno studio tattoo, sono appassionato di meccanica ed elettronica in generale (lavoravo anche per una ditta che produce amplificatori valvolari artigianali per chitarra e basso), e da sempre mi sono dilettato ad assettare e modificare le macchinette per tatuare. Ho iniziato a modificare le macchine a bobina per poi specializzarmi sulle rotative. Tre anni fa ho deciso di iniziare a costruire le mie usando tutta l’esperienza fatta e anche con i consigli dei tanti tatuatori che conosco. Perché hai scelto di realizzare rotative e non bobine? Rotative perché ritengo che per molti sia importante avere una macchina leggera per lavorare (soprattutto per lavori lunghi), tanti tatuatori dopo anni di bobine presentano patologie reumatiche di vario tipo alla mano, al braccio o alla spalla, e anche io, che soffro
di tunnel carpale, ne so qualcosa. Secondo motivo è che le rotative (soprattutto le direct) sono stabili nel tempo come resa e funzionamento, a differenza delle bobine che, se non assettate coi giusti intervalli, perdono efficacia. Per quale lavoro va meglio la rotativa della bobina e viceversa? Non c’è una regola, come dico sempre a chi compra le mie macchine, ogni tatuatore ha la sua mano, la sua tecnica e malizie varie. Per esempio Biancaneve usa per le linee solo bobine (non si trova con null’altro per le linee) e tutto il resto lo fa con la Grassa. Nad, invece, con gli aghi tradizionali una la secca per le linee e la Grassa per colore e riempimento, invece, con le cartucce usa la Grassa per tutto. D’altro canto basta pensare che, anche se sono entrambe rotative dirette, le mie macchine (Grassa e Secca) hanno un carattere molto differente tra loro. Sei un musicista e ti piace la vita di campagna, raccontaci queste
passioni. Sono musicista da anni ormai, una grande passione, ho avuto diversi gruppi con cui ho sperimentato diversi generi , dal punk allo ska, al metal estremo, fino al pop. Ora ho un progetto che si chiama Smokers, siamo un duo e facciamo dance anni ‘90 (con un synth dell’epoca) con sopra chitarre e cantati diciamo punk-rock . Per la vita di campagna, non so che dire: dovrebbe essere la passione di tutti. Tatui? Sì un po’ tatuo. Ma lascio fare ai miei colleghi che sono artisti veri. Amo tatuare chiese in fiamme. Poi certo in qualche modo le macchine le devo testare (sia su pelle sintetica sia su pelle vera). Sei lo shop-manager da Traccia bastarda, lo tattoo-studio in provincia di Lecco, vedrai molto artisti all’opera: per un ottimo risultato quanto conta la mano e quanto la macchinetta? Lo studio è mio e di Nad Savarino, e da tempo si chiama solo Traccia
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Tattoo (ex Traccia Bastarda), ero lo shop-manager anche quando si chiamava Traccia bastarda. La mano del tatuatore è la cosa più importante, se ha i numeri fai una “bella pezza” anche con una bobina cinese da venti euro se sai assettarla bene, ma certo è che le macchine sono molto importanti per la qualità finale di un lavoro. Valentino Rossi sarebbe veloce anche con la peggiore moto del mondiale, ma probabilmente con quella non vincerebbe mai. Le 039 IRON Tattoo Machine sono hand made in Italy, quanto conta l’artigianalità nella creazione di un prodotto? Conta fino a quando il prodotto è buono, perché se fai un prodotto artigianale scadente, allora è meglio comprarne uno industriale. Comunque a tanti tatuatori piace avere delle macchine artigianali e potersi confrontare col produttore. Il prodotto artigianale ha un’esclusività e un appeal che i prodotti industriali non hanno sicuramente. La Grassa ha corpo misto acciaio inox e ottone, connettore RCA. Come sei arrivato a questa formula magica? Connettore RCA tutta la vita, non ho mai sopportato l’attacco a clip
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cord: primo il clip cord si rompe troppo facilmente; secondo, li fanno pagare uno sproposito per quello che sono quei cavi; terzo, spesso il clip cord crea cattivi contatti o cali di tensione quando si muove troppo la macchina lavorando, quarto l’RCA è stabile, esteticamente più bello e soprattutto posso usare un normale cavo Jack-RCA mono che trovo in qualsiasi negozio di strumenti musicali (al giusto prezzo e della lunghezza che preferisco). Per i materiali ora uso questo mix, ma studio sempre (le prossime serie saranno interamente in ottone (anche se la lavorazione a fresa mi costerà decisamente di più).
Eccentrici artigianali disponibili con diverse escursioni, cosa cambia a seconda dell’eccentrico? Per dirla a grandi linee: il 2,5 mm è ottimo per sfumatura riempimento anche con mega magnum, il 3,5 mm ci fai tutto, e il 4,2 è più secco, diciamo da linea, ma spesso Nad lo usa anche per riempire e anche con le cartucce va bene per tutto. Con gli eccentrici è un po’ come per il discorso bobine o rotative: ogni tatuatore ha la sua, c’è chi preferisce usare più escursione, chi tiene tanto l’ago fuori dal puntale, chi invece lo tiene tanto dentro e calca di più, non c’è una vera regola. Il motore giapponese è potentissimo, quasi 10 watt di uscita, già a 3 volt spinge tantissimo. Perché è importante lavorare a bassa tensione? Questo è il motore della Grassa, è molto potente, ma non bisogna farsi ingannare dal solo dato di potenza, un altro parametro molto importante è il valore di coppia (coppia motrice) che forse è ancora più importante nel giudicare un motore per rotativa. Per il discorso del basso voltaggio con le rotative non è un dato importante come per le bobine. È vero,
BIANCANEVE: Per le grattate in genere uso la 039 iron , modello La Secca, voltaggio a 7,00
NAD SAVARINO Per saturare e sfumare uso 039 big kush con 13 soft magnum. Con le cartucce ci faccio anche le linee
la lavora a volt molto bassi, ma la secca lavora sui 5/6 anche 7 volt. I motori delle rotative sono fatti per lavorare a diversi voltaggi a seconda del modello, e ciò non inficia la loro resa. Diverso è il discorso per le bobine, che spesso se fatte lavorare ad alti volt (e soprattutto con alimentatori dal basso amperaggio un alimentatore con alto amperaggio 4 o 5 ampere fa lavorare una bobina molto meglio che uno con 2 ampere). Un altro motivo per usare le rotative è che tendenzialmente lavorano bene anche con alimentatori con bassi amperaggi, la Grassa, ad esempio, per lavorare bene necessita di un minimo di 1,8 ampere, valore che hanno praticamente tutti gli alimentatori, anche quelli più economici.
cartucce non lavora bene infatti la consiglio solo a chi usa aghi tradizionali. Dico che è una big liner perché spinge tranquillamente dei 18 round larghi da traditional, ma con le giuste accortezze può essere usata anche per linee fini (è comunque una rotativa diretta che spinge sempre, quindi con gli aghi fini bisogna dosare bene la pressione della mano).
È una macchina da riempimento e sfumatura e big liner con aghi tradizionali. Da che linea parte? Perché è sconsiglio con aghi sottili? Qua non è proprio corretto, la Grassa è ottima da riempimento e sfumatura con aghi tradizionali, e la Secca è la big liner. Invece con le cartucce la Grassa lavora bene anche come liner (la cartuccia la rende più morbida grazie alla sua resistenza elastica interna), la Secca invece con le
Per ogni tipo di lavoro ci vuole in impostazione diversa? Ma certo, come detto prima ogni tatuatore lavora a modo suo, con le sue velocità e malizie. Poi c’è da vedere anche il materiale utilizzato: aghi fini volt più bassi per poi salire. Con le cartucce, di solito, è richiesto un voltaggio un pelo superiore perché la cartuccia ha una resistenza interna che si porta via un po’ di potenza.
La Secca, invece, raccontacela. La consigli con uso di cartucce, perché? Eh, ti ho già risposto. Customizzi le rotative per ogni cliente? A volte sì, ma tendenzialmente preferisco tenere l’estetica delle macchine abbastanza standard.
Progetti per il futuro?
A breve uscirò con la versione fullbrass delle mie macchine. Visto che la rubrica si chiama TIPS & TRICKS vuoi svelarvi un tuo piccolo trucco o segreto? Non fidatevi mai di quello che leggete su Internet o sui vari forum per tatuatori apprendisti o robe simili, conta solo l’esperienza diretta, ma la vostra non quella di un altro tatuatore. La macchina che usa il miglior tatuatore al mondo potrebbe essere la peggiore per voi. Il mio consiglio soprattutto all’inizio e di investire in macchinette, averne di vario tipo. Imparare le differenze e scegliere quelle più adatte alla vostra mano.
Dove trovarle @039IRONTATTOO Presso Traccia Tattoo Shop, Imbersago, Lecco FrenkieDisaster, esperto di settaggio e cutomizzazione tattoo machines, è lui che individua i must haves del settore
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Alice Caligiuri 70
heArts
Introduzione di Rossana Calbi Progetto fotografico di Laura Penna testi di Laura Penna e delle artiste ritratte heArts nasce da un’ispirazione alta, una delle regine delle arti: Peggy Guggenheim. La protettrice degli artisti dello scorso secolo apre nell’autunno del 1942 la galleria newyorkese Art of This Century, e Duchamp gli suggerisce di fare una mostra tutta al femminile, 31 Women. Già allora, ancora prima delle lotte femministe, l’artista Georgia O’Keefee si rifiuta di partecipare perché non vuole essere identificata e catalogata come ‘artista donna’. I fiori di Georgia O’Keeffe sono già famosi all’epoca e l’artista statu-
nitense si può permettere il lusso di essere considerata solo per quello che fa. O forse è il consiglio di suo marito, il gallerista Alfred Stieglitz, a non farla aderire a un
minazione da un marito troppo ingombrante anche con opere come Autoritratto con capelli tagliati, presente nel progetto 31 Women.
riprende la volontà di raccontare le donne, ma non con le loro opere, non con le loro azioni, ma con i loro volti, con le loro espressioni.
Laura Penna dopo settantacinque anni riprende la volontà di raccontare le donne, ma non con le loro opere, non con le loro azioni, ma con i loro volti, con le loro espressioni. heArts sono trentuno artiste, scrittrici, musiciste, atlete italiane cristallizzate in uno scatto che lega la loro azione alla loro essenza. «Stigmazine» le racconterà una alla volta, le farà parlare e vi farà entrare nel loro fare che
gruppo di donne artiste legate per lo più al surrealismo d’Oltreoceano e tormentate come Frida Kahlo, che al contrario cerca l’autodeter-
Laura Penna
Alice Caligiuri
L’occasione buona per rimettere piede in palestra è stato fotografare Alice Caligiuri. Alice arriva puntualissima, entriamo subito in palestra e selezioniamo gli abiti per il set. Iniziamo a scattare tra gli sguardi degli sportivi che si distraggono dal loro allenamento appena la vedono. Io non devo dirle praticamente nulla, si muove a suo agio sul set ed è affascinante vedere come su tacchi 12, senza scomporsi minimamente, alza manubri da 20 chili. Chiudiamo il set nella sauna; tra vapore, acciaio e legno scattiamo le ultime foto. Alice sfodera il suo sguardo più intenso e magnetico, lo stesso che appena finito il set si è trasformato in un sorriso dolcissimo e timido.
Sono Alice e nasco il 28 ottobre del ‘79 in una famiglia molto numerosa: ho avuto un’infanzia e un’adolescenza un po’ complessa. Cresco facendo dello sport una concezione di vita: da subito scopro la vena agonistica cominciando dal nuoto per poi arrivare alla kick e al pugilato e tirando pugni mi sono classificata pluricampionessa della Nazionale Italiana per cinque anni. La giornata dello scatto la ricordo con molto piacere. Nello scatto si mostra quel lato femminile che fa parte di me e che non dispiace, perché in fondo mi sento femmina e anche se indosso due guantoni e mi piace prendere a cazzotti la vita, non vedo perché debba essere etichettata diversamente. Ho posato diverse volte ma ogni volta è un emozione nuova in base al rapporto che instauri con il fotografo. Ringrazio Laura per aver estrapolato da me sia la sensualità e la rabbia per la vita in un solo scatto.
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Laura Penna
Gerlanda di Francia
Il mio amore per l’arte di Gerlanda scatta di fronte a un suo diorama dedicato alla contessa Erzsébet Báthory: In sangue veritas. Per questo motivo, appena inizio a pensare alle artiste da coinvolgere per il progetto heArts, penso a lei. Lo scatto prende invece ispirazione da un’altra sua opera: Duality È uno scatto impegnativo e molto personale. Arriva il giorno dello scatto, sono molto emozionata ma devo pensare a tanti dettagli. Devo dipingere manie e braccia di Gerlanda, posizionare una cinquantina di diamanti rossi e blu, scattare, immergendomi nel mondo poetico di Gerlanda per fare in modo che nello scatto ci sia lei e il suo mondo onirico.
Mi sono trasferita nella Capitale alla fine degli anni novanta, decisa a voler dipingere nella vita, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma e ho avuto la fortuna di apprendere le fondamentali tecniche classiche della decorazione pittorica. Da sempre affascinata dal mondo del tatuaggio, per qualche anno ho collaborato in uno studio che mi ha avvicinata ancor di più a una nuova visione dell’immagine, dei simboli e costruzione formale precisa. La voglia di conoscere nuove forme di espressione pittorica mi ha proiettata nel mondo della Low Brow e Pop Surrealism, nel quale mi sono riconosciuta. Il mio lavoro è ispirato alle tecniche più classiche: tempera, olio su tavola e oro a foglia. Il mio immaginario è spesso sospeso tra la grafica da tatuaggio, illustrazione e icona sacra.
Laura Penna
Verano
Verano, Anna, è stata la prima artista del progetto a esser fotografata. Un anno fa, di mattina, dopo un suo live a Le Mura, un locale di Roma, sono andata a prenderla sotto casa. Anna scende. ha una bellissima gonna gold e la maglia con la scritta SBAM. Raggiungiamo villa Pamphili, ci coordiniamo per lo scatto e via! Anna è subito circondata da smoke bomb azzurre come i suoi occhi. Io scatto a raffica, il fumo muta velocamente la sua forma e io voglio avere più pose possibili. Sessanta secondi, il fumo finisce ma il primo scatto del progetto è nato.
Laura Penna
L’appuntamento con Beatrice era ai Giardini Margherita di Bologna. Appena arrivo rimango affascinata dai salici piangenti e penso già che vorrei fare qui lo scatto ma mi chiama Beatrice e mi dice di raggiungerla poco più avanti. Ci incontriamo per la prima volta di persona e, superata la timidezza iniziale, iniziamo a parlare dello scatto e delle sue opere: le Bestie. Parlando, arriviamo di fronte a una serie di alberi rossicci. Ok — le dico — questo è davvero il posto giusto. La natura abbraccia Beatrice e lei, come una fata dei boschi, si lascia avvolgere: avvicina poi una chiave dorata all’orecchio ed ecco lo scatto.
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Ho conosciuto Laura Penna tramite i social network: avevo visto qualche suo bellissimo scatto e lei credo avesse visto in giro le mie opere. Abbiamo scambiato Sono Anna e mi sono scelta un nome-scudo: Verano Verano nasce dopo un viaggio a cavallo del Capodanno 2016, in cui decido che è arrivato il momento di fare qualcosa di mio. Inizio a scrivere, Paletti diventa mio produttore e in tre mesi ho in mano l’EP Oggi Verano sta scrivendo un nuovo disco, che uscirà in autunno.
