Doriano Fasoli
Scomposizioni
Collana Itinerari del Sapere diretta da Doriano Fasoli Board scientifico: Mario Bortolotto, Luciano Ceri, Franco Cardelli, Franco Ferrarotti, Giosetta Fioroni, Jammis Kounellis, Mario Lavagetto, Cesare Mazzonis, Renzo Paris, Mario Perniola, Sandra Petrignani, Franco Rella
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Doriano Fasoli (Roma 1954), scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, si occupa soprattutto di letteratura e di psicoanalisi. Socio dello Spazio Psicoanalitico di Roma, ha prestato la sua collaborazione a quotidiani (“Il Manifesto”, “Corriere della Sera”, “La Repubblica-Mercurio”, “l'Unità”, “Paese Sera”), riviste (Panorama, Epoca, Rinascita, Linea d'ombra, Flash Art, Praz!), trasmissioni radiofoniche e televisive. Ha inoltre curato “Giornale di pittura” di Toti Scialoja e numerose opere del teorico e critico d’arte Cesare Brandi. La Società Psicoanalitica Italiana gli ha conferito, nel 1999, il “Premio Cesare Musatti”. Dirige per Alpes Italia la collana “I territori della Psiche”. In copertina: Carla Accardi, Scomposizioni.
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A Claudia ai miei figli Antonio e Francesco Al mio caro amico da/per sempre Giuseppe Ponzio
IV
Presentazione Perfino nell’uso di quel trattino, tra con e vivere (mi riferisco al titolo della poesia-poemetto che si chiama appunto Con-vivere) risuona l’eco d’una derivazione francese fin de siècle: tra Jules Laforgue e Tristan Corbière. Chiari, nitidi sono gli accenti crepuscolari; sepolti, sottotraccia quelli ironici, gli scatti improvvisi, le impennate dell’orgoglio. Ma così è, mi sembra, tutta la poesia di Doriano Fasoli: giocata in chiave di contrappunto. Da una parte il sentimento e dall’altra, remoto quasi sempre, a volte più vicino, evidente, lancinante, il risentimento: anzi il furore, la rabbia d’essersi abbandonato (a se stesso, alla propria onda emotiva, alla propria richiesta di indulgenza per le debolezze che contrassegnano l’età adulta). Ma se la lingua stessa, che spesso sorprendiamo in inconsuete modulazioni antiche (le parole tronche, gli accenti, il lessico: “Perché tenere così a lungo ascoso/quale altro volto sotto questo volto?”), se la stessa lingua sembra dare ragione di una scelta deliberata verso regioni lontane, e se il contrappunto, stilisticamente e strutturalmente, ribadisce che vi è comunque un anello debole cui opporre resistenza, quella resistenza specifica che è la poesia, questa poesia che leggiamo, queste parole che scriviamo (“ma la frase/quella frase/mi sostenne...”), il tema di fondo, il nucleo lacerante e indomito di Fasoli è l’infanzia. Un tema, tuttavia, che già nel suo apparire iniziale non si declina compatto, in termini di pura e semplice nostalgia. Intendiamoci: più d’una volta sorprenderemo l’anima dell’autore reclinata su se stessa, quasi nuda, quasi priva di pudore: “Avrei voluto un tempo/imparare a suonare la chitarra”; oppure: “E adesso perché mai prende a stringersi il cuore/perché i palpiti si fanno più veloci/torna di colpo ad essere bambino?”. Ma la maggior parte delle volte e dunque il tono finale di questa poesia è come s’è detto a contrasto, si potrebbe dire V
drammatico, una eco crepuscolare cui sia stata tolta l’estrema risonanza musicale. Infine una nudità vera e propria: la nudità non già dell’infanzia, ma dell’età adulta. Procede la descrizione di un paesaggio. Compare in scena una scuola che potrebbe essere in se stessa un avviso “ai naviganti”. (Ma potrebbe essere anche niente: una scuola e niente altro). Poi, di colpo, la stoccata: “Per qualche istante la mia vita torna a rinverdire/’Al passo’ - sta scritto su di un muro/in fondo giù al garage...” Si tratta allora di capire quale sia la vita cui viene intimato