Collana La Luna e il Tasso
Francesca Sbardellati
Il segreto di Ballerup (Volume primo)
Alpes Italia srl - Via Romagnosi 3 - 00196 Roma tel./fax 0639738315 - e.mail: info@alpesitalia.it - www.alpesitalia.it
© Copyright Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 06-39738315 I edizione, 2019 Francesca Sbardellati (1975), appassionata di sociologia, negli anni ha maturato un grande interesse verso la scrittura introspettiva, dove cerca di indagare le esperienze individuali rapportandole ai gruppi sociali e alle problematiche contemporanee. Attualmente sta lavorando al suo secondo romanzo La verità di Ballerup.
Immagine di copertina: La Vie, Pablo Picasso (1903), Museum of Art, Cleveland.
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Questo libro è dedicato all’inizio di un ricordo, ma anche a coloro che mi hanno fatta uscire da me stessa.
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Indice
Indice dei personaggi ...............................................................
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Prologo: la veritĂ di Ballerup........................... 1
Colloquio I .......................................................................... 5
Parte I 1. Preservare il futuro .............................................................. 15 2. Tutte in fila‌ .................................................................... 31 Colloquio II ......................................................................... 39 3. Un difficle rientro ............................................................... 43 4. Voltare pagina ..................................................................... 49 Colloquio III ........................................................................ 59 Parte II 5. Mi dispiace Linda ............................................................... 65 6. La decisione ........................................................................ 75 7. L'attesa ............................................................................... 83 8. L'incontro ........................................................................... 95 Colloquio IV ........................................................................ 115 9. Come un fardello ................................................................ 121 10. Tu non capisci ..................................................................... 145 Colloquio V ......................................................................... 155 11. Sotto mentite spoglie .......................................................... 161
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Indice dei personaggi Anita Olmens, scrittrice, mamma di Greta. Greta Olmens, ricercatrice. Albert, autista della famiglia Olmens. Ruth, domestica della famiglia Olmens. Antonio Toleman, portiere e padre di Linda. Imma Toleman, moglie di Antonio. Linda Toleman, psicologa. Lucas, giovane musicista. AnnÊ de Blanche, la contessa. Il professor Dag, l’antropologo. Nielsen de Blanche, nipote della contessa, ricercatore. Oliver Kamp, psichiatra. Bente, segretaria di Linda. Karen, paziente di Linda. Ellen, paziente di Linda. Matilde, balia.
VI
Prologo La verità di Ballerup Era inverno nella cittadina di Ballerup, distante solo pochi chilometri dal centro di Copenaghen. Il vento sferzava forte gli alberi del viale dell’ospedale psichiatrico. All’orizzonte, minaccioso, si stava avvicinando un temporale che non prometteva nulla di buono. Verso ora di cena il dottor Oliver Kamp era ancora nel suo studio al primo piano, poco distante dal padiglione dei ricoveri intensivi. Il suo turno era terminato ormai da diverse ore, ma quel giorno sapeva che avrebbe dovuto fare degli straordinari. Mentre sul vetro della finestra dell’ufficio cominciavano a picchiettare le prime gocce di pioggia, Oliver rileggeva sotto la luce del pc il rapporto che aveva appena compilato su una paziente che seguiva ormai da diverso tempo. Dopo una seconda e attenta lettura, decise che era pronto per la stampa, inserì la data, l’ora e il luogo. La stampante cominciò a produrre i primi fogli, il dottore si alzò dalla scrivania, si diresse verso la scaffalatura dell’archivio ed estrasse un grosso faldone che appoggiò sul tavolo. Alla vista del nome della sua paziente emanò un grande sospiro, segno di una tensione che stava aumentando dentro di lui. Prese i fogli dalla stampante e li mise all’interno di un fascicolo che aveva estratto dal faldone. Una volta riposto il documento, si poggiò con entrambe le braccia distese sul tavolo, chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. I suoi pensieri furono subito interrotti da un tuono che ricordò in un istante al dottore qual era la cosa giusta da fare. Si diresse così nuovamente alla scrivania, prese il cellulare e compose un numero che conosceva a memoria. «Ciao, ti disturbo?». «Ciao Oliver, nessun disturbo, stavamo per cenare, dimmi tutto». «Sono a Ballerup, ho bisogno di parlarti», la sua voce divenne all’improvviso più cupa. 1
