Leaders e followers di fronte ai cambiamenti catastrofici: tra coraggio, responsabilità e limiti

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A cura di

Marino De Crescente

Leaders e followers di fronte ai cambiamenti catastrofici: tra coraggio, responsabilità e limiti

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© Copyright Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 06-39738315 I Edizione, 2019

Marino De Crescente ha conseguito un Master of Arts in psychoanalitic observational studies presso la University of East London-Tavistock Clinic. È stato tra i fondatori dell’INDTC (International Network of Democratic Therapeutic Communities), dell’ISAP (Istituto Studi Avanzati in Psicoanalisi), dell’Associazione Françoise Doltò e della Comunità Passaggi. Da quasi trent’anni lavora all’interno delle comunità terapeutiche, attualmente è responsabile per il centro Italia delle comunità per adulti e del progetto Visiting adulti dell’Associazione Mito e Realtà. È promotore del Network Psychosocial Green Care Italia. Con Alpes ha già pubblicato La politica delle comunità terapeutiche, 2011; La Paura, la noia, la rabbia, 2017; Le dimensioni della perversione, della manipolazione e del controllo, 2018.

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INDICE Prefazione di Marino De Crescente...............................................................

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Introduzione

Leaders e Followers di fronte ai cambiamenti catastrofici: tra coraggio, limiti e responsabilità a cura di Mario Perini........................................................................................

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Interventi Per una prospettiva etica del compito primario in tempi catastrofici: un’esperienza di supervisione di Luca Gaburri..............................................................................................

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Istituzione e attitudine psicoterapica: leadership democratica e forze deboli

di Comunità terapeutica riabilitativa “Il Poggio”, Comunità terapeutica riabilitativa “Il Borgo”,DSM USL Umbria 1 .................

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Il gruppo istituzionale della Comunità terapeutica come gruppo di lavoro specializzato di Claudio De Santis, Maria Ciambella ..........................................................

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Quelle catastrofi utili di Ugo Corrieri...............................................................................................

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Leader & follower: nuove prospettive e rischi nei mutamenti della modernità di Carmine Pasquale Pismataro.......................................................................

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Il Potere e la retorica nella rappresentazione della leadership. Strategie argomentative e pratiche di senso nei dispositivi comunitari, l’esperienza inglese ed italiana delle CT e delle CT democratiche di Luciano Moro.............................................................................................

III

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Leaders e Followers Leadership in istituzione: la questione dell’oggetto di Alessandro Prezioso...................................................................................... 71

Il (saper) cambiare istituzionale come modello per gli ospiti in trattamento? di Filippo M. Jacoponi.....................................................................................

IV

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Prefazione di Marino De Crescente

Nell’epoca delle passioni tristi contrassegnata dall’incertezza economica ecologica e sociale la percezione di una catastrofe imminente è un sentimento universalmente sempre più diffuso. Si potrebbe dire che esso presiede a una nuova antropologia che vede l’uomo alle prese con una costante e continua insicurezza sociale, dal momento della nascita a quello della morte. Ma in che modo questa nuova dimensione può influenzare chi è già professionalmente alle prese con “L’incerto” ovvero l’operatore della salute mentale che lavora in ambito istituzionale a stretto contatto con dimensioni psichiche disorganizzate, scisse e per loro natura imprevedibili? Si potrebbe affermare che proprio quei professionisti che lavorano quotidianamente in circostanze emotive altamente rischiose dovrebbero paradossalmente essere i più idonei e allenati ad affrontare le incertezze del presente e del futuro prossimo venturo. Ma ciò non toglie che essi debbano periodicamente affrontare minacce esterne alla loro integrità professionale che arrivano da politiche sempre meno sensibili ai disagi del mondo sociale e alle istituzioni che di questi si occupano, che obbligano a cambiamenti organizzativi e razionalizzazioni che possono minare il bisogno di sicurezza di chi lavora nelle istituzioni per la salute mentale. La minaccia esterna può allora divenire una minaccia interna al gruppo di lavoro e conseguentemente distruggere la coesione gruppale faticosamente acquisita, necessaria a creare l’ambiente sicuro e prevedibile di cui hanno bisogno i pazienti per iniziare i loro percorsi di cambiamento. “Lavorare con l’ansia” ha “costi emotivi nelle moderne organizzazioni” (per citare un’interessante pubblicazione di Mario Perini che ha aperto la settima edizione delle giornate di Montefiascone) spesso molto elevati e che possono compromettere la realizzazione della Mission di queste istituzioni e farle deviare dal loro compito primario. Il tema della giornata di studio di quest’anno era, infatti, riferito a come Leaders e Followers affrontano i cambiamenti catastrofici, veri o presunti tali. Il riferimento abbastanza esplicito era a W. Bion la cui teoria è piuttosto conosciuta nelle istituzioni che utilizzano il pensiero psicoanalitico, ma meno in quelle che fanno riferimento a teorie differenti. L’obiettivo della giornata era quindi quello di muoversi intorno al concetto bioniano di “cambiamento catastrofico” per esplorarne le potenzialità, con V