Mi sveglio la mattina, in una casa luminosissima, un po’ meno la mia testa piena di vodka, sigarette e tensione mai scesa. Mi metto una cosa semplice: una gonna oro e una maglia del mio amico Nic con scritto SBAM. Laura arriva e mi porta a villa Pamphili. In pochi secondi troviamo l’intesa e scattiamo. Ho passato settimane a chiedermi cosa mi sarebbe arrivato, e la foto che ho ricevuto va oltre le aspettative altissime che avevo. Lì dentro c’è l’inizio di Verano e mi sento onorata di essere stata a villa Pamphili con Laura, che ha colto in pochi secondi qualcosa di molto profondo.
Beatrice Bogoni Beatrice Bogoni, classe 1991, attualmente vivo a Bologna. Sono diplomata in illustrazione alla Scuola Internazionale Comics di Padova. Ho esposto in varie collettive, italiane ed estere; a maggio di quest’anno ho inaugurato la mia personale nella Capitale: Bright Blemish.
Ho incontrato per la prima volta Laura in una mattina d’autunno. È stata capace di mettermi subito a mio agio, ed è stato bello, quanto inusuale per me. Ero avvolta da alberi grondanti di foglie rosse e luce dorata, mi sono sentita nel mio habitat naturale. Mi sono sentita a casa. Incredibile, dato che una macchina fotografica mi stava puntando contro il suo occhio minaccioso: sono molto timida. Com’è possibile essere capiti in modo così immediato, così spontaneo, da qualcuno che non conosci?
Gerlanda di Francia In qualche mail, lei mi ha esposto il suo progetto e la sua intenzione a volermi coinvolgere, l’ho trovato molto interessante, anche se dubitavo fortemente, per timidezza, di volerne fare parte. Non sono molto incline a “mostrarmi” al pubblico. Laura scelse per il mio scatto un’opera a me molto cara, questa scelta e le sue impressioni
su di essa mi hanno fatto riflettere e decidere infine di far parte del progetto. Abbiamo impiegato relativamente poco per realizzare lo scatto, insieme abbiamo definito il make-up delle mani poi mi sono affidata alla sua esperienza per tutto il resto. Lo scatto di Laura mi piace molto, mi riconosco nello sguardo e complessivamente nel-
la dimensione surreale che ha costruito. C’è una certa malinconia nei colori e nell’espressione del volto che spesso rivedo nelle mie opere. Laura ha saputo cogliere questo aspetto in un unico scatto. Sono stata molto contenta di aver scelto di far parte di heArts.
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Verano 75
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Marco Rea Equilibrio perfetto Intervista di Rossana Calbi
Fino al 30 giugno Marco Rea si è raccontato sulle pareti della galleria romana Parione9 con Destroy with Care. Nel cuore della sua città l’artista ha presentato dieci anni del suo lavoro in una retrospettiva che mette al muro figure eteree annientate dal colore. Il processo di lavoro è semplice: un cartellone pubblicitario e una bomboletta spray. Allora, perché sono tutte diverse? Perché nessuna di loro somiglia all’altra? Paradossalmente prima dell’intervento di Marco erano tutte più uguali tra di loro: pelle liscia e perfetta, labbra turgide e occhi ammalianti; adesso, dopo che le mani di Marco le hanno toccate, hanno una loro identità specifica, le si può riconoscere facilmente e sentirsi legate più all’una o all’altra, adesso hanno un’anima! Conosco Marco Rea da anni, ho avuto modo di realizzare diversi progetti artistici con lui e ho
amato le sue forme, che ho visto cambiare nel tempo e che so che muteranno ancora. So che nella collettiva Anamorphic Portaiture presso la Mirus Gallery di San Francisco sarà ancora diverso da se stesso e, in Moving Kate — Tokyo, farà rivivere ancora, per l’ennesima volta, l’icona distrutta e indistruttibile degli anni ’90, Kate Moss. Perché Marco ha la capacità di ricreare! Destroy with Care: qual è la cura che preserva la tua anima e le tue mani distruttive? Picasso diceva Ogni atto creativo è prima di tutto un atto di distruzione. Ovviamente per me la cura è l’arte, un’arte che nasce da una distruzione e solo dopo aver distrutto si può ricostruire, rinascere.
lore opprimente? Non esistono colori opprimenti per me, i colori sono solo colori che poi acquistano significati diversi nella mente di chi li osserva. Le mie figure sono fenici a cui viene concessa una nuova vita, un riscatto. Nascono e muoiono sui manifesti pubblicitari e attraverso il mio intervento acquisiscono un’altra vita, forse meno perfetta, forse più vera. La tua terza mostra nella tua città natale in uno spazio espositi-
Distruggere per ricostruire? Le tue figure femminili sono delle fenici o sono perse dietro un co-
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vo gestito da giovani galleriste, com’è lavorare con Marta Bandini ed Elettra Bottazzi? Sono stato davvero soddisfatto di aver lavorato con loro. È stato molto semplice lavorare insieme ma non per questo poco faticoso. Come me anche loro hanno un grande amore per l’arte e lavorano con professionalità e con una passione infinita. Nella presentazione della tua ultima mostra capitolina il tuo lavoro è inquadrato nella corrente artistica Appropriation Art, ti senti vicino a quello che comunemente è chiamato Citazionismo e richiama gli studi di Picasso e Duchamp? Appropriation Art, Citazionismo, Detournement, Subvertising la mia arte è questo e nulla di tutto questo. Sicuramente è un’arte di appropriazione. Per creare mi approprio di manifesti pubblicitari e riviste. Oggetti già esistenti e finiti che utilizzo per creare qualcosa di nuovo. Chi osserva le mie opere si trova difronte a qualcosa di familiare, la pubblicità, che tuttavia è resa estranea all’abitudine diventando quindi perturbante. Sono sicuramente debitore all’arte di Picasso e Duchamp, io, come ogni altro artista contemporaneo. Presenti un lavoro lungo anni: le tue opere realizzate dal 2005 a oggi, raccontaci la tua evoluzione formale. Non è semplice raccontare oltre dieci anni della mia vita. Ho iniziato nel 2005 lavorando con bombolette spray sopra manifesti
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pubblicitari e ancora oggi utilizzo quella stessa tecnica. Nonostante i mezzi siano gli stessi, continuo a sperimentare e rinnovarmi di volta in volta. Ho sperimentato colature, strappi, graffi, tagli, ho lavorato combinando vernice spray a solventi o ad acqua, per un periodo ho realizzato opere riproducendo una trama a pixel, in un altro momento ho lavorato a macchie di colore, poi con una tecnica particolare sono riuscito a ricreare una sorta di effetto scarnificato, mentre nell’ultimo periodo sto sperimentando una tecnica che io chiamo “tamponata”, in cui la resa finale è molto pittorica. Invece di infondere glamour in ciò che è irraggiungibile, l’arte fa il contrario, ovvero ci stimola a riconoscere l’autentico valore della vita che siamo costretti a vivere. Così Alain de Botton e John Armstrong ci raccontano il rapporto tra arte e fashion, nella tua arte questo rapporto è molto stretto, come nasce e soprattutto come si svilupperà? Immagina un bambino che entra in una chiesa: corre, ride, gioca; è innocente ma allo stesso tempo privo di quel rispetto che una persona adulta avrebbe.
Questo è esattamente il modo in cui mi sono avvicinato al mondo del fashion. Con una sorta di innocenza ma anche senza quel rispetto che avrebbe avuto un addetto ai lavori e forse è proprio questa mia estraneità a quel mondo che mi ha permesso di creare qualcosa di nuovo e innovativo tanto da suscitare interesse anche nei grandi nomi del fashion. Come si svilupperà non so dirtelo, so solo che continuerò a sperimentare e a dissacrare. Dopo anni di lavoro sui volti femminili ti sei avvicinato anche ai lineamenti maschili, so che il progetto ti agitava e non poco, come hai risolto l’impasse? Ho sempre lavorato su volti femminili perché personalmente li trovo più interessanti e comunica-
tivi. Poi circa due anni fa mi fu proposto un progetto molto importante: realizzare una serie di opere per la settimana della moda-uomo di Parigi. Dopo un primo momento di indecisione mi sono messo in gioco e con grande sorpresa ho raggiunto risultati che mi hanno soddisfatto molto; anche se la figura femminile rimane comunque la mia ispirazione più grande. Per Tarot, il progetto di «Stigmazine», hai realizzato La Luna e, nel 2012, in un progetto analogo a cura di Alessia Defilippi, in collaborazione con chi ti fa le domande, hai rappresentato La Temperanza, quale dei due Arcani porteresti sempre con te e perché? In entrambe le carte appare l’acqua, elemento per me molto importante, e in entrambe è rappresen-
tata la figura della donna. La prima carta, La luna, ha in sé un grande mistero e ci suggerisce che le cose non sono sempre come appaiono, che si deve guardare oltre le apparenze; mentre la seconda carta, La Temperanza, comunica equilibrio, serenità e dolcezza. La somma della prima e della seconda rappresenta esattamente me; una persona apparentemente serena ed equilibrata, ma dobbiamo pensare che l’equilibrio è quella linea tra cielo e terra, tra caos e ordine, tra tristezza e gioia, tra follia e normalità, tra astratto e figurativo e io mi muovo sempre tra questi opposti. Non è facile rimanere in equilibrio se non lo si vuole fortemente e se non si lavora per rimanerci. Con me porterei entrambe le carte, una nella mano destra e una nella sinistra, in modo da mantenere l’equilibrio perfetto.
Rossana Calbi, catanzarese di origine lucana, studia a Salerno e si trasferisce a Roma dove scopre il Pop Surrealism che diventa la sua ossessione. Fa un percorso contrario alla logica, suo iter ricorrente: dopo aver riempito la testa dei classici della letteratura adesso va in cerca di fumetti e di libri illustrati per ragazzi. Curatrice indipendente, soprattutto dal buon senso comune, è stata una delle anime dell’evento multiartistico Traslochi Ad Arte, continua a cercare cose strane che incastra in cornici francesi con il logo di Srange Opera, la sua nuova associazione.
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Mavda illustrada Freak show
I’m still not sure how I am, but almost everybody calls me Mar, our Mava ... I’m a Brazilian Girl that lives in a super small city and spends a lot of time in YouTube videos. i graduated in architecture and this is still my “major” job, but I’m working more and more with illustration, my usual drawing obsessions are the 80s, royalty and of course Tattoos. 000–Tattooed Lady, from a freak show. Im obsessed by these tattoo ladies from old freak show, this one is a mix of different beautiful ones. 001–Naked tattooed vintage lady Another amazing reference, (I live inside Pinterest to find vintage photos) a super proud naked girl, just chilling in a couch. 002–Grumpy murder mermaid Mermaids are killing machines...this one has a tattoo for each sailor she already tasted, by tasted i mean killed! 003–Pict warrior lady Badass girls, another irresistible subject, this is a pict warrior lady, all body painted and ready to fight. 005–Skinny sailor Young sailors are cute, this one is maybe too skinny to be working hard, so he is just relaxing in the Sun. 006–Two tattoo artists Two cute pigs working in their art, i love that quote in the illustration: you can be an artist, or you can be the art itself... 007–Strong tattoo man Big guys love little pets, that’s just an universal truth. 008–Beard bike Tattoo big beards guys can be the sweetest boys in the neighborhood. Vintage photos always have a big appealing to me, I’m very nostalgic, so to see these gorgeous girls and boys usually doing things that were not so easily accepted, somehow puts a big smile on my face.
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Stella Tasca
Venite qua ove tutto vi parla d’amore e d’arte
Intervista a Stella Tasca, il nuovo Sole di Tarot di Rossana Calbi
Nel mio armadio, protetta dai pesi eccessivi che, nonostante la mia spalla dolorante, io continuo a portare con me come la chiocciola più testarda, c’è una borsa nera con scritto: I AM NOT AN ARTIST. Erano i miei primi anni nella Capitale e le mie dita corte scrivevano incessantemente di ogni cosa mi incuriosisse. Dieci anni fa iniziai a conoscere i primi artisti che cambiarono, volente o nolente, la mia vita e il mio lavoro, quella borsa è la mia dichiarazione al mondo. Sto con loro, ma io sono solo quella che scrive, quella tranquilla. Fu la mia prima borsa firmata Temporary Love. Fu difficile scegliere: ero innamorata di un lavoro di Alessandra Fusi che si scagliava romanticamente sulla carta da pareti vintage del negozio, di cui ovviamente scrissi subito. Le mani che tessevano i rapporti tra gli artisti in quello spazio, che precorse il gu-
sto e l’estetica oggi diffusissimo qui a Roma, erano di Stella Tasca. Quando ho rivisto le sue balene, attualmente in mostra da amaneï a Santa Marina di Salina nelle Eolie, che sta per esporre la mostra di Tarot, ho pensato: lei è il nostro nuovo Sole! Come è nato Temporary Love, e quali artisti hai coinvolto nei tuoi progetti? Nel 2003 aprii il mio primo spazio a Trastevere (nel centro di Roma) e uno dei progetti migliori fu un’esposizione di borse, tutti pezzi unici. Le vendemmo in pochissimo tempo. E così, quando il locale proprio di fianco si liberò, io e il mio socio pensammo che si potesse fare una galleria diversa come spazio e come concetto. Il primo posto dove arte e moda si incontravano. Di artisti bravi ce erano tantissimi e io venivo da una famiglia di serigrafi, grandi cono-
scitori di tessuti e stampe. Temporary Love gallery aprì nel 2006 con la voglia di unire le nostre capacità. Fu un’esperienza fortissima, gli artisti con cui ho avuto l’onore di collaborare sono tantissimi e straordinari, una lista molto lunga: Lucamaleonte, Sten e Lex, Pax Paloscia, le amitiche Serpeinseno, Luca Mamone, Skarful, Desiderio, Zaelia Bishop, Elio Varuna, Paolo Guido, Stend, Dolce Q, Chiara Carocci, Federica Fumarola, Fupete e Jacklamotta, Karenina Fabbrizzi , Irene Rinaldi, Alessio Facchini ovviamente Amanda Toy e Rudy Fritsch e tanti tanti altri. Non ci siamo fatti mancare nessuno. Il progetto era innovativo e ogni artista invitato era veramente entusiasta. Non solo erano esposti i loro lavori “soliti” ma ognuno di loro dipingeva a mano delle stoffe che ve-
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nivano trasformate in borse, tutti modelli originali e pezzi unici. Era un posto carico di forza.
