Ci salveremo insieme

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Introduzione

Fiore Bello, Emanuele Caroppo (a cura di)

Ci salveremo insieme Perturbazioni, incertezze e opportunitĂ ai tempi del Covid-19

Collana Cultura Migrazione Psiche diretta da Emanuele Caroppo e Alfredo Lombardozzi

Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 - 00196 Roma tel./fax 06-39738315 - e-mail: info@alpesitalia.it - www.alpesitalia.it

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I edizione, 2020 Fiore Bello, psicologo clinico, psicoterapeuta e specialista in Psicologia della Salute. Ha perfezionato la sua formazione presso il Tavistock Institute of Human Relations, l’Anna Freud Centre e una sezione della Group Analytic Society International di Londra. Dal 1995 conduce gruppi psicoterapeutici e riabilitativi nei servizi di salute mentale pubblici. Attualmente lavora nel Dipartimento di Salute Mentale della ASL ROMA 2, insegna presso l’Istituto Terapeutico Romano ed è professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, “La Sapienza”, Roma. Tra le molteplici pubblicazioni, ha curato, insieme a L. Tombolini, un numero monografico della rivista Funzione Gamma, dal titolo La Funzione Gruppale nei servizi di salute mentale tra clinica e ricerca (https://www.funzionegamma.it/category/edizioni/numero37/) e nel 2018 il libro dal titolo Essere in gruppo, edito dalla FrancoAngeli. Emanuele Caroppo, Dirigente Psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2, Psicoanalista SPI, Ph. D. in “Metodologie e ricerche avanzate in psicoterapia”. Docente di “Psichiatria e Psicologia Sociale e di Comunità” della Scuola di Specializzazione in Psichiatria e del Corso di Laurea triennale in Tecniche Audioprotesiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dove è anche Segretario Generale del Cen.

In copertina: Epidemia spagnola. Foto d’epoca tratta da https://www.pinterest.it.

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Ringraziamenti Questo libro è stato pensato, scritto e pubblicato in meno di quattro mesi, durante i quali grande impegno e intuizione hanno trovato spazio per affermarsi nell’incertezza e nel disorientamento condivisi. A tutti gli Autori va il nostro piĂš sincero ringraziamento per aver trovato il tempo di fermarsi a pensare e scrivere in un momento di generale angoscia e alterazione dei ritmi della vita quotidiana. Un particolare ringraziamento lo dobbiamo a Gabriella Beretta e ad Agnese Chialastri per l’aiuto nel rivedere i testi in italiano e per non essersi mai sottratte alle nostre richieste e a Roberta Marinelli per i suoi preziosi e puntuali suggerimenti.



Indice Introduzione di Fiore Bello....................................................... XI

I Parte Considerazioni generali

1 Un nemico invisibile, un pensiero possibile

di Fiore Bello...........................................................................

2 Covid-19: i migranti siamo noi, nessuno si senta escluso

di Emanuele Caroppo..............................................................

3 Tempo zero. 2020, il tempo del limite

di Genovino Ferri.....................................................................

4 Piccolo discorso sul mal contagioso

di Fabio Stassi.........................................................................

5 L’estremo saluto ai tempi della pandemia di Covid-19

di Eleonora Pagnotta................................................................

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II Parte La salute mentale nella rete

6 La psicoterapia di gruppo (entra) in uno spazio potenziale di Fiore Bello, Giuseppina Corso, Lucia Tombolini................... V

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Ci salveremo insieme

7 Il profumo dei capelli non viaggia in rete. Adolescenti ai tempi

del Covid-19 di Mariarita Valentini, Emanuele Caroppo...............................

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8 Primavera 2020: variazioni pandemiche del setting psicoanalitico di Salvatore Zito.......................................................................

9 Un fantasma nel Centro di Salute Mentale

di Fiore Bello...........................................................................

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10 La paura del contagio e il contagio della paura. Teoria e clinica

del Large Group durante la pandemia di Teresa von Sommaruga Howard .......................................

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III Parte Isolamento, legami a distanza e il dopo che verrà

11 Dodo e DAD. Tra didattica a distanza e didattica dell’emergenza di Agnese Chialastri, Fiore Bello...........................................

12 Dietro le sbarre della pandemia Sars-Cov2

di Grazia Iadarola, Emanuele Caroppo ..................................

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13 Un’analisi complementarista dell’isolamento. Perturbazioni

psicologiche e sospensioni collettive di Silvia Tarallini, Fiore Bello...............................................

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Indice

14 14. Le galline di Aniello, ovvero le debolezze della memoria di Fiore Bello...........................................................................

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15 La fatica di aiutare chi cura. Un’esperienza di supporto

psicologico agli operatori sanitari nel post-emergenza Covid-19 di Mario Perini ................................................................... 171

Testimonianze Un’infermiera al fronte di Francesca Bellino.................................................................