«A Ballerup? È successo qualcosa a Linda? Ti prego, dimmi». «No, ma dobbiamo vederci». «Così mi fai preoccupare… va bene, verrò da te domani». «Meglio questa sera, sto rientrando a Copenaghen, potrei passare da casa tua tra circa un’ora, va bene?». «Certo, mi trovi a casa. Mi devo preoccupare?». «Ti spiegherò tutto più tardi, preferisco a voce. A dopo». Oliver non diede neanche il tempo al suo interlocutore di salutarlo, chiuse la chiamata posando il cellulare sulla scrivania. Il suo sguardo si fissò nel vuoto mentre cercava di riordinare le idee. Poi un altro tuono, misto questa volta alle urla di spavento di qualche paziente, riportarono alla realtà i pensieri del dottore. Nella sua testa era ormai tutto chiaro, il puzzle, che stava cercando di ricomporre, era finalmente completo. Non sapeva però se esserne felice o angosciato. Prese la cornetta del telefono dell’ufficio, rimettendo in tasca il suo cellulare. Anche questa volta sapeva il numero a memoria, ma non era di un conoscente bensì quello delle emergenze. «Buonasera, sono il dottor Oliver Kamp e chiamo dall’ospedale psichiatrico di Ballerup, avrei bisogno di parlare con il Commissario». «Salve dottore, avete bisogno di un intervento?». «No no, ma devo parlare subito con il Commissario. Gli dica che è urgente». «Va bene, la metto un minuto in attesa». «La ringrazio». Una musica classica di sottofondo si stava diffondendo nella cornetta e nella testa del dottore che intanto si era disteso sulla poltrona. Oliver si accarezzava la barba appuntita e bianca; aveva lunghe mani affusolate, dai suoi occhi di un azzurro vitreo fluivano pensieri, come in un lago trasparente riaffiorano oggetti, trasportati dalla corrente sotto i nostri occhi a volte incapaci di vedere, stava forgiando pensieri. Lo sguardo era catturato dalla pioggia, che ormai cadeva copiosa sui vetri della finestra. Si fissò su una goccia. Ne seguì la corsa in discesa mentre la gamba tamburellava nervosamente la suola della scarpa sul pavimento. Ad un tratto la musica venne interrotta da un bip e nella cornetta si udì forte la voce di un uomo. 2
«Buonasera, dottor Kamp». Il dottore si ricompose di soprassalto, quasi si fosse dimenticato di chi stesse aspettando dall’altra parte del telefono. «Buonasera, Commissario. Scusi l’ora ma avrei bisogno di parlare con lei, in questo momento sono a Ballerup…».
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Colloquio I Centro Psichiatrico di Ballerup Ballerup lunedì 5 Novembre 2018, ore 09:30. Sala colloqui/reparto ricoveri intensivi. «Buongiorno, come ti senti oggi?», chiese Oliver. Linda non rispose, si limitò a fissare il vetro della finestra, il suo aspetto era trasandato, gli occhi spenti e incavati. Aveva un leggero tremolio alle mani, con un dito compiva dei piccoli cerchi nel vuoto. «Come ti chiami?». «Linda…». «Bene, allora hai la lingua per rispondere. Ascolta Linda vorrei fare con te una chiacchierata, vorrei inserirti in un percorso di terapia, consiste in brevi colloqui che faremo ogni tanto, senza nessun tipo di forzatura. Ti farò delle banali domande per iniziare, come per esempio nome, cognome e in che giorno siamo, dopodiché potrai iniziare a parlarmi di tutto quello che vorrai, che ne dici? Ti va?». «La psicoanalisi si basa sull’inconscio che è la nostra realtà, quello che viviamo e percepiamo ogni giorno… lei vuole scavare il mio inconscio, vero dottore? Anche io sono una psicologa». «Molto bene Linda, allora sicuramente sarai d’accordo con me su questa terapia, possiamo cominciare, che ne dici?». Accennò un “sì” con la testa, facendo intuire al dottore che avrebbe potuto iniziare la sua terapia. «Allora Linda, dove sei nata?». «Nel cuore di Copenaghen, lungo il viale Frederiksberg, lo conosce?». «Certo, è uno dei quartieri più belli della città. Ma non mi hai detto ancora dove sei nata e cresciuta». «Ha presente Sankt Thomas Plads, più o meno alla fine del viale Frederiksberg? È una piazza bellissima dove si affaccia uno dei palazzi più sontuosi e antichi di tutta la città. Sono nata in quel palazzo».