Le tue matrioska sono in vendita presso l’Amanda Toy Tattoo Parlour. Nello scorso numero di «Stigmazine», Alessandra Giannini ha sbirciato in ogni angolo dello studio della tatuatrice milanese di adozione e ha trovato le tue signorine di gesso, come nasce la collaborazione tra te e Amanda? Ho conosciuto Amanda Toy nel 2002 volevo assolutamente una delle sue bamboline del suo primissimo stile, credo io sia forse tra gli ultimi ad averne una. La conobbi nel suo studio a Trieste e poi mi tatuai da lei tante altre volte. Ci siamo trovate bene insieme, amiche da subito. Da Temporary Love, nel 2008, organizzai una mostra per Amanda Toy e Rudy Fritsch, fu un successone di visite e incasso. Per la galleria dipinsero delle stoffe bellissime che noi trasformammo in borse. Per un bel periodo continuò questa collaborazione fatta di accessori, t-shirt, gioielli, ecc. Non ci siamo viste per qualche tempo, ma ovviamente ognuno a continuato a lavorare ai suoi progetti; un giorno guardando tra i suoi lavori ho scoperto che aveva disegnato una cosa similissima alla mia. Non vedevo l’ora di dirglielo. Avevamo entrambe pensato a una matrioska con un occhio solo. Fu bellissimo, una grande sintonia anche stilistica che poi si è
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tramutata in stima reciproca. Io le ho “affidato” le mie braccia e lei ha acquistato proprio una delle mie matrioska grandi e l’anno scorso un mio arazzo con serigrafata una balena. Negli ultimi quattro anni, nello studio di Amanda, a Milano, sono esposte e in vendita le mie matrioska della prima e seconda edizione, quelle in stoffa e le ultime in gesso. Adoro Amanda, è una bella persona. Fino all’1 ottobre sarai in mostra al MACRO nel progetto dedicato ai quarant’anni della street art: Cross the Streets. Quali sono gli artisti presenti nella mostra, curata da Paulo von Vacano, che hanno un significato specifico nel tuo percorso artistico? La mostra al MACRO è un progetto speciale. Il curatore, Paulo della casa editrice Drago, ha sempre avuto non solo un occhio di riguardo per questo stile ma ci ha sempre messo il cuore e lo spirito. È per gente come lui che molte cose che facciamo poi prendono una
forma più reale e seria e alcune diventano importanti. Io gli devo molto. Cross the Streets è piena di artisti importantissimi, nessuno in particolare mi ha ispirato, ma ci sono delle circostanze che non possono essere escluse. Dal momento in cui ti innamori di un disegno come quelli di Miss Van il tuo stile non cambia ma qualcosa di lei ti rimane anche solo la voglia di bellezza. Come non posso escludere dal mio bagaglio tutti i romani che ho conosciuto, con cui ho collaborato con cui sono cresciuta da quando
tutto sembrava impossibile ed eravamo solo dei ragazzini, parlo di Diamond, JBrock, Joe Franceschi, TRV e Why Style, la grande Pax Paloscia, Lucamaleonte , Mirai Pulvirenti, Sten e Lex. Ognuno di loro ha aggiunto qualcosa alla mia persona: l’impegno e la carica. Forse un nome che posso citare come piccola svolta nella mia vita è quello di Ed Templeton. Vidi la sua mostra a Roma tantissimi anni fa e quando tornai a casa pensai: devo disegnare qualcosa subito! WK Interact è un bell’esempio per me. Il suo lavoro dal vivo è pazzesco, mi piace vedere le sue cose e immaginare le mie. Sei il nuovo Sole di Tarot, il progetto espositivo di «Stigmazine», quali simboli hai voluto analizzare nella tua interpretazione?
La mia carta: Il Sole contiene meno simboli dell’originale, ho voluto semplificare e dare risalto a quelli che credevo più interessanti. Ovviamente non potevo che farlo con un occhio solo, in verticale un po’ allungato. Vorrei che desse un po’ l’idea di una vagina così da dare una parte femminile a questo ruolo importante di vita e luce che ha il sole. Ho rappresentato le figure del Padre e dei Gemelli insieme. Il Padre è la piramide che da sempre rappresenta Dio e il fatto di farne due per me sono i Gemelli. Le gocce, i mattoni, il cuore: ci sono anche quelli. Pochi colori per non distrarsi dall’unico vero protagonista. Ho usato un bel giallo fluo scavando tra le pozioni magiche del vecchio laboratorio di serigrafia di mio padre ho trovato una polvere che ho voluto assolutamente provare.
progetto? Pur essendo nati cresciuti e vissuti tutti a Roma, forse è a Bomarzo che avrei le mie origini. Da che ricordo abbiamo tutti le foto nel parco dei Mostri. Io, mia madre, i mie figli, tutti. Il posto è molto bello soprattutto in autunno. I miei figli si divertono un sacco, ogni volta che passiamo davanti al cartellone della segnaletica strillano: mostroooooo. E ridono come pazzi. Non fa paura anzi ci riporta a qualcosa di così lontano e naturale. È ben lontano dal mio stile, in me c’è qualcosa di più “artificiale” che assolutamente non si può attribuire a questo posto. Però c’è una scritta che da sempre penso di farne qualcosa: voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua ove tutto vi parla d’amore e d’arte.
Ogni estate porti in vacanza i tuoi figli nel paese che ospita il parco dei Mostri, Bomarzo, ma ti sembra un posto adatto ai bambini? A parte gli scherzi, le sculture, volute dal Principe Pier Francesco Orsini per il suo Bosco Sacro, hanno mai ispirato qualche tuo
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Renato Renato Mambor, Campionatura, 1962, tempera su cartone, 78x66,5 cm
Roberto Gramiccia L’uomo e la donna sono fragili
Intervista a Roberto Gramiccia di Rossana Calbi Ci sono libri che ti aspettano per anni perché devono essere letti nel momento giusto. Slot Art Machine era sul mio comodino dalla sua presentazione, anni fa, in una piccola libreria romana nel quartiere Pigneto. Supponevo che avrei trovato pane per i miei den-
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ti polemici già dalla dedica che l’autore mi aveva scritto quando aveva saputo che mi occupavo di arte: un bell’ “in bocca al lupo”. Pronta a fare battaglia contro tutto un sistema che trovo contorto e disfunzionale, ho iniziato a leggere gli articoli pubblicati per il quotidiano «Liberazione» e raccolti nel volume edito da DeriveApprodi. E invece no! Slot Art Machine è un pensiero coerente, pacato e deciso. Roberto Gramiccia analizza ogni aspetto artistico: la produzione dell’autore, il rapporto con i curatori e quello con le case d’asta; il suo incedere è sistematico come un esame clinico, e credo dipenda dall’imprintig della prima professione del critico Gramiccia, quella del medico. Forte è la denuncia di un sistema di cui siamo vittime solo perché incapaci di comprensione, ma non incapaci di mutamento. Questo è il filo conduttore
del pensiero del medico, critico, giornalista, collezionista e curatore: la possibilità di una risoluzione dovuta al nostro fare. Nel suo scritto, Elogio della Fragilità, l’analisi parte dallo scrittore, dal suo vissuto, lui è l’uomo fragile, e in lui ci ritroviamo e rispecchiamo: nelle paure, nelle speranze e soprattutto nell’incapacità alla rassegnazione che tanto farebbe comodo a chi vuole che l’arte sia riservata soltanto a un popolo di
ziosi, mi fa sempre sorridere pensare a Giulio II che alzava anche le mani con Michelangelo, ritardatario e facinoroso. Gli artisti producono un oggetto che deve essere trasformato in moneta, per una semplice esigenza fisiologica dell’artista di sopravvivere e rendere merito al suo lavoro. Può esistere un giusto equilibrio?
eletti. Una fragilità che dimostra di essere forza costante perché si nutre dell’esigenza di agire. Nessuna rivoluzione armata, non vi spaventate, il dottor Gramiccia non è un guerrafondaio, come chi lo sta presentando. L’indagine porta a individuare dei problemi chiari, semplici e precisi; spiega come trovare una soluzione chiara, semplice e precisa. Di certo le prescrizioni da seguire richiedono impegno e pazienza, come per ogni buona cura. Per questo tra le mie mani ci saranno presto gli altri volumi del dottore romano: Fragili eroi e Arte e potere; Gramiccia, come Foucault, analizza l’arte e le sue strutture, il potere e la società e cerca di evitare La strage degli innocenti, altro suo volume edito da Ediesse.
In quest’intervista chiedo al dottore di spiegarmi meglio il senso di due suoi libri, Slot art machine e l’ultimo nato, da pochi mesi in libreria, Elogio della fragilità, per trovare, ancora una volta nelle sue parole, la rassicurazione che l’arte è lo sprone per cambiare noi stessi e la nostra realtà. In Slot Art Machine c’è la fiera e romantica rivendicazione di un’arte scevra da paradossali meccanismi, una continua ed elegante fuga dalle forme di mercificazione. L’arte diventa una merce. Una forma particolare di merce, che possiede un unico valore: quello dello scambio. Ma l’arte ha sempre dovuto rispondere a committenti preten-
Per molti secoli l’equilibrio fra la committenza e l’artista è effettivamente esistito. Si trattava di due interlocutori più o meno alla pari. E, quindi, gli aspetti economici del fare arte assumevano i connotati del frutto di una negoziazione fra interlocutori di equivalente importanza. Quello che è successo negli ultimi decenni, che io denuncio in Slot Art Machine e, in modo più sistematico, su Arte e potere (Ediesse), è che la simmetria, l’equipollenza fra i due interlocutori è venuta meno per il clamoroso affermarsi di un sistema dell’arte divenuto totalmente ostaggio del mondo degli affari, del mercato più spregiudicato. Un mercato che trasforma i valori in prezzi, la critica d’arte in marketing, la cultura nel manuale d’uso di un iperliberismo cinico e sfrenato applicato al mondo dell’arte.
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L’arte aniconica ha creato un divario tra il pubblico e l’oggetto artistico: per comprenderlo, per avvicinarsi a questo, si deve essere esperti, si deve avere la capacità di individuare e non solo di potersi emozionare. L’arte aniconica ha allontanato l’emozione per una deriva logico-razionale, necessaria ma che ha creato il più grave abbandono: l’arte si è distaccata dall’emozione. Si tratta di in un delirio post-romantico? Come uomo di scienza e, non solo come critico d’arte, crede che questo pensiero meriti biasimo? Onestamente io penso che anche l’arte non figurativa, astratta o informale, se ci riferiamo alle declinazioni aniconiche che sono esplose negli anni Cinquanta (Action painting e Informale europeo) possa suscitare emozioni anche in assenza della rappresentazione della realtà. Pensiamo ad esempio alle sicure emozioni suscitate da una tela di Rothko o di Jackson Pollock o anche a un lavoro di Burri e di Tapies. L’importante, a mio giudizio, non è tanto la scelta di un’opzione di figura o meno, l’importante è che l’opera sia portatrice di una sua qualità, di un suo valore. Critici si nasce, artisti si diventa, pubblico si muore. In Slot Art machine si cita questa frase di Achille Bonito Oliva. Il critico campano, “inventore” della Transavanguardia, provoca gli artisti che sono oggetto della sua attenzione. Ma il senso critico è veramente innato in un essere
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umano più della sua capacità di creare qualcosa di unico? L’essere umano nasce con una coscienza e una capacità intellettuale che, evidentemente, è diversa da caso a caso. Non è un animale come gli altri, comunque, e quindi, se manca di un apparato istintuale, tuttavia ha una sua intelligenza, una sua capacità critica nei confronti del reale, una sua coscienza. Le espressioni fenotipiche di questo principio sono, tuttavia, le più diverse. Per cui, accanto al genio inarrivabile di Michelangelo possiamo trovare la turpe e barbarica coazione a ripetere sadica di Mengele, il sanguinario medico nazista. In linea di massima possiamo dire, per essere più concreti, che il tempo in cui viviamo tende a ridurre l’intelligenza critica collettiva e a imporre lo stanco ripetersi di comportamenti coatti, ispirati al manuale del pensiero unico neoliberale. Pochi i modelli di riferimento: quello del successo a tutti i costi, dell’idiotismo individualista, dell’eterno e inossidabile presente. Come lei dice: L’arte è lo strumento, in origine, più disinteressato e sublime per sfuggire a questo destino di mediocrità. La gente ha una seria urgenza d’arte, ma si allontana da quello che non comprende. Come un curatore può ideare progetti che facciano riscoprire l’esigenza d’arte dell’essere umano? Un curatore degno di questo nome deve porre in essere even-
ti espositivi che prendano origine dallo stimolo rappresentato dall’opera o dalle opere che uno o più artisti producono. Il curatore, e anche il critico, non può e non deve “far concorrenza” all’artista. Il suo progetto sarà tanto più efficace quanto più sarà fedele all’ispirazione e al punto di vista degli artisti di cui il curatore stesso si occupa. Ciò non toglie che il critico e il curatore possano fornire delle chiavi interpretative originali o delle letture dell’opera che ne valorizzino la natura artistica. La scrittura d’arte è una tradizione nobile. Pensiamo a Roberto Longhi. Il problema è che oggi è sempre più difficile trovarne traccia. L’uomo e la donna sono fragili per definizione e non c’è rivoluzione o pratica religiosa che possa cancellare questa realtà, a meno di avvitarsi in vertigini irrazionalistiche che consegnano a destini ben più miseri di quelli legati alla consapevolezza della propria limitatezza. Si tratta di una frase presa a prestito dalla sua ultima opera, Elogio della fragilità. Dobbiamo leggere queste sue parole come una condanna o come una speranza? Sicuramente come una speranza. Con queste parole intendo dire semplicemente che tutti gli uomini, in quanto tali, ontologicamente, sono fragili. Anzi, non possono non esserlo per le caratteristiche stesse del proprio vissuto, della propria struttura biologica, della propria appartenenza a gruppi sociali i cui destini sono segnati dalla storia. La fragilità è una
condizione naturalissima dell’esistere. Ma è anche quello stato a partire dal quale si possono, anzi si debbono, trovare le energie e le motivazioni per migliorarsi, per riscattarsi, se necessario per ribellarsi su un piano individuale e su un piano collettivo. Questo è il messaggio principale che voglio far passare. Il libro, in fondo, può essere considerato, banalizzando un po’, un manuale di autoterapia e di autosostegno per i fragili, cioè per tutti.
Gramsci e Leopardi, due piccoletti ammalati di tubercolosi, Guevara che combatte con gli attacchi di asma, e Monicelli come una rondine ferita che in gabbia rischia di morire. Leggere di come i limiti creino nuove soluzioni e nuovi ingegni e soprattutto splendide sensibilità rincuora, rinfranca o fa cadere ancora di più nella disperazione per la consapevolezza che si sta parlando di creature non rare, ma uniche?
Alcuni degli esempi che, fra gli altri, ho portato e che tu hai citato, sono effettivamente di figure straordinarie e inarrivabili. Ma la possibilità di trasformare la fragilità in forza non è solo tipica degli uomini eccezionali, in misura diversa essa riguarda potenzialmente ciascuno di noi. Esiste una fragilità “arresa” e una “fragilità ribelle”. Così come esiste la passività e la reattività nei confronti della sofferenza e del bisogno. Il mio libro è un invito a reagire, a trasformare la fragilità da passiva in attiva. Proprio perché “la fragilità insegna la forza” al singolo e alla collettività. Io mi limito a provare a indicare una strada.
Foto dalla collezione di Roberto Gramiccia, opere esposte a Roma nel 2016, in occasione della mostra Fragili Eroi Storia di una collezione presso l’aranciera di Villa Borghese, Museo Carlo Bilotti.
Sergio Lombardo, Studio di “Gesti tipi ci’, 1962, 54x78 cm
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In questo numero vi presento Karen Roze, proprietaria del Sacred Rose Tattoo di Berkeley e inimitabile capa della sottoscritta dal 2014. Dopo essersi formata sotto l’ala di mostri sacri della San Francisco degli anni ’90 (pensiamo a Ed Hardy, Freddy Corbin e altri illustri di questo calibro), Karen è diventata una delle più rispettate artiste della Bay Area. Ha talento, umanità, simpatia, grandi valori e diciamolo pure, due ovaie COSÌ. Eccola raccontarsi in questa intervista.