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Il diario del dolore di Anna di Fiore Bello...........................................................................

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Il ciclo della peonia di Roberta Cesari......................................................................

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Quando uno psicoanalista incontra il Coronavirus di Pietro Roberto Goisis ...........................................................

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Bibliografia.............................................................................. 211 Biografia................................................................................... 223

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Board scientifico Alfredo Ancora Roberto Beneduce Pietro Bria Domenico Chianese Michela Craveri Fabio Dei Virginia De Micco Maria Luisa Di Pietro Luigi Janiri Sudhir Kakar Giovanni Martinotti Barbara Massimilla Marie Rose Moro Giovanni Pizza Pino Schirripa


Collana Cultura Migrazione Psiche

In un mondo che sta vivendo grandi cambiamenti le dimensioni personali si articolano in modo diretto a complessi processi di trasformazione sia sul piano socioculturale che nella dimensione individuale. La collana raccoglie contributi che si collocano in uno spazio di riflessione interdisciplinare, in particolare intende proporre analisi approfondite che favoriscano il dialogo e il confronto, in senso più generale, tra scienze umane e scienze psicologiche e, in modo più specifico, tra la dimensione psicoanalitica e quella antropologica. La psicoanalisi, a partire dai lavori di Freud sulla società e le sue formazioni, si è sempre più aperta, nel corso dello sviluppo delle sue teorie e della sua clinica, agli aspetti antropologici e al funzionamento psichico delle dinamiche dei gruppi sociali a vari livelli di complessità. L’antropologia, a sua volta, nell’analisi delle diverse culture si è più volte cimentata con le correlazioni psichiche dei comportamenti umani. Il confronto-dialogo tra psicoanalisi e antropologia si è realizzato attraverso la condivisione di un terreno comune di analisi che andava affrontato con metodi e modelli di conoscenza specifici, a volte convergenti altre divergenti. Lo spirito della collana è quello di offrire uno spazio a quei contributi, che sollevano riflessioni e spunti critici nel campo articolato e molteplice, che attiene ai disagi della modernità e della contemporaneità, a partire dalle conflittualità legate ai processi identitari nel mondo globalizzato e dalle problematiche che questi stessi processi comportano sia negli individui, che nei gruppi sociali e nelle culture che li rappresentano. Trovano spazio nel progetto della collana i temi classici dell’etnopsichiatria, dell’etno- psicoanalisi, gli studi sulla correlazione tra aspetti socio-antropologici e dinamiche psichiche, di conseguenza gli approfondimenti, alla luce delle problematiche odierne (fenomeni migratori, conflitti interetnici e religiosi, emergenza del terrorismo, crisi identitarie connesse alle trasformazione dei modelli genitoriali e di parentela, tematiche legate all’ecologia ed i cambiamenti climatici) della relazione tra Cultura, Inconscio e componenti Bio-psicologiche della mente, considerata

nei suoi aspetti più ’estesi’ e complessi.



Introduzione di Fiore Bello

Se ricordo chi fui, diverso mi vedo, e il passato è il presente della memoria. Chi sono stato è qualcuno che amo, ma soltanto nei sogni. È la nostalgia che m’affligge la mente, non è mia né del passato veduto, ma di chi abito dietro gli occhi ciechi. Nulla, se non l’istante, mi conosce. Nulla il mio stesso ricordo, e sento che chi sono e chi sono stato sono sogni differenti. Fernando Pessoa, Odi di Ricardo Reis

Questo libro raccoglie e cerca di armonizzare, in una riflessione polifonica, vari punti di vista professionali sulla sciagura che ha investito l’intera umanità: la pandemia di Covid-19 e le sue conseguenze su singoli, gruppi, istituzioni, riti e abitudini sociali, lavoro degli insegnanti e degli operatori della salute mentale. Il titolo contiene la parola “insieme” poiché è proprio con questa parola “[…] che oggi sembra perduta ma che va recuperata, che dobbiamo uscire dall’emergenza della pandemia come Paese, con le sue regole democratiche, e non come singoli individui, ad uno ad uno, con le mani in alto, perché siamo capaci di essere uniti solo nella paura” (Mauro, la Repubblica, 21-05-2020). Il libro include anche alcune testimonianze di persone che hanno fatto esperienza diretta del virus, o perché ammalate, o perché impegnate a combatterlo o in quanto vittime delle sue infauste conseguenze. Pensieri, emozioni e comportaXI


