Introduzione
Rita Corsa, Lucia Fattori, Gabriella Vandi (a cura di)
Vecchiaia e psicoanalisi Collana
Psicoanalisi & fede Diretta da Lucia Fattori e Gabriella Vandi
Alpes Italia srl – Via Romagnosi 3 – 00196 Roma tel./fax 0639738315 – e-mail: info@alpesitalia.it – www.alpesitalia.it
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© Copyright Alpes Italia srl - Via Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 06-39738315 I edizione 2020 Rita Corsa, medico, psichiatra, psicoanalista con funzioni di training della S.P.I. e dell’I.P.A., ha diretto servizi psichiatrici pubblici ed è stata professore a contratto di Clinica Psichiatrica presso le Università Statale e Bicocca di Milano. Esperta di storia della psicoanalisi italiana, ha scritto i volumi Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana (Alpes, 2013) e Vanda Shrenger Weiss, la prima psicoanalista in Italia. La psicoanalisi a Roma in epoca fascista (Alpes, 2017). Della sua copiosa produzione saggistica si segnalano, tra gli altri, i libri Se la cura si ammala. La caducità dell’analista (Kolbe, 2011), Limite è Speranza. Lo psicoanalista ferito e i suoi orizzonti (con L. Monterosa; Alpes, 2015), Vivere con Barbablù. Psicoanalisi e violenza sulle donne (con C. Barducci e B. Bessi; Magi, 2018). Ha inoltre curato Corpo, generazioni e destino (con G. Gabbriellini; Borla, 2012) e Oggi, la Speranza? Una contraddizione della contemporaneità (Quaderni C.M.P., Milano, 2016). Lucia Fattori, psicoanalista, è Membro ordinario con funzioni di training della S.P.I. e dell’I.P.A. Docente a contratto di Psicologia dinamica presso l’università di Padova, città dove vive e lavora, è co-autrice del volume Psicoterapia psicoanalitica e deficit cognitivo (Cortina, 1996) ed ha co-curato Psicoanalisi e fede: un discorso aperto (F. Angeli, 2017), Nostalgia di infinito (Guaraldi, 2018), Oltre (Alpes, 2019), Derive della fede (Guaraldi, 2019), “Tra” questa immensità (Guaraldi, 2020). Fra gli articoli: Existential crises in two religious patients, International Journal of Psychoanalysis (2015, con C. Secchi), Rancore e depressione melanconica, Rivista di Psicoanalisi (2020). Gabriella Vandi, psicoanalista, Membro Ordinario con funzioni di training della S.P.I. e dell’I.P.A. Ha pubblicato articoli e presentato vari lavori a Congressi Nazionali e Internazionali. Tra gli articoli pubblicati “De la confusión de lenguas a compartir un código: la experiencia de rêverie”. In Revista de Psicoanálisis de la Asociación Psicoanalítica de Madrid (2012, con C. Carnevali). Tra i volumi co-curati: Psicoanalisi e fede: un discorso aperto (Franco Angeli, 2017); Oltre (Alpes, 2019), Derive della fede (Guaraldi, 2019), “Tra” questa immensità (Guaraldi, 2020), Federico Fellini. La vita è sogno, il sogno è vita (Pendragon, 2020). Vive e lavora a Rimini.
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Indice generale
Prefazione - La vecchiaia è una viaggiatrice di notte di Maurizio Balsamo....................................................................................... V
Psicoanalisi e vecchiaia I vecchi che saremo Tipologie libidiche nella vecchiaia di Ezio Maria Izzo.......................................................................................... 3 La vecchiaia e l’orizzonte L’ultima stagione di Freud di Gabriella Vandi........................................................................................... 25 Vecchi e bambini: come si tramanda la forza di vivere Note sul transgenerazionale positivo di Lidia Leonelli Langer................................................................................... 41
Analisti anziani e pazienti anziani Il tempo dell’analisi, il tempo dell’analista di Marta Badoni............................................................................................. 67 Psicoterapia in tarda età di Franco De Masi .......................................................................................... 83 L’emergenza coronavirus nei pazienti anziani: un “momento della verità” di Lucia Fattori............................................................................................... 111
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Vecchiaia e psicoanalisi Quale vecchiaia? Invecchiamento normale, invecchiamento patologico di Sophie de Mijolla........................................................................................ 135 Essere “vivi” nel tempo senza tempo Dialoghi sull’invecchiare di Carla Busato Barbaglio ............................................................................... 145 Le intermittenze della vita di Lucia Monterosa..........................................................................................