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Rubrica americana di Cecilia Granata llustrazioni di Cecilia Granata Tatuaggi di Karen Roze
Come ti sei avvicinata ai tatuaggi e in che modo questo incontro è diventato una professione? Il mio approcio ai tattoos è legato a una bella storia. Mi sono laureata presso il California College of Arts and Crafts nel 1989 in Pittura e Tecniche di Stampa. L’idea era quella di diventare un’artista famosa e facoltosa nella scena di New York e conseguentemente globale, ma dopo aver visto il mio portfolio rifiutato ripetutamente dalle gallerie principali a causa della mia scarsa esperienza e approccio naïve tipico della giovinezza, sono finita a dipingere murales nei ristoranti e a lavorare come commessa nei colorifici per mantenermi. Ero molto coinvolta nella scena musicale di San Francisco. Molti dei miei amici del mondo della musica esibivano tatuaggi, quasi tutti piuttosto cheap, fatti male, e non di particolare ispirazione artistica secondo
Karen Roze
me. Desideravo un tatuaggio ma non conoscevo nessuno a cui rivolgermi per un lavoro di qualità. Nel 1992 diventai amica con una ragazza di nome Stacy Quijas, che era coperta di meravigliosi tatuaggi coloratissimi eseguiti da Ed Hardy, Eddie Deutsch e Philip Leu. Per me quei lavori furono un colpo di fulmine. La accompagnai a un appuntamento al Tattoo City per farsi coprire alcuni vecchi pezzi. Ogni singolo aspetto di quell’esperienza mi emozionò: l’odore del green soap, i flash appesi alle pareti (soprattutto quelli di Dan Higgs), il ronzare delle macchinette. Una volta finito il pezzo della mia amica, il tatuatore, Eddie Deutsch, mi guardò esclamando — ok, tocca a te, cosa vuoi fare? Gli dissi che ero solo lì per osservare ma Stacy intervenne con — non se lo vuole fare perché è una fottuta codarda! Non sono una che prende una
sfida alla leggera: dopo aver percorso con gli occhi la parete di flash decisi per un per un piccolo kanji (beautiful tradotto in caratteri giapponesi). Fu una rivelazione. In quel momento realizzai che avevo trovato la mia strada e da allora ogni momento libero era dedicato a pensare al prossimo tatuaggio e cercare qualcuno che mi insegnasse il mestiere. Il mio secondo tatuaggio è un pezzo molto grande, inizia sull’anca e copre la coscia fino a sotto il ginocchio. Ero fortemente ispirata dalle stampe giapponesi ukiyo-e di Kuniyoshi e disegnai lo stencil da sola. Chiesi a Freddy Corbin al Tattoo City quanto mi sarebbe costato, e alla sua risposta 800 dollari, sono quasi svenuta! Quella cifra rappresentava per me un mese di stipendio, quindi rinunciai ma conservai il disegno fino all’incontro con Richard Cyr al Picture Machine, il tattoo studio più
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longevo di San Francisco. Richard mi chiese 125 dollari per ora, il che suonava fattibile. Alla fine ci impiegammo oltre tre mesi prima di vederlo finito, per la modica cifra di 2.000 dollari! Questa è la ragione per cui non faccio mai un preventivo totale ma mi faccio invece pagare all’ora. Al Picture Machine mi resi indispensabile. Non solo mi facevo tatuare spesso, ma arrivavo sempre con caffè e cibo, rispondevo al telefono quando gli altri erano occupati, svolgevo commissioni, tracciavo i flash e pulivo il negozio, senza mai chiedere niente in cambio. Alla fine Richard mi insegnò a preparagli gli aghi. Non ero considerata un’apprendista, ma stavo imparando comunque. Saldavo gli aghi, sterilizzavo i tubi, ricalcavo gli stencil e pulivo il negozio nel mio tempo libero. Lavoravo in colorificio dalle 9.00 alle 17.00, poi al tattoo shop dalle 18.00 a mezzanotte un paio di giorni alla settimana, il tutto aggiunto alle prove con la band tre sere a settimana. Nel frattempo trovavo anche il tempo per dipingere ed esporre nelle gallerie locali. Sono sicura che aveva a che fare con l’avere solo ventitre anni e l’essere gasatissima per questa futura carriera nell’arte, e forse qualche droga ha contribuito con un piccolo aiutino, non saprei. Alla fine l’apprendista senza talento del Picture Machine fu licenziato perché era terribile e io chiesi il suo posto. Richard mi rispose che mi sarebbe costato 5.000 dollari, che naturalmente non possedevo, quindi ci siamo accordati per un baratto con un
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grande murales, che realizzai nei tre mesi dell’estate del ’92. Era lungo 36,5 metri e alto 4.5, quindi è decisamente rientrato della spesa! L’ex apprendista licenziato finì col puntarmi una pistola minacciandomi per avergli rubato il futuro. Questo fu l’inizio delle mie molestie sessiste sul lavoro, che continuarono ininterrottamente per i primi dieci anni della mia carriera.
una vita normale per me e mio fratello dopo la morte di mio padre. All’età di ventitré anni vivevo già da sola a San Francisco da tre anni, ed ero economicamente indipendente da otto anni. Quando ho iniziato a tatuare non c’era molto che lei potesse dire o fare al proposito. Diciamo che era contenta che avessi una carriera ma non era entusiasta dei miei molti tatuaggi visibili.
La tua famiglia era di supporto o hai dovuto conquistarti la loro approvazione? Mio padre è morto quando avevo quindici anni. Poco dopo ho dovuto trovarmi un lavoro. A quel tempo ero già piuttosto indipendente e non condividevo molto della mia vita personale con mia madre, che aveva già la sua dose di preoccupazioni nel cercare di mantenere
Cosa significava essere una donna tatuata e che tatuava ai tempi, e cosa pensi sia cambiato da allora? “Ai tempi” era solo venticinque anni fa. Nella mia opinione, i primi anni ‘90 sono stati l’epoca d’oro del tatuaggio a San Francisco. La gente iniziava a non scegliere semplicemente un flash dal muro, ma chiedeva piuttosto disegni cu-
stom da artisti come Eddie Deutsch, Freddy Corbin, Marcus Pacheco, Dan Higgs, Colin Stevens, Jef Whitehead, Chris Conn, Nala Smith e Igor Mortis. Potresti chiedermi perché non nomino nemmeno una donna: perché allora ce n’erano solo due o tre: Deborah Valentine, che era considerata una stronza, ma che col senno di poi forse in fondo era solo una donna dura in un duro business dominato dagli uomini (basta guardare cos’è successo al candidato più qualificato per diventare presidente degli USA nell’ultimo secolo solo perché ha una vagina (Hillary Clinton; n.d.r.). Poi Sunny Buick (che ora lavora a Parigi) e Laura Vida. Non conoscete Laura Vida? Era la più talentuosa donna tatuatrice nella regione ai tempi, eppure nessuno la conosce perché non era un giovane dude da articoli di giornale perché non era considerata abbastanza cool. Ho avuto il privilegio di lavorare con lei al Picture Machine e mi ha insegnato moltissimo per quanto riguarda linee pulite, sfumature morbide, design solido, procedure di sterilizzazione e a lavorare duro ignorando gli uomini. A proposito delle recenti elezioni, indovina un po’ dov’è che sono stata “presa per la figa” (commento di Trump sulle donne grab them by the pussy; n.d.r.)? Esatto, proprio sul posto di lavoro al Picture Machine, da un collega che a quanto mi dicono è ancora uno schifoso porco maschilista e continua a tatuare. Arrivavo presto per lavorare al murales e mentre ero in piedi sulla scala, lo stronzo, passando, ha allungato la mano
toccandomi la patata. L’ho fatto licenziare. Questo perché il mio boss e mentore Richard Cyr era un brav’uomo, sempre di grande supporto nella mia battaglia quotidiana per farmi strada tra i colleghi maschi e soprattutto non tollerava molestie sessuali tipo questa nel suo studio. Questo non significa comunque che non ci si aspettasse che fossi sempre io a pulire il negozio per tutti, anche dopo la fine dell’apprendistato, perché ai tempi questo era il ruolo di chi stava più in basso nella gerarchia degli studi. Con il passare del tempo ho dovuto subire molestie palesi e subdole su base quotidiana: un tatuatore che dopo essersi seduto nella mia postazione mi ha detto di sedermi in braccio e toccargli il pacco. Un’altro collega dava i suoi biglietti da visita ai miei clienti dicendogli che “avrebbe coperto lui quella merda”. Il mio boss stesso usava la mia postazione per ore dopo l’orario di chiusura lasciandola lercia e io dovevo pulirla la mattina dopo prima di iniziare. L’episodio peggiore è stato quando, dopo aver parlato a lungo con un cliente, mentre preparavo il disegno per il suo tatuaggio, lui mi ha guardata incredulo esclamando Aspetta, ma quindi sei tu che mi tatui? Ma quello non dovrebbe essere compito degli uomini? Cosa è cambiato rispetto ad allora? Tutto. Personalmente, sono una rispettata veterana con venticinque anni di carriera alle spalle e nel 2018 Sacred Rose Tattoo (lo studio di Karen; n.d.r.) celebrerà vent’anni come il secondo tattoo studio di proprietà di una donna nella Bay Area. Ho formato
quattro donne tatuatrici che sono diventate grandi professioniste e sono stata mentore di molte altre. Negli ultimi vent’anni Sacred Rose ha impiegato più di cinquanta artisti, uomini e donne; al momento siamo composti da uno staff di undici persone, senza includere le guests e tatuatori di ritorno periodicamente da altre parti del mondo. Sto per compiere cinquant’anni e nessuno, ma proprio nessuno, mi molesta più. So quanto valgo come artista e come proprietaria di un business e naturalmente anche come essere umano meritevole di successo in ogni aspetto sia della mia vita personale che professionale. Mi vengono in mente molti svantaggi nell’essere una donna che gestisce un’attività in un settore prevalentemente maschile. Pen-
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si che ci siano anche dei vantaggi? Penso che il vantaggio di operare in un settore quasi esclusivamente maschile sia la quantità e qualità del lavoro che una donna è costretta a mettere in gioco per raggiungere il rispetto meritato. Come donna è necessario lavorare più duramente, essere più sicura di sé e attingere a più risorse per ottenere quello che un uomo raggiunge quasi automaticamente. Questo ci rende più resistenti, diligenti, tenaci, e forti rispetto al tatuatore medio uomo. Fare tatuaggi non è una lavoro per deboli, pigri o senza talento. Quando una donna diventa una brava tatuatrice, significa che ha la determinazione necessaria a diventare anche un’imprenditrice di successo. Ho sempre detestato parlare di “artista donna” perché questa espressione parte dal presupposto che è qualcosa di diverso da un artista in generale. Francamente, non ho mai capito quale possa essere l’elemento che teoricamente rende l’arte femminile. Tuttavia, sono una grande appassionata di arte specificatamente femminista. So che tu sei una femminista e attivista radicale. Pensi che questo aspetto trapeli nella tua arte o nel modo in cui gestisci la tua attività lavorativa? Grazie dei complimenti. Sono sempre interessata a capire come altre artiste mi percepiscono politicamente. La mia arte di per sé non può essere considerata femminista, ma il mio stile di vita: il
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crescere due figli praticamente sola, gestire autonomamente le mie risorse finanziarie, promuovere il rispetto reciproco tra i miei dipendenti, essere apertamente schierata per quanto riguarda la mia visione politica, tutto questo lo è decisamente. Avere un cliente accomodato sotto i ferri che non può alzarsi e andarsene a metà tatuaggio sicuramente è d’aiuto nel formulare ottimi argomenti su una varietà di questioni dalla mia posizione. Seriamente so di essere una brava comunicatrice e in grado di leggere le persone in modo piuttosto sottile. Questa credo che in effetti sia la mia migliore qualità ed è stato qualcosa che nella vita ho raffinato molto, sia grazie all’introspezione personale sia grazie all’aiuto di svariate discipline spirituali e terapeutiche. L’auto-consapevolezza porta sempre verso una maggiore consapevolezza nei confronti degli altri e questa è una qualità molto utile e proficua per una persona che pratica quest’attività. I miei clienti mi amano e tornano sempre. La mia personalità si riflette nelle persone che scelgo di assumere ed è anche il motivo per
cui la nostra clientela è fedele e ci ripaga con generose recensioni a parte poche eccezioni. Il tuo tattoo shop è sicuramente uno spazio accogliente che opera al di là di stereotipi e barriere di genere e di razza, promuovendo un’attitudine positiva rispetto alla consapevolezza del proprio corpo. In che modo gestisci e mantieni Sacred Rose uno spazio sicuro e cosa possono aspettarsi i clienti che lo frequentano? Credo di aver in parte già risposto nella domanda precedente ma una cosa che vorrei aggiungere è che considero Sacred Rose la mia famiglia e applico sia amore
che disciplina (quando raramente necessario) con le persone che vi lavorano come se fossero i miei stessi fratelli o sorelle, figli o compagni. Una volta mi dissero che un impiegato ha bisogno di un lungo guinzaglio: uno di cui non si accorge nemmeno fin quando arriva alla fine di questo. Di solito un abbraccio gentile è tutto ciò di cui c’è bisogno per richiamare l’attenzione. Ho licenziato artisti solo per due ragioni: abuso di droghe e il fallimento nel migliorare attraverso il tempo. Sul tema dell’immagine positiva del corpo, vorrei parlare dei nostri corpi femminili: i tatuaggi sono diventati anche strumento di empowerment per molte donne. Sono stati utilizzati per ri-definire creativamente un’idea di bellezza standardizzata e un prototipo sessualizzato di femminilità. Attraverso i tatuaggi abbiamo potuto esplorare la nostra identità e definire un nostro spazio proprio. Eppure, nonostante questa deliberata e consapevole scelta di creare questo mio spazio, lo trovo spesso violato dalle molte mani che afferrano i miei arti per osservarne da vicino il contenuto, in quella che in qualsiasi altra situazione sarebbe considerata una palese violazione della privacy. O tat-called (gioco di parole tra tattoos e cat-called ovvero ricevere commenti ad alta voce in giro da parte negli uomini) per la strada con quelli che dovrei secondo loro considerare dei complimenti. Cosa ne pensi di questo paradosso? Gli uomini fanno cose di questo
genere sempre e in ogni caso. I tatuaggi forniscono solo un’altra scusa per violare la tua privacy. Tatuaggi o non tatuaggi, in qualsiasi scenario possibile è sbagliato e dovrebbe essere universalmente definito tale. Toccare uno sconosciuto senza il suo permesso è una violazione e non va mai bene. Cosa ti piace tatuare e quali sono le tue ispirazioni? Sono stata formata in un ambiente in cui era necessario che io fossi competente in tutti gli stili. Sono in grado di eseguire di tutto con sicurezza, dai ritratti ai tribali alle body-suit di ispirazione giapponese. Nulla è comparabile però al lavorare su un pezzo che mi piace profondamente. Questo può essere un tatuaggio semplice ma unico su una bella persona, la cui compagnia mi arricchisce, o uno dei miei grandi design in stile giapponese. Gravito prevalentemente sul traditional. Linee pulite e colori solidi. Probabilmente perché, dopo aver tatuato per più di venticinque anni, ho imparato quali tatuaggi conserveranno la loro intergrità anche dopo decenni. I tatuaggi senza contorno o senza nero non reggeranno. Questo è un dato di fatto. Ho iniziato a tatuare in uno studio che lavorava soprattutto sui walkin, che sceglievano al momento un pezzo dalla parete di flash. Amo ancora i tatuaggi tradizionali e sono pronta a sfidare a braccio di ferro se necessario, chiunque tra gli artisti che lavorano per me, pur di accaparrarmi l’opportunità di eseguire un traditional sul bicipite di un cliente. Utilizzo