Ci salveremo insieme menti hanno subìto una reclusione fisica e simbolica senza precedenti nel momento in cui il Paese è stato sigillato per decreto. Alzandoci una soleggiata domenica di marzo, ci siamo resi conto che non eravamo più gli stessi, le cose e le persone accanto a noi avevano un altro aspetto, o meglio erano sempre le stesse, ma i nostri occhi le vedevano in modo completamente diverso. Domenica 15 marzo 2020, dopo una settimana di lockdown, ho scelto un ospedale al centro di Roma per donare il sangue e per sentirmi autorizzato ad esplorare una città senza turisti. Dopo il prelievo, mi sono diretto verso piazza San Pietro, ma, prima ancora che le forze dell’ordine mi fermassero, ho dovuto interrompere la mia passeggiata perché la mia vista e il mio cuore non hanno retto al vuoto vertiginoso e al silenzio assordante che prepotentemente emanava quel luogo. La seduzione della bellezza e il senso di spiritualità che piazza San Pietro può evocare, hanno lasciato il posto alla paura, allo smarrimento e a un forte senso di solitudine: sono scappato a casa e ho cominciato a scrivere. La scrittura mi ha permesso di calmare la mia angoscia, ragionare e ri-pensare a come esercitare la mia responsabilità di cittadino e di professionista. In quei giorni Roma era deserta ma, anche se all’imbrunire assumeva un aspetto spettrale, non è mai stata davvero silenziosa; i suoi abitanti, così come molti italiani, hanno dato sfogo alla loro creatività mettendosi, a orari prestabiliti, a cantare a squarciagola dai balconi l’inno nazionale contro un nemico invisibile che, infiltrandosi subdolamente nei polmoni, toglieva il respiro e cancellava l’esistenza. Mentre il pericolo del contagio e il distanziamento sociale (sarebbe stato meglio definirlo distanziamento fisico) ci confinavano nelle case e la polis veniva sospesa, noi italiani, noti per il nostro individualismo, scoprivamo il bisogno di essere comunità, di appartenerci l’un l’altro, di lottare insieme e di essere solidali, seppur fisicamente lontani. Abbiamo immediatamente reagito con euforia, ironia, musica e tanta vita nelle case; quella vita che era stata estromessa improvvisamente dall’agorà e che s’impossessava in modo inconsueto degli spazi privati. Anche le aree condominiali, spesso lasciate a se stesse, si rianimavano. Questa reazione, che, a tratti, assumeva un colore patriottiXII


Introduzione co, nonché retorico, anche grazie ai messaggi della comunicazione istituzionale e agli spot pubblicitari (il loro linguaggio è cambiato con estrema puntualità a ogni fase della pandemia), e che è diventata virale su tutti i social, ha fatto il giro del mondo, suscitando simpatia e, forse, anche un pizzico di derisione, laddove la pandemia era vista come un problema degli altri (cfr. le affermazioni dei presidenti di USA e Brasile all’inizio di marzo). In realtà, non era solo una risposta di vita, ma, soprattutto, un tentativo di contrastare il panico, di esorcizzare la paura della morte, una negazione della tristezza e della depressione, una difficoltà a tollerare l’incertezza e l’ignoto; insomma, era un fare per allontanare il dolore e il pensiero. In molti abbiamo sperato che fosse solo un brutto sogno, ma ben presto la realtà si è mostrata nella sua atroce verità e l’euforia ha lasciato spazio a un senso di mestizia e a vissuti di malinconia che, per sua natura, può attivare capacità di pensiero. Il pensiero, a sua volta, “[…] si nutre di mancanza, di tristezza e a volte si innalza e si purifica nel dolore […]” (Veneziani, 2011). Che cosa ci sta succedendo? Ci ammaleremo tutti? Quanto durerà? Come cambieranno la nostra vita, il nostro lavoro e il nostro stare al mondo? Mentre molti non cessavano di interrogarsi, anche se in uno stato di incertezza e confusione, il virus, oltre a contagiare e a mietere senza sosta vite umane in tutto il mondo, ha scoperto una precarietà sconosciuta, ha brutalmente messo a nudo tutta la nostra vulnerabilità e, forse, anche il carattere di irreversibilità del processo innescatosi nelle nostre società. A questo proposito, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk (2020), premio Nobel per la letteratura nel 2018, scrive: “[…] Davanti ai nostri occhi si dissolve come nebbia al sole il paradigma della civiltà che ci ha formato negli ultimi duecento anni: che siamo i signori del Creato, possiamo tutto e il mondo appartiene a noi”. In un’intervista del 2015, rilasciata al giornalista Bandettini, Luca Ronconi, parlando del suo spettacolo sul crollo di una famosa banca d’affari americana, afferma: “Nella storia dei Lehman noi non siamo le loro vittime. In quella forsennata sete di guadagni ci siamo tutti. Se c’è una morale in questo spettacolo, be’ questa è che la colpa del disastro non è XIII