Leaders e Followers

il fine operativo (specifico di queste giornate) di accrescere gli strumenti teorico-clinici a disposizione degli operatori e dei responsabili delle istituzioni psichiatriche (in particolare delle comunità terapeutiche) e fare in modo di poter gestire al meglio fasi e periodi di “cambiamento” (percepito spesso come catastrofico) ed evitare ricadute nefaste sulla clinica e quindi sui percorsi terapeutici dei residenti. Tema articolato e complesso, non differentemente dal lavoro che le comunità terapeutiche svolgono quotidianamente. D’altronde è utile ricordare che la caratteristica rilevante delle giornate di Montefiascone è appunto accettare la sfida della complessità e il rischio di non giungere a conclusioni rassicuranti o definitive ma porsi le domande necessarie a tener viva la cultura dell’indagine: principio teorico determinante e necessario a far sì che la riflessione sulle comunità non si istituzionalizzi, e si mantenga nel solco del pensiero critico. Ma entriamo ora preliminarmente nel merito del rapporto tra Leaders e Followers in relazione ai momenti critici dell’istituzione. Fatta salva la responsabilità specifica di entrambe nel determinare gli esiti di cambiamenti vissuti catastroficamente, va innanzitutto detto che i cambiamenti fanno parte della fisiologia della vita di un’istituzione e quindi Leaders e Followers dovrebbero essere consapevoli che nel corso del loro percorso professionale dovranno predisporsi ad affrontarli nel modo migliore e presumibilmente più indolore. Per quanto riguarda le comunità terapeutiche e in generale le istituzioni psichiatriche che si occupano di situazioni quasi sempre critiche o spesso di vere emergenze riguardanti le modalità spesso tumultuose con cui gli utenti stessi effettuano cambiamenti, risulta davvero difficile pensare ad aree di comfort resistenti al cambiamento che possono invece essere una caratteristica di istituzioni meramente assistenziali che non hanno come scopo il cambiamento o trasformazioni reali dei loro assistiti. Come afferma D. Mc Gregor (1982) “Molte ricerche hanno chiarito che la resistenza ai cambiamenti non è una caratteristica innata della personalità umana, ma costituisce soprattutto una reazione ai metodi utilizzati per effettuare il cambiamento” (pag. 142). A questo proposito risulta interessante la riflessione di Guido Contessa nel testo Prigioni, Monasteri, Fabbriche (1988) che mette in stretta correlazione le teorie del cambiamento e i codici istituzionali distinguendo sei potenziali modalità di cambiamento e relativi codici, riferibili alla diversa umanità che vive o lavora nelle istituzioni: L’uomo cambierebbe quindi attraverso: • Prescrizioni e comandi nella scuola e nell’impresa. • Punizione ed espiazione nel carcere correzionale. VI


Prefazione

• • • •

Amore e protezione: in famiglia. Esempio e testimonianza: nelle religioni orientali. Trauma e illuminazione: nel teatro e nell’arte. Contratto e negoziazione: nel mercato.