l’altolà: perché proprio a questa vita viene ingiunto di cambiare andatura, di andare “al passo”? Essa è la vita novecentesca, perduta, straziata dal tempo convertito in spazio: la vita del flaneur, quell’uomo elegante ma senza scopo, vagabondo senza fine. “Notaio – sta inciso sulla targa di un portone/Passeggiando lungofiume consumiamo la sera”. O meglio, più esplicitamente, più direttamente: “Nulla lasciava presagire il domani/al crucciato flaneur, al girovago esangue/beniamino conteso di ‘cattivi maestri’,/che amava godere ai margini del secolo/la purezza di chiari mattini”. Ebbene, a costui, a questo “girovago esangue”, qualcuno finalmente dice che è ora di smetterla. Ma non si tratta di una intimazione morale, bensì di una intimazione metafisica: che viene dall’alto dei cieli, dall’invisibile; ovvero dai nascondigli segreti del cuore, dal profondo, dal basso. Si tratta di una intimazione così perentoria, così crudele, da rovesciare di colpo la prospettiva (in quella che è forse la poesia più bella della raccolta): “L’odio che vi porto/non nacque per isbaglio come il vostro/amore che mi condusse al mondo”. Franco Cordelli Febbraio 1997
VI
Introduzione Ho sempre sentito nella persona di Doriano Fasoli, nel suo volto scavato, nei suoi lunghi capelli da musicista beat, nel suo corpo magro, nella sua voce profonda e un po’ arrotata qualcosa di misterioso e remoto, qualcosa come un’eco di sofferenze o di prove affrontate in chissà quali pieghe dell’esistenza. Questo risvolto d’ombra non impedisce mai al suo spirito di esplorare la realtà, di aprirsi all’altro, agli altri. Come avrebbe potuto quest’uomo dedicare tanti dei suoi anni all’arte paziente dell’ascolto e del dialogo – all’esercizio dell’intervista – se in lui non vibrasse il desiderio di non negarsi mai al movimento vitale, al respiro dell’umano? Questa sorta di doppio strato del suo essere – la melanconia e la luce, la pena che imprigiona e la sete di confronti, d’incontri – si esprime in modo originale nei versi che è andato via via componendo, e di cui ora ci offre una nuova scelta. Scomposizioni è anzitutto una teoria di ferite, lacerazioni, schegge confitte nel corpo e nell’anima, abrasioni, tagli, umiliazioni mai davvero bruciate, placate. Sia l’infanzia che la giovinezza gravano ancora, con i loro irrisolti nodi d’angoscia, sui passi a zigzag del poeta, e anche la sua età adulta è stata segnata da tragedie atroci: la morte della propria donna, del proprio amore unico, irripetibile; quella di alcuni carissimi amici. Sullo sfondo di una realtà collettiva assediata senza tregua dal nonsenso (i “sentimenti insonori”, i “fatti-nulla”, gli “inganni recidivi”, le “morti equidistanti”), i versi di Fasoli procedono vacillando, ansimando, alternando quadri sghembi, schizzi contorti, ritmi frenati, ingorgati o schiumanti come colate acquatiche di rifiuti, scorie oscene, carcasse di sogni infranti. A tratti la testimonianza del mistero doloroso del vivere s’inarca in visioni di un’allucinata forza plastica: penso ad esempio a quel carro funebre “seguito da nessuno” (Carro funebre) che ricorda il finale di VII
Still Life, il bellissimo film di Uberto Pasolini; penso a quell’anziano zio che pedala “curvo sconfitto” da un’età che non è più la sua (Lo zio) o a quei “pochi cavalli magri” che, in un paesaggio “senza luce”, sembrano fiutare l’incenerirsi della speranza (Neoplasia). Ma la tendenza a enumerare tutte le forme e i volti della pena e del male non è l’unico registro, l’unica linea prospettica del libro. Un giorno una scritta sul muro d’un garage (“Al passo”) ricorda al poeta che dobbiamo muoverci e scuoterci, che dobbiamo spostare i nostri punti d’osservazione se non vogliamo restare intrappolati nell’angoscia (Ora di ricreazione). In un altro