Elogio del rischio

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Marino De Crescente (a cura di)

Elogio del rischio Oltre la psichiatria difensiva verso la responsabilità democratica nella comunità

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Marino De Crescente ha conseguito un Master of Arts in psychoanalitic observational studies presso la University of East London-Tavistock Clinic. È stato tra i fondatori dell’ISAP (Istituto Studi Avanzati in Psicoanalisi), dell’Associazione Françoise Doltò e dell’INDTC (International Network of Democratic Therapeutic Communities) di cui è vicepresidente. Da trent’anni lavora all’interno delle comunità terapeutiche, attualmente è responsabile per il centro Italia delle comunità per adulti e del progetto Visiting adulti centro Italia dell’Associazione Mito e Realtà. È promotore del Network Psychosocial Green Care Italia. Con Alpes ha già pubblicato La politica delle comunità terapeutiche, 2011; La Paura, la noia, la rabbia, 2017; Le dimensioni della perversione, della manipolazione e del controllo, 2018, Leaders e Followers, 2019.

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INDICE Prefazione a cura di Marino De Crescente......................................................

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Introduzione Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio? Patologie gravi e comunità terapeutiche di Ugo Corino.......................................................................................................

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1 Elogio del rischio. Oltre la psichiatria difensiva verso la responsabilità

democratica in Comunità – Omaggio a Marcel Sassolas (Montefiascone, 2/11/19) di Andrea Lorenzo Michelozzi (Comunità Gruppo Incontro)............................. 1

2 Il Paziente con provvedimenti giudiziari: tra intervento terapeutico,

gestione e responsabilità di Roberto Quintiliani, Antonino Serio (Comunità Rêverie)...............................

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3 La comunità è partecipazione: la costruzione del progetto terapeutico

di Alessandro Cerutti (Comunità Il Porto)........................................................ 27

4 Assumersi il rischio in proprio, la fragilità antropologica della condizione post-umana di Luciano Moro (Comunità Pra Ellera)........................................................... 41

5 Elogio del rischio: un caso clinico

di Francesca Margheriti, Bruno Pinkus, Federico Rondano, Pierluigi Scarciglia, Federica Semeraro, Lorenzo Vecchi (Comunità Gnosis)...................................... 59

6 Elogio del Rischio

di Fabrizio Proietti Gaffi (Comunità Lahuen)..................................................

7 Il rischio è rappresentazione delle angosce primordiali

di DSM USL Umbria 1, Comunità il Borgo, Comunità Il Poggio.....................

8 Il caso di P. Breve viaggio nel rischio

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di Irene de Vivo (Comunità Persefone).............................................................. 91

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Prefazione Marino De Crescente

Elogio del rischio è il titolo di un seminario di Marcel Sassolas che ha avuto un certo successo in Francia circa due decenni fa. È stato anche il titolo della seconda edizione della versione italiana del medesimo seminario tenutasi nel 2005 a palazzo Altemps a Roma con l’associazione ATiC diretta da Enrico Pedriali, che vide la partecipazione dello stesso Sassolas, e della cui organizzazione fui io stesso a occuparmi. Marcel Sassolas è una figura importante per la psichiatria italiana perché insieme a pochi altri ha costituito un confronto continuo tra le ricerche sulle comunità terapeutiche a orientamento psicodinamico francesi e quelle italiane. L’ottava giornata di studio degli incontri di Montefiascone, da cui questo volume trae origine, è senz’altro dedicata alla sua figura e al suo lavoro, ha quindi, ad un anno dalla sua scomparsa, un indubbio valore commemorativo, ma allo stesso tempo vuole ribadire l’attualità della tematica presa in esame, ovvero l’assunzione del rischio in psichiatria. Se infatti è vero che il tema del rischio risultava attuale nella giornata di studio con Sassolas del 2005, poiché nasceva dalla consapevolezza della totale mancanza di idee innovative nell’ambito della residenzialità terapeutica e più in generale della psichiatria, ciò risulta altrettanto vero oggi, 15 anni dopo. Non basta infatti riferirsi al ripetuto mantra della Recovery, della Psicoanalisi Multifamiliare, o del Dialogo Aperto che di sicuro sono pratiche importanti ma che però non possono definirsi davvero innovative perché hanno ormai tutte alcuni decenni alle spalle (anche se di recente introduzione in Italia) e perché non sembrano per ora avere una diffusione e un impatto importante sulla cultura delle istituzioni della salute mentale italiana. Inoltre basta osservare lo stato dei servizi in Italia per verificare, senza timore di smentita, che il cambiamento veramente innovativo, la legge 180, dopo 40 anni, in realtà, è stata applicata pienamente solo in sparute e isolate esperienze ma non è stata mai realizzata a livello nazionale. Alla luce di questa considerazione, quelle teorie nuove in Italia, se non applicate su tutto il territorio nazionale, sembrano poter costituire tuttalpiù delle gattopardesche ideologie di ricambio: bisogna che tutto cambi perché nulla cambi. Rispetto a queste inadempienze, ci troviamo infatti oggi sempre più di fronte ad una diffusa e difensiva burocratizzazione, fatta di protocolli e line guida, obblighi di misurabilità e criteri evidence based V


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che sono propri della cultura aziendale e che sempre di più mortificano gli sforzi di tenere in piedi le qualità empatiche e di ascolto delle organizzazioni dei servizi di salute mentale, comunità terapeutiche comprese. Occorre inoltre fare preliminarmente una breve digressione su come il rischio viene percepito in un’epoca che lo ha bandito come fattore di scoperta di conoscenza e di cambiamento. Questa criticità è legata, comprensibilmente, alla percezione di un’incertezza sociale che precedentemente si era verificata nella storia solo contiguamente all’inizio dei conflitti bellici e che invece oggi attanaglia le coscienze con quel sentimento di paura diffusa che il sociologo Z. Bauman ha ben descritto e definito come “paura liquida”. Ma se alla paura dell’incerto che il rischio sempre comporta viene contrapposto il principio di precauzione che dà la percezione di contenere o addirittura di annullare ogni rischio, di qualsiasi genere esso sia, lo strumento che invariabilmente viene utilizzato troppo spesso, soprattutto nelle comunità terapeutiche, è quello del controllo: controllo del percorso di cura con metodi iperstandardizzati, controllo delle relazioni personali e mancanza di spontaneità, controllo del processo terapeutico fantasticato come lineare e continuo. Cultura del controllo che, come mostrano innumerevoli ricerche è diametralmente opposta a quella dell’autodeterminazione e dell’autogoverno, derivante direttamente dalla cultura e matrice originaria e democratica delle comunità terapeutiche, fatta di tolleranza e partecipazione e quindi di capacità legate all’ assunzione di rischi e responsabilità. Ma a riguardo del rischio leggiamo ciò che scriveva Sassolas nel 2004: “In psichiatria assumersi dei rischi significa osare, avere il coraggio di esprimere su questa o quella pratica di cura un giudizio che potrebbe dispiacere, di rimettere in discussione certe idee acquisite, di utilizzare la propria esperienza e la propria capacità riflessiva per creare nuovi strumenti di cura, nuove metodologie, non necessariamente condivise” (Sassolas 2004).

È utile quindi anche riflettere, all’interno delle istituzioni, ed in particolare delle comunità terapeutiche, su chi detiene l’autorità e il potere di trasmettere una cultura che preveda l’assunzione del rischio e del cambiamento. Il Leader o la Leadership quando questa assume una forma diffusa, ha senz’altro grandi responsabilità nella creazione o non creazione di una cultura volta al cambiamento che sappia gestire il rischio che questo sempre comporta. Le istituzioni, e le comunità terapeutiche, essendo costituite da individui, possono essere considerate degli organismi vitali e quindi per soprav-

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Prefazione vivere devono essere disposte al cambiamento e all’assunzione dei rischi necessari ad una necessaria e inevitabile evoluzione. Ma troppo spesso il rischio viene considerato nel mondo delle comunità terapeutiche del privato sociale nella sola accezione di rischio imprenditoriale e non come rischio clinico, la cui ponderazione naturalmente è del tutto diversa. Nel privato speculativo (per esempio quello delle pur necessarie cliniche private) si tende ad una equivalenza dei due rischi per cui l’esito di un annullamento del rischio (il controllo totale) può essere spesso quello della creazione della dinamica della porta girevole e in assenza di un intervento continuativo ed efficace, della cronicizzazione. Nelle comunità terapeutiche il rischio più grande è invece quello dell’istituzionalizzazione, ovvero della permanenza per periodi estremamente lunghi o illimitati, dei pazienti nei programmi di comunità che non prevedono più alcun rischio e quindi nessun cambiamento, anche perché i pazienti parzialmente stabilizzati che trovano nella comunità la loro zona di comfort, al riparo da ogni ansia evolutiva, e senza eccessive turbolenze, alimentano cosi, in modo proficuo, l’economia generale della struttura. È il caso di quei pazienti che vivono in comunità da decenni ma che potevano essere dimessi, come altri, dopo pochi anni, a cambiamenti avvenuti, ed invece permangono sine die nella stagnazione delle medesime strutture prive di progetti e di idee innovative. Sono proprio queste comunità, che incapaci di promuovere innovazione, drenano risorse dai già esigui fondi per la salute mentale creando diseconomie che non è più oggi possibile giustificare, alimentando così una critica verso tutta la cultura delle comunità terapeutiche, comprese le numerose più attente e virtuose. Le riflessioni contenute in questo libro, a cura delle strutture che gravitano intorno all’associazione Mito&Realtà, vogliono dimostrare il contrario, ovvero che esse sono disponibili ad assumersi il rischio dell’evoluzione che è necessaria affinché ogni struttura terapeutica sia veramente dinamica, aperta alla ricerca e all’innovazione continua.