Ci salveremo insieme sempre degli altri. Dopo quello che è successo dovremmo tutti responsabilizzarci e sapere che il futuro dei nostri sogni non è disgiunto dalle soluzioni e dai comportamenti che abbiamo nel presente”. Queste parole mi sembrano profetiche e tristemente attuali: ognuno di noi, non solo ha la responsabilità di aver scelto una vita orientata al principio del piacere a ogni costo, che sta letteralmente distruggendo il pianeta, ma oggi ha l’opportunità di ripensare il proprio essere nel mondo. “Quel che il coronavirus ha scatenato non è una rivoluzione, come qualcuno immagina, bensì un’involuzione. Il che non vuol dire, tuttavia, che questa sosta improvvisa non possa essere una pausa di riflessione, intervallo prima di un nuovo inizio. Ciò che appare con chiarezza è l’irreversibilità. […] Ogni crisi contiene sempre la possibilità del riscatto. Il segnale sarà avvertito? La violenta pandemia sarà anche la chance per cambiare? Il coronavirus ha sottratto i corpi all’ingranaggio dell’economia. Tremendamente mortifero, è però anche vitale. Per la prima volta la crisi è extra-sistemica; ma non è detto che il capitale non saprà trarne profitto. Se nulla sarà come prima, tutto potrebbe precipitare nell’irreparabile. Il freno a mano è tirato – il resto tocca a noi.” (Di Cesare, 2020, pp. 12-13). Non so se questa drammatica esperienza riuscirà a renderci realmente più umani e soggetti attivi di uno sviluppo sociale ed economico rispettoso e sostenibile, se ci aiuterà a decontaminare la nostra mente dalla sbornia neoliberista. Oppure, come afferma Don Ciotti (2020): “Il senso di solidarietà che proviamo adesso sotto la minaccia del virus deve sopravvivere al virus, trasformarsi in un impegno collettivo per costruire un mondo più giusto, più umano, più uguale; un mondo senza muri, un mondo che permette e promuove la prossimità”. Non so se riusciremo a capire che il vero nemico non è il Covid-19, ma quello che alberga in noi o, come recitava il sottotitolo di un articolo di un quotidiano nazionale qualche giorno fa, “Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me” (Il Manifesto, 5-4-2020). Forse ha ragione Concita De Gregorio (2020, pag. 170) quando afferma: “[…] questi due mesi (pochi, per un bilancio) mostrano la vera natura di ciascuno. Cioè: ciascuno resta com’era, né meglio, né peggio, solo un po’ di XIV


Introduzione più.” Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, intervistato da Gianrico Carofiglio (2020), afferma: “Io credo che questa crisi […] abbia molte cose da insegnarci: l’importanza della scienza, il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive; le conseguenze disastrose delle disuguaglianze e della negazione dell’accesso all’assistenza sanitaria come diritto umano fondamentale; i pericoli di un’economia di mercato dalla vista corta, incapace di resilienza. La pandemia è una crisi che il mondo deve affrontare unito così come la crisi climatica, che non è sparita e anzi potrebbe essere causa di altre epidemie”. È anche lecito, però, chiedersi se davvero “siamo tutti sulla stessa barca”, come ha affermato dalla sua lussuosa casa la cantante Madonna, oppure siamo sullo stesso fiume, ma su barche diverse. Le diverse condizioni economiche, sociali e sanitarie degli abitanti del pianeta fanno la differenza, e non solo in termini di morbilità e di mortalità. Uno dei cambiamenti che la pandemia ha imposto è stata la sospensione di buona parte delle attività della vita reale e il suo trasferimento spontaneo, e per certi versi grottesco, in una dimensione virtuale. Abbiamo dovuto chiamare in causa la rete perché ci difendesse dallo sgomento e dalla solitudine, ci permettesse di tenere in vita le relazioni e ci aiutasse a continuare a svolgere le nostre attività professionali. Sherry Turkle (2019, pag. 220), riflettendo sul senso delle relazioni tramite internet prima della pandemia, affermava: “[…] la tecnologia di per sé non è la causa del nuovo modo di relazionarci con le nostre emozioni e con gli altri, ma lo rende probabilmente più facile. Col tempo questo nuovo stile relazionale diventa approvato in società. In ogni epoca certi modi di stare con gli altri finiscono per diventare naturali; nella nostra, dove possiamo essere sempre in contatto, il dover essere sempre in contatto non sembra un problema o una patologia, ma un adeguamento a quello che la tecnologia permette. Diventa norma”. L’Impero Immateriale, così come l’ha definito Michele Serra (2020), in questi giorni è un vero e proprio palcoscenico che non simula la realtà, ma la ospita in tutte le sue caratteristiche. È talmente reale e necessario che, non solo adulti ed adolescenti, ma anche nonne e bambini vi prendono parte con device di ogni genere. Quasi tutti, rischiando XV