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«Quella zona risale alla fine dell’800 e gli inizi del ‘900». «È un quartiere abitato da famiglie nobiliari, ma anche da intellettuali e persone facoltose». «Anche il tuo palazzo lo è?». «Certo, è uno stabile di soli tre piani. Ogni piano è occupato da un solo appartamento. Il portiere viveva con la sua famiglia all’interno del palazzo, in un sottoscala. Antonio, il portiere, apparteneva ad un’antica famiglia nobiliare». «Un portiere nobile?!». Linda allontanò lo sguardo dalla finestra, posando i suoi occhi sul dottore, era uno sguardo perplesso. «I suoi antenati erano i proprietari del palazzo. Antonio era rimasto l’unico erede. Nel dopoguerra la sua famiglia non riuscì a valutare al meglio alcuni investimenti ed ebbero così un tracollo finanziario». «Cosa persero?». «Tutto. Per risanare le perdite furono costretti a vendere i loro beni, compreso il palazzo, che venne acquistato da un’altra potente famiglia danese, quella degli Olmens». «Cosa ci fecero con il palazzo?». «Nulla, lo tennero per loro, occuparono quello che un tempo fu l’appartamento di mio padre, uno splendido attico al terzo piano. Da quel giorno lo stabile prese il nome degli Olmens, mentre a mio padre venne data la possibilità di lavorare come portiere». «Per salvaguardare il suo nome? Linda… quindi Antonio era tuo padre?». «Sì». Il suo sguardo era sempre più triste, malinconico. «Anche se divenne un portiere, tuo padre restava pur sempre un nobile». «Nell’animo certamente, più di chiunque altro, ma gli venne tolto il titolo. Non sopportavano il fatto che una famiglia di nobili natali potesse indebitarsi». Rimase in silenzio qualche minuto. «Mio padre si è sempre mostrato un uomo solido che non si piegava di fronte alle avversità della vita. Mantenne la sua dignità, mostrando una certa eleganza e poteva vantare una sconfinata cultura». 6
«Cosa intendi?». «Era un grande appassionato di libri. Questa passione gli permetteva di evadere quotidianamente dalla sua condizione sociale». «Come si chiamava tua madre?». «Imma. Una donna tutta casa e chiesa, che con Antonio era riuscita a costruire una vita semplice e felice. Avevano avuto anche una bellissima bambina di nome Linda». «Linda… quella bambina sei tu!». Arrossì in viso, si sentì in imbarazzo per quella sua dissociazione. «Sì. Mi scusi…». «Non preoccuparti, va pure avanti». «La nostra vita scorreva tranquilla. Mia madre badava alla casa, mio padre curava le faccende del palazzo. Trascorreva tutto il giorno in guardiola, la sera tornava nel suo umido bilocale che veniva però scaldato dall’amore dei suoi cari e dal profumo dei suoi libri». Prese una pausa, l’affiorare dei ricordi iniziavano ad innervosirla. Si strinse nelle spalle, cercando la forza per continuare il suo racconto. «Chi altro viveva nel palazzo?». «La scrittrice Anita Olmens. Da giovane aveva sposato un nobile archeologo danese. Dal loro matrimonio nacque Greta. Anita rimase però vedova appena partorì. Le due donne vivevano da sole». Sospirò accennando un sorriso. «Albert, il loro autista è stato sempre al loro fianco». Oliver guardò perplesso Linda, le fece capire che stava entrando in un’altra dissociazione. «Tu conosci Greta, vero?». «Sì, era la mia migliore amica». Rispose con voce tremolante, mordendosi il labbro, cercando di trattenere le lacrime. «Non preoccuparti, non dobbiamo parlarne adesso. Vuoi dirmi altro sul palazzo? Altrimenti possiamo fermarci». Lei iniziò a guardarlo con occhi lucidi, scosse la testa. «Nello stabile oltre alla famiglia Olmens vivevano altri due importanti nomi della città: un famoso antropologo, il professor Dag, e la contessa Anné de Blanche». 7