Tralasciando l’analisi di tutte queste modalità di cambiamento (per le quali si rimanda alla lettura integrale del testo citato), soffermiamoci su quella che ci sembra più idonea a una concezione del cambiamento individuale e istituzionale (quando cambiano gli individui in una comunità cambia l’intera comunità, quando cambia l’organizzazione di una comunità inevitabilmente cambiano gli individui che si trovano al suo interno) meno traumatico e quindi presumibilmente meno catastrofico. Questo è senz’altro il cambiamento per contratto, legato al codice negoziale. In esso, infatti, il processo di cambiamento è condiviso, e non subìto, da tutte le parti in causa. Contessa scrive: “Alla base di questa teoria sta una concezione dell’uomo come essere libero e responsabile di sé, capace di negoziare e di assumersi responsabilità…” L’uomo cambia secondo il codice che definiamo negoziale, se si impegna in un patto di cooperazione responsabile e attiva con chi lo aiuta a cambiare… nel codice negoziale i patti tra i contraenti hanno confini decisi dalle parti e comprendono tutto quanto essi convengono” (pag. 34). Risulta evidente che in una comunità che ha come Mission e fine precipuo il cambiamento inteso come riduzione dello stato di sofferenza degli utenti e il miglioramento psicopatologico, l’utilizzo di un codice negoziale dovrebbe consentire a tutta l’istituzione di essere partecipe e responsabile di tutti i processi di cambiamento, compresi quelli più difficili e potenzialmente catastrofici e di predisporsi a una soluzione meno traumatica possibile perché interamente condivisa. In questo senso è utile ricordare che il concetto moderno di comunità terapeutica implica il coinvolgimento, la partecipazione e condivisione democratica, secondo i diversi livelli di responsabilità, di tutte le istanze dell’istituzione. Si parla, infatti, oggi, sempre più spesso, di comunità terapeutiche Democratiche. Cerchiamo ora di accennare ad alcune circostanze che ci obbligano ad affrontare cambiamenti potenzialmente catastrofici che però, in verità, come affermato da W. Bion, possono avere un carattere evolutivo.

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Leaders e Followers

Accade piuttosto ciclicamente, in comunità terapeutica, che uno o più ospiti attraversino un periodo particolarmente critico e di recrudescenza della propria condizione psicopatologica. Ho scritto altrove: “Proprio in quanto evento unico e straordinario che pone l’istituzione di fronte ai propri limiti e confini, la crisi acuta pone sempre un problema di gestione che risulta essere, non esclusivamente, ma sempre, un problema di gestione dei limiti e confini dell’istituzione”…“Se è dunque possibile ipotizzare un isomorfismo tra la condizione individuale dell’ospite in crisi e quella dell’équipe curante, la gestione della crisi di un paziente in comunità potrebbe conseguentemente corrispondere potenzialmente a quella di una comunità in crisi” (2011). È evidente quanto un fenomeno all’apparenza periferico, un cambiamento di status psicopatologico, che può a volte esprimere un potenziale evolutivo, per l’impatto emotivo e per i livelli di responsabilità professionale che attiva negli operatori può diffondere una potente angoscia in tutta l’équipe e mandare letteralmente tutta la comunità in “crisi”. Essendo questo un fenomeno di campo, come detto in precedenza, piuttosto ciclico in una comunità terapeutica, risulta singolare che le esperienze pregresse non risultino spesso di alcuna utilità: la percezione di una catastrofe imminente annulla, infatti, la dimensione temporale. Solo ex post, passata la bufera (emotiva), si può riflettere sull’errata percezione dell’evento, che fortunatamente, e nella maggior parte dei casi, vissuto in un ambiente protetto e sicuro, non produce conseguenze significative. È chiaro che una soluzione positiva della crisi, può dipendere in maggior parte dal grado di coesione dell’équipe, ovvero dall’accordo esplicito dei Leaders e dei Followers impegnati reciprocamente nei propri ruoli e nella gestione della crisi e nella definizione delle decisioni da prendere in merito a essa. Altri esempi di cambiamento catastrofico possono essere riferiti a momenti specifici del ciclo vitale dell’istituzione come, ad esempio, all’espansione e creazione di nuovi programmi che implicano un’evoluzione delle competenze dello staff. Questi cambiamenti, se hanno un indubbio valore evolutivo possono essere vissuti catastroficamente da chi li attraversa. Anche una modifica degli invii da parte dei servizi preposti, con richieste per nuove patologie emergenti per le quali occorrono approcci altrettanto nuovi, può essere vissuta catastroficamente dalle équipe per i cambiamenti che la gestione di queste patologie implica nell’assetto delle équipe stesse.