Ci salveremo insieme di soffrire di una vera e propria overdose tecnologica, trascorriamo molte ore costantemente agganciati alla rete wi-fi perché è l’unico strumento che ci permette di stare connessi l’uno con l’altro, distanti ma uniti, come recita uno degli slogan più abusati sin dall’inizio della quarantena. Persino la nostra lingua sta mutando velocemente assorbendo neologismi legati al virus e agli strumenti elettronici di comunicazione… Diversi capitoli approfondiscono i problemi sorti in alcune professioni che si fondano sulla relazione umana e che necessitano di costante presenza fisica ed empatia, quali quelle della scuola e della salute mentale (senza alcun dubbio, potremmo elencare molte altre professioni che si basano sulla relazione e che stanno vivendo analoghe difficoltà). Insegnanti, professori e operatori della salute mentale, angosciati, disorientati e impreparati, hanno continuato a lavorare in condizioni ambientali alterate e sotto lo stress generato da una vera e propria crisi della presenza (De Martino, 1953-1954). Senza alcuna esperienza precedente, guidati da direttive vaghe e imprecise, migliaia di professionisti e famiglie si sono impegnati a distanza “[…] cercando di colmare il gap di conoscenza e lo squilibrio digitale del Paese con la disponibilità personale” (Mauro, 2020). La chiusura di tutto il “sistema educativo di istruzione e di formazione” italiano, decretata qualche giorno prima del lockdown, mandando a casa più di otto milioni di studenti (cfr. Ministero dell’Istruzione), faceva crollare una delle più importanti impalcature sociali. I genitori hanno subito un vero e proprio shock, gli studenti hanno reagito con apparente allegria e gli insegnati si sono ritrovati disorientati e soli. Le famiglie hanno dovuto riorganizzare spazi casalinghi e vita domestica anche perché molti genitori erano, a loro volta, impossibilitati a recarsi al lavoro. Immediatamente sono cominciati i veri problemi, anche di natura socioeconomica, che hanno inesorabilmente dimostrato tutte le disuguaglianze nell’accesso al sapere e all’educazione. Non oso immaginare in quale baratro di solitudine ed abbandono siano piombati le famiglie e gli alunni con disabilità, un terzo dei quali si è difatti trovato escluso dalla didattica a distanza (DAD) o perché si è rivelata inefficace o perché non era nemmeno ipotizzabile. Comunque, davanti all’emergenza della pandemia, il corpo docente è staXVI


Introduzione to capace di inventarsi con estrema velocità una nuova presenza “[…] rimodulando procedure, forme di comunicazione, interazione con bambini e adolescenti, potenziando al massimo l’uso degli strumenti telematici o talvolta impadronendosene per la prima volta.” (Librandi et al., 2020). La didattica a distanza si è dimostrata molto parziale e limitata anche perché la scuola – quest’esperienza sociale unica che non solo ci permette di imparare a leggere e a scrivere, ma che soprattutto ci insegna a vivere pacificamente l’uno accanto all’altro – è da decenni “in terapia intensiva” a causa dell’assenza di investimenti e di formazione della classe docente. Dopo tre mesi di incertezze e confusione, forse è arrivato il momento di ripensare la ripartenza della scuola non solo in termini di sicurezza, ma “[…] innanzitutto attraverso una rimodulazione profonda dell’attività didattica.” (Recalcati, la Repubblica, 18-06-2020). La chiusura dell’università ha comportato anche il collasso di tutte le attività commerciali e sociali ad essa collegate, ma gli studenti universitari sembrano essere stati capaci di utilizzare al meglio le opportunità della didattica a distanza. Da un’indagine condotta da Ipsos e Università Federico II di Napoli su tre mesi di e-learning, risulta che “[…] 2 studenti su 3 promuovono con riserva l’esperienza che abbiamo alle spalle e, guardando alla riapertura di settembre, chiedono di miscelare le lezioni in aula con quelle online” (Bruno, Reda, Il sole 24ORE). Un’altra parte della società che ha sofferto molto gli effetti del Covid-19 è rappresentata dalle persone che lavorano nelle carceri e da quelle ivi recluse; le endemiche condizioni di sovraffollamento e l’ansia del contagio hanno scatenato dal 7 al 9 marzo una vera e propria rivolta da parte dei detenuti con decine di istituti penitenziari italiani devastati. Sicuramente meriterebbe una trattazione separata il lavoro svolto in prima linea da tutti i sanitari che, oltre ad essere stati esposti a notevoli quote di ansia e stress e costretti a un isolamento ancor più rigido di quello che ha affrontato il resto della popolazione, hanno pagato il loro impegno e la loro dedizione al lavoro con la perdita di moltissime vite. Internet permette una comunicazione sincrona pur in assenza reale delle persone, ci proietta direttamente l’uno nella casa dell’altro, ci fa XVII