un approccio traditional su design contemporanei, incorporando outlines, ombre definite e colori solidi. Conosco le mie debolezze ed è per questo che ho dieci artisti al Sacred Rose, in grado di soddisfare ogni richiesta offrendo i loro talenti unici ai nostri clienti. La tua altra grande passione è la musica, suoni in una band, ci racconti un po’? Suono la chitarra da quando avevo dodici anni e sono sempre stata parte di una band o un’altra da allora. Attualmente suono in una band chiamata MILF! The Band. Ogni membro è una mamma, da qui il nome. Al momento di questa intervista la nostra batterista ci ha lasciati e ne stiamo cercando un’altra. A questo punto non ci interessa che lei (o lui) sia un genitore. La band è per puro divertimento e per continuare a migliorarci. Facciamo rock-covers dagli anni settanta e primi ottanta, ci esibiamo localmente per spettatori sempre entusiasti. La gente adora le nostre esibizioni perché molte delle canzoni erano fantastiche e conosciute ai tempi ma non vengono più passate in radio, a parte su stazioni ultra specializzate. Mi piacerebbe suo-
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nare ancora in una band originale e scrivere canzoni ma questo toglierebbe spazio al tatuaggio, al disegno e alla pittura e a crescere i miei figli. Credo, comunque, che a un certo punto riuscirò a farlo di nuovo. Pratichi regolarmente la meditazione e graviti attorno al Buddismo. È per questo che sei così cool o sei nata con questa contagiosa energia positiva? Sono stata cresciuta cattolica. Il dogma cristiano non mi si addiceva molto, nemmeno quando ero piccola. Non riuscivo a credere in una religione che eliminava il concetto della Madre Divina, pur mantenendo un Padre e un Figlio divini. L’unica donna perfetta era vergine e madre allo stesso tempo, un’assurdità: si rimuove così ogni senso di appartenenza, importanza, uguaglianza e il rispetto/reverenza per le donne reali. Ho iniziato così una ricerca per il divino e la verità in età molto giovane. Ho provato altre sette cristiane ma alla fine mi ribellavo sempre al dogma. La maggior parte dei cristiani credevano a quel che volevano e rifiutavano ciò che non gli andava bene. Non esisteva una verità universale né un percorso per l’illuminazione. Il perdono e l’amore per il prossimo erano solo parole e non azioni per la maggior parte di chi professava questa religione. Alla fine ho iniziato un’indagine rigorosa dell’introspezione attraverso la meditazione e studi di guarigione con la chiaroveggenza. Il mio maestro e mentore al tempo mi ha intro-
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dotta al guru buddista Dechan Juren, conosciuto come Master Yu. La mia pratica si è intensificata durante momenti difficili come il divorzio e la morte di mia madre. Quando uno si imbarca in una ricerca spirituale genuina, tutte le domande, le paure e le verità orribili vengono in superficie. Ho anche avuto una psicologa per dodici anni. Seguire una terapia psicologica mi ha aiutata dove la meditazione non arrivava. La mia psicologa era un’artista buddista e junghiana con un master presso il San Francisco Art Institute. Era una perfetta mentore, guida e amica. Ora, dopo vent’anni, la mia pratica spirituale si è evoluta drasticamente. Ora non consiste più nel sedermi davanti all’altare ripetendo rituali del dharma ogni giorno, ma è diventata qualcosa di intrinseco alla vita quotidiana. Vivere e respirare nella compassione e nella comprensione. Resto ancora bloccata in circostanze che non posso controllare, ma ora le cose che potrebbero farmi deragliare non hanno più potere su di me. La mia consapevolezza si espande e contrae in continuazione. Credo che la mia pratica non sia più circoscritta a un sistema di pensiero unico. Ironicamente, più profondamente mi calo nella consapevolezza, meno credo in qualcosa. Alla fine, credo semplicemente che la compassione per ogni creatura sia la chiave per l’illuminazione e questa è la mia condotta personale. Sei stata sposata dalla mitica Margaret Cho, famosa comica, attrice, autrice e cantante, sono
molto invidiosa. Come è successo? La storia del mio amore! Che storia fantastica. Condivido una versione riassunta, visto che ho già detto molto. Ho conosciuto Christa nel 1990. Facevamo entrambe parte della scena musicale di San Francisco. Era una scena molto vivace e grintosa al tempo, l’energia era incredibile. Io suonavo in una band funk-punk chiamata Mrs. Jones, mentre Christa suonava nelle 4 Non Blondes. Loro sono diventate famose e noi no, capito chiuso, scherzo. Sinceramente, mi sono invaghita di Christa appena l’ho vista ma ero anche terrorizzata da lei. Lei era una dyke (una lesbica molto maschiaccio, n.d.r.) durissima a vedersi mentre io ero una ragazzina minuta con i rasta, spaventata da quello che provavo nel guardarla. Il talento musicale di Christa era senza paragoni e la sua energia sul palco e intensità fuori dal palco mi intimidivano fino a rendermi timida, e io non non sono assolutamente una persona timida! Col passare degli anni abbiamo mantenuto una relazione di amicizia occasionale. Lei si fermava al tattoo shop dove lavoravo su Guerrero Street per farsi tatuare quando era in città, per poi spostarsi da qualche altra parte non vedendoci per qualche anno. Tuttavia, ogni volta che ci vedevamo, c’era qualcosa di speciale, una scintilla che ci attraversava. Ecco alla fine, la sto facendo lunga. Fast forward al 2014. Christa mi manda una mail per dirmi che sta venendo nella Bay Area e vorrebbe farsi un ta-
tuaggio in ricordo di un amico che era mancato. Il momento non poteva essere più propizio, perchè io stavo uscendo da una separazione difficile e lei era single da un paio d’anni. Non eravamo mai state single contemporaneamente. Ho flirtato con lei via messaggio e ha funzionato. È venuto fuori che anche lei aveva sempre avuto una cotta per me, avrebbe potuto essere un film! Siamo diventate amanti istantaneamente, recuperando i venticinque anni durante i quali avremmo potuto avere
una relazione ma per un motivo o per l’altro non era capitato. Nel 2015 la Corte Suprema ha decretato la legittimità del matrimonio gay così ci siamo fidanzate ufficialmente. Christa è amica di un tipo, Andy, che lavorava ai tempi per le 4 Non Blondes e che aveva avuto una relazione con Margaret Cho. L’anniversario mio e di Christa era il 15 Ottobre e ci sarebbe piaciuto sposarci in quel giorno. Un giorno Andy ci ha chiamate per sapere se volevamo andare a vedere uno spettacolo di Marga-
ret al Castro Theatre (un cinema storico nel quartiere gay di San Francisco; n.d.r.) il 15 ottobre! Margaret aveva creato un concorso per quell’occasione chiamato “Marry me Margaret”. Ha la licenza per sposare le persone e quella sera sposava coppie LGBT. Il resto è storia. Il 15 ottobre 2015 io e Christa siamo state sposate sul palco da Margaret Cho, davanti a 1.500 sconosciuti (compresi alcuni amici e parenti) al Castro Theatre.
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llustrazione copia da Otto Dix: Zuleika, la bellezza Tatuata, 1920, collezione privata, dipinto di Cesare Facchetti
QUANDO ERAVAMO DEGENERATI di Cesare Facchetti Amman
Per lungo tempo i tatuati sono stati considerati degenerati, ma c’è stato un periodo in cui anche gli intellettuali hanno avuto i tatuaggi e hanno mostrati i propri o quelli altrui. Questo è avvenuto nella prima metà del secolo scorso, quasi esattamente cento anni fa, e questi stessi intellettuali in alcuni casi sono stati considerati degenerati. Uso questa parola, degenerati, riferendomi a una mostra intitolata Entartete Kunst, Arte Degenerata, promossa del nazismo per denunciare e schernire le tendenze astratte, selvagge, primitive e irrazionali dell’arte contemporanea; la sua tendenza alla bruttezza, la sua prossimità alla follia, la sua incompatibilità con i modelli morali e sociali della società Nazionalsocialista che si voleva costruire. La mostra si tenne a Monaco nel 1937, e nonostante l’intento denigratorio con cui era stata allestita ebbe un successo di pubblico straordinario L’idea di scrivere questo articolo mi è venuta in seguito all’incontro casuale con un ritratto d’uomo esposto alla Kunsthalle di Amburgo. Non in giacca e cravatta, nemmeno in maniche di camicia, ma a torso nudo, a mostrare i tatuaggi. Ci guarda con espressione ferma, consapevole, un po’ stanca. Chi è?
Un muratore? Uno scaricatore di porto? A prima vista sembra un operaio seduto su un traliccio o su una gru, invece no: è Egon Erwin Kisch, un giornalista comunista ebreo di origine austriaca; verrà esiliato dalla Germania all’avvento del Nazismo. Un intellettuale. Questo ritratto è stato dipinto da Christian Schad nel 1928. Schad, come sempre è un artista dal realismo crudo e fotografico, netto e senza grazia, come era tipico dell’ala sinistra della Nuova Oggettività tedesca. Nonostante gli artisti del movimento della Nuova Oggettività dipingessero in maniera accurata e, tutto sommato, tradizionale erano invisi al regime nazista perché mostravano con realismo e, per l’appunto, oggettività, la società tedesca così some era dopo la prima guerra mondiale, devastata dalla povertà e dall’ingiustizia sociale, con tutto il suo tasso di malattia, delinquenza e marginalità sociale, e di dolore. Questa franchezza con cui artisti e intellettuali mostravano i lati marginali della società era stata resa possibile da quella bolla di libertà che era stata il periodo della Repubblica di Weimar (1919-1933, prima dell’avvento del Nazismo). Per un artista della Nuova Oggettività il ritratto di un intellettuale
non è l’immagine di un sapiente in cattedra; il pittore sceglierà di raffigurarlo in maniera più umana, più bassa, più confidenziale, mostrandone i tatuaggi, che sono il suo lato più canaglia e meno socialmente presentabile. Egon Erwin Kisch ha sulla pelle parecchie figure tatuate: una donnina sexy, una piuma, un’aquila, un pugnale conficcato nella pelle, una testa maligna che morde un serpente e un inquietante clown mostro. Queste immagini del dolore (il pugnale), della potenza (l’aquila), del precario mondo del circo e degli acrobati (il clown) ricorrono anche sul corpo di Zuleika, il prossimo quadro di cui parleremo. Esiste un altro dipinto, di diversi anni precedente al ritratto di Kisch, in cui il tatuaggio non solo compare ma è protagonista. L’autore, Otto Dix, è il più importante pittore della Nuova Oggettività tedesca, il dipinto risale al 1920 ed è in collezione privata. Questo Cesare Facchetti Amman, storico dell’arte, guida turistica e pittore. Milanese, classe 1978.
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Christian Shad, Ritratto di Egon Erwin Kisch, 1928, Amburgo, Kunsthalle, foto di Cesare Facchetti
la sua potenza sul mondo (sulla clavicola), e una croce araldica sormontata dell’elmo prussiano (su una gamba) e diverse immagini di acrobati, gente che come lei vive nel circo, una vita marginale, nomade e sradicata dalla società, che vive e lavora in equilibrio precario. dipinto si intitola Zuleika, la Bellezza Tatuata, dove il titolo si riferisce al cartello posto all’ingresso dell’ambiente in cui Zuleika si esibisce come fenomeno da baraccone. L’ambiente in cui la bellezza tatuata si mostra al pubblico curioso, in piedi su un piedistallo come una statua, è un fondale dipinto che riproduce l’esotico Egitto, e la stessa Zuleika si è scelta un nome d’arte esotico, perché magari all’anagrafe si chiamava Maria, o Veronika o chissà quale altro normale nome tedesco. Zuleika ha tre caratteristiche: prima, è coperta di tatuaggi dalla testa ai piedi. Seconda: il suo corpo massiccio, la pancia tirata in dentro e i seni poco tonici rivelano un’età più matura di quanto il volto coperto di trucco pesante riveli. Terza: lo sguardo da maliarda, l’occhio lungo perso nel vuoto, che suggerisce dapprima lascivia, ma poi a pensarci bene fa sospettare che la bellezza tatuata sia sotto l’effetto di oppioidi. Per apprezzare lo sguardo di Zuleika invito a cercare una fotografia del
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dipinto originale di Otto Dix perché nella mia copia a tempera l’espressione dello sguardo non è altrettanto apprezzabile. La mappa dei tatuaggi che Zuleika ha sul corpo è impressionante per densità di raffigurazioni, varietà dei motivi, e cattiva qualità del disegno dei tatuaggi, che si rivela opera popolare se non dilettantesca. Perché il tatuaggio questo era: arte popolare, non opera d’arte colta come adesso, il tattoo artist come lo intendiamo ora non esisteva, non faceva ricerca stilistica o iconografica, ma era un artigiano che riproponeva un repertorio di simboli e frasi sempre uguali come le parole e la liturgia di un rito arcaico. Zuleika è il ritratto malinconico di una pin-up sul viale del tramonto che si gioca la carta del mostruoso, e la straordinaria geografia di tatuaggi che fornisce al pubblico un alibi per esplorare un corpo seminudo ancora procace. Tra le immagini tatuate ci sono motivi puramente decorativi, come collane o bracciali, ma anche motivi patriottici come l’aquila germanica che posa
Ci sono stati tempi e luoghi in cui gli intellettuali e i marginali si incontravano e si mischiavano in una specie di mondo di mezzo, fatto di bordelli, quartieri malamente, porti; luoghi dove incanaglirsi indulgendo al desiderio di Eros o al vizio degli stupefacenti. Già gli artisti della nuova oggettività avevano descritto i ruvidi marinai (Dix, Grozs) che erano gente tatuata. Questi personaggi scompaiono dalla scena dell’arte per buona parte degli anni ‘30 e per tutti gli anni ‘40, salvo poi ricomparire all’inizio degli anni ‘50 nel lavoro di alcuni artisti molto lontani dal mainstream, anzi decisamente di nicchia come l’illustratore Tom of Finland e il drammaturgo e cineasta Jean Genet. Un chant d’amour è un breve film che Jean Genet realizzò nel 1950, e dove uno dei protagonisti ha un tatuaggio che compare in primo piano in una sequenza.
Un chant d’amour è la storia di un amore impossibile tra due detenuti, separati dal muro tra le loro
due celle, che sognano la fuga e la libertà insieme, e che non potendo toccarsi escogitano vari escamotages simbolici e surrealisti per entrate in contatto, come ad esempio soffiarsi il fumo da una cella all’altra facendolo passare da una cannuccia infilata in un buco del muro, se guardate il film capirete la simbologia. La scena che ha catturato la mia attenzione è stata la scena in cui il più giovane tra i due protagonisti danza nella sua cella mimando un ballo di coppia, evocando un assente. Il ballo diventa poi un abbraccio e una carezza a se stesso, in cui la mano
passa sopra il disegno di un volto tatuato sulla spalla, un volto, forse femminile, che è prima mostrato, poi carezzato e infine nascosto dalla mano. E adesso chi siamo? Non siamo più marginali, galeotti o ruffiane, portuali o fenomeni da baraccone, e non siamo forse nemmeno intellettuali impegnati, spartachisti, al più siamo socialdemocratici, blandamente anarchici, populisti o complottisti. Forse siamo solo dei bravi ragazzi consci di quel tanto di canaglia che c’è in noi.