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Prefazione

In ultimo, date le razionalizzazioni economiche che si stanno operando nel Sistema Sanitario Nazionale (per la salute mentale) e che prevedono una consistente riduzione delle spese per la residenzialità divenute oggi insostenibili, la semplice proposta di dover modificare alcuni modelli in direzione di strutture comunitarie che siano operanti solo alcuni giorni a settimana o magari riorganizzate in forma semiresidenziale, viene percepita oggi dagli operatori del settore, comprensibilmente, come una reale catastrofe imminente. A rigor di logica dovrebbe risultare chiaro che modelli residenziali con trattamenti intensivi di comunità dovrebbero rimanere imprescindibili e necessari, in quanto per la loro provata efficacia riducono i costi della residenzialità a lungo termine. Le strutture residenziali più assistenziali con costi pressoché analoghi e dimissioni sine die dovrebbero invece in futuro subire presumibilmente i maggiori effetti di queste razionalizzazioni. Il timore di un taglio orizzontale e indiscriminato della residenzialità riferito anche alle comunità terapeutiche e alla loro cultura più che consolidata getta oggi gli operatori del settore in un’angoscia di estinzione. Impegnati per decenni nella ricerca di modelli sempre più evoluti e funzionali, il pensiero di una loro rapida dismissione a causa di scelte politiche, a dir poco sconsiderate, li pone in una nuova condizione di preoccupata incertezza in cui la dimensione di evoluzione progresso e ricerca che ha caratterizzato il loro lavoro sembra dover essere subìto sacrificata a una razionalità economica che, in realtà, di razionale sembra avere ben poco.

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Introduzione di Mario Perini

Leaders e Followers di fronte ai cambiamenti catastrofici: tra coraggio, limiti e responsabilità “Cambiamento catastrofico” è un termine squisitamente bioniano. Per Bion uno dei più delicati processi di conoscenza è quello che chiama “trasformazione in O”, dove O rappresenta la “cosa in sé”, il fatto originario, la verità; in definitiva egli afferma che è possibile raggiungere la conoscenza più profonda e viva della realtà psichica, ma che questa trasformazione è temuta (e per questo suscita resistenze) perché ha sempre un carattere distruttivo, ciò che Bion chiama appunto “cambiamento catastrofico” perché provoca una violenta disorganizzazione del sistema e degli equilibri che si erano costituiti in precedenza. Questo carattere “eversivo” del cambiamento è però nello stesso tempo un pericolo distruttivo e un’opportunità di sviluppo. Il cambiamento catastrofico costituisce un fenomeno evolutivo, di crescita mentale. Si può paragonare a un’esplosione che trasforma un momento pre-catastrofico in un altro, post-catastrofico, ricco di emozioni. È associato perciò a una trasformazione. Non è un disastro, ma il punto di partenza di un’evoluzione. (...) Sebbene si tratti di una situazione emotiva profonda, si intreccia con un sentimento di crisi che si può cogliere sia nella vita psichica che nel gruppo e nella società. (Grinberg L., Sor D., Tabak De Bianchedi E., Introduzione al pensiero di Bion, Cortina, Torino, 1993).

Oggi la salute mentale, e in generale la sanità e il welfare, la politica e l’economia, la convivenza civile tra collettività e nazioni, lo stesso ambiente del pianeta sono esposti a continui cambiamenti catastrofici, che comportano rischi terrificanti ma forse incitano anche a ricercare e sviluppare nuove idee, nuovi equilibri, nuovi dialoghi e patti sociali. In questo scenario la cultura comunitaria è visibilmente sotto attacco, a mio parere a opera di tre minacce principali: • ideologica: la Comunità è accusata di generare dipendenza, regressione e cronicità, di essere di fatto un’istituzione neo-manicomiale (cfr. le vecchie critiche di Basaglia, a 40 anni dalla L. 180);