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Introduzione Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio? Patologie gravi e comunità terapeutiche di Ugo Corino1

Premessa

Elogio del rischio era il titolo di uno dei cicli di formazione che Marcel Sassolas e il suo gruppo di Santé Mentale & Communautés organizzavano a Villeurbanne (Lione) ogni due anni. Eravamo ormai nella parte discendente di quell’iniziativa (2004)2: nata infatti negli anni ’80 del secolo scorso, avrebbe visto la sua conclusione nel 2012. Erano mediamente tre giornate di incontri, focalizzate su un tema centrale e articolate attraverso una serie di interventi, testimonianze, relazioni, tavole rotonde, con approcci ed esperienze differenti, intervallati da spazi di dibattito e confronto serrati. Erano giornate di grande interesse; costituiva un vero piacere ogni due anni scambiare esperienze, conoscenze e saperi. Vi partecipavano molti operatori (200-300) dell’area socio-sanitaria: psichiatri, psicologi, psicoanalisti, sociologi, antropologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali, infermieri ecc. Si trattava di un mondo variegato di esperienze, appartenenze e professionalità. Iniziai a prendervi parte verso fine anni ’90 dopo aver letto “La psychose à rebrousse-poil”3, potendo in quell’occasione visitare le strutture comunitarie della loro Associazione, conoscere il gruppo dei responsabili, gli operatori, il metodo e lo stile di lavoro. Ne nacque una ventennale collaborazione con Marcel Sassolas, fatta di scambi professionali, di conduzioni di cicli di formazione, periodiche 1 Psicoterapeuta e Psicosociologo clinico. È stato: Presidente del Laboratorio di GruppoAnalisi; e vice presidente dell'Eatga (European Ass. for Transcultural Group Analysis); co-fondatore e Resp. dei Work shop della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Coirag (Conf. di Org. Italiane per la Ricerca Analitica sui Gruppi). Membro ASP (Ass. Studi Psicoanalitici Milano). Insegna presso le Scuole di Specializzazione SPP di Torino e Coirag di Roma e Palermo. Lavora privatamente come psicoterapeuta, formatore-didatta e supervisore in ambito Sanitario e Socio Assistenziale (Reparti ospedalieri; DSM; Sert; Comunità terapeutiche e Cooperative Sociali) - corino.ugo@gmail.com 2 Cours / Techniques de soin en psychiatrie de secteur (https://www.smc.asso.fr/formations.php) 3 Ed. Érès, Toulouse 1997 (tr. it. Terapia della psicosi, Borla, Roma, 2004 – in realtà nell’originale francese il titolo era: La psicosi in contropelo).

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supervisioni congiunte, la stesura di un libro frutto di un lavoro comune4. Una relazione professionale ed amicale significativa. Devo a Marcel molto del mio lavoro con i pazienti gravi e con le Comunità terapeutiche: prendo con piacere parte a questo incontro organizzato non solo in sua memoria ma, come spero, volto ad un riesame del suo lavoro. L’elogio del rischio, in perfetta sintonia con l’approccio in contropelo alla psicosi, è uno dei molteplici elementi che caratterizzano il lavoro clinico e istituzionale che, nel corso di lunghi anni, Marcel Sassolas ha perfezionato e perseguito e che il suo ultimo libro uscito postumo5 mette bene in risalto. Una clinica rigorosa, che affronta il lavoro con lo psicotico ponendo al centro il piacere e il dolore del pensare: “definirei […] la psicosi come un macchinario difensivo nel quale si esaurisce tutta l’energia psichica di coloro che rifiutano di esistere, perché esistere significa riconoscersi come separati, esiliati per sempre dalla pienezza del narcisismo primario. […] La psicosi rappresenta il rifiuto di vivere questo esilio, il rifiuto di esistere, di avere un’identità definita, per non dover soffrire la tortura quotidiana della separazione, sia dal bambino meraviglioso che tutti siamo stati (per riprendere la bella espressione di Serge Leclaire) che dalla madre narcisistica depositaria di questa perfezione perduta”6.

Partendo da sé stesso, dalle proprie riflessioni personali e professionali sul senso della vita, sul proprio essere nel mondo (proponendoci sia come persone, sia come curanti di fare altrettanto) Sassolas individuava come centrali quattro grossi temi del vivere: • in merito ai propri desideri e i propri affetti, riconoscerli ed assumerli al posto di distruggerli, negarli o espellerli da sé (proiettandoli all’esterno); • accettare la propria finitudine e incompletezza al posto di bearsi di una illusione di onnipotenza; • vivere entro rapporti precari e imperfetti al posto di serrarsi in una solitudine desertica e fantasmatica; • avere consapevolezza della propria morte al posto di fuggirla impedendosi di vivere. Se questi erano e sono i punti forti del suo (e del nostro) essere nel mondo, del rapporto con gli altri e con sé stessi, lo debbono essere altrettanto nel lavoro in psichiatra e nel confronto con la psicosi. Ecco infatti come Sassolas indirizzava la sua pratica: 4 Corino U., Sassolas M., Cura psichica e comunità terapeutica. Esperienze di supervisione, Borla, Roma 2010. 5 Sassolas M., Le stylo du psychiatre. Plaidoyer pour une psychiatrie relationelle, ed. Érès,Toulouse, 2020. 6 Sassolas M., Terapia della psicosi, Borla, Roma, p. 29.

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

“È in funzione di queste preferenze personali che io oriento la mia azione terapeutica, è in funzione di queste che posso o meno considerarmi efficace. Ma poiché considero questi non come imperativi morali o delle verità scientifiche ai quali il paziente deve sottomettersi, ma come semplici scelte personali, sono pronto ad accettare che i miei interlocutori non le condividano”7.

Marcel ci ricordava come i soggetti che “scelgono” la psicosi, al posto di accettare la tristezza, o la rabbia o, ancora, sperimentare l’impotenza preferiscano delirare; che al posto delle relazioni parziali e contingenti preferiscano quella immortale con il loro dio; che creino una immagine illusoria di sé, meravigliosa e perfetta, al posto di una mediocre, frutto del confronto con il reale; oppure ancora, che rompano il contatto relazionale nel momento in cui ne provano un più forte desiderio; che uccidano il proprio spirito o attacchino il proprio corpo, nella speranza di spegnere l’angoscia incessante della morte. Se questo è quello che ci propone la psicosi, ne consegue che: “Il mio lavoro di psichiatra si collocherà all’interno di questo confronto quotidiano, accettato e continuamente verbalizzato, tra due modalità di funzionamento mentale: il mio e quello del paziente. Confronto che, in realtà si muove su di uno stretto margine di tolleranza, a volte di scontro, poiché ciò che il paziente detesta più di altra cosa, è proprio che il confronto sia verbalizzato, che sia designato e nominato ciò che lui non vuole sapere né vedere. Questo modo consente un margine di libertà, nel quale non si tratta di convertire né di sottomettere l’altro, ma solamente di fornirgli l’occasione di confrontarsi con un funzionamento mentale diverso dal suo: il mio. Si potrebbe obiettare che lo stesso tipo di confronto, il paziente lo vive di continuo nel suo incontro con gli interlocutori della vita quotidiana. Ma ciò è vero solo in apparenza. In quest’ultimo caso, infatti, non si tratta di confronto ma di una coabitazione vissuta come un semplice evento privo di senso ed esterno a sé stesso: loro sono in un modo io in un altro. Nella situazione terapeutica la differenza di atteggiamento di fronte allo stesso evento non solamente è accettata, ma viene definita come differenza e viene interrogata sul suo eventuale significato”8.