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La neo-vecchiaia Ovvero essere anziani nell’era cibernetica di Rita Corsa................................................................................................... 173
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Prefazione
Prefazione La vecchiaia è una viaggiatrice di notte di Maurizio Balsamo
«La vecchiaia è una viaggiatrice di notte», scrive Chateaubriand, lui che si sente, da bambino, già vecchio, cresciuto con un padre terrificante, una madre «triste, nera, volgare», e che scrive di essere quasi morto nel giorno stesso in cui inizia a nascere. La vita, qualche volta, assume queste caratteristiche, trasporta con sé le marcature di un incontro mancato e lo sforzo di una cura analitica è nel far sì, da un certo punto di vista, che si possa passare dalla viaggiatrice, rappresentazione di un’imago e di una fissità psichica, al viaggiare, fosse pure nella notte e nella conseguente solitudine, nella ricerca di un reinizio al posto di un ancoraggio mortifero, nella speranza di un movimento possibile, di un’oscillazione generatrice di aperture al mondo. La clinica ovviamente ci mostra innumerevoli esempi di un viaggio interrotto anzitempo, mai iniziato, che si chiude su se stesso nel momento medesimo in cui dovrebbe spiccare il volo, facendo sì che l’età del soggetto non appaia come un dato a lui inerente, ma che anzi sia un segnaposto vuoto, finendo in sostanza per coincidere col tempo di un altro. «Nel mio armadio, fra le mie cose, è conservato un nastro nero. Vi è scritto “con affetto, ad Aurora”. Mi è stato dato il nome di mia madre, morta mentre nascevo e, guardando questo nastro, non so bene a chi sia rivolto». La morte, in questo atto battesimale singolare, dove il nero è al posto di un nastro azzurro o rosa, cancellando con un sol tratto, con un solo colore, sesso, genere, identità, vita, è già lì e in fondo invecchiare sembra non assumere che il significato di trasportare – passo dopo passo – la destinataria di una iscrizione fallimentare verso la fine. In questo senza tempo, l’invecchiamento non è un concetto pensabile, non è l’acquisizioV
Vecchiaia e psicoanalisi ne del senso della propria esistenza, non è il confronto con le differenti età della propria vita, anzi non è che il lento ricongiungersi con il proprio destino, contrassegnato da un nastro nero, da un atto battesimale funereo, mostrando, paradossalmente, la non iscrizione delle stesse categorie temporali. Per questo, e a ragione, Freud osserva che gli apriori kantiani, spazio e tempo, non valgono sempre nella vita psichica ed anzi devono a volte essere delle conquiste della cura analitica. Siamo qui dinanzi a un paradosso: ciò che ci appare scontato, il passare dell’età, può non avere alcun senso per colui o colei che vive nel tempo o nel significante di un altro e questa assenza finisce per coincidere, di fatto, con la morte psichica del soggetto, prima ancora che egli giunga a quella biologica. Eppure, da un altro punto di vista, l’invecchiamento a cui associamo le categorie della fine, del morire, dei limiti stessi delle possibilità analitiche, (limiti posti da Freud dapprima verso l’età di mezzo, poi, nel momento in cui egli raggiunge un’età avanzata, dal fatto di essere persone molto anziane1), è ciò che si oppone alla morte, ciò che introduce il tempo lungo del conflitto fra vita e morte, fra desiderio e sua estinzione, fra rigidità e flessibilità. Forse, il primo punto di riflessione che occorre delineare intorno ad un tema – come sottolineano gli autori di questo libro – spesso trascurato, è proprio quello di sottrarci a questa correlazione che ci appare fondante fra vecchiaia e morte, ridare ad essa il suo tempo peculiare, la sua specificità, niente affatto iscrivibile in un destino di depauperamento e di designificazione progressiva già dati. Bisognerebbe allora sfuggire prima di tutto all’evidenza fenomenologica, alla convinzione erronea che vecchiaia significhi tout court rigidità dei funzionamenti psichici, fine del principiosperanza, fallimento dei processi psichici transferali e della possibilità della cura analitica. Ri-assumere allora, contro ciò che sembrerebbe evidente, la portata economica dello psichico, la sua capacità di movimento, la sua disponibilità alla riconquista o al ritrovamento del senso, che rendono conto delle condizioni che renderebbero praticabile la cura medesima. 1 Dobbiamo innanzitutto ad Abraham la contestazione di questo assunto e la possibilità di un lavoro analitico coi pazienti anziani; negli anni ’50 si ricorderà il lavoro di H. Segal e negli anni ’70, in Francia, soprattutto quello di Balier che parlerà di psicoanalisi tardiva.