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• operativa: la residenzialità in tutte le sue forme viene messa in crisi e tende a essere trasformata in “discarica sociale” dall’invio di pazienti “inappropriati” o rifiutati da altri servizi (cronici, acuti, disabili, delinquenti); • professionale: gli standard imposti dalle politiche sanitarie locali, orientati quasi esclusivamente alla riduzione dei costi e al controllo dell’ordine pubblico, privilegiano l’impiego di personale assistenziale e di una cultura della “badanza” rispetto a quello riabilitativo e psicoterapeutico. Per affrontare questi cambiamenti e le minacce distruttive che recano in sé, sviluppandone però anche il potenziale evolutivo, uno degli strumenti cruciali è senz’altro la leadership. Sulla leadership nella cultura comunitaria sono state scritte centinaia di pagine, da Maxwell Jones in poi (e anche prima di lui). Anch’io mi sono cimentato nell’elaborare qualche pensiero sul tema, e dieci anni fa, proprio in occasione di un Convegno di Mito & Realtà 1, scrivevo di “due linee di tendenza” nello stile della leadership: 1. I leader autocratici si comportano come se non dovessero preoccuparsi dell’intero sistema nelle sue complesse prospettive strategiche e spazio-temporali, lo trattano come un sistema lineare e lo segmentano in orizzonti parziali e processi di breve durata, varando politiche di piccolo cabotaggio e di corto respiro, che non pianificano il futuro ma si limitano a incassare il dividendo della giornata. Leader senza visioni, sono gestori dell’immediato che di fatto alla leadership hanno abdicato e governano facendo largo uso di meccanismi psicotici come l’idealizzazione, la scissione, la paranoia e il diniego; le loro organizzazioni tendono a politiche di galleggiamento e alla prima burrasca un po’ più violenta rischiano di esserne completamente distrutte. 2. I leader partecipativi sono persone più riflessive, si rendono conto che non riescono a fare tutto da soli (anzi ben poco), e capiscono che hanno bisogno degli altri – i followers – e che devono pertanto imparare a conoscerli (per sceglierli, per potersene fidare), a motivarli, a delegare loro parte della loro autorità, a dosare in modo equilibrato il controllo e il supporto; lo stato mentale che li guida è più orientato al realismo e alla consapevolezza dei limiti e dell’interdipendenza (in termini bioniani diremmo alla posizione depressiva). Sono leader più “accessibili”, interessati alla natura umana e disposti ad acquisire anche competenze emotive accanto a quelle 1 Convegno di Mito & Realtà “Dimensioni della responsabilità nei curanti e negli ospiti delle Comunità Terapeutiche e delle strutture intermedie” (Milano, 8 novembre 2008).

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Introduzione

gestionali. Le loro organizzazioni mirano ad apprendere e a svilupparsi sulla base dell’esperienza. E commentavo che “la leadership, punto di forza della CT nella fase fondativa, ne rappresenta anche e non di rado il tallone d’Achille, non foss’altro perché è costantemente immersa in un bagno di scissioni, proiezioni e fantasie primitive che rischiano di sommergerla, specialmente nei momenti di crisi e in quelli di transizione. La fondazione di una CT è nella maggioranza dei casi frutto della realizzazione della “visione” di un leader carismatico, la cui idealizzazione gli assicura per un certo tempo un seguito di compagni e collaboratori entusiasti, creativi e alquanto dipendenti” (Perini, 2009). Ma in ogni comunità il tempo dei pionieri presto o tardi tramonta e allora occorre affrontare la complicata transizione dal carisma alla managerialità. È a questo punto che la leadership viene messa più a dura prova, e che può diventare essa stessa un fattore di instabilità istituzionale. In teoria la soluzione sarebbe semplice: il carisma del leader – e con esso l’autorità e la stessa “missione” comunitaria – viene ridistribuito tra i membri dell’istituzione, ai quali è concessa anche la facoltà di cambiare il modello originario; lo stile di gestione intanto migra gradualmente dal polo ideologico della realizzazione dei valori a quello più pragmatico del perseguimento degli obiettivi condivisi, e lo stato mentale dell’istituzione si sposta dall’assunto di base di dipendenza dal capo idealizzato al gruppo di lavoro dei “manager” orientati al compito. In pratica le cose non vanno quasi mai così lisce: troppo spesso i padri e le madri della fondazione, negando la propria vecchiaia – e anche il mondo che è cambiato intorno a loro – e temendo la rivalità edipica dei figli-seguaci, non preparano la successione e non danno deleghe, resistono all’idea che la loro “creatura” venga gestita da altri e diventano conservatori e dogmatici; in questo modo la comunità rischia una deriva paternalistica o autoritaria oppure si insedia una leadership anti-emancipativa nel segno della “madre arcaica” che seduce e incorpora i figli impedendone la crescita, o che li abbandona o li espelle come traditori appena si mostrano più autonomi. Un altro scenario possibile è quello dell’indebolimento progressivo della leadership, che si traduce nella cronica incapacità di prendere decisioni, nella degenerazione burocratica della vita istituzionale e nella scomparsa della creatività sotto una coltre sempre più spessa di regole e di routine. I collaboratori e gli stessi residenti possono colludere con questi sviluppi regressivi per paura del cambiamento. La cultura democratica originaria rischia allora di svuotarsi di senso minata alla base da alcune delle sue più comuni perversioni: la demagogia con le sue liturgie pseudo-egualitarie, XIII