Possiamo qui notare l’orientamento fortemente confrontativo, una sorta di battaglia alla psicosi (e non al paziente), una funzione paterna autorevole, individuativa, separante; un investimento nei confronti dell’altro 7 Ibidem. p. 40. 8 Ibidem p.40.

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tutt’altro che astinente, certo non intrusivo, ma carico di intenzionamenti e di “engagement”. Non possiamo parlare di una psichiatria ideologica ma di una psichiatria, se non militante, sicuramente impegnata, quindi una psichiatria che si assume il rischio di una lotta contro la psicosi. E non può esserci cura, come non può esserci vita, esperienza, senza rischio! Tempo fa, in un altro contesto, avevamo molto lavorato sul rapporto tra valutazione del pericolo ed assunzione del rischio.

Elogio del rischio nella cura psichiatrica Ecco cosa, nell’introduzione al convegno del 2004 e al successivo libro (editato nel 2006), Marcel Sassolas evidenziava in merito all’Elogio del rischio: “Oggi, il discorso della maggior parte dei professionisti della psichiatria è solo una lunga lamentela. Da tutte le parti sorgono gemiti da cui emergono i termini: disagio, sofferenza, crisi, disordine, stallo. Vengono invocate molte ragioni per giustificare questa oscurità: stagnazione del bilancio, esplosione della domanda, carenza di professionisti, disintegrazione del tessuto sociale, requisiti dell’amministrazione, diluizione della risposta psichiatrica, l’emergere di nuove patologie... Certamente ognuno di questi fattori deve essere preso in considerazione, ma possiamo spiegare questo clima solo con questi elementi oggettivi? In altri periodi storici, le condizioni materiali dell’esercizio psichiatrico non erano migliori! Ciò che differisce è la percezione soggettiva dei curanti, il loro modo di reagire di fronte ai limiti e agli ostacoli che la realtà frappone, come sempre, al loro desiderio di cura. Di fronte a questa opaca resistenza alla realtà, sono possibili due atteggiamenti mentali: il rassegnato e lamentoso scoraggiamento, o il confronto con questo reale. Ma affrontare la realtà è correre dei rischi, un atteggiamento che oggi non è più culturalmente corretto. Il principio di precauzione ha gradualmente conquistato tutti i settori della nostra vita sociale. Questo lavoro vuole lodare il rischio, vale a dire offrire riflessioni sul significato psichico di questa attitudine umana, sui processi consci e inconsci che mobilita, il suo posto in qualsiasi strategia antidepressiva, la sua utilità soggettiva e sociale. Esplorare i limiti, gli effetti della sua carenza (erosione di qualsiasi iniziativa, auto-squalifica, imbarazzo dimissioni) e le conseguenze dei suoi eccessi (atteggiamenti eroici, messa in pericolo di sé stessi o di altri).

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

Costituire un forum aperto a coloro che, nel panorama grigiastro della psichiatria attuale, corrono il rischio di innovare con pratiche diverse, originali, persino devianti, a condizione che siano basate su una solida riflessione e un obiettivo chiaramente dichiarato”9.

Altri tempi. Forse M. Sassolas come F. Basaglia staranno “rivoltandosi nelle loro tombe”: il primo in rapporto a questo incontro, il secondo dopo i festeggiamenti per i 40 anni dalla legge che porta il suo nome (Legge 180 del 1978, cosiddetta legge Basaglia). Cosa è (e ci è) successo? Quali i cambiamenti strutturali economico-organizzativi e culturali hanno ucciso il piacere di pensare non solo per lo psicotico?

Fatta la legge “trovato l’inganno”? È questa una vecchia espressione popolare, un po’ semplicistica e pressapochista anche se spesso portatrice di verità basiche. Sull’onda della deistituzionalizzazione nacquero le prime cooperative sociali. Esse impiegavano ex degenti dell’ospedale psichiatrico assolvendo ad un processo di risocializzazione e di reinserimento sociale dei pazienti. Era questa l’epoca che potremmo definire della psichiatria militante, dell’investimento non solo di risorse ma anche di energie, di sperimentazioni, di ricerca in cui, in un clima di grande fermento, si attivarono nuovi e altri tentativi di cura del disturbo psichico (dal lavoro nel territorio, alla psichiatria di comunità ecc.). Siamo negli anni ’70 del secolo scorso, periodo di rilevanti conquiste sociali, in cui videro la luce la Legge 180 e la riforma sanitaria, lo statuto dei lavoratori, il femminismo, la riforma del diritto di famiglia, solo per citarne alcune. Dal 1965 al 1985 assistemmo in Italia ad un rapido cambiamento economico, sociale e culturale radicale (una mutazione antropologica?) in modo più marcato rispetto ad altri paesi occidentali: eravamo anche, dal punto di vista socio-culturale, più arretrati. La rigidità normativa, la forte sindacalizzazione, i costi elevati favorirono la nascita di quello che oggi è il terzo settore, ossia una esternalizzazione di aree del Servizio Sanitario Nazionale e della psichiatria data in convenzione o in appalto alle cooperative sociali o al privato convenzionato. Per quanto riguarda la realtà italiana e l’ambito socio-sanitario, una parte della psichiatria (dai Centri Diurni alle Comunità Terapeutiche), cosi 9 Sassolas M., (sous direction) L’eloge du risque dans le soin psychiatrique, ed. érès, Ramonville-Saint-Agne. 2006. (dal quarto di copertina).

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come la disabilità, le malattie organiche croniche, gli anziani e, più recentemente, i migranti vennero poco a poco dismesse dal Servizio pubblico. Potremmo dire che sull’onda dell’esternalizzazione dei pazienti (reinserimento sociale degli ex degenti O.P.) iniziò l’esternalizzazione dei Servizi? Già Franco Fasolo in tempi non sospetti (anni ‘90) ci metteva in guardia dalla illusione che si fosse radicata nelle nostre strutture una psichiatria che guardasse al sociale nella cura del mentale: parlava infatti di “terricomio” ricordandoci che la lotta ai manicomi era partita dall’interno degli stessi e non dal territorio, conseguentemente l’approccio alla malattia mentale rimaneva ospedalocentrico10.

Una delle leggi più evolute e una psichiatria sempre meno… L’Italia, come ben sappiamo, può vantare una serie di leggi fortemente innovative e al tempo stesso disattese o mal applicate. La 180 è sicuramente tra queste: oltre ad essere stata mal finanziata e ai grossi ritardi nella creazione delle strutture territoriali, soprattutto di quelle intermedie (centri diurni, comunità terapeutiche, gruppi appartamento ecc.), non fu sufficientemente supportata da una adeguata riconversione-formazione del personale. Un cambiamento troppo rapido e radicale non sufficientemente processualizzato o assimilato: quello che era uscito dalla porta è lentamente rientrato dalla finestra? Manca una riflessione sufficientemente distaccata su questi 50 anni di storia del nostro paese e della rivoluzione psichiatrica11. Troppe lotte ideologiche all’interno della psichiatria tra “basagliani ed anti basagliani”, tra un’antipsichiatria un po’ troppo settaria e una riabilitazione fondamentalmente centrata su processi di adattamento socio-abitativo, non hanno permesso un sufficiente sviluppo di una vera psichiatria di territorio e comunitaria. Le Facoltà di Psichiatria, senza grossi ricambi, hanno ripreso a poco a poco il loro potere (sono anzi state rinvigorite dal loro inserimento negli ospedali generali e quindi nel gotha della medicina), riproponendo con ancor più vigore l’approccio biologistico e facendo della farmacoterapia uno dei loro punti forti. Le neonate Facoltà di Psicologia, dopo una prima fase ad orientamento psicodinamico, hanno preferito posizionarsi su campi limitrofi (cognitivismo, sistemica ecc.). 10 Fasolo F., Gruppi che curano & gruppi che guariscono, La Garangola, Padova, 2002. 11 Dalla metà degli anni Sessanta ad oggi (forse in analogia al fascismo, mi verrebbe da dire).