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Prefazione Del resto, nonostante le osservazioni di Freud sul limite e sulle possibilità della cura analitica oltrepassata una certa età (limite, come ho osservato, che si sposta con il suo progressivo avanzare d’età, segno che probabilmente è solo nell’esperienza singolare che ne facciamo che possiamo davvero stabilire quanto di fissità e quanto di plasticità sono all’opera), è anche vero che egli sottolinea come la plasticità psichica può essere operante in alcuni soggetti e assente in altri a dispetto del rapporto che essi hanno con la propria età. Così, se assumiamo la portata anzitutto metapsicologica del fattore invecchiamento, potremmo essere d’accordo con F. Villa quando osserva la valenza anasemica (cioè soggetta ad un processo di designificazione-resignificazione da parte della dimensione psicoanalitica) del termine vecchiaia che fa di quel termine del linguaggio corrente tutt’altra cosa, permettendoci di inserire, in questo processo, significati altri dalla banale evidenza. La questione indica, come già anticipato, il punto di confronto fra ciò che si snoda nella cura col paziente anziano, ciò che pensiamo delle sue possibilità a partire dai nostri pregiudizi o dalle nostre opzioni teoriche, ciò che invece riusciamo a delineare-tracciare in essa per permettere la riemersione di un sessuale infantile come operatore di trasformazione psichica. Dando una direzione diversa da quella data dalla roccia del biologico posta dall’età, e osservando, a volte con nostra grande sorpresa, il riannodare fecondo di fili slabbrati, di costellazioni di immagini, di ricordi, di lutti che attendevano un interlocutore per ridare ad essi senso e possibilità mutative. Così, sebbene si possa ad un primo impatto pensare che il processo terapeutico che si installerà sarà essenzialmente di contenimento, accompagnamento, riassestamento, che insomma nulla di importante potrà mai davvero accadere – assunzione spesso condivisa dai pazienti – («vede, mi dice una paziente anziana appena si siede da me per la prima volta, vede, questo telefonino, io non lo cambierò mai»), in realtà se ci disponiamo a un lavoro sulle nostre convinzioni teoriche, sulla disponibilità o meno a identificarci con ciò che non siamo, con ciò che potremmo essere, con ciò che abbiamo conosciuto nel rapporto coi nostri genitori, molto può davvero accadere. Per questo motivo reputo discutibile la tesi secondo cui un analista giovane VII
Vecchiaia e psicoanalisi sarebbe di per sé inadatto ad occuparsi di pazienti anziani, assumendo per quanto mi riguarda che non è solo il tipo o il grado di esperienza che noi abbiamo di certi eventi, di certe realtà, a permetterci di comprendere una vicenda psichica, ma la nostra disponibilità a spingerci verso ciò che non conosciamo, non possediamo, o abbiamo conosciuto nei processi identificatori primari. In questo senso, è corretto ricordare Freud, come fa Izzo nel saggio di apertura, quando osserva che l’età della nevrosi è più importante dell’età del nevrotico. La possibilità di riprendere in mano il proprio destino, il senso della propria esistenza, permette di riconoscere l’opportunità di fare i conti, anche tardivamente, con una questione che ha ossessionato il soggetto per tutta la vita (ricordo ad esempio lo straordinario lavoro che un letterato molto anziano ha fatto, nella sua analisi reiniziata in tarda età, per giungere a stabilire una differenziazione dalla condizione folle di un fratello psicotico, limite incredibilmente raggiunto molto avanti negli anni ma che gli ha ridato una nuova esistenza ed una rinnovata capacità di scrittura). Da questo punto di vista, la condizione della vecchiaia, intesa come un ritorno ad uno stato indifferenziato, mi appare indicativa più di una ripresa di configurazioni psichiche accantonate, che il ritorno ad uno stato che precede la strutturazione egoica. Al medesimo tempo, può accadere che il lavoro psichico che permette la conquista della propria eredità psichica («ciò che hai ereditato dai padri», seguendo il celebre verso di Goethe citato da Freud) possa realizzarsi solo in tarda età. Ma questo è un paradosso fertile. Già de M’Uzan aveva notato in un suo