testo (Passi ciechi) simile a un mantra, tutto fondato, com’è, sull’anafora, sulla ripetizione scandita, ossessiva, il poeta ci dice che persino il più grande dolore – l’intreccio più inestricabile, dentro di noi, fra le passioni e i dubbi, i sogni e gli errori – può diventare altro se impariamo ad accettarlo, a “cedere”, ad abbandonarci ad esso: Alle passioni cedi Al sogno All’estate che sbava Alla febbre che sale (…) Cedi cedi Ai tuoi passi ciechi. Questa poesia è cruciale nella parabola di Doriano. Benché i colori bui e le risacche d’angoscia continuino a sovrastare il suo cammino, l’intuizione che cedere alla realtà com’è (lasciarla fluire, non tentare di dominarla) possa allentarne la morsa, schiude degli spiragli preziosi nella sua visione poetica. Se il cielo d’Irlanda è un vorticare di nubi che promettono pioggia, non basta forse, a volte, accettare tutto ciò perché “un soffio di vento repentino”, lacerandole, torni a far “ridente / il volto rude” di quella terra? Se i pensieri, le insidie, i rancori, i “nemici” ci si stringono minacciosi intorno, non è sufficiente una “brezza marina” a risvegliare in noi la gioia d’una tregua, la possibilità di sentirci liberi da tutto, fluttuanti in un mondo senza perché? VIII
Muovendosi sul filo sottile della gratuità, Fasoli sa, almeno in un caso, parlarci addirittura di “ebbrezza e levità”, di un tempo di benessere profondo, della propria anima d’un tratto simile a un lenzuolo “fresco lavato / che ondeggia steso al vento”. Di nuovo, poi, l’anima s’ingorga, i fantasmi tornano ad assediarla... Eppure è come se, grazie a quei rari momenti di leggerezza, qualcosa fosse risalito dall’inconscio alla coscienza del poeta rivelandogli che anche nella tenebra più fitta si annida qualche seme di luce. Forse è a questa rivelazione che dobbiamo alcuni dei testi più intensi della raccolta. Cosa scopriamo in essi? Una specie di musica che, pur nascendo da grandi ferite, sa in qualche modo lenirle, sa allentarne l’arsione, lo strazio. Così, nel finale di L’ingorgo, la rima baciata scioglie la stanchezza di chi si sente “sempre più vinto” in una specie di tenerissima carezza all’invisibile: (…) mentre ritorni a casa sempre più vinto e stanco “dove sei ora? perché non sei al mio fianco?” Così, vagando nella città notturna, il poeta flâneur può scoprire qualcosa di profondamente fraterno nello sguardo smarrito di una prostituta (“E ora in fondo al tuo leggo il mio buio”) e nell’estremo resistere in lei di bagliori di speranza (“lascia le stelle zampillare dagli occhi”) – e la musica, qui, è quella antica dell’endecasillabo o dell’alessandrino. Oppure, in Scorrono ricordi, il battito del cuore del poeta “sotto la sferza gelida del vento” (altro splendido endecasillabo) ci raggiunge come una canzone triste ma a suo modo dolce se i ricordi in fuga sanno creare, almeno per qualche istante, un po’ di calore, una fiamma intensissima e struggente “prima che il tempo li risospinga via”. Paolo Lagazzi
IX
Non so se la verità ti sarà di qualche conforto, ma so che qualunque conforto ti derivi dalla falsità è destinato a essere falso e transitorio, mentre quello che trovi nella verità, se mai lo trovi, è permanente come la verità. Samuel Johnson Le parole dicono lo stesso all'uomo profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e insomma tutti intendono perfettamente quello che l'autore vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente. Giacomo Leopardi, Zibaldone 348 SONNO Affida la sua radice al centro dell'anima. Sugge la linfa dall'infinita fonte dell'inconscio il sempreverde. Donald W. Winnicott Una poesia non si legge: si convive con essa “Sereni legge Seferis” in L. Anceschi, “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Il Saggiatore, Milano, l976, p. 181.