Leaders e Followers

la militarizzazione paranoide in difesa della “causa” o della purezza degli ideali originari, la corruzione mafiosa con le sue manovre manipolative e le sotterranee guerre per bande. Oggi alcune delle difficoltà delle CT sono legate o all’uscita di scena dei leader-fondatori oppure all’inevitabilità dei cambiamenti imposti dalle trasformazioni socio-culturali e dalle dinamiche del mercato e della politica. La crisi della leadership assume talora il volto del narcisismo distruttivo e megalomanico (“La Comunità sono io!”, e “Après moi, le déluge!”, con l’implicito assunto che la comunità non sopravviverà al suo fondatore), o quello di un isolazionismo indifferente all’esistenza di un mondo esterno “là fuori”, o all’opposto quello di un orientamento tutto proteso alla realtà esterna, alla politica, al mercato, alla caccia alla convenzione e al cliente “purchessia”. Compito della leadership è certamente assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo sia dell’istituzione sia dei valori che hanno ispirato la sua missione, due imprese tutt’altro che facili che possono anche diventare reciprocamente antagonistiche. Il perseguimento dei valori originari a dispetto dei mutamenti esterni può costare alla CT profonde crisi di identità e anche la chiusura, la “morte istituzionale”. Ma le realistiche preoccupazioni che i leader mostrano per il rifornimento di risorse (nuovi pazienti) e il contenimento dei costi possono indurli a trascurare la qualità dei servizi resi e il morale dei collaboratori, provati dal sovraccarico o disorientati da comunicazioni e politiche incoerenti. In questo caso il rischio per la CT non è più l’estinzione – almeno non a breve termine – ma la sua progressiva trasformazione in una comunità “anti-terapeutica” (Hinshelwood 1985, in Corulli 1997) e in un luogo pervaso dal malessere organizzativo. Due risorse cruciali in questi processi possono essere completamente ignorate: la “rete” e la followership. • La rete in questo contesto è la capacità di uscire dal solipsismo autoreferenziale del proprio modello comunitario per sviluppare alleanze, sinergie, accordi e collaborazioni tra soggetti diversi e a volte concorrenti attraverso e nonostante la diversità e la competizione. Reti intercomunitarie nazionali e internazionali e partnership tra servizio pubblico e privato sociale sono state più volte realizzate, anche se con alterne fortune. • La followership, ossia il gruppo dei collaboratori, nonostante le molte radici democratiche e partecipative della cultura comunitaria, continua a essere una risorsa sottovalutata e sottoutilizzata, spesso con la motivazione (non priva di qualche buona ragione) dell’abbassamento dei livelli di professionalità imposto dalle normative. XIV


Introduzione

Lo scollamento, le difficoltà e le distorsioni nella comunicazione tra capi e collaboratori sono un dato pressoché ubiquitario nelle organizzazioni, e una delle preoccupazioni primarie di una leadership sufficientemente buona consiste proprio nella cura della relazione con i collaboratori, dai quali dopo tutto dipende la realizzazione degli obiettivi desiderati. I problemi di comunicazione possono dipendere da una struttura gerarchica particolarmente verticistica, dove la leadership è distante e poco accessibile o dove i capi sono poco inclini all’ascolto e considerano i collaboratori più come una massa di manovra che deve eseguire gli ordini che non come esseri pensanti che potrebbero essere utilmente coinvolti nello sviluppo delle strategie dell’impresa. E questo accade, più spesso di quanto non ci piaccia riconoscere, persino nelle comunità terapeutiche. Anche i collaboratori però hanno le loro responsabilità perché spesso sono complici di questa leadership “autoritaria” che non comunica con loro o che si limita a fargli la predica, e anzi a volte sono i primi a isolarsi difensivamente dal contatto, come quando sviluppano un diffuso atteggiamento di dipendenza passiva e di delega verso l’alto, per cui, mentre lamentano di sentirsi esclusi dalle informazioni, in realtà inconsciamente preferiscono non sapere nulla. Capi accentratori, gelosi delle informazioni e delle conoscenze che detengono in virtù del loro ruolo, colludono in modo evidente con questo stato mentale di autoesclusione risentita dei loro collaboratori, ma è quest’ultimo a svolgere la principale funzione difensiva: è meglio non sapere per non dovere agire, perché una volta messi al corrente della realtà e delle decisioni prese diventa difficile evitare di doversi assumere nuove responsabilità (Perini, 2007).