Ci salveremo insieme entrare nell’intimità senza permesso, ci espone a occhi che potrebbero anche essere indiscreti e ci fa vedere “cose” forse neanche immaginate in precedenza. Il lavoro da remoto ribalta gli assi cartesiani spaziotemporali della nostra realtà, sovverte i confini classici delle relazioni, riduce l’importanza dei sensi e questo, per la psicoterapia fatta online, è una nuova sfida, così come viene spiegato nei capitoli dedicati a questa tematica. Il virus ha fatto saltare i principi generali che da sempre regolano la comunicazione, le relazioni e gli scambi tra persone nel mondo reale, mentre in quello virtuale sono tutti da inventare ex novo. Penso a come cambia la percezione visiva dell’altro che indossa una mascherina, penso ai sanitari che lavorano con tute total body, mascherine, occhiali/ visiere e guanti. Per strada, sebbene la mascherina ci protegga dal potenziale rischio di contagio, di contro ci nasconde, ci rende anonimi, ci fa perdere il pieno incontro visivo con l’altro, ostacola i contatti affettivi e paralizza quella relazione etica che, secondo Lévinas (2018), origina proprio dall’incontro con il volto dell’altro. Questi nuovi assetti fisici rischiano di modificare persino la funzione dei neuroni specchio che costituiscono il substrato delle forme della socialità della mente. Questi neuroni ci permettono di comprendere l’azione di un altro individuo in modo immediato, automatico e grazie al processo della simulazione incarnata, possiamo simulare l’agire di un’altra persona, trasformarci nell’altro, diventare l’altro (Gallese, 2003). In contrasto a quanto accade per strada, sullo schermo è possibile “esibire” il viso (e non solo!) tranquillamente. Una maestra mi racconta che una bambina di otto anni si presenta alle video lezioni oscurando la telecamera e mostrando una foto del suo profilo dove è truccata di tutto punto, mentre un’altra, che a scuola indossava il velo islamico, davanti allo schermo mostra il volto pienamente e senza alcun imbarazzo. Pur esulando dagli obiettivi di questo libro, è giusto chiedersi se, in assenza di un regolamento condiviso dalle parti sociali sul cosiddetto lavoro agile o smart working, gli operatori che lo svolgono lavorino di più e se vadano incontro a una maggiore stanchezza e saturazione emotiva (burnout). Con lo smart working, la casa smette di essere il luogo sicuro XVIII


Introduzione a causa delle “intrusioni” telematiche che possono diventare continue ed incessanti ed assumere vere e proprie connotazioni persecutorie. La frantumazione improvvisa di quei contenitori che svolgevano stabilmente le funzioni di contenimento e di orientamento nella vita quotidiana e lavorativa non investe, però, solamente le professioni d’aiuto, ma anche i semplici cittadini, soprattutto coloro i quali hanno subito un lutto durante la pandemia. Questi ultimi sono stati colpiti doppiamente dalla morte del congiunto e dall’impossibilità di dargli l’ultimo saluto. “In passato la morte rientrava nello spazio pubblico. Ancora fino a qualche decennio fa nelle città meridionali il carro funebre attraversava il corso principale fra le vetrine abbassate dei negozi e i gesti simultanei di coloro che si toglievano il cappello in segno di rispetto dinanzi alla maestà della morte. Adesso il distanziamento ha raggiunto l’apice, diventando vera e propria separazione. Si muore anonimamente nelle cliniche, dove il morente viene già prima confinato” (Di Cesare, ibidem, pp. 80-81). Infatti, il lutto negato, la morte senza dignità e vicinanza fisica produce effetti devastanti “[…] perché per noi la relazione è tuttora istituita all’interno del contatto fisico tra corpi. L’impossibilità del contatto fisico ci lascia solo un flusso di emozioni disordinate e disembodied, disincarnate, che non può più ricomporsi entro i rituali espliciti o impliciti destinati a veicolarle e contenerle entro una “forma” sociale di “compassione”. Per esempio, se pensiamo ai rituali del lutto, ci rendiamo conto che noi ne abbiamo bisogno, non basta andare sul balcone a cantare, noi abbiamo bisogno di piangere insieme, di stringerci, di abbracciarci. Questo è un isolamento che separa i corpi dalle emozioni, il che fa pensare che le emozioni possano essere esercitate indipendentemente dal corpo (Braibanti, 2020). La ricerca e la clinica psicologica sostengono che chi subisce una perdita in condizioni drammatiche (traumi, problemi di natura medica e disastri ambientali) e per di più senza l’accesso all’ultimo saluto, possa sviluppare forti sentimenti di rabbia nella ricerca del responsabile della morte e della propria colpa, a tal punto da presentare una vera e propria sindrome del sopravvissuto e un successivo lutto complicato. In genere, come risposta al lutto, circa due terzi di noi ritornano in gran parte alla normalità dopo XIX