X
Commento “L’umore (ma basterebbe trasporre una vocale: l’Amore) che inarca la schiena” e penseremmo a un aggiornato stilnovista. Cosï la partenza. Cui segue il verso bellissimo: “il primo fuoco che seduce il giorno”: ciò che segna, “illumina” la distanza che il tempo elabora, la perdita dei “brividi”, per cui alla donna si chiede di rimediare attraverso banalità che tali non furono: “volteggia a piedi nudi sul parquet”. Poi c’è quel “frugare nei cassetti” e allora mi si para davanti il dipinto tizianesco: la donna, la Venere, in primo piano, e sul fondo chiaroscurato un misterioso frugare in un cassettone di due altre donne. Si potrebbe attribuire loro la domesticità attutente del giornaliero (“vestiti del mio declino”), oppure il tentativo di rinvenire là un amuleto per rinascite. Il colorito è quello crepuscolare appunto, dei “crepuscoli di pena”. Ma vi è poca nobiltà nel trascorrere dei destini, si uccide inutilmente una falena, e che vi siano “variabili” è una constatazione atroce. “Il riflesso di me che vedo scomparire” dice una successiva poesia, ed è ancora un lamento sul Tempo. I riflessi si perdono, e questo ricorda “los espejos” di Borges, il riflesso “scompare / in un altro riflesso senza meta”: sono i “Tristia” che partorisce il Tempo. Sulla scrittura, ovvero sulla poesia, mi sembra tratti la composizione seguente: “Ansimi-stanziale / custode del tedio”. C’è la difficoltà, dopo aver fantasticato sui “dolorosi viali materni”, sulle “fittizie armonie”, c’è il guardar sempre oltre... Perdite, ancora. “Pallida, oltrevita…”: qui riappare una figura che, come svariate stilnoviste o petrarchesche, è opera sia di pensiero (“tenacemente assorbita / dai tuoi versi insonori”) che di sperimentata realtà, e infine è “l’ombra mia che se ne va / tra l’intervallo delle tue dita”. Gottfried Benn aveva parlato del gioco di non credere alle ombre (“Dann spielen sie / an Schatten nicht zu glauben”) e aveva avvertito: “credi alle eternità / non provocarle oltre il segno”. XI
Eppure esiste, goehtianamente, il momento, l’attimo, la tregua, “quando non c’è un pensiero da stanare”. Sull’odio: una confessione terribile in tre versi. Potrebbe far pensare a un dato paesaggio (lo fa a me vissuto anni in Argentina, e lungamente frequentatore di Borges) quella chitarra, quelle ferite della sera. Ma questo è, confesso, pura autobiografia. Che però in qualche modo, ricordiamolo, è sempre partecipe nella lettura di testi “vicini”. “Non crescono più fiabe da raccontare”: non ci credo del tutto. Un frutto di amarezza, constatando le distruzioni del Tempo. “Il vento cancella le tracce / di segrete verità”: ne siamo sicuri? Di tante verità esterne, magari politiche, è direi quasi certo, è opera non soltanto del Tempo ma dei tempi in cui viviamo. Ma quelle “segrete”? Non saprei. Il fatto è che Doriano ha molto letto, pensato, annusato. E poichè i temi più secondari e meno invitanti si addicono meglio all’invenzione (così è stato ricordato su Sir Thomas Browne) non gli mancheranno rigurgiti di pensiero ed eventualmente di verso. Cesare Mazzonis
XII