In stretta connessione con questi processi di scissione tra vertice e base sta un dato culturale tipico del nostro Paese e in genere delle società mediterranee: da noi, diversamente che nel mondo anglosassone, il discorso sull’organizzazione privilegia nettamente la leadership mentre manca completamente una cultura della followership. Tendiamo quindi facilmente a sottovalutare il ruolo dei collaboratori, dei membri dell’organizzazione, che sono rappresentati (e si vivono, anche difensivamente) in posizione gregaria come un semplice “seguito” dei capi: vengono così largamente ignorate sia la loro preziosa funzione di “riconoscimento dal basso” dell’autorità del vertice (Obholzer, 1994) sia la possibilità per il follower di esercitare un “quantum” di autorità e di responsabilità nella gestione del proprio ruolo, che è anche e fondamentalmente un “sistema di supporto alla leadership”. La convinzione tacitamente condivisa sia ai vertici che alla base è dunque che solo i capi hanno autorità e che solo da loro possono venire idee brillanti, mentre le posizioni subordinate sono puramente esecutive e non XV


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contano nulla, anche se l’esperienza offre continue dimostrazioni del contrario: come il fatto evidente che senza un seguito i leader non vanno molto lontano o che i collaboratori sono potenzialmente in grado di impedire o sabotare la maggior parte delle politiche sostenute dal vertice dell’organizzazione. In questa visione leadership e autorità sono tipicamente “posizionali”, le competenze sono per definizione una prerogativa dei capi, mentre i collaboratori si vivono come impotenti e privi di mezzi e però anche tendenzialmente sollevati dalle ansie e dalle responsabilità decisionali. Tra le conseguenze problematiche di questo gap culturale possiamo collocare il sovrainvestimento e l’idealizzazione del ruolo del leader: avremo così capi certamente molto gratificati nelle proprie fantasie di onnipotenza ma, in definitiva, sopravvalutati, gravati da un eccesso di stress e costretti in condizioni tali da non poter mai essere aiutati e nemmeno costruttivamente confrontati senza sentirsi denigrati o minacciati sia nella propria posizione sia nel proprio equilibrio narcisistico. Per questo nella nostra cultura appare così cruciale conquistare una posizione di comando, senza la quale sembra di non poter fare nulla, ma una volta conquistata si cerca subito una via praticabile per sbarazzarsi del carico delle responsabilità sentite come esorbitanti e non facilmente delegabili. È a questo punto che occorre esplorare più a fondo e sviluppare il ruolo e la funzione del follower in un’organizzazione di cure comunitarie. Sulla figura e sulle competenze dei leader si sa molto (forse anche troppo), su quelle dei followers pochissimo, anche se rappresentano la spina dorsale, l’apparato locomotore, i sensori periferici e gli organi operativi del corpo dell’organizzazione. La letteratura anglo-americana, molto più avanti della nostra almeno su questo tema, si esprime con molta chiarezza sul ruolo organizzativo del follower: tra i vari studi dedicati alla followership voglio menzionare quelli di Robert Kelley “In praise of followers” (1988) e di Ira Chaleff “The Courageous Follower” (2003), il cui tratto comune è lo spostamento d’accento dalla figura del leader alla funzione dei followers e dal comportamento dei leader al modo in cui i followers si relazionano con loro. Kelley indaga gli stili di comportamento dei followers, individuando cinque tipologie: • Il Follower Alienato (pensa in modo critico e indipendente, ma manifesta grande passività e si focalizza sui difetti dell’organizzazione e dei leader). • Il Follower Conformista o “Yes-man” (partecipa attivamente ma senza usare il pensiero critico, asseconda le direttive senza pensare alle conseguenze ed evita il conflitto). XVI