Ci salveremo insieme pochi mesi, un quarto combatte con il dolore per uno o due anni e dal 5 al 10% potrebbe aver bisogno di molti anni per elaborare la perdita (Bonanno, 2009). Considerando che ad oggi (20 Giugno 2020) solo in Italia sono decedute oltre trentaquattromila persone (cfr. Ministero della Salute), uno scenario del genere potrebbe travolgere una fetta di popolazione molto vasta. Altre migliaia di persone, soprattutto operatori sanitari in prima linea, dopo un’iniziale fase “eroica” e di estrema resistenza fisica e psicologica, cominciano a lamentare disturbi dell’adattamento e del sonno. Infine, una buona parte di tutti noi sottoposti a una lunghissima quarantena ha cominciato a presentare sintomi di ansia fisica (bruciore gastrico, diarrea, tachicardia), di insonnia (soprattutto terminale), irritabilità, mancanza di motivazione e quadri depressivi. Le migliaia di telefonate ricevute dal numero verde di sostegno psicologico istituito dalla Protezione civile e dal Ministero della Salute il 27 aprile 2020, testimoniano inconfutabilmente che lo stato di salute psicologica degli italiani in questo momento è molto precario. Non sappiamo ancora che cosa succederà ai bambini che per la prima volta si sono “[…] ritrovati senza scuola, senza attività sportive, con la socialità azzerata, privati di quelle interazioni che sono la bussola attorno alla quale si dispiega il processo della crescita” (Cattaneo, 2020, pag. 3). I bambini, necessitano, oggi più di prima, non solo di un’adeguata rassicurazione, ma soprattutto di essere messi in condizione di esprimere le loro emozioni e questa delicata operazione, in assenza di altri soggetti sociali, purtroppo è ricaduta completamente sulle spalle dei genitori e delle famiglie. Che cosa è successo agli adolescenti confinati in casa? Come reagiranno alla frustrazione dei loro bisogni che, per definizione, sono più agiti che pensati? In alcune città italiane, appena allentati i vincoli che riducevano le libertà, si sono riversati nei loro consueti luoghi di ritrovo per aperitivi e bevute in gruppo. Come già detto, per alcune persone può essere complicato, dopo mesi di isolamento e di autosufficienza emotiva nelle proprie abitazioni e con rapporti ristretti ai familiari, riaffacciarsi all’esterno e riprendere l’esplorazione di un ambiente sociale che risulta meno rassicurante del passato. Gli psichiatri parlano già di disturbo dell’adattamento, i cui sintomi rienXX


Introduzione trerebbero in quella che hanno denominato la “sindrome della capanna.” Alcuni degli studi condotti in occasione dell’epidemia di SARS (20022003 in Cina e Canada) e durante l’epidemia di febbre emorragica di Ebola (2014-2016 in Africa occidentale) ci mettono in guardia sulle possibili conseguenze psicologiche di questa pandemia. Brooks et al. (2020) hanno riscontrato un aumento della frequenza dei disturbi psichiatrici nelle persone sottoposte a isolamento. Mak et al. (2009) e Keita et al. (2017) hanno rilevato un aumento di alcuni specifici quadri psichiatrici (Disturbo da Stress Post-traumatico, disturbi d’ansia e sindromi depressive) nelle persone contagiate che erano guarite. Infine, Chen et al. (2005) e Lancee et al. (2008) hanno scoperto che gli operatori impegnati sul fronte dell’emergenza sanitaria durante l’epidemia presentavano un aumento dello stress, della sindrome da esaurimento emotivo (burn-out) e persino la presenza di disturbi psichiatrici franchi. A questo punto, è lecito chiedersi come e chi, alla fine dell’emergenza, si prenderà cura di una tale mole di potenziali richieste di aiuto psicologico. I servizi di salute mentale? È difficile immaginare che possano accogliere realmente questi bisogni, perché sono impreparati non solo per una cronica mancanza di risorse e di investimenti, ma anche perché da molto tempo hanno privilegiato la cura dei gravi disturbi psichiatrici, escludendo sistematicamente quelle persone affette da “disturbi emotivi comuni.” Nei centri di salute mentale, almeno nella città di Roma, se un cittadino che non presenta un’esplicita sintomatologia psichiatrica chiede di essere ascoltato da un professionista, rischia di essere mandato via dopo una prima valutazione. L’ottica aziendalistica della sanità italiana ha colpito anche il settore della salute mentale che è nettamente orientato alla “cura della malattia” e non alla “promozione della salute e del benessere”. Che fine ha fatto la Carta di Ottawa, sottoscritta dagli Stati appartenenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (1986), che definisce la promozione della salute come «[…] il processo che consente alle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla»? Il welfare che ci ha assistiti finora, e del quale ognuno di noi ha contribuito ad avallare difetti e degenerazioni (chi non ha pagato un’esosa visita XXI