scritto, Le travail du trépas, la profonda divaricazione fra pazienti che nell’approssimarsi della morte si muovono in un progressivo ed inesorabile distacco libidico dagli oggetti amati, dagli investimenti di una vita, e altri invece che riannodano straordinari legami con gli oggetti, o che domandano perfino di essere accompagnati alla morte in un movimento però di presenza consapevole a se stessi, di riflessione finale a due sulla propria vita, come per ritrovare, insieme, il filo di un discorso interrotto, di rilanciare in qualche modo, in un altrove probabilmente consegnato all’analista, il testimone di un’esistenza. Certo, occuparsi di sé trasporta con sé, VIII
Prefazione nell’occuparsi dell’Io che sa di stare per morire anche l’Es che non ne sa nulla della morte, ed in un certo senso trascina, nella consapevolezza del morire, in quel prendersi cura, anche l’illusione profonda che si possa reinviare, per quel che si può, l’ultimo momento. Da questo punto di vista, il confronto con i nostri oggetti più cari non può non incrociare, per uno psicoanalista, il rapporto con la psicoanalisi stessa. Questo rende conto, in molti passi di questo libro, della necessità di riandare alla morte di Freud, al suo tragitto peculiare e al suo rapporto con la malattia e con la propria fine, come per ritrovare nella sua singolare vicenda dei punti di repere per affrontare la nostra stessa fine, il nostro invecchiamento e le varie modalità di affrontarlo. Modalità che procedono dalla progressiva crescita dell’elaborazione soggettiva sulla vecchiaia, sul morire, sul senso e i limiti della pratica analitica in tarda età. Fino a quando vedere pazienti, fino a quando condurre analisi la cui fine non è programmabile quando l’analista è particolarmente anziano? Come valutare soggettivamente, o tramite il gruppo di riferimento, la scelta del momento più adatto per allentare, molto o del tutto, la pratica clinica? E al medesimo tempo, però, come far sì che gli eredi di quell’esperienza, i colleghi più giovani, possano godere di ciò che gli analisti anziani hanno appreso nella loro vita, possano dialogare con gli interlocutori con cui i nostri maestri hanno intessuto la loro formazione e le cui tracce sono passate nei dialoghi che essi hanno avuto con noi, nelle analisi che hanno condotto, nei seminari che hanno tenuto? Come fare in modo che il tempo dell’esperienza che si è accumulato non sia né cancellato con un gesto edipico di rivolta verso ciò che ci precede, né, al medesimo tempo, un resto che non lascia mai spazio alle nuove generazioni di fare le loro esperienze, ritrascrivendole a loro modo, assumendo il valore e la ricchezza di un transgenerazionale positivo (Langer)? Non saprei dire se, come si propone in questo testo, il rapporto con la vecchiaia e il senso da dare ad essa, sia diverso fra Freud e la Salomé in ragione della presenza di un orizzonte di fede (Vandi). Mi pare che molte altre questioni alberghino nel rapporto con la morte e che non attengono solo alla fede, ma per esempio al genere (come si significa ad IX
Vecchiaia e psicoanalisi esempio la morte per una donna e per la sua dimensione generativa, per il fatto di aver messo al mondo un figlio, stabilendo un rapporto assolutamente unico con il dare e creare la vita? È assimilabile al rapporto con la morte del genere maschile?) Questioni su cui sarebbe senza dubbio utile indagare. Al medesimo tempo, che rapporto riusciamo ad instaurare con la vecchiaia se questa si situa nel campo della demenza, della distruzione della memoria? Ricordo a tal proposito le innumerevoli tesi di laurea seguite a Parigi, nel mio ruolo di docente universitario, sulla possibilità di un lavoro psichico con pazienti affetti da gravi patologie degenerative cerebrali e che però, pur nella totale assenza di percorsi clinici assumibili in quanto tali, di scambi verbali dotati di senso, ponevano in evidenza l’appassionata ricerca da parte del giovane studente di trovare in un gesto, in una variazione di uno sguardo, la prova che Eros era ancora lì (questione su cui torna più in generale de Mijolla). In tal modo, pur nella devastazione della malattia, si cercava di ridare dignità non solo alla persona affetta, ma alla possibilità