Introduzione

• Il Follower Passivo o “Sheep” (non pensa in modo critico o indipendente, non manifesta capacità di partecipazione attiva, fa quel che gli si dice di fare). • Il Follower Efficace (è un pensatore critico e indipendente, è attivo e disponibile nell’organizzazione, è capace di auto-gestirsi e non evita il rischio o il conflitto). • Il Follower Pragmatico o “Survivor” (ha qualità intermedie tra i 4 tipi precedenti, ed essendo orientato alla sopravvivenza e all’utilitarismo evita di assumere rischi e posizioni “forti”, non si impegna oltre a quanto richiesto ed assume un atteggiamento “politico”). Chaleff esplora in profondità la natura delle relazioni di ruolo che i follower devono stabilire con la leadership sintetizzandola in tre modalità fondamentali: 1. obbedire (the duty to obey) quando tutto ciò che occorre è comprendere le direttive o le regole e dar loro esecuzione; ma non ci si ferma qui, perché un’altra funzione cruciale è 2. sfidare (the courage to challenge) quando si deve avere il coraggio di esprimere disaccordo con il capo o riportargli l’esito negativo di una direttiva e suggerirgli di cambiare le sue decisioni, non per minare la sua autorità (che sarebbe una sfida distruttiva, in inglese “to defy”) ma per “cimentarlo” usando la propria autorità come contributo alla sua leadership; e infine 3. sostenere (the power to support) quando un capo è in difficoltà per la natura dei problemi che deve affrontare o è indebolito e sotto attacco, allo scopo di supportare una funzione istituzionale -la leadership appunto- di cui tutti hanno bisogno. Ma la funzione più delicata, che richiede davvero al follower importanti abilità e competenze, è la capacità di decidere con intelligenza e sensibilità quale delle tre modalità occorra adottare in ogni determinata circostanza; perché non immagino nulla di più disastroso che obbedire a un capo che dovrebbe invece essere utilmente sfidato, o sfidarlo quando ha più bisogno di essere sostenuto. Non sfuggirà come tutte queste funzioni e relazioni di ruolo abbiano a che fare in un modo o nell’altro con le tre parole-chiave del titolo del Convegno: il coraggio, che richiede l’uso di energie libidiche per affrontare desideri, dilemmi, conflitti e paure inevitabili; i limiti, che richiamano la bioniana “capacità negativa” e un assetto mentale di tipo “depressivo” per capire dove fermarsi, come chiedere aiuto e dove passano i confini tra persone e ruoli, compiti e autorità, realtà e fantasie; e la responsabilità, che XVII


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esige di abbandonare le nicchie narcisistiche che impediscono di vedere l’altro e di rispettarne i bisogni, di accettare le regole e le conseguenze delle trasgressioni, di provare un moderato dispiacere per le perdite e gli insuccessi così come ragionevoli sentimenti di colpa per il danno eventualmente inflitto alle persone e all’organizzazione. Tempo fa in una comunità mi sono sentito dire: “Per fare questo lavoro occorrono eguali dosi di coraggio e umiltà”. Ci ho pensato su un momento e poi ho risposto che ero pienamente d’accordo: in effetti senza coraggio si entra nell’area della collusione, dell’evitamento o della demoralizzazione; senza umiltà si finisce sul terreno dell’onnipotenza narcisistica e dell’iperattivismo maniacale. E ciò che in entrambi i casi viene seriamente compromesso è proprio il senso di responsabilità, individuale e collettiva. Sapete chi mi ha detto quella frase? Una OSS di 25 anni che lavorava in comunità da non più di sei mesi. me introduzione alla tavola rotonda della giornata odierna mi è stato chiesto di rileggere il pensiero di Zapparoli che nel suo libro “La paura e la noia” del 1978 si è cimentato tra i primi con lo studio di questi vissuti all’interno della cornice clinico terapeutica. Vedremo in seguito come oltre alla paura e alla noia l’autore includa la rabbia. stessa una prima larvale e nascosta forma di emancipazione che merita di essere compresa. Milano, Luglio 2016

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