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

Anche l’apporto della psicoanalisi, dopo un primo momento di coinvolgimento e infatuazione, non è riuscito più di tanto ad incidere e ha finito per ritirarsi negli studi privati e nelle psicoterapie per patologie meno gravi. Che cosa dire poi degli Ordini Professionali? Non hanno a mio parere affrontato il tema del mentale nella prospettiva della psicosi e delle malattie gravi, finendo con orientarsi prevalentemente verso una psicologia del benessere e nella estensione dei suoi campi applicativi (malattie organiche croniche ecc.). Se questo è lo sfondo, vediamo ora nello specifico le criticità per cercarne – se possibile – alcuni antidoti. Organizzazione e strutture vecchie Dopo 40 anni dalla riforma abbiamo oggi una organizzazione della cura psichiatrica ancora attuale? L’articolazione dei Servizi è ancora funzionale alle esigenze di una società che nel frattempo ha subito profonde trasformazioni? I Centri di Salute Mentale, i Centri Diurni, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) Ospedalieri, le Comunità Terapeutiche, i Gruppi Appartamento ecc. rispondono ancora alle funzioni per cui erano stati concepiti ed istituiti?12 Sono per noi interrogativi ragionevoli che, quando provi a porli, immediatamente attivano reazioni difensive e accuse di essere divenuti nemici di una delle leggi più avanzate e innovatrici. Non è proprio possibile avere dubbi, anche se quando entri in un centro diurno e lo trovi vecchio, pieno di fumo o di persone che uguali a sé stesse ripetono attività anch’esse simili, ti viene da storcere il naso: oltre tutto si tratta spesso di luoghi stantii e brutti. Per non parlare dei CSM: che rapporto hanno ancora con il territorio? Che conoscenza hanno le persone che vi risiedono, delle situazioni abitative, socioculturali ed aggregative di quel territorio da cui afferiscono i loro pazienti? A puro titolo esemplificativo, io abito in una grossa città del nord: all’epoca della territorializzazione dei servizi psichiatrici le USSL (Unità Socio Sanitarie Locali) – siamo all’inizio degli anni ’80 – erano 23, corrispondenti ai quartieri in cui era suddivisa la città. Negli anni ‘90 divennero 10; dopo il 2000 erano 4, poi 2, ora una sola ASL (e nel frattempo le stesse USSL divennero pure Aziende Sanitarie Locali). Grande razionalizzazione, risparmio economico, centralizzazione delle funzioni ecc. furono le motivazioni addotte; sta di fatto che sia il rapporto con il territorio, sia i costi indiretti mi paiono problematici. 12 Cfr. Capani A. (2013), Psicoterapia, psicoanalisi e istituzioni, Alpes, Roma. Nella prima parte del testo l’autrice ci ricorda su quali presupposti clinici i Servizi di Salute Mentale sono stati istituiti.

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Le mie considerazioni si basano su dati empirici, su osservazioni dirette, su una lunga conoscenza e pratica nei luoghi di cui parlo, non su dati statisticamente significativi (qualcuno giustamente potrebbe dire quindi impressionistici). Vero! Sta di fatto che i “costi” (almeno quelli indiretti) spesso, sono derivati dalla gestione di questi cambiamenti, molti realizzati a “freddo”: accorpamenti, fusioni, spostamenti effettuati tramite ordini di servizio, senza un minimo di preparazione, informazione, formazione13. Oppure ancora, che dire di alcune situazioni di SPDC ostaggio di pazienti difficili (o rifiutati dalle altre strutture) che vi soggiornano per mesi e mesi, proponendoci la parte più macroscopica e paradossale del revolving door, la sindrome della porta girevole? Burocratizzazione esasperata La clinica non è più affare dei clinici, ma dei burocrati. Spesso mi capita di pensare (ogni tanto di dire): “moriremo” di burocrazia. Il nostro bel Paese, non riuscendo ad introdurre un reale controllo di merito, lo sostituisce con un insieme di normative, procedure, cavilli. Gli esempi sono infiniti, da quelli più rilevanti centrati sul controllo della spesa (i famosi tagli lineari) ai “dettagli oligofrenici” inerenti ad esempio i minutaggi delle operazioni assistenziali14. Mi sono sempre chiesto per quale ragione nelle C.T. non si potesse cucinare con i pazienti, per quale illuminata intuizione i pranzi e le cene dovessero arrivare dall’esterno o appaltati ad appositi servizi: certo problemi di igiene, rischi di cibi avariati ecc., vero; ma in questo modo per non correre il rischio di possibili disturbi gastrici ci teniamo quelli mentali. In altri termini ci siamo giocati uno dei momenti più importanti della terapia del quotidiano: i momenti di costruzione del pasto. Fase nella quale, pelando le patate o preparando il sugo, si possono condividere pensieri, ricordi, progetti. Anche nel suo ultimo libro Marcel Sassolas dedica un intero capitolo alla realtà quotidiana come strumento terapeutico: “Nelle situazioni di cura, qualificherei terapeutico tutto ciò che ha un impatto psichico sul paziente. Un tale impatto presuppone: 13 L’aver fatto per almeno 25-30 anni il supervisore di gruppi e di servizi in ambito psichiatrico seppur in luoghi e realtà differenti (CSM; CD; SPDC; C.T. Gr Appartamento ecc.) mi ha permesso di rilevare il più delle volte queste grandi disattenzioni, quasi una sorta di specularità con altrettanti spostamenti dei pazienti da una struttura all’altra. Ovviamente per fortuna esistono e si trovano anche situazioni contrarie, di grande attenzione e di cura dei transiti, Purtroppo nella mia esperienza minoritarie. 14 L’analogia con un pensiero organizzativo ancorato al modello tayloristico della catena di montaggio sembra riemergere ed essersi trasposto dal mondo industriale a quello sanitario. D’altra parte anche i nomi ne richiamano le famose: “Aziende Socio Sanitarie Locali” (la salute come l’azienda sic!?).

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

• una relazione tra il paziente e noi; • una comunicazione tra lui e noi; • una confrontazione tra il suo funzionamento e il nostro”15

e ancora: “La manipolazione della realtà offre una possibilità di meglio gestire l’angoscia [...] una realtà condivisa attenua nel paziente le ferite narcisistiche che l’incontro con la nostra identità professionale dolorosamente gli ricorda: l’esistenza in lui di un difetto psichico. [...] Se la situazione poggia solo sull’espressione verbale, più il curante evidenzia la sua capacità espressiva, più il paziente se ne sentirà deprivato e sarà invaso da pulsioni invidiose verso l’operatore. [...] Al contrario, una situazione di cura che include la realtà renderà contraddittorie le immagini difensive del curante perfetto e non alimenterà le reazioni invidiose che ostacolano qualsiasi incontro autentico con un paziente psicotico”16.

Certo, se nel “fare con” togliamo all’assetto comunitario i pranzi e altri momenti di condivisione concreta (attraverso le cose e le azioni), avremo ridotto i rischi ma ci siamo giocati una parte importante della clinica. Spesso mi sono chiesto come questa burocratizzazione e aziendalizzazione della vita pubblica,17 sempre più pervasiva ed invasiva, non produca reazioni nei gestori e negli operatori, ma solo flebili lamentele. Prendiamo ancora due esempi: come non inorridire di fronte ai crediti ECM (Educazione Continua in Medicina), iniziativa meritoria gestita in modo cartaceo-amministrativo e predatorio (dal punto di vista economico), ora invece diventata un corsificio? Una delle ultime genialate securitarie riguarda i corsi sulla sicurezza per i tirocinanti delle scuole di specializzazione in psicoterapia; ovviamente i più ingenui tra noi (io tra questi) hanno pensato: sarà sulla pericolosità dei pazienti ecc. No! Riguarda 1-2 giorni (inutili e costosi) su come non mettere le dita nelle prese o come stare attenti agli inciampi… Demotivazione e cronicità degli operatori Il discorso precedente è una delle componenti che sicuramente incide sull’affaticamento del personale. In molti luoghi di cura i primi cronici sono gli operatori (utilizzo questo termine per psichiatri, psicologi, educatori ecc.), personale mediamente anziano, ormai sfiduciato, poco aggiornato: i primi da dimettere. Non vorrei con queste affermazioni essere frainteso: si tratta dell’ultimo anello della catena, che bene o male è o sarebbe ancora quello più dispo15 Sassolas M., Le stylo du psychiatre. Plaidoyer pour une psychiatrie relationelle, ed. érès,Toulouse, 2020. Pag. 65 16 Ibidem pp. 66-67. 17 Enriquez E., “Oltre l’aziendalizzazione della vita lavorativa”, in Animazione Sociale n. 1, Torino, 1996.