Illustrazione di Cesare Facchetti ispirato dal film diretto da Jean Genet, Un chant d’amour, 1950
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The borderline of the pentagram
musicisti for-mi-dà-bi-li Dal latino “formidabiles”, eccezionali e terrificanti: Chet Baker Testo di Marco Mattaliano Illustrazioni di Eva Escoms Estarlich
Una cinquantina di anni fa, passeggiando per il centro di Milano – più precisamente in Largo Cairoli – ci saremmo potuti imbattere in un locale dal nome curioso per alcuni, esotico per altri oppure inequivocabilmente attraente per gli appassionati del Jazz. Quella vasta piazza doveva infatti assistere, nel maggio del 1962, all’inaugurazione del Chet Baker Club, un jazz club interamente dedicato alla figura e all’arte del suo eponimo che – si spera – non ha bisogno di troppe presentazioni. Chet passa per la prima volta da Milano nel 1955, nel corso di un tour europeo. Ha un ingaggio per la notte di Capodanno alla Taverna dell’hotel Duomo. Ma come raccontano Paola Boncompagni e Aldo Lastella nel libro Chet Baker in Italia (Stampa Alternativa, 1991) la serata finisce male. Il gestore lo butta fuori. Chet ci resta
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male. Capita, un incidente capita a tutti. La vita prosegue e negli Stati Uniti incide dischi con – tra gli altri – Bill Evans. I problemi con la droga si aggravano e la droga, si sa, porta guai. Infatti nel ’59 viene arrestato a Harlem e condannato a sei mesi di reclusione a Rikers Island. Ne sconta quattro durante i quali si occupa del settore musica del carcere, gioca a basket e a poker con gli altri detenuti. Appena libero lascia tutto per l’Italia. A Milano per disintossicarsi. La cura funziona talmente bene che Chet inizia a farsi di Jetrium, “un prodotto farmaceutico che si poteva avere senza ricetta. Volavo da Milano a Monaco senza bagaglio, e lì mi riempivo le tasche […], è la cosa più vicina alla roba che abbia mai provato. (Chet Baker, Come se avessi le ali, Minimum fax, 2003). Intanto suona al Santa Tecla con i grandi del Jazz italia-
no. L’Italia l’ha accolto come una vera e prorpia star. Oranan Fallaci gli dedica un lungo articolo per «L’Europeo (1961)»: Dove andrai Bakerre? Lucio Fulci lo vuole nel suo film Urlatori alla sbarra (1960). Ha ingaggi per tutta la penisola e soprattutto ne ottiene uno piuttosto lungo alla Bussola di Viareggio. Per raggiungerla si fa prestare una macchina (una FIAT). Una sosta un po’ troppo lunga nei bagni di una stazione di benzina gli costerà cara. “Mi ci vollero tre quarti d’ora per trovare una vena. Avevo appena finito di pulire e stavo per andarmene quando sentii bussare alla porta. Il gestore aveva chiamato la polizia”. Di nuovo nei guai. L’arresto attira persino la stampa. 15 mesi di prigione. A Milano, una notte del 1961, durante una conversazione con Nando Lattanzi, si lascia scappare di bocca che vorrebbe avere un
suo club. OK. Nando lo porta in un localino vuoto ma “molto elegante”. Fatta, diventerà il Chet Baker Club. I lavori procedono in fretta. Manca una settimana all’inaugurazione. Chet vola a Monaco, per un concerto. Ancora casini. La polizia tedesca accompagna Chet e la moglie Carol al confine svizzero, ma al trombettista viene negata l’autorizzazione a rientrare in Italia. Carol vola a Milano per raccattare soldi e vestiti. In viaggio per Parigi e addio a tutto.
Marco Mattaliano nacque a Milano 35 anni fa. Crebbe e cominciò lo studio del pianoforte; ad esso affiancò quello dei poeti classici. Non pago indagò le tortuose vie del Jazz, della composizione e della musicologia. Per ora è tutto.
Eva Escoms Estarlich: sono nata a Valencia e, da quando riesco a ricordarmi, preferisco i gessetti alle bambole. Nonostante passino gli anni, continuo a raccontarmi meglio con l’illustrazione che con le parole. Nel 2010 ho scambiato il sole per la nebbia trasferendomi a Milano. http://mrandmrsalfaro.com/artist/eva-escoms/
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Antropolis per Stigmazine
ART IN ANTR
Di come l’arte stia dentro l’antropologia e di come l’uomo stia dentro l’antropologo Testo di Bravin Logo di Pimineta Negra Illustrazione di Melissa Migliora
La mia speranza è di arrivare a concludere questa intervista scoprendo che l’antropologia contiene l’arte, e che tutto quello che finisce sotto l’etichetta arte o amore per l’arte abbia una spiegazione antropologica e che dunque ci sia una necessità pratica dietro ogni espressione artistica e dietro ogni artista un esecutore al servizio dell’antropologia; in definitiva, vorrei mettere in cassa col Bravin, un episodio della sua rubrica perfettamente in tema con «Stigmazine» numero quattro ovvero... FATTO AD ARTE. Ovvero... l’esatto opposto di artistico. Dai Bravin: dimmi che niente ti rapisce e che nessuno è davvero originale! Ad un’indagine superficiale non esiste un’antropologia estetica e nemmeno un’estetica dell’antropologia: scriviamo da capo una didascalia secon-
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gia è una scienza, fa parte delle scienze sociali al pari della sociologia, e deve riappropriarsi della propria scientificità e non rinunciare a produrre conoscenza che sia riconosciuta come scientifica. Il dibattito sull’epistemologia è molto acceso in antropologia e penso che parlarne in questa sede ci porterebbe troppo lontano, ma posso accennarti questo: io aderisco a un paradigma definito realismo critico, che cerca di superare questa divisione fra L’antropologia è definita una sostenitori di un’antropologia “disciplina”, dunque, il metodo “ermeneutica” e fautori di un’andell’esperto non deve essere tropologia neo-positivista. Il meesattamente scientifico: l’antro- todo dell’antropologo può e deve pologo è autorizzato a indicare essere scientifico, ma la scienza anche del bello e del brutto nella non è fatta solo di misurazioni matematiche e di statistiche. Acsua materia? O più che altro a spiegare il canto ai metodi quantitativi, adatti perché di bru-talità e bel-tà. a certi oggetti di ricerca, esistono Non sono d’accordo con que- metodi qualitativi che sono più sta etichetta di “disciplina”. Per adatti ad altri oggetti di ricerca, in quanto mi riguarda l’antropolo- particolare quelli di interesse etdo la tua visione personale per l’una e per l’altra suggestione. Questo non è del tutto vero: esiste, infatti, un’antropologia dell’arte, che si occupa di studiare l’arte dal punto di vista antropologico, così come esiste un’etnoestetica, che si occupa di studiare i canoni estetici nelle diverse culture. Spesso queste discipline si trovano di fronte alla cosiddetta “arte etnica”, con un approccio piuttosto critico.
nografico. Ma adottare una metodologia qualitativa non significa rinunciare a una metodologia rigorosa e scientifica. Tu personalmente: hai degli innamoramenti per un certo genere di indagini? Quali? Guarda, dato che mi occupo di antropologia dell’alimentazione, io personalmente prediligo le degustazioni. Specialmente di vino. L’antropologia è così trasversale che, ovviamente, l’arte è coinvolta e la coinvolge: come? Come ho detto sopra, esistono un’antropologia dell’arte e un’etnoestetica. Gli oggetti di arte etnica sono quasi sempre oggetti che non nascono come opere d’arte, bensì come oggetti di uso comune, o spesso legati all’uso rituale (si pensi alle maschere africane), ma che vengono apprezzati dal mercato occidentale perché veicolano un’estetica esotica che stuzzica l’immaginario post-coloniale. Molti di questi oggetti rituali in passato sono stati trafugati in modo poco limpido e tuttora c’è un serio problema di appropriazione culturale, per cui musei, gallerie e collezioni private pullulano di feticci, maschere e persino decorazioni funebri che andrebbero restituiti ai legittimi proprietari. E qui ci troviamo di fronte a un piccolo paradosso: a un certo punto in certi contesti turistici, soprattutto in Africa, si sviluppa una vera e propria industria dell’arte etnica, con produzione di oggetti che riproducono
le fattezze dell’artigianato locale, ma il cui fine ultimo non è il reale utilizzo, rituale o meno, bensì la vendita nel mercato turistico. Negli stand dell’artigiano in Fiera a Milano ho potuto trovare gli stessi identici oggetti che erano venduti in Kenya come artigianato locale. Nel caso dell’artigianato etnico, il confine fra oggetto d’uso quotidiano, souvenir turistico e falso si assottiglia pericolosamente. Se poi pensiamo ad artisti di origine non occidentale, ci aspettiamo che nelle loro opere emerga la loro estetica etnica (ci sono dei bellissimi esempi nel museo di arte aborigena a Sidney): se dovessero esprimersi senza tradire l’esotismo che gli attribuiamo le loro opere finirebbero per sembrano non autentiche. Insomma, da un artista di origine aborigena o africana ci aspettiamo che usi certi colori, certi tratti, una certa estetica che abbiamo imparato a conoscere e attribuire a certe parti del mondo, e saremmo molto contrariati se si mettesse invece a dipingere come un impressionista francese. Anche questa è una forma di quel pregiudizio esotizzante tipicamente occidentale che l’antropologo Edward Said ha definito “orientalismo”. Mostrami qualcosa che riguarda l’antropologia ma che mi riempia anche gli occhi di bellezza! Diciamo spesso che ogni cultura esprime una propria estetica, ma questo è vero fino a un certo punto. Al di là delle differenze
culturali, esistono alcuni criteri estetici universali, che sono frutto della comune evoluzione della specie umana. Questi tratti si mescolano inestricabilmente con quelli prodotti dalle varie culture e società in ogni epoca storica. Se ogni cultura esprimesse un’estetica completamente aliena e irriducibile, incommensurabile, alle altre, allora potremmo apprezzare soltanto ciò che è stato prodotto all’interno di quella sorta di bolla socio-culturale in cui siamo nati e cresciuti. Com’è possibile invece che riusciamo ad apprezzare non solo le estetiche di altre epoche, ma anche di contesti culturali distanti e profondamente differenti? Ci riusciamo perché, al di là delle differenze culturali, molto visibili, ma tutto sommato superficiali, rispondono comunque a dei criteri universali che sono profondamente radicati nel nostro essere umani. Si potrebbe dire che la vera opera d’arte è quella che riesce a essere apprezzata anche al di fuori dei propri inevitabili confini culturali, perché riesce a parlare a un livello più profondo e universale. Parafrasando l’Anonimo del Sublime (un trattato di estetica scritto in greco nel II secolo), potremmo dire che mentre il bello consiste nella perfezione formale nel quadro dell’adesione a precisi canoni estetici fortemente connotati culturalmente, il sublime ― definito l’eco di una grande anima ― al contrario riesce a trascendere quegli angusti confini e a risuonare al di fuori di
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essi, attraverso le epoche e al di là degli oceani. Infondo, prima del teatro, prima del balletto, prima della pittura ci sono concetti e rituali antropologici... sorprendimi con qualche esempio insospettabile. Il concetto occidentale di arte è non solo tipico della nostra cultura, e non di altre, ma persino all’interno della nostra cultura è piuttosto recente. Il termine arte italiano, e i suoi corrispettivi nella maggior parte delle lingue europee, deriva dal latino ars, una parola interessantissima: in latino appunto indicava il saper fare in modo efficace e deriva da una radice indoeuropea *rt- che è la stessa del latino ritus, che indica il rito, il rituale, ma che troviamo con un significato quasi identico in sanscrito, come rta, rito, appunto. Il rito è, cioè, una sequenza efficace di azioni, che vanno eseguite in quel modo e in quell’ordine. Il latino usò il termine ars per tradurre il greco tekhne, da cui deriva tecnica, che indica appunto la perizia tecnica, il saper fare. Come vediamo, entrambi i concetti sono molto più legati all’agire efficace che non a una dimensione estetica fine a se stessa. A quell’epoca non esisteva ancora il concetto di opera d’arte come la intendiamo oggi: l’artista era un tecnico, cioè qualcuno che padroneggiava con maestria dei procedimenti pratici per ottenere degli effetti precisi. L’artista era a tutti gli effetti un artigiano, che produceva le sue opere sempre per una committenza che aveva fini pratici: ad esempio legati al culto religioso, ma anche alla propaganda (si pensi agli
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archi di trionfo romani), o al prestigio personale del committente che si circondava di oggetti raffinati e costosi. Non esisteva l’idea dell’art pour l’art, che possiamo dire nacque in Occidente piuttosto di recente (direi non prima dell’Ottocento romantico).
Domanda delle domande: il senso estetico trascende dalla necessità pratica, o l’antropologia spiega il perché di qualunque risultato estetico. Quest’idea che il senso estetico trascenda dalla necessità pratica è molto occidentale e moderna, o
forse dovrei dire post-moderna. Molto spesso le forme di certi oggetti di artigianato etnico rispondo a esigenze pratiche molto precise e a volte siamo noi occidentali a proiettare un intento estetico esotico, magari esaltandone la purezza delle linee e l’essenzialità dell’oggetto (penso ad esempio a una scala dei Dogon ottenuta intagliando un singolo albero e che comparve in un calendario Pirelli di qualche anno fa, accompagnata da una procace modella che vi si appoggiava voluttuosamente). Altre volte l’estetica risponde invece a canoni radicati in una certa cultura, di cui si può forse ricostruire l’evoluzione attraverso l’archeologia, ma solo fino a un certo punto. Ovvero, possiamo magari ricostruire come si sia passati dall’estetica della Grecia arcaica a quella classica e poi a quella ellenistica, ma è molto difficile ricostruire il perché. Quello che possiamo dire è che anche i canoni estetici fanno parte di quelle idee che Richard Dawkins ha definito memi, cioè l’equivalente culturale dei geni, e che circolano liberamente fra le persone, dentro e fuori dalle culture. Quando nasciamo ci troviamo all’interno di una società che esiste da prima di noi e che ha un certo set di idee, di memi, ampiamente condivisi, riguardo all’etica, all’estetica, alle credenze e via dicendo. Ogni membro di una certa società riceve queste idee, questi memi, e poi li rielabora e li ritrasmette a propria volta ad altri. Questa ritrasmissione garantisce la riproduzione culturale, cioè il fatto
che queste idee si trasmettano di generazione in generazione, ma la rielaborazione che ogni individuo ne fa contribuisce a modificare, in una certa misura, l’idea di partenza. La conseguenza è che talvolta certe idee vengono messe radicalmente in discussione, ma anche quando vengono riprodotte il più fedelmente possibile c’è comunque un lento cambiamento, che porterà negli anni a dei risultati visibili. Così dunque cambiano il costume, la musica, l’arte e in generale l’estetica, non solo per esposizione a nuove idee che provengono da altre culture e società, ma anche per evoluzione interna, per così dire. Queste dinamiche emergono da interazioni sociali molto complesse, che coinvolgono migliaia, milioni, miliardi di individui allo stesso tempo e che quindi sono molto difficili da tracciare con precisione. D’altronde ci saranno dei risultati estetici inspiegabili e fuori da ogni logica pratica... o no? Pensiamo al famoso spremiagrumi di Stark, che sembra una specie di navetta spaziale aliena: bello da vedere, ma tutto fuorché pratico. Eppure, anche dove non sembra esserci un’utilità pratica, un’attenta analisi antropologica può svelare scenari inaspettati. Pensiamo al famoso potlatch: un banchetto rituale diffuso fra i nativi americani della costa settentrionale del Pacifico, in cui chi offriva il banchetto finiva per dilapidare buona parte delle proprie sostanze, sprecando quantità invereconde di cibo e bevande
e distruggendo degli oggetti votivi rituali molto costosi. Un comportamento apparentemente inspiegabile, ma che in realtà risponde a una propria logica legata alla costruzione del prestigio sociale: più il banchetto è fastoso, più sono costosi e raffinati gli oggetti che mi posso permettere di distruggere, maggiore sarà il mio prestigio all’interno della comunità. Se ci pensiamo non è molto diverso da quello che fanno certi ricchi occidentali quando spendono somme ingenti per oggetti lussuosi e prestigiosi il cui valore reale è di molto inferiore (tipo quella borsa di Balenciaga che riproduce con una certa fedeltà un borsone Ikea). Il classico miliardario che dà un party memorabile con decine di invitati o che si accende il sigaro con il rotolo di banconote da cento dollari sta facendo la stessa cosa di un potlatch, cioè sta mostrando a tutti la propria disponibilità economica. In un certo senso è la stessa cosa circondarsi di oggetti costosi e magari inutili.