«Ho sentito molto parlare del professor Dag». Linda gli sorrise. «Il professore occupava il primo piano. Il suo appartamento era una vera e propria biblioteca ed era l’unico del palazzo a non appartenere ad una discendenza nobile. Forse per questo motivo riuscì a costruire un ottimo rapporto di amicizia con mio padre. Condividevano la passione per la lettura, spesso li vedevo chiacchierare nell’androne del palazzo, oppure chiusi in guardiola riparati dal calore di una stufa. Dag aveva un gusto eccentrico nel vestire, portava foulard colorati che gli cingevano il collo, nonostante il ruolo che ha sempre rivestito amava i colori, forse per stemperare la sua solitudine. I libri divoravano il suo tempo, non poteva permettersi una famiglia, svolgeva brillantemente le sue lezioni all’università, era un professore molto stimato. Sa, ci sono persone che posseggono delle menti che subiscono uno sconfinamento; consiste nel non possedere la capacità di controllare gli impulsi. Dag quando usciva era per recarsi all’università, ma alcune volte tornava con le scarpe sporche di fango, lasciando delle macchie sul tappeto dell’ingresso. Mio padre puliva senza mai farglielo notare, nessuno ha mai saputo dove andasse dopo l’università e con chi si vedesse. La sua camminata era ricurva in avanti, lo sguardo rivolto verso il basso. In tutti questi anni, non ho mai incontrato il suo sguardo». «Ho capito… vuoi raccontarmi altro? Sei stanca?». «Manca la contessa Anné, che in quanto a particolarità non aveva da invidiare niente a nessuno». Il dottore sorrise, facendole capire di essere interessato al suo racconto. «Allora dimmi…». «La contessa Anné De Blanche abitava al secondo piano. Era una donna corpulenta che amava indossare scarpe eleganti con un grande fiocco sulla punta». «Era una bella donna?». «Aveva un viso tondo, liscio e compatto che riempiva le sue rughe. Si era trasferita da Parigi con tutta la famiglia, per seguire gli affari del padre che si erano radicati in Danimarca. Si sposò con un importante medico danese. Era una coppia affiatata e bellissima, tutti desideravano frequentarli, per i loro modi gentili di relazionarsi con gli altri e per la loro stra8
vaganza e voglia di vivere. Nel palazzo li vedevano sempre entrare mano nella mano mentre canticchiavano una canzone francese». «Cosa avrebbe allora di così particolare questa contessa?». «Una mattina i loro nomi furono impressi sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. Suo marito infatti perse la vita in un canale del porto antico, poco distante dall’Opera». Iniziò a piangere, era un pianto lento, continuo. «Tutto bene? Ti vuoi fermare?». «Perché… perché Anné…». Non riusciva a proseguire il racconto. Si portò le mani al volto, abbandonandosi ad un lungo pianto soffocato. «Linda, tutto bene?». «Sì, povera Anné…». «Perché?». «In seguito a questo dramma cadde in una buia depressione che stravolse del tutto la sua vita». Cercò di asciugarsi le lacrime, prendendo fiato con lunghi respiri. «Decise di non risposarsi vivendo nel ricordo dell’amato marito. La depressione di Anné nel tempo si aggravò sempre di più, non veniva riconosciuta come l’elegante e stravagante contessa di Sankt Thomas Plads. Così finì per chiudersi nel sontuoso appartamento. Viveva da sola con il suo maggiordomo, che alcuni vociferavano essere il suo amante. Si aggirava per i corridoi dell’appartamento con una bottiglia di vodka in mano, parlando da sola. Ci accorgevamo della sua ricaduta nel momento in cui faceva partire a tutto volume una canzone, che ascoltava ogni giorno». «Ti ricordi anche la canzone?». Il tono del dottore divenne rassicurante. «Come farei a dimenticarmi, si trattava di una canzone di Tino Rossi. La contessa era solita ascoltare musica francese con un vecchio gira dischi con il corno in ottone. Da quando aveva perso suo marito ascoltava solo questa canzone, quella che canticchiava mentre si tenevano per mano. Un vecchio brano francese dal titolo O Corse il d’amour. Anné apriva la finestra che affacciava sulla piazza, avvicinava il gira dischi e iniziava a cantare. Ripeteva sempre ad alta voce una frase della canzone “…eppure 9