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nibile (se non altro perché il contatto quotidiano con gli stessi pazienti è defatigante), se solo minimamente supportato, gestito, orientato. Lavorare con patologie gravi comporta un pericolo di “contaminazione” (ovviamente non sul piano fisico, ma psichico) per cui sono necessarie un insieme di protezioni e di supporti che ne evitino o ne attenuino i rischi. Le necessità o gli elementi protettivi basilari sono a mio avviso tre: • una gestione della clinica che aiuti a leggere, a decodificare gli accadimenti che nel quotidiano i pazienti introducono, attivano, agiscono e quindi di conseguenza ne orienti la cura (parole ed azioni). Niente è più faticoso del gestire situazioni incomprensibili. Qui la funzione di un leader (competenza e determinazione) che indirizzi il gruppo curante è essenziale18. La stessa supervisione o il vecchio “gruppo discussione casi”, condotto da un professionista esterno può essere di aiuto e fornire un apporto che attenui i processi di cronicizzazione del gruppo curante o di “uccisione” del pensiero; • un gruppo di lavoro ben integrato, che trovi nel proprio lavoro una fonte di motivazione e di soddisfazione è un’altra componente necessaria. Il lavoro individuale se non sostenuto, supportato, alleggerito da un gruppo e dal suo clima ha nel tempo poche possibilità di successo; • una formazione e un approccio di ricerca (grezza – per tentativi ed errori) che partano dalle situazioni contingenti (dalle pratiche) sono la terza componente che può attenuare fenomeni quali la cronicità del personale, i processi di demotivazione, il burnout. Il ritorno di una psichiatria orientata al farmaco Alcuni autori, con pesi e da vertici differenti, da tempo segnalano il rischio di essere passati dalla contenzione fisica a quella chimica tanto da parlare di manicomio chimico.19 L’aumento del consumo di farmaci, l’aumento delle prescrizioni anche per i minori (ADHA) sono indicatori di una certa medicina e psichiatria legate ad un approccio se non biologistico sicuramente propense ad interventi “sedativi” per il malessere psichico e quindi passivizzanti. La funzione di controllo sociale della vecchia psichiatria (allora centrata sull’esclusione) sembra in forme meno evidenti riprendere l’antico compito. Nuove generazioni di psichiatri formati da una cultura universitaria orientata al biologico e corteggiati o anche solo insistentemente formati 18 Correale A., “Il leader e l’istituzione” in Gruppi, vol. VI n. 2 Maggio-Agosto 2004. 19 Cipriano P. (2015), Il manicomio chimico, Elèuthera; Cavicchi I., “La salute mentale è alla deriva. Ma dopo 40 anni la 180 è ancora da ‘attuare’ o da ‘riformare’?” in quotidianosanità.it (lunedì 02 ottobre 2017); Saraceno B., (intervista a cura di Camarlinghi R.) “Navigare nei mari della salute mentale. Raccomandazioni ai giovani marinai di un intrepido equipaggio”, in Animazione Sociale 314, n.9, 2017.

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dalle case farmaceutiche con brillanti informatori scientifici hanno semplificano il lavoro. Su questo tema proporrei due sintetiche riflessioni: un uso oculato e mirato dei farmaci in psichiatria non è facile, richiede una lunga esperienza e una relazione sufficientemente approfondita e continuativa con il paziente. Un secondo aspetto riguarda i carichi di lavoro: se uno psichiatra deve seguire in media dai 300-400 pazienti quale continuità terapeutica e quale relazionalità può mettere in campo se non quella di vedere mediamente un paziente ogni mese o ogni tre settimane e per un tempo ristretto? Non rimane che la prescrizione di qualche farmaco… Scissione tra personale laureato e non. Nuove forme di individualismo Non aver cura dei sistemi di cura20, non governare i processi, avere sempre meno attenzione per l’efficacia (ma solo apparente: l’efficienza, i numeri, le quantità) ha nell’arco degli ultimi 15-20 anni azzerato la spinta propulsiva che la riforma psichiatrica aveva avviato, ucciso (sedato) molte speranze. Il lavoro di équipe è a poco a poco, se non sparito, divenuto funzione organizzativa: ognuno si è richiuso nei propri studi, quelli che devono “stare con i pazienti” (educatori, O.S.S.) sono messi in una condizione di sorveglianza spesso in sub appalto temporaneo e finiscono per essere anch’essi abbandonati a sé stessi. Siamo in chiave moderna (in modo soft) ritornati alle infermerie dei vecchi manicomi dove i pazienti vagavano nei grandi cameroni e parte degli infermieri si chiudevano (barricavano) nell’infermeria. Certo la violenza manifesta, le contenzioni fisiche (salvo alcuni casi), gli elettroshock ecc., non sono più delle pratiche in uso, ora i pazienti girano (vagolano) liberi in città, sono in gruppi-appartamento assistiti (sorvegliati), magari fanno alcuni lavoretti (pochi)… Nessun rimpianto per il passato, meglio ora, certo però non era questo il progetto e l’intenzione che hanno guidato una parte del lavoro intrapreso. È vero che negli anni il paese è cambiato, le trasformazioni economiche sociali e culturali hanno radicalmente mutato le forme di aggregazione, i legami sociali, la funzione e il significato del lavoro… Nel frattempo non solo l’Italia era mutata ma era cambiato il mondo21. Negli stessi anni M. Sassolas scriveva: 20 “Come aver cura dei sistemi di cura” fu una serie di convegni che con un gruppo di colleghi del Laboratorio di Gruppoanalisi (confederata COIRAG) organizzammo a fine degli anni ’90 in alcune città italiane. 21 Cfr. Corino U., “Appunti su nuove e vecchie gruppalità. Il lavoro di gruppo e le leadership nei servizi e nel sociale”. In Animazione Sociale n. 288 - gennaio 2015; Baricco A., The game, Feltrinelli, Milano, 2018.

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Elogio del rischio “In effetti ciò che permette di comprendere un paziente è l’attenzione rivolta da un lato al suo passato, dall’altro al suo presente, in particolare alle modalità attuali della sua relazione con il terapeuta. [...] Oggetto della nostra indagine è da una parte la storia di alcune specifiche strutture di cura, dall’altra le modalità della relazione che i terapeuti che le fanno funzionare intrattengono con esse”22.

Assunzione della delega circa la cura In un significativo articolo di quasi vent’anni fa, F. Olivetti Manoukian metteva in evidenza come da tempo i Servizi fossero ormai sotto assedio, di come le richieste di aiuto e di soluzione dei problemi non solo fossero aumentate ma vieppiù esigenti, piene di attese risolutive, quasi miracolistiche. “Le pressioni cui oggi sono sottoposti i servizi hanno il volto minaccioso dell’assedio. Di fronte all’aumento delle richieste di aiuto oggi non basta chiedere agli operatori di «fare di più». Occorre mettere in discussione la delega esclusiva e onnipotente che la società ha consegnato loro e che i servizi hanno nel corso della loro evoluzione assunto. I servizi non possono fronteggiare da soli il disagio, è la sua complessità che oggi chiede che ci si metta tra più attori a sostenerne il carico. Un’ipotesi, questa, inscritta già nella genesi stessa dei servizi”23.

Se allora erano sotto assedio, ora sono in buona parte collassati. All’assedio si è in alcune situazioni sostituita la rassegnazione, la rabbia silente spesso tramutatasi in rancore. L’autrice continuava: “Si potrebbe liquidare la faccenda invitando gli operatori sociali a diventare sempre di più gli «specialisti della crisi», moltiplicando gli sforzi per rispondere al disagio portato dagli utenti. C’è però un’altra strada, ed è quella di considerare seriamente la fatica degli operatori a reggere l’ondata di richieste. Può essere davvero che i servizi siano diventati, un po’ alla volta, una sorta di imbuto in cui si riversa il malessere della nostra società, l’ultima diga di fronte al crescente disagio. Se così è, l’appello a «fare di più» rivolto a operatori e servizi rischia di risuonare invano. […] L’ipotesi, insomma, è che il vissuto di assedio vada preso sul serio, ascoltato, interpretato, perché può contenere un messaggio in cui ne va di noi: dei nostri servizi, ma più ampiamente della possibilità di tutelare e promuovere oggi l’esercizio di fondamentali diritti di cittadinanza. È importante che il senso di assedio sia condiviso, socializzato, reso pubblico. La tendenza, oggi, è invece a viverlo individualmente, come 22 Sassolas M., Terapia della psicosi, Borla, Roma. 23 Olivetti Manoukian F. (a cura di), “Quanto è Sociale il Lavoro dei Servizi?” in Animazione Sociale, n. 10, ottobre 2004, p. 31.

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un’inadeguatezza del singolo operatore o del proprio servizio: con un ulteriore, inevitabile senso di appesantimento del proprio operare. Per iniziare ad aprire qualche varco nelle pressioni intorno ai servizi, può essere utile allora deporre l’illusione di poter far fronte da soli alle pressioni sociali e dedicarsi a capire le ragioni che hanno portato a questa situazione di assedio”24.