Francesco Bravin, antropologo materialista, centauro guzzista, schermidore storico e raffinato gourmet .
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Laura Filosofica
Arte, artificio e mestiere Divertissement per associazioni semi-libere, stavolta Rubrica di Laura Ferrari Illustrazione di Pimienta Negra Ispirazione vs mestiere? Che storia. Ci penso e mi viene in mente lo scarto nella cultura occidentale tra l’arte figurativa di Platone, i cosiddetti MedioEvi (le arti del Quadrivio…) e poi ancora frùùc lo scarto contemporaneo nel settecento e quello dopo Kant con il suo Sublime, per non parlare degli equivoci della postmodernità in cui alla fine capisco solo quello che dice il mio adorato Philippe Daverio. E tutto questo mi dà dei brividi ed è incredibile, perché lo ricordo e l’esame di Estetica all’Università degli Studi di Milano è stato il primo che ho dato, nel 1998. Però adesso mi calo di quota su riflessioni più immediate e di spiccata contemporaneità. Artificio? Se fai una cosa ad arte, non la fai con spontaneità. Ma sarà vero? In fondo se sono davanti ad una persona per lavoro e la ascolto in modo attivo e partecipato, sto fin-
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gendo oppure sto solo indirizzando la mia attenzione? …Incanalare un fiume vuol dire snaturarlo? … Ho talmente tante di quelle energie che se un pochino le governo non credo di star facendo di tutto una finzione. Senz’altro al lavoro davanti alla persona che ascolto attivamente e che sollecito con domande mirate non sono bella rilassata e svagata e stravaccata: è un mestiere, ma non per questo è rigido. Si parla in questo caso per esempio di attenzione fluttuante’: sto attento a te, ma anche a quello che capita dentro di me mentre parlo con te. Per esempio, trovo il tuo profumo insopportabile op-
pure mi crea disagio quel modo di guardarmi che hai perché mi ricorda, inopinatamente, un mio ex del liceo. E’ importante però io sia consapevole di quel-che-succede, poi ne faccio ciò che ritengo meno peggio. Orchestrare tutto, il dentro e il fuori: ditemi che non è arte. L’istinto e l’impulso, l’abbandono e l’ebbrezza però sono molto sopravvalutati, vanno molto di moda, come se il Logos fosse fascista (Logos = Fallo?). Quindi occorre parlarne. Improvvisare a cazzo e chiamarla arte? E adesso? Dopo che abbiamo in
Laura Ferrari bazzica gli argomenti limite ed è per questo che studia, ama e pratica la filosofia e le psicologie del profondo e va curiosando in diversi, piccoli abissi quotidiani.
Pimienta Negra è una tatuatrice spagnola giramondo e una instancabile disegnatrice
Occidente, noi mediterranei, riflettuto sull’ Arte come techne e poi molto tempo dopo sull’Arte come ispirazione e sublime? ….Nella sola piccola Storia, cosiddetta, poi: e non sappiamo nulla di probabili culture più antiche del cuneiforme nei pressi di Babilonia, perché ricordiamoci che anche Homo Neanderthalensis costruiva oggetti ad arte e per l’arte, tipo un flauto che ho visto al MUDEC di Milano e che mi ha commosso, prova della capacità di pensare in modo simbolico e non solo finalizzato all’utile immediato; flauto che ha ben 55.000 anni, essendo invece l’inizio della scrittura del 3500 a.C. circa, praticamente l’altro ieri… Adesso nella post-contemporaneità forse ci viene in mente il divario tra slancio e controllo. Se in un impeto di furore, o follia, o creatività il gatto mi lacera la tenda, dall’alto al basso, nell’ora terza, difficilmente essa seppur suggestiva potrà esser esposta al MoMa. E se anche io, Homo Sapiens, mi lascio andare alla sentimentale e liberatoria produzione di macchie concitate a schizzo con gli acquarelli su carte pregiate - e poi le posto con finto candore su Fb chiedendo: “Amici cari, cosa ne pensate (faccina)…?” - anche questo difficilmente può intendersi come fatto a regola d’arte: perché appunto io questa arte forse non la posseggo e quello che produco è, ad esser buoni, un manufatto.
Nella stanza d’esercizio trovò però migliaia e migliaia di prove, senza le quali la mano del maestro non sarebbe mai stata in grado di tracciare in pochi secondi, con un gesto veloce, l’esito condensato di tanta fatica e di tanta pratica disciplinata”. Lavare i piatti ad arte? Fare una cosa con grande cura. Nel post-moderno di individui sparsi e isolati, senza più senso del sacro e cornici misteriose di riferimento, prendersi cura dei piccoli gesti è necessario per non impazzire (o, come scrive la Ferrante, “smarginare”): abbiamo tutti enormi aspettative verso la vita, manie di grandezza, smanie di sovraesposizione. Stando molto concentrati nell’attimo presente e riferiti alle sensazioni delle nostre mani con la spugna ed il detersivo, potrebbe stupirci quando sarà benefico lavare i piatti come se fosse un’arte; fare piccinerie fatte bene, fatte con affetto, fatte con cura, fatte ad arte. Per esempio, il prossimo parcheggio o la raccolta differenziata.
Improvvisare ad arte ma dopo aver fatto moltissimo esercizio? Artigianato. Unicità, pezzo unico. Di contro: prodotto in serie. Perché io produca qualcosa di fatto ad arte serve non solo una mia intenzione sostanziale, che nasce da un minimo di ricerca personale e consapevole, ma anche esercizio. Poco di moda. Fatica. Poco di moda. In questo sono molto utili storielle esemplificative che arrivano dall’Oriente, molto più avvezzo di noi a pazientare ed a considerare il beneficio dell’auto-governo e dell’attesa. “Un sovrano chiese al maestro di produrre per lui un perfetto capolavoro calligrafico; il maestro chiese uno spazio e gli strumenti, e si chiuse per settimane e mesi in una stanza. Il sovrano fremeva e si irritava. Quando il maestro fu pronto, usci, prese il pennello e fece ad arte l’opera perfetta. Ma il sovrano chiese per quale motivo aveva dovuto aspettare così tanto: la questione era stata di pochi secondi!
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Siamo fatti anche di stelle
Arte interstellare Rubrica di Davide Sivad Illustrazioni di Marco Zavan
I can get no È davvero possibile Gary? Satisfaction Sì! Dovranno accettarlo. — Sarebbero degli idioti a non accettarlo! Le risate dei due si sovrapposero alla radio e, assieme ai Rolling Stones, riecheggiarono fra le mura del campus. È l’estate del ’65 e la Mariner 4 è appena diventata la prima sonda ad atterrare su un altro pianeta: tutta la facoltà di ingegneria spaziale della Caltech rinuncia volentieri alle spiagge californiane per i propri studi, sognando di lasciare il segno sugli annali astronautici e
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sulla superficie di qualche pianeta. Gary Flandro è alla ricerca di nuove traiettorie per i pianeti più esterni: Giove, Saturno, Urano, Nettuno... Fino ad allora poco più di puntini luminosi nei telescopi. Ma Gary scopre che una volta ogni 175 anni un allineamento planetario crea la strada perfetta per portare una sonda ai confini del sistema solare, facendole sorvolare proprio ai pianeti mai visti. Un viaggio lungo quindicimila volte la distanza fra la Terra e la Luna, ma lungo poche decine d’anni: il Planetary Grand Tour. Due sonde furono costruite per affrontare l’impresa, ma come alimentarle? Come far funzionare fotocamere, antenne, spettrometri e altri strumenti per decenni? Così lontano non arriva nemmeno l’energia del Sole e il freddo cosmico potrebbe distruggere l’impianto elettrico. Vengono costruite delle pile che contenevano la maggior parte del Plutonio 238 allora disponibile
sulla Terra, un isotopo radioattivo il cui decadimento lungo decenni rilascia energia e calore. Pila per gli amici, generatore termoelettrico a radioisotopi per i nemici. È l’estate del ‘77, mentre i cinema vengono riempiti da Star Wars, vengono lanciate le due sonde gemelle si chiamano Voyager 1 e 2 e, arriveranno a Giove meno di due anni dopo scoprendone gli anelli. Per la prima volta vennero fotografati dei vulcani attivi al di fuori della Terra: dalla Luna Io enormi eruzioni sputano l’interno del satellite nello spazio creando una scia di polveri attorno al gigante gassoso. Più di un anno dopo, a velocità mai eguagliate, raggiungeranno Saturno. Qui la Voyager 1 sorvola Titano, il satellite più simile alla Terra, dove però il ciclo dell’acqua è sostituito dal ciclo del metano: piove metano, su ghiacciai di metano che poi si sciolgono in laghi di metano. Il viaggio nel sistema solare della
Voyager 2 prosegue fino all’incontro con Urano nell’86 e Nettuno nell’89, due giganti freddi di cui si è scoperto più nelle poche ore di sorvolo, che in secoli di osservazione daTerra. Urano ha mostrato il suo sistema di anelli e 10 nuovi satelliti a cui,continuando la tradizione inaugurata dall’astronomo inglese William Herschel nel 1787, è stato dato il nome dei protagonisti delle opere di Shakespeare e Pope. Anche Nettuno ha mostrato 6 nuovi satelliti e un tenue sistema di anelli. Ma, come per Urano, fotografare il pianeta non fu facile: la luce solare era troppo fioca e il passaggio troppo veloce per mantenere semplicemente l’obbiettivo aperto. Inoltre la sonda infatti non poteva venir manovrata da Terra: fra l’invio e la ricezione del comando sarebbero passate più di 3 ore. Fu quindi messo appunto un programma di puntamento automatico in grado di ruotare la navicella (progettata e costruita negli stessi anni del floppy disk) mentre scattava le foto. Fino all’incontro con Nettuno il progetto Voyager ha richiesto complessivamente 11 mila anni di lavoro, un terzo del tempo stimato per la costruzione della Grande Piramide di Ghiza, la più grande e antica testimonianza del nostro passato. Credo che chi ha costruito le Voyager sia stato mosso anche dallo spirito che ha mosso i faraoni. Oltre alle fotocamere e agli spettrometri, sulle sonde è stato caricato anche un disco d’oro, un messaggio per chiunque in futuro avrebbe trovato la sonda.
L’involucro è placcato con Uranio 238, un isotopo radioattivo che decade in miliardi di anni, analizzandolo si può scoprire la data di fabbricazione. Su di esso è incisa una mappa di quasar per triangolare la posizione del sistema solare e le istruzioni per leggere il disco. Nel disco immagini, video e suoni della Terra: uomini, animali, panorami, fenomeni atmosferici; saluti in 55 lingue, canzoni e il discorso di Jimmy Carter. L’allora presidente degli stati uniti conclude così il messaggio lanciato nel buio: “Speriamo un giorno, avendo risolto i nostri problemi, di poter entrare a far parte di una comunità galattica. Questo messaggio rappresenta la nostra speranza, la nostra determinazione e la nostra volontà in un vasto e meraviglioso universo”. L’astronomo Carl Sagan (l’uomo che ride nel disco d’oro) ha chiesto che la Voyager 1 si girasse un’ultima volta verso di noi, per scattare una foto ad ogni pianeta. Da 6 miliardi di km la Terra è un pallido puntino blu immerso nel buio cosmico. Fragile e senza significato. Mentre la Voyager 2 si allontana Sistema Solare, la luce del Sole si affievolisce e prima o poi verrà superata dalla stella Sirio. La sonda sta infatti andando nella sua direzione e fra 356 mila anni coprirà gli 8,6 anni luce che ci separano dalla stella, scintillerà di nuovo prima di tornare a tuffarsi nel gelido freddo interstellare.
dovesse succedere al piccolo e fragile puntino blu, un ricordo di noi e del nostro pianeta continuerà a viaggiare nel cosmo.
Davide Sivad è fondatore dei GAM: i Giovani Astrofili Milanesi, organizzano incontri aperti e open air per osservare le stelle, è anche nello staff dell’associazione LOfficina, incaricata delle attività divulgative e didattiche del Planetario di Milano.
Marco Zavan. Sono un agazzo sempre fra le nuvole a cui hanno ripetuto sempre due cose: “come sei alto” e “belli i tuoi disegni”. Cerco di trasferire quello che passa per la mia testa su carta; a volte funziona, a volte no... | www.marcozavan.com | @Marco_sketch
Non sappiamo se questo messaggio in bottiglia verrà mai trovato da qualcuno, ma qualsiasi cosa
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FUMETTO
SCARABOCCHI E BASTA MAICOL E MIRCO E GLI SCARABOCCHI E… BASTA Intervista di Olga Orlandi Scarabocchi di Maicol e Mirco Non conosco Maicol e Mirco, nemmeno le biografie professionali. E nemmeno me ne importa. Mi piacciono gli scarabocchi. Mi piacciono da mo’: ne ho comprato uno diversi anni fa senza saperne un granché, e ho proseguito nella mia ignoranza fino ad ora: serena e beata del rosso e del nero. Quindi devo inventarmi qualcosa che non me li faccia scoprire, soprattutto che mi eviti il dolore di conoscere i loro progetti per il futuro nel caso abbiano intenzione di allontanarsi da quello che fanno. Quindi, sperando di non essere mandata affanculo, di seguito farò solo domande equilibriste per non scoprire nulla di più e insieme per saperne qualcosa… OERRE Maicol e Mirco: ormai è più esotica la “c” della “k” vero? MAeMI Non cadiamo nel volgare con la questione K. OERRE Sono un’ossessiva com-
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pulsiva e anche ortoressica: una novità da parte vostra mi ucciderebbe l’amore per gli scarabocchi. Mentireste per salvarmi la compulsione rassicurandomi che niente sarà di un colore diverso dal rosso o dal nero e che le vignette non diventeranno storie a fumetti? MAeMI Il Papà di Dio (il primo graphic novel de Gli Scarabocchi edito dalla BAO Publishing) è tutto bianco, con linea rossa. Il volume antecedente il suicidio spiegato a mio figlio era invece tutto nero, con linea rossa. In questi due libri, come nelle storie che da gennaio serializziamo su LINUS, sono storie lunghe e super lunghe. Come vedi la realtà è sempre orribile. Meglio il dubbio. Ancor meglio la menzogna. OERRE Qualcuno vi lusinga, è ovvio, e quando succede è un piacere?