Ci salveremo insieme medica per accedere poi a un eventuale ricovero in una struttura sanitaria pubblica?), necessita di essere riformato con urgenza: investimenti significativi in risorse umane e tecnologia, smantellamento (non semplificazione!) delle procedure burocratiche che contribuiscono a creare ulteriore esclusione sociale e proliferazione degli interessi sanitari privati, accesso gratuito e diretto a tutti i servizi sociali, psicologici e medici e formazione di una nuova dirigenza responsabile e preparata che non sia selezionata dai politici. Se non siamo in grado di scegliere i nostri dirigenti in base alla loro provata competenza, non possiamo, poi, lamentarci della fuga dei cervelli dal nostro Paese! 1 Se non scardiniamo il sistema di collusioni e di complicità, continueremo ad assistere a disgrazie che potevano essere evitate. Mi riferisco alla “strage silenziosa delle Rsa” consumatasi impietosamente sotto i nostri occhi in questi mesi. “Sapevamo che il virus si accaniva contro gli over 70, ma non abbiamo fatto nulla per proteggerli: 26.422 di loro si sono spenti nel silenzio. Oltre metà, i più fragili di tutti, sono morti nelle residenze sanitarie. Soli, senza più contatti con le famiglie, in molti casi legati ai letti. Affidati dal servizio pubblico a una rete debole di strutture, con meno assistenza di quella prevista per i carcerati. Ci sono Giunte regionali che, invece di aiutarli, hanno fatto cadere su di loro il peso dell’emergenza. Gli hanno tolto il personale, gli hanno negato il ricovero nei pronto soccorso, hanno persino messo i contagiati nelle loro palazzine per fare spazio negli ospedali” (Di Feo et. al., 2020; cfr. la deliberazione n. XI/2906 della Giunta Regione Lombardia del 08/03/2020). In questi giorni, i parenti di alcune vittime del Covid-19 si sono riuniti in un comitato per ottenere “verità e giustizia” e hanno cominciato a presentare i loro esposti “[…] non contro i sanitari che hanno fatto il possibile ma contro i politici che non hanno fatto altro che raccontare bugie” (ANSA, 10 giugno 2020). 1 Per rigore di cronaca, bisogna ammettere che il Governo in carica sembra essere intenzionato a riformare la pubblica amministrazione e a rilanciare l’economia e lo sviluppo del Paese, tanto da aver nominato una task force di esperti che ha consegnato in questi giorni un elaborato dettagliato – il piano Colao – con 102 proposte di cambiamento. Gli esperti hanno lavorato su tre grandi temi: 1) rivoluzione verde e transizione ecologica; 2) inclusione e uguaglianza; 3) digitalizzazione e innovazione. Non sappiamo ancora che uso ne farà il Governo.

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Introduzione Non è sufficiente, però, delegare la cura alle istituzioni, ognuno deve fare la propria parte. Per quanto riguarda gli psicologi, soprattutto quelli che lavorano nelle istituzioni, è necessario che agiscano dove sono “[…] e nell’ambito della responsabilità che già hanno. […] Non quella che mi viene riconosciuta dagli altri, ma quella che io mi riconosco per la posizione che ho nella mia storia e nei contesti dove ho esercitato la mia professione. […] Oggi, di fronte alle catastrofi, la tendenza è a soffermarsi ed indugiare nel contemplare la nostra vulnerabilità invece che dedicarsi ad attivare risorse resilienti. […] Questo vale anche per gli eroi sanitari che vengono comunicati attraverso la loro fragilità, con la foto di un’infermiera che si abbandona, che non ce la fa più. La cultura della vulnerabilità è una delle cose più imperdonabili di certa psicologia che ha purtroppo sdoganato l’idea che le persone si qualificano per la propria vulnerabilità e non per la propria resilienza” (Braibanti, ibidem). Queste affermazioni invitano a ripensare completamente i nostri modelli di cura, di assistenza e di apprendimento e a inventare “[…] nuove forme di compassione responsabile e disobbediente” (Braibanti, ibidem). Se riusciamo a non essere refrattari all’apprendimento, se riduciamo la nostra naturale resistenza verso la “dissonanza cognitiva”, che in genere regola i processi dell’apprendimento umano (Rampini, 2020, pp. 6-7), questa crisi sciagurata ci offre un’opportunità unica di “[…] abitare il tempo dell’incertezza e della paura per trovare un varco nell’incertezza e nella paura. È necessaria la capacità di sostare di fronte all’indefinito senza precipitarsi a trovare soluzioni improvvisate che potrebbero rivelarsi più dannose del male che intendono curare. In questo contesto di precarietà però un punto mi pare certo: alla potenza inimmaginabile del trauma che ha devastato le nostre vite, bisogna rispondere con una potenza reattiva altrettanto inimmaginabile. Questo significa che la de-burocratizzazione non deve essere solo una misura tecnica necessaria per snellire il funzionamento delle nostre istituzioni, ma deve coincidere con l’acquisizione di una postura mentale inedita che ci consenta davvero di distinguere l’essenziale dall’inessenziale” (Recalcati, 2020).

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