La speranza di allora di un nuovo coinvolgimento, di una ripresa della partecipazione sembra essersi infranta in un aumento dell’individualismo: del “si salvi chi può”. Un’altra occasione sfumata è stata quella di riaprire un dibattito sui fondamentali del vivere comune, del ripensare ai diritti e ai doveri, ad un rinnovamento dei servizi, ad un rimodellamento dello stato sociale ad una sua de-burocratizzazione. Anche i servizi come le organizzazioni produttive sono andati parcellizzando l’organizzazione; l’invenzione dei front office, dei call center, dell’UPR (Ufficio Relazioni con il Pubblico) hanno poi permesso ai responsabili di allontanarsi vieppiù dagli utenti (diventati nel tempo clienti) rendendosi irraggiungibili. Il lavoro in appalto o gli incarichi a tempo definito e di breve periodo sono diventati un altro strumento che, nel tentativo di arginare la crisi, hanno finito coll’amplificarne gli effetti.

Teorie illuminate e pratiche opache Un caro amico nonché collega, ad ogni mio acquisto di nuovi libri per la professione sorride ed ironizza: “Se solo un decimo di quello che compri servisse veramente a curare qualcuno, oggi non dovremmo avere in psichiatria tutti questi cronici, tutti questi mal-d’essere…”. Forse ha ragione, spesso mi dico, soprattutto dopo alcune letture. Effettivamente l’esplorazione del “mondo interno”, dei meccanismi consci ed inconsci del nostro funzionamento mentale si sono molto sviluppati ed approfonditi, purtroppo non altrettanto gli strumenti di intervento, le tecniche, le metodologie. Le capacità esplorative, quelle diagnostiche e, potremmo dire, le analitiche non hanno prodotto pratiche innovative, non ci hanno incentivati né coinvolti in sperimentazioni nuove; anzi, forse la troppa conoscenza ha inibito la ricerca di setting e modalità di cura innovativi. Una corsa a chi è più capace a spiegare, a dissertare: poco a curare. Parrebbe quasi una reazione maniacale alla nostra poca efficacia. 24 Ibidem p. 32.

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Elogio del rischio

Una comprensione e spiegazioni infinite (spesso un giustificazionismo) che hanno portato molti dei curanti ad evitare il confronto, il conflitto non tanto con il paziente ma con il sintomo, con il malessere. Una formazione razionalizzante, vertici distanti dalla base e ancor più dai pazienti Come accennato in precedenza, una formazione prescritta, spesso molto poco orientata sulle dimensioni emotive e che ne cognitivizza le forme, finisce per rendere questo lavoro stereotipato e manieristico: un falso sé curato da un altro falso sé, avvolti in una sorta di rispecchiamenti infiniti che si auto-confermano. Vicinanze emotive momentanee, rapide comprensioni e immedesimazioni, intervallate da distanze siderali rischiano di fare di questa professione un simulacro di buone intenzioni e di evitamenti o peggio ancora di utilizzare le dimensioni psicologiche (empatia, risonanza, rispecchiamento ecc.) come nuovi palliativi al posto dei farmaci. Il rischio sia per i pazienti sia per gli operatori è che i vantaggi secondari abbiano il sopravvento. Prescrizioni, nuovi esami, piccoli sussidi per i pazienti; per gli operatori mantenimento di un lavoro anche se frammentato o precario ma almeno esistente, di appalto in appalto: due modi di sopravvivere… Collusione tra sociale e sistema di cura D’altre parte cosa chiede oggi il sociale alla psichiatria? Una ripresa della sua antica funzione: il controllo sociale? Certo, senza troppa violenza, senza troppo rumore, facendo in modo che i pazienti non disturbino, che le loro famiglie riescano a surrogare e supportare, con l’aiuto dei Servizi, nei limiti del possibile, il disagio di un loro congiunto in una sorta di alternanza: ricovero, casa di cura, dimissione… nuovo ricovero (magari in un’altra struttura), gruppo appartamento… Le priorità sono altre, la crisi generalizzata sia delle strutture istituzionali sia dei corpi intermedi, la mancanza di lavoro ecc. se per un verso hanno aumentato le fragilità e quindi reso diffuso un mal di vivere, hanno al tempo stesso relegato il disagio psichico grave nella macroarea delle devianze e della marginalità sociale. Di fronte alla emergenzialità/provvisorietà fattasi modello di vita quotidiana si ripresenta – come ben descrive una antropologa25 recentemente scomparsa – una crisi della presenza? Sull’onda degli studi di De Martino, l’Autrice si chiede se l’attuale crisi delle società occidentali e della nostra in particolare non riproponga nei soggetti una sorta di collasso dell’Io tale da rimetterli fuori dalla storia. 25 Signorelli A. (2016), La vita al tempo della crisi, Einaudi, Torino.

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“…perché nel momento in cui una società umana non sa più dare un significato e un valore ai propri accadimenti, precipita nella crisi culturale, nel marasma, perde la propria presenza al mondo, la propria capacità di produrre mondo. L’autore italiano che per primo e più autorevolmente ha affrontato il tema delle crisi culturali come crisi della presenza, come apocalissi culturali, vale a dire come esperienze di «fine del mondo», è stato Ernesto De Martino26. Le cause scatenanti della crisi vengono in genere individuate da De Martino in un regime di vita materiale e culturale che non offra neppure un minimo di risorse tecniche e di opportunità decisionali per agire razionalmente ed efficacemente nel e sul mondo: sicché coloro che si trovano in questa situazione «stanno nella storia come se non ci stessero», in una condizione di miseria culturale che è testimoniata dalla loro incapacità di affrontare razionalmente e manipolare efficacemente la situazione. Questo soggettivo sentimento di totale impotenza è certamente la manifestazione più grave della crisi della presenza; il malessere, il senso di inutilità, di impotenza, di insignificanza si manifestano in forme non tanto drammatiche, quanto depressive: se il mondo si ritira dal soggetto, il soggetto si ritira dal mondo, che, dal punto di vista esistenziale, per lui si riduce, si fa sempre più piccolo, vuoto, insignificante”27.

Forse anche alcuni fenomeni quali quelli dei “ritirati sociali” (tipo i NEET), giovani che non studiano, non cercano lavoro, non escono e si rifugiano nel virtuale, potrebbero in qualche modo collegarsi o essere espressione di questa crisi della presenza, di questo disagio diffuso e strisciante. Nuove forme di disagio psichico vanno a sommarsi con quelle più consolidate, aumentando così i potenziali fruitori dei Servizi ponendo anche nuove domande ed evidenziando forme nuove di manifestazioni del disagio. Al tempo stesso, le reti sociali indebolite dalla crisi e dall’effetto della rivoluzione informatica (la famosa digitalizzazione) hanno fatto il resto. Come ormai molti studi ci segnalano stiamo passando vieppiù dalla società operosa e della cura alla società rancorosa28… o comunque a un mutamento nei pesi di queste diverse aggregazioni sociali.

Che fare?? Come ripensare alla cura Certo, il quadro non è particolarmente allettante, la situazione non incoraggiante… 26 De Martino E. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino. 27 Signorelli A., op cit. pp. 17-18. 28 Bonomi A., Majorino P. (2018), Nel labirinto delle paure. Politica, precarietà e immigrazione; Bollati Boringhieri, Torino; Bonomi A. (2010), Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Feltrinelli, Milano.