MAeMI La biologia ci insegna che tutto ciò che piace all’uomo è una trappola. Ci piace fare l’amore solamente perché altrimenti la razza umana si estinguerebbe. Lo stesso vale per il mangiare. Quindi le lusinghe ci piacciono e nel contempo ci terrorizzano. Chissà quale trappola nascondano. OERRE Se nessuno vi lusingasse fareste comunque quello che fate? Tradotto in un altro modo: siete artisti o artigiani? MAeMI Senza lusinghe faremmo senz’altro di più. Siamo artificieri. OERRE Vi bastate vero? MAeMI Siamo anche in troppi. Forse siamo il doppio. OERRE Ecce Bombo di Moretti: “… no veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci
state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no... ah no: se si balla non vengo. No, no... allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: Michele vieni in là con noi dai. E io: andate, andate, vi raggiungo dopo... Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci Nicola. Voi andate e ve ne state in disparte o non andate per niente? MAeMI Noi veniamo. Ci mettiamo in un angolo a bere e ad appuntarci i vostri comportamenti. Poi tornati a casa vi raccontiamo su carta. E il giorno dopo rivendiamo le vostre storie a voi stessi. Poveri fessi. OERRE Dio vi comprende e vi ama, vi punirà o altro? MAeMI Dio è nei guai. Lasciamolo stare poverino. OERRE Sto facendo domande rivolte a due come se foste uno solo: è scocciante? MAeMI è scocciante il doppio. OERRE Gli umanoidi degli scarabocchi, quando non sono impegnati nelle vignette, che fanno? Si tolgono il cerone e nessuno li riconosce più o come sono ritratti è anche come sono? In altri termini: è una messa in scena o è proprio così. No va beh: non me lo dite, scrivete una filastrocca che vi piaceva da bambini, ricopiate l’ultimo elenco della spesa, giocatevi una comunicazione di servizio… MAeMI Gli umanoidi de gli Scarabocchi quando non sono impegnati in qualcosa non esistono. Smettono di esistere. Proprio come noi. OERRE ci mettiamo un punto? Un punto e di seguito? Un punto e a capo? Un punto interrogativo o uno esclamativo. MAeMI Peggio. Due punti. E spieghiamo l’inspiegabile: OERRE D’accordo: lo so che nelle interviste non manca mai la domanda su gli esordi e quella sul futuro. Ma io non voglio proprio avere sorprese. Allora facciamo così: di seguito scrivete tutti gli URL che vi pare, anche che rimandino alle interviste dove le domande sono quelle che vi meritate e in cui si ficca il naso su cosa è stato e che ne sarà. Io non ci vado, tutti gli altri liberissimi. MAeMI Vi lasciamo con una pubblicità. Ve lo siete meritato http:// www.baopublishing.it/shop/dettaglio/1428-Il_papa_di_Dio Nota per i lettori: inutile specificare perché Maicol e Mirco e gli scarabocchi sono in tema con i segni sul corpo. Se non ci vedete il nesso o li confondete con Staschi e Acc o ancora non ne sapete nulla. Ecco: magari anche no.
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LE STIGMATE DEL CROSSFIT IIntervista a Teresa Caporale di Alessandra Giannini Foto di Lorenzo Manzinello
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SPORTattoo
Teresa ha un copro perfettamente scolpito dal CrossFit, colleziona tatuaggi sul corpo ma soprattutto ha le stigmate sulle mani! Le stigmate, dal greco στίγμα, stigma (marchio) sono un chiaro segno della passione di Teresa per il CrossFit, uno sport per donne (e uomini) dure, che sopportano il dolore e la fatica che amano il proprio corpo, ergo sono spesso molto ben tatuati. Cos’è il CrossFit? Il CrossFit è un programma di allenamento che comprende tre di diverse discipline: il condizionamento metabolico, il famoso cardio per migliorare la capacità aerobica e anaerobica, cardiaca e respiratoria attraverso la corsa, il salto a corda, il vogatore e via dicendo; la ginnastica, il primo step per il rinforzo dei muscoli, coordinazione e precisione utilizzando il proprio peso corporeo: squat, piegamenti sulle braccia (push-up), trazioni (pull-up), fino arrivare ai movimenti più evoluti della ginnastica artistica come le verticali, esercizi agli anelli; il sollevamento pesi finale per migliorare la potenza, la forza e la velocità muscolare utilizzando soprattutto gli esercizi del sollevamento pesi olimpico. Attraverso il CrossFit, quindi, è possibile raggiungere un livello di fitness inteso come salute e benessere di élite, a 360° e man-
tenuto nel tempo, senza l’utilizzo di macchinari, senza code interminabili di attesa agli attrezzi, in un’ora di allenamento! E in più, cosa più importante, si è seguiti sempre costantemente da un trainer certificato, come me.
Ora ho accumulato qualcosa come vent’anni di esperienza nel campo del fitness e non cambierei mai la mia scelta! Ho provato a stare seduta dietro a una scrivania: dopo due mesi mi sono licenziata!
Raccontaci qualcosa di te. Io ho iniziato a fare sport da piccola praticando ginnastica ritmica. La mia passione per lo sport è iniziata da lì! È proseguita poi negli anni praticando svariati sport e frequentando le palestre dove passavo la maggior parte del mio tempo. Così ha vent’anni ho deciso di continuare i miei studi, frequentare la facoltà di scienze motorie, e iniziare a fare il lavoro che ho sempre sognato: insegnare alle persone a stare bene attraverso lo sport e una sana alimentazione. Lavoravo e studiavo, e alla fine ho iniziato il mio percorso tra corsi di gruppo e personal-trainer.
Come ti sei avvicinata a questa disciplina? Ho iniziato a sentir parlare del CrossFit nel 2010 e mi sono subito incuriosita. Ho iniziato a frequentarlo in un box (si chiamano così le palestre di CrossFit), è stato amore a prima vista, così nel 2011 ho preso la certificazione! La cosa che mi ha conquistata immediatamente è stata la capacità di mettermi alla prova. Il CrossFit fa questo ti mette alla prova! Non sei in grado di fare un movimento? Le scelte sono due: o molli o ti alleni per riuscirci. Mi ricordo i primi allenamenti, spesso andavo in spogliatoio con le
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sbarra e agli anelli, per finire poi con i segni sulle gambe dei salti sui box (box-jump). Diciamo che questi sono i segni che permettono a un vero crossfitter di farsi riconoscere! Ho visto che ci sono tante donne che frequentano i tuoi corsi, si può dire che sia uno sport femminile? Sì, e ne sono molto contenta. Negli ultimi anni per fortuna le donne stanno capendo che diventare forti non è anti femminile, anzi! Il CrossFit aumenta oltre la forza muscolare anche l’autostima, la sicurezza di noi stesse, ci rende capaci di fare le stesse cose che fanno gli uomini perché i movimenti sono gli stessi uguali per tutti senza distinzione. Vorrei che tutte le donne lo capissero e che non avessero problemi nel gestire i carichi anche elevati su un bilanciere. Non si diventa grosse così facilmente (e aggiungerei: purtroppo). Per dirla tutta un sedere sodo si raggiunge attraverso un bilanciere carico e degli squat! Non ti dico per tutto il resto del corpo…
CrossFit Avanguardia Viale Lombardia, 23 Milano Mail info@crossfitavanguardia.com
lacrime agli occhi! Ma poi i giorni in cui dopo ore e ore di allenamento riuscivo finalmente a tirarmi su o ad aggiungere qualche chilo al bilanciere era una festa. Sì, perché il CrossFit è anche amicizia. Ho conosciuto veramente tante persone stupende grazie questo sport! Ho visto che questo sport, oltre a tanti benefici, lascia anche qualche segno: le stigmate del CrossFit? Ahahah! Ebbene sì, le stigmate del CrossFit: lividi causati dall’appoggio del bilanciere su spalle e cosce, mani aperte dagli esercizi di ginnastica alla
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Sopportazione del dolore nel CrossFit come nel tatuaggio, esiste un parallelismo? Questa è una bella domanda! Il più delle volte mentre sto affrontando un wod (workout of the day) magari molto lungo e impegnativo mi rendo conto che è una sorta di condizione mentale molto simile a quello che sento mentre mi tatuo. Preparare la mente e il corpo a dover sopportare della fatica e del dolore per un tempo abbastanza prolungato, chiaramente il tatuaggio supera tutti i tempi di qualsiasi work-out, però la situazione fisica mentale è molto simile. La cosa preoccupante è che mi piace! Sentire il corpo che lavora e che fa fatica durante un allenamento è, passami il termine, piacevole! Ti fa sentire vivo, ti dà energia. Mentre ti tatui, sentire gli aghi sulla tua pelle, non dico che sia piacevole perché direi una enorme bugia, però è soddisfacente! È un dolore che sei pronto ad affrontare e sopportare perché è quello che vuoi, se sei disposta a farlo non importa quanto possa far male. Succede la stessa cosa nell’allenamento. Pretendi qualcosa dal tuo corpo, un obiettivo, un punteggio, 1 kg in più sul bilanciere e non importa quanto possa impedirti di camminare o alzare le braccia il gior-
no dopo, è il tuo obiettivo è quello che vuoi da te stesso. Convinci nostri lettori scrivessi un corso di CrossFit. Se a oggi non vi siete ancora stancati di andare in sala pesi a fare la scheda di tre mesi fa, direi che non ci siamo, eh! Perché le persone dovrebbero fare una lezione di CrossFit o praticare questo sport? Semplice perché è utile. Al vostro corpo per allenarlo come dovrebbe essere allenato. Alla vostra mente per non annoiarvi e stimolare le vostra capacità. È al vostro tempo perché non si vive solo di palestra e quindi non è possibile spendere sempre più di un’ora al giorno per allenarsi in modo completo e soprattutto efficace! E poi soprattutto perché ci si diverte, e anche tanto! Il tuo primo tatuaggio? Sul piede. Il tatuatore non voleva crederci che fosse il mio primo tatuaggio e mi chiese: ma sei sicura che vuoi farlo proprio sul collo del piede? Ed io tranquillamente che rispondevo: sì. Dai, mi farà mica male?! E comunque non mi importa. Ho avuto il piede gonfio per una settimana e stavo morendo dal male mentre lo faceva. Il tuo prossimo tatuaggio? Il prossimo? Nella mia testa ce ne sono almeno cinque o sei. A molte idee e ancora un bel po’ di spazio. Cosa ne pensi della leggenda dell’ultimo tatuaggio? Non esiste. Ahahaha! Credo che semplicemente a volte ci si fermi per un po’. Tatuarsi significa scrivere qualcosa di noi stessi su noi stessi. Delle pause sono lecite e giuste, si raccolgono le idee a seconda di quello che stiamo vivendo, delle cose che affrontiamo e poi se ci va andiamo in studio. È una conseguenza della nostra vita, una continuazione. Proprio per questo una persona che ama i tatuaggi, e questa forma d’arte, non potrà mai dire: questo è l’ultimo
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Gnam
Le ricette di Cecilia Granata
Pasta ALLA Norma VEGAN x 2 persone 160-180 grammi di rigatoni 1 piccola melanzana 1 spicchio d’aglio Sale 1 pizzico di zucchero 4 grossi pomodori ramati ( o una lattina di passata di pomodoro buona) Qualche foglia di basilico fresco Olio extra vergine di oliva Ricotta salata vegan per guarnire* (da preparare una settimana prima) Tagliate le melanzane a fette di circa mezzo centimetro. Adagiatele nello scolapasta, salatele e appoggiatevi sopra qualcosa di pesante perche’ perdano acqua (circa mezzora). Trascorsi i 30 minuti, sciacquatele e asciugate fetta per fetta. Scottate nel frattempo i pomodori in acqua bollente, pelateli e preparate un sugo con l’aglio soffritto. Aggiungete il pizzico di zucchero per eliminare l’acidità del pomodoro. Infarinate leggermente le melanzane e friggetele in abbondande olio extravergine mentre cuocete la pasta. Asciugatele dell’olio in eccesso e salatele. Quando la pasta è pronta, spadellatela col sugo. Versatela nei piatti e adagiate in cima qualche fetta di melanzana e il basilico. Cospargete di ricotta grattugiata e servite.
Ricotta salata: 1 lt latte di soia non dolcificato 4 cucchiai di aceto di mele (da unire in una tazzina per versarli poi in un colpo solo) 1 pizzico di sale 2 cucchiai di panna da cucina vegan 2 cucchiai di sale Portate il latte a bollore. Appena bolle, versate l’aceto, mescolate con un cucchiaio di legno, coprite e lasciate riposare per 15 minuti. Adagiate un canovaccio per preparare il formaggio (è una sorta di garza) su uno scolapasta e lasciate scolare per almeno un’oretta. Aggiungete un pizzico di sale e la panna di soia, travasate in una formina per ricotta (chiedete a un amico/parente mangiatore di formaggi di conservarne una o potete trovarle online per pochi euro). Adagiate la formina in un contenitore alto in modo da incastrare i bordi per far sì che possa continuare a scolare il siero in eccesso e mettete in frigo per 1 o 2 giorni. Quand’è pronta, mettetela in una coppetta, pressatela bene e ribaltatela su un piatto. Cospargetela di sale sui lati e in alto e lasciatela altri 3 giorni in frigo. Infornatela poi a per 30 minuti. Lasciatela raffreddare e sarà pronta per essere grattugiata.
Cecilia Granata Cecilia nasce a Verona nel 1983. Dopo un’adolescenza Milanese, si trasferisce a NY. Nel 2009 a Milano si avvicina all’arte del tatuaggio diventando parte del team di artisti del Primordial Pain. Stordita improvvisamente dall’amore si sposa e trasferisce in California nel 2013, dove si divide tra l’Illustrazione e il tatuaggio al Sacred Rose Tattoo di Berkeley.
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La posta dell’hard+ Risponde Olga (Oerre) Orlandi
Buongiorno cara Olga, la mia storia d’amore è iniziata in modo confuso: io ero fidanzata e fedelissima e lui che era stato abbandonato cercava le coccole. Io sono stata lasciata e cercavo le coccole più di lui, e dopo lui è andato via mille volte, è tornato altre mille, c’era la sua ex che tornava, le sue paure che lo soffocavano e io che non capivo nulla, andavo via e facevo le mie cose senza dare fastidio. Dopo più di un anno, siamo diventati una coppia, a volte le paure tornano e soprattutto torna la sua ex che durante i suoi concerti gli balla di fronte con i suoi cento chili forse sto esagerando: saranno novanta. E io che sono poco più alta di un metro la guardo basita facendomi venire il fegato amaro e forse un’ulcera. Ovviamente lui mi dice: ma fregatene! E mi chiedevo dove trovo il pulsante: fregatene? Un caro saluto, da una nanetta
Una Pigmea Innanzitutto se vuoi restare anonima vedi d’intestare ad OERRE come dovrebbe esserti noto che è in uso per la Posta dell’Hard Core. A noi dunque. Falla subito finita con questa storia del nanismo. Non sei certo indifesa per via dell’altezza e ti spiana la strada una parata di lillipuziani illustri e di successo: l’intrepido Willow, il giudice livoroso di De Andrè, Kylie Minogue in costume da majorette, Hoffman brandendo l’oscar, Petrucciani con il pianoforte a tracolla e un harem di mogli e concubine adoranti a fargli il codazzo... ma questo lo sai benissimo anche tu. Anzi furbetta piagnucolona: è chiarissimo che qui non fai altro che infierire su una povera budriona che si umilia ad esagitarsi come un grizzly al guinzaglio del suo orsante. Infine... lui ti dice “fregatene”.
Dunque le domande legittime toccano a me. Cosa sei: esibizionista? Allora scrivi a Barbara Alberti: i suoi insulti li leggono in tanti di più dei miei; o sei malvagia? Non solo hai fregato il fidanzato alla sciantosa over size, ma t’avessi confezionato una risposta incoraggiante scommetto che eri pronta a postarla per compiacerti dei “mi piace” solidali. L’unica cosa intrigante sono gli indizi della stravaganza di lui che sta passando in rassegna le taglie estreme dalla tre volte XL modello USA, alla EXTRA SMALL pigmea. Se fossi in te, nella tenzone d’amore, piuttosto che dalla sorella del Colosso di Rodi che ormai è già stata depennata dalla lista dei desideri erotici, mi guarderei le spalle dalle grandi obese e dalle anoressiche. Stammi bene se sei capace. OERRE
Per STIGMAZINE partecipo principalmente con la mia metà sinistra: il mio lato guasto. Quello dell’acufene, dell’orecchio pinzato, del mignolo a scatto, della gamba pigra. Per il resto mi limito a cercare di non vivere nello stato orribile di quieta disperazione*, a costo di essere sempre assonnata, precaria, ortoressica, senza patria, senza dio, senza capelli e senza unghie. Per il resto di quel che resta ho due sole convinzioni: per me, basta che funzioni* e poi ritengo che hanno tutti ragione*. NOTE *quieta disperazione è di Thoreau *basta che funzioni come il film di Allen *hanno tutti ragione: così s’intitola un libro di Sorrentino
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