nel profondo del mio cuore appartengo a te”. Era una scena struggente quella che si consumava ogni volta che partiva il brano. Forse perché da una parte sperava di farla ascoltare ancora a suo marito, che lei immaginava passeggiare lungo i moli del porto antico, e dall’altra era come se Anné fosse consapevole dello stato deplorevole in cui era caduta e quella frase gridata spesso con un nodo alla gola “appartengo a te” era la prova di quanto ancora lo amasse e di come la sua relazione con il maggiordomo fosse uno strumento per sfuggire dal buio della sua psiche». «Nel palazzo non riuscivano a prendere nessun tipo di provvedimento contro Anné?». «Cosa avrebbero dovuto fare secondo lei, dottore? Avevano accettato la sua condizione e per pietà cercavano di sorvolare anche sulle assillanti note della canzone». «Quello che mi hai descritto sembra un quadro pittoresco, il palazzo il teatro dove si incrociano le vite dei suoi attori, manca solo un altro protagonista, Greta Olmens». Linda all’improvviso si alzò di scatto, camminando su e giù per la stanza in maniera nervosa, incuriosendo Oliver. «Vuol sentirsi dire qualcosa su Linda e Greta?», iniziò nuovamente a parlare di sé in terza persona. «Se ti va, sì!». «Sono cresciute insieme, nonostante la loro diversa estrazione e i trascorsi delle loro famiglie. Erano riuscite a stringere una forte amicizia. Il loro frequentarsi era una sorta di piramide sociale». «Una piramide? Che vorresti dire?». «Perché non mi segue?!», alzò improvvisamente la voce. «Spiegami allora». «Era un su e giù, giù e su». «Continua». «Linda spesso e volentieri andava a giocare e a studiare nell’attico di Greta dove, tra il lusso e lo sfarzo di quelle pareti, fantasticava sul suo futuro. Lo stesso valeva per Greta, che invece ricercava nel bilocale umido di Linda la purezza di una quotidianità famigliare, fatta di gesti e attenzioni, che non riusciva a vivere con sua madre. Mentre le due crescevano, gli altri le percepivano più come sorelle che come amiche». 10
Continuava a camminare intorno alla stanza sempre più nervosamente, si inginocchiò per terra al centro della camera, osservando la finestra di fronte a lei. «Cosa stai facendo adesso?», chiese perplesso Oliver. «Durante la loro crescita, prima come bambine e poi come adolescenti, avevano messo a punto un gioco molto intimo e particolare che le impegnava diverse ore al giorno, al riparo dai rigidi climi di Copenaghen e dalla noia di sterili chiacchierate con persone con cui non si sentivano di condividere nulla». «In cosa consisteva questo gioco?». «Il gioco consisteva nel sedersi sotto la finestra e osservare dal basso verso l’alto le persone che uscivano ed entravano nel palazzo. L’appartamento del portiere veniva illuminato semplicemente da due piccole finestre che davano sull’entrata. Da quella posizione le ragazze riuscivano a vedere solamente le scarpe dei passanti, o al massimo i loro polpacci. Si divertivano a fantasticare sulla vita degli abitanti del palazzo, si lanciavano in puntuali critiche stilistiche, osservavano attentamente, scrutavano chiudendo gli occhi a fessura, capivano i loro stati d’animo fantasticando e chiacchierando tra di loro a bassa voce su dove fossero stati. Era diventato un gioco ricorrente nei loro pomeriggi, che veniva interrotto solo nel momento in cui Imma sfornava il suo dolce da far assaggiare alle ragazze». Iniziò a parlare da sola, sottovoce, voltandosi alla sua destra come se accanto a lei ci fosse qualcuno. Bisbigliava qualcosa nell’orecchio di una persona inesistente, stava immaginando Greta accanto a lei, era pienamente entrata in un transfert. Oliver preferì non continuare il colloquio, uscendo silenziosamente dalla stanza. Era perplesso, i nitidi racconti di Linda erano vicini alla realtà ma il suo essere sconnessa, parlando di sé in terza persona, disorientavano il dottore. Aveva preso molti appunti su quei ricordi che la mandavano in uno stato di ipnosi, calandola nei personaggi uscendo da se stessa.
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