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Elogio del rischio

Occorrerà molta determinazione, resistenza, costanza, forza, impegno, competenza, forse anche un po’ di follia (tanto per rimanere in tema) e capacità aggregativa. Vediamone alcuni orientamenti. La cura è un discorso tecnico e politico Curare è coinvolgere, mobilitare risorse, attivare nell’altro una ripresa delle funzioni e soprattutto è un fatto collettivo, nulla è meno privato dell’aver cura. Coinvolgere e mobilitare mi paiono i due termini che la sostanziano e che quindi necessitano di un coinvolgimento di più persone, di più gruppi, come avremo modo di precisare meglio in seguito. Se la cura è un fatto collettivo, essa implica l’attivazione di un insieme di risorse: quelle del gruppo di appartenenza del paziente e quelle del gruppo curante. Da solo nessuno si salva, richiamava un articolo di qualche anno fa29. Occorre riprendere un pensiero che partendo dalle situazioni di malattia ne rintracci le cause (che spesso sono molteplici e complesse), ne individui le priorità e, da questo, riprenda una lotta non solo per la guarigione ma, rintracciandone i fili, riattivi un discorso sulla prevenzione secondaria via via sino alla primaria. È certo difficile ma necessario riprendere le lotte per la salute con forza e determinazione, puntare sugli aspetti principali, riaprendo un discorso politico troppo oscurato da vantaggi secondari, da modelli economicisti inefficaci, da troppa falsa efficienza30. Una burocrazia ottusa, che raccoglie dati che nessuno legge se non per tutelarsi da responsabilità inoperose: passare da una medicina difensiva ad una offensiva. Abbiamo oggi esempi e studi (minoritari purtroppo) che possono dimostrare o certificare, ad esempio, una diminuzione di ricoveri o nel tempo terapie magari più lunghe e o più costose, ma con meno ricadute successive. Alcune evidenze sono inscritte in alcune situazioni che essendo funzionali e funzionanti non fanno rumore e spesso corrono il rischio di non essere considerate. Organizzazione da peso a risorsa Capovolgere il paradigma attuale: le organizzazioni sono una zavorra, appesantiscono, ingombrano, rallentano… 29 Intervista a Di Nicola P. a cura di Camarlinghi R. e D’Angella F., “Senza reti nessuno si salva. Reti sempre più fragili e sempre più da attivare nelle situazioni di difficoltà”, in Animazione Sociale, aprile 2012. 30 Vale la pena leggere le esperienze che lo psichiatra e fenomenologo Di Petta G. ci propone nelle sue “lucide e disperanti” testimonianze su Pol. It in CUORE DI TENEBRA: Viaggio al termine della psichiatria http://www. psychiatryonline.it/ (una serie di articoli)

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Meglio correre da soli. Ecco uno dei miti attuali da smontare, da rimettere in discussione. Ma di quale organizzazione stiamo parlando? Siamo passati da organizzazioni elefantiache, fortemente gerarchizzate, stabili e permanenti, immutabili, che finivano per essere utili solo a sé stesse a organizzazioni inesistenti, piatte, snelle, potremmo dire, del fai da te. Anche su questo aspetto gli esempi non mancano, oggi ci troviamo in situazioni (vedi l’esternalizzazione) in cui dalla troppa permanenza siamo passati a troppa mobilità, precarietà. Ultimamente ad esempio mi sono trovato a discutere con un primario che ha organizzato il proprio reparto in modo che non vi fosse continuità terapeutica, neppure minima: ad ogni successiva visita trovavi un differente interlocutore. “I miei collaboratori devono tutti essere uguali e sostituibili”, teorizzava. Da una rigida continuità della cura al suo opposto: la massima frammentazione! L’organizzazione necessaria: il problema (non facile) è “a cosa e come finalizzarla”. Lavoro come supervisore in una Comunità psicopedagogica per adolescenti la cui organizzazione non solo funziona ma risulta essere efficace. Le regole ad esempio non sono molte ma chiare, precise e rispettate. Chiedo dei turni e scopro che sono standardizzati e con una rotazione costante: c’è una bassa tolleranza ai cambi. Al mio stupore (in molti altri luoghi dove sono stato ho visto situazioni molto variegate) il responsabile mi ricorda: “siamo al servizio dei ragazzi, non è possibile che un operatore non sia presente magari per 3 giorni e poi faccia 24 ore di seguito. Che tipo di relazione e di continuità mi offre quella persona?”. Esempio piccolo e apparentemente banale. Sondo meglio: i locali sono belli, bene arredati, il clima è tranquillo e anche su questo indago, chiedo: “il posto deve essere vivibile, se spaccano, come a volte succede durante le crisi, noi subito aggiustiamo, hanno già avuto vite degradate, non è il caso di riproporgliele o di lasciargliele riproporre. Qui dobbiamo stare sufficientemente bene: questa deve essere una casa accogliente”. Ultimamente hanno avviato un lavoro con le famiglie dei pazienti, altra regola per gli operatori: essere puntuali e al tempo stesso adattarsi ai tempi delle famiglie31; “se c’è bisogno di vederli alle 19 ci si organizza per quell’ora”. “Le organizzazioni non sono solo popolate da donne e uomini, ma sono da loro costituite attraverso i tipi di legami che sviluppano. Pensare un contesto di lavoro senza le specifiche persone che lo compongono è 31 Chi non ha fatto esperienza di servizi in cui le riunioni programmate per un’ora non si riescono mai a fare in orario. Nel caso citato le famiglie vengono incontrate tenendo conto delle loro esigenze di orario. Cfr. Cerrato F., “Fare leva su una normalità tollerabile”, in Animazione Sociale agosto/settembre 2011; Cerrato F., “Un educatore specialista in relazioni difficili”, in Animazione Sociale n. 319, 2018.

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Elogio del rischio un’astrazione, così come lo è il pensare a individui al lavoro senza organizzazione, senza un tessuto di relazioni”32.

Ci ricorda un altro autore che molto si è occupato di organizzazioni: “Le organizzazioni sono sistemi che hanno anche a che fare con la produzione di senso. Si tratta in effetti di luoghi che possono contribuire a dare senso alle nostre azioni, ai nostri investimenti, alle priorità della nostra vita, addirittura alla vita stessa”33.

Le organizzazioni vanno gestite, governate: altra funzione-compito che richiede competenza, investimento e leadership34. «Riformare /rifondare» i luoghi di cura E qui comincia il bello: dove trovare il coraggio (e ritrovare il pensiero) per assumerci il rischio di un cambiamento? Solo “i ciechi e i sordi” non si accorgono che i luoghi di cura andrebbero rigirati come un calzino. Certo sono stati utili, fondamentali e necessari. Come non ricordare da dove siamo partiti? Per la deistituzionalizzazione sono stati il meglio che potevamo non solo permetterci, ma anche inventarci o più correttamente riadattare, prendendo a prestito alcune esperienze che in anni precedenti (1945-55) alcuni paesi europei avevano iniziato a sperimentare (l’Inghilterra in particolare)35. Il passaggio è stato dal manicomio all’ospedale psichiatrico, con la trasformazione dei reparti in Comunità Terapeutico-riabilitative (30-50 pazienti) per diventare poi nel territorio Comunità Terapeutiche (in alcune Regioni di tipo A e B) con circa 20 posti letto. Oggi sono vecchie, superate, anche se per i “cronici” o per le “nuove” REMS forse qualche utilità possono ancora assolverla. Conosciamo altre realtà, ne abbiamo visto l’impostazione, l’impianto teorico e tecnico frutto di esperienze, di prove ed errori. “Il primo merito, di quello che abbiamo avviato all’epoca è stato di essere sopravvissuti alle delusioni, agli errori, agli insuccessi. Il secondo è quello di esserci imposti, una riflessione costante sulla nostra azione. […] Non è facile per nessuno prendere le distanze dalle immagini idealizzate sulle quali ha costruito la propria identità professionale”36.

Sappiamo come piccole comunità (7-8 pazienti) possano per i nuovi pazienti (i giovani ai primi esordi) essere molto più efficaci e grazie a 32 Orsenigo A., “Organizzare servizi che curano”, in Animazione Sociale, maggio 2011 p. 38. 33 Ibidem p. 41. 34 Ibidem p. 43. 35 Jones M. (1968), Ideologia e pratica della Psichiatria Sociale, Etas Kompass, Milano, 1970; Jones M. (1982), Il processo di cambiamento. Nascita e trasformazione di una Comunità Terapeutica, F. Angeli, Milano, 1987; Main T. (1989), La comunità terapeutica e altri saggi, Il Pensiero Scientifico ed., Roma, 1992. 36 Sassolas M., Terapia delle psicosi, op cit. pag.

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personale stabile e ben preparato, anche i cambiamenti e le sollecitazioni possano essere meglio dosate e mirate. Luoghi dove le regole siano poche e chiare, l’organizzazione e la sua gestione siano frutto di un pensiero clinico sperimentato e più volte affinato. “Una struttura lacunosa ma solida […] Sofferenze e collera il cui senso deve poter essergli restituito, il cui legame con il limite avvertito nella relazione con noi deve essergli detto. È quindi necessario che il funzionamento di questa struttura di cura non sia di ostacolo all’emergere della parola e del significato – cosa che esclude ogni assembramento di pazienti che sia superiore alle dimensioni del gruppo terapeutico”37. Il lavoro nel quotidiano come dura lotta contro la psicosi dove, ad esempio, la lettura degli accadimenti, i tipi di legami, con le situazioni che hanno come scopo principale di decodificarne il significato e restituirlo attraverso quelle che prima J.C. Racamier e poi il gruppo di M. Sassolas hanno individuato come: “le azioni parlanti” o con quella che – sempre quest’ultimo gruppo – ha definito “la microclinica del quotidiano” ne sono degli esempi38. Certo se continuiamo a pensare che la nostra legge e il nostro sistema di cura sono i migliori, sarà molto difficile avviare un rinnovamento, così come eliminare alcuni vantaggi secondari ormai consolidati nell’ambito anche del terzo settore. Gli operatori e le necessità della trasgressione Eugene Enriquez, psicosociologo francese poco conosciuto in Italia, in un interessante studio39 ce ne indica due come necessarie: • dalle regole istituzionali; • dalle modellistiche professionali. Trasgressioni necessarie come conseguenze di trasformazioni nelle domande del sociale, a cui non sono seguite situazioni organizzative e gestionali nuove, anzi un irrigidimento delle regole istituzionali a cui attenersi nello svolgimento dei propri compiti. Stessa situazione si può dire per quanto riguarda gli orientamenti derivanti dai propri statuti professionali: i modelli appresi sono spesso vetusti o poco rispondenti alle nuove esigenze del sociale. Pensiamo ad esempio al solo concetto di famiglia a cui molte discipline fanno riferimento (oggi così variegato rispetto a quello di 20-30 anni fa a cui molta letteratura e studi continuano a rimandare) nel proporre poi chiavi lettura e di intervento nel frattempo profondamente mutati. O ancora a tutti i fenomeni adolescenziali legati ad esempio a internet e al digitale. 37 Ibidem p. 35. 38 Sassolas M., Le stilo du psychiatre, op. cit. 39 Enriquez E., “Un mondo senza trasgressione”, in Animazione Sociale, febbraio 2011 n. 250, pp. 15-26.

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Elogio del rischio

Alle due trasgressioni proposte da Enriquez ne aggiungerei una terza: • uscire dai propri contesti di lavoro. In altri termini “prendere aria”. Con questo intendo ad esempio per gli operatori delle Comunità Terapeutiche diventare dei ricercatori grezzi, vale a dire passare dal ruolo di custode-poliziotto a quello di esploratore-antropologo andando a conoscere i luoghi di vita e di cura del paziente. Propongo spesso in alcune C.T. dove faccio gruppi di formazione o supervisione agli operatori (e ai loro responsabili) di uscire dalla Comunità e di avviare un lavoro di ricognizione sulla storia del paziente. Recuperare le narrazioni, gli eventi, gli accadimenti ha differenti scopi: • poter ricostruire delle storie spesso frammentate oppure occultate; • poter riprendere a formulare ipotesi e soprattutto avere del materiale su cui poter avviare una relazione con il paziente; • attivare dei transfert e dei contro transfert anticipatori; • rimotivare gli operatori, avviare un processo di de-cronicizzazione. Non poche volte la risposta degli operatori, soprattutto quelli a più diretto contatto con i pazienti, sono non solo positive ma di coinvolgimento ed interesse. Un interesse meno significativo lo riscontro nelle professioni più “elevate”. Ritorna qui l’importanza della riunione di équipe e della supervisione, centrata però sul materiale clinico e non solo organizzativo: “Questa funzione curante, questa funzione terapeutica, non può essere esercitata se non è riconosciuta e legittimata dall’istituzione. L’uso che ogni partecipante può fare o non fare delle informazioni raccolte, delle emozioni provate, delle idee che un avvenimento o l’altro gli hanno suggerito circa la sua relazione con quel paziente o con quell’altro, dipende molto dal suo ambiente professionale. Quest’ultimo può favorire o all’opposto inibire l’utilizzo delle capacità di osservazione, di empatia e di riflessione di ognuno. Ciò che conferisce piena legittimità alle capacità curative della cura istituzionale è dar loro un luogo ove possano essere sostenute condivise e discusse. Questo luogo è la riunione di équipe concepita come uno specifico momento di discussione e di scambio centrato sulla vita relazionale nell’istituzione e non solo come occasione di scambio di informazioni. Il funzionamento delle C.T. non può essere concepito senza questo momento istituito dove il materiale psichico “grezzo” accumulato dai curanti (quello dei residenti che alberga in loro) prenda senso attraverso le riflessioni degli uni e degli altri. Oggi, in molte strutture di cura o medico-sociali, una visione prettamente manageriale del lavoro istituzionale cerca di ridurre questo tempo a degli scambi di informazioni col solo obiettivo di pianificare il modo di occupare il tempo e lo spazio. Rassegnarsi ad un tale funziona-

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

mento è privare una istituzione della possibilità di essere un luogo dove i pazienti non solo possano vivere ma soprattutto curarsi”40.

Famigliari come co-terapeuti Prendo qui a prestito l’orientamento che con Corrado Pontalti da anni stiamo sperimentando e di cui egli è da tempo promotore e artefice41. Nei casi gravi, il coinvolgimento dei famigliari e dell’entourage del paziente è non solo opportuno ma necessario. Certo si tratta di un diverso lavoro e di un radicale cambio di paradigma: da responsabili o da co-artefici del disturbo (quando non la causa) farli “diventare” artefici della cura è una significativa trasformazione nell’atteggiamento dei curanti e nella impostazione del setting. D’altra parte sono i detentori della storia, anzi, ognuno di essi è portatore di pezzi di storie (a volte sconosciuti gli uni agli altri): coinvolgendoli possono così diventare i possessori di quei fili che ci aiutano a ritessere le trame lacerate della psiche del paziente. I famigliari, come co-terapeuti grezzi, sono una nuova possibilità-necessità che i curanti hanno a disposizione, come nuovi farmaci (di grande potenza) da utilizzare e apprendere a dosare nel processo di cura. Parenti e famigliari che se convocati, chiamati e coinvolti e liberati da un senso di colpa, diventano dei collaboratori importanti ed utili. Una psicosociologia clinica (antropo-psico-gruppoanalitica?) Nel concludere questo lavoro sull’elogio del rischio in memoria di Marcel Sassolas, un caro amico e maestro, non posso esimermi dal sottolineare nuovamente la necessità di riprendere una lotta (dovremo trovare nuove forme e modalità differenti dalla denuncia scandalistica) per un pensiero clinico “sulla psiche, sul mentale” sicuramente più preciso e più approfondito. Dovremo anche avere la forza e la chiarezza di disoccultare le false psico-ideologie che oggi si insinuano nel nostro campo professionale, chiedere e avere maggiore rigore nell’individuare i venditori di falsa coscienza o quelli che “lisciano il pelo”. In altri termini andare verso una psicologia dinamica magari meno elitaria, sicuramente più aperta alle altre discipline, disponibile a meticciarsi: degli psicoterapeuti con una competenza educativa, a degli educatori con un orientamento clinico forte, insomma, operatori che riprendano il gusto 40 Sassolas M., Le stilo du psychiatre, op cit. pp. 119-120. 41 Pontalti C., “Esplorare un costrutto semantico inafferrabile: la famiglia”, in Gruppi n.1, 2018; Pontalti C., “Campo familiare-campo gruppale: dalla psicopatologia all’etica dell’incontro”, in Gruppi n.2, 2000; Pontalti C., “Prospettiva multipersonale in psicopatologia. Connessione o lacerazione dei contesti di vita?”, In Lo Coco G.L., Lo Verso G., a cura di, La cura relazionale, Raffaello Cortina, Milano, 2006; Pontalti C., Di Gioia A., Pomponi M., “Un padre in terapia”. In Andolfi M., D’Elia A., a cura di, Alla ricerca del padre in famiglia e in terapia, Franco Angeli, Milano, 2017.

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Elogio del rischio

del rischio, del confronto, dello scambio e della ricerca non solo accademica ma anche operativa. C’era un vecchio articolo di J. Cremerius42 che si interrogava su due orientamenti all’interno del mondo psicoanalitico: quello centrato sul conflitto e quello centrato sulla carenza. Forse dobbiamo trovare una sintesi o, meglio ancora, il giusto dosaggio tra questi due orientamenti e nel concludere vorrei terminare con una affermazione forte (tanto per cambiare): NULLA È GRATUITO, o spesso ciò che non è costato, non ha valore. Anche nella cura (visto che di questo ci occupiamo) troppa gratuità, troppa compiacenza è iatrogena, occorre che ognuno “ci metta qualcosa di suo” (e non si tratta necessariamente di soldi). Noi, i curanti: più impegno, più studio, più coraggio, meno compiacenza seppure altrettanta comprensione; i pazienti o i loro famigliari: un contributo (magari in forma indiretta e o differita) di lavoro socialmente utile o altro.

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Introduzione - Psichiatria 2020: Quale elogio? Per quale rischio?

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