di una comunicazione, all’anamnesi stessa che assumeva non più il valore di un atto medico di raccolta di dati biografici, ma di testimonianza del passaggio dell’altro nella propria vita. Era un combattimento non tanto contro la morte (anche contro di essa evidentemente), nella convinzione, che pure persisteva, che lo psichico poteva almeno, se non venire a patti con la morte del corpo, quantomeno frapporre ostacoli, resistere, deviare il più possibile non certo il corso degli eventi, ma almeno la loro temporalità incipiente, riportare alla luce quel po’ di soggetto che comunque doveva, poteva esserci nonostante tutto. Altre volte, in condizioni meno gravose, il senso di una trasmissione, la possibilità di un racconto, e tramite esso la realizzazione particolare di una quasi-autobiografia da parte dello studente, mediante l’altro anziano con cui si interagiva, permetteva un singolare incontro. Al fondo, si potrebbe dire, molti di questi studenti, (a cui era mia abitudine di lavoro domandare se riuscivano a ricostruire alcune delle ragioni teoriche e personali che li spingevano ad operare in condizioni così dure e spesso altamente traumatiche, per la frequenza di morti improvvise, per il deterioramento psichico di cui erano spettatori inermi) avevano, in questo modo, colmaX
Prefazione to delle lacune della propria storia soggettiva. In un modo certo precario, fragile, sofferente (ma questa sofferenza era non solo il punto di arrivo – l’incontro col paziente anziano affetto da demenza ad esempio – ma anche quello di partenza della loro vita) essi andavano quasi a cercare dei nonni, dei racconti, delle storie, dei segni di un passato da trasmettere. Ricostruire biografie perdute, rintracciare esistenze smarrite di cui non restavano che pochi segni, era un tentativo di ridare vita a vicende altrimenti destinate all’oblio più totale, un po’ come ha fatto la storica Arlette Farge, nella sua ricerca sui braccialetti cartacei rimasti al polso di individui anonimi trovati morti per strada, e su cui questi avevano scritto minime notizie biografiche (un nome, un villaggio di appartenenza) che attestano il disperato tentativo, mediante quelle scarne scritte, di far parte comunque della comunità umana. Fortunatamente, la vita di uno psicoanalista è stata infinitamente più ricca, eppure come pensare il ritiro dal lavoro senza cadere nel vissuto melanconico, nella paura di essere dimenticati, di non essere più utili? Come osserva Badoni, il ritrovare momenti di sé, gradi di libertà precedentemente limitati rende quella scelta non solo una rinuncia, ma anche una conquista. Certo, questo è senza dubbio vero, ma penso che la scelta di andare più sullo sfondo della vita lavorativa non potrebbe avvenire felicemente senza la preservazione di quel dialogo infinito che ha intessuto le nostre vite di analisti, dialogo coi pazienti che abbiamo seguito, dialogo con le riflessioni che essi hanno provocato anche dopo la loro uscita dalla stanza d’analisi, dialogo coi nostri genitori, storici e analitici, con l’istituzione analitica che, nel bene e nel male, nei processi creativi e distruttivi che accompagnano inevitabilmente ogni istituzione, hanno accompagnato la nostra formazione, la nostra crescita di analisti, le nostre idealizzazioni e le nostre delusioni. Solo così, come osserva De Masi, riusciremo davvero a fare il lutto di ciò che siamo stati e di ciò che avremmo potuto essere, non in una processualità melanconica, ma nella possibilità di una consegna alle generazioni future di analisti che riprenderanno a loro modo, ereditando, tradendo, il testimone. A volte, la difficoltà o l’angoscia estrema di arretrare, di riconoscere la necessità XI
Vecchiaia e psicoanalisi di arrestarci nella professione, o quantomeno di declinarla in forme più gestibili rispetto ai tempi della cura (molti esprimono questo attraverso la scelta di fare delle supervisioni o delle psicoterapie piuttosto che prendere nuove analisi) deriva proprio dalla difficoltà di accogliere in sé, di nuovo, come agli inizi della propria storia personale ed analitica, la potenza generativa del nuovo, la scommessa del figlio, l’enigma fertile della sua venuta. Certo, questo percorso è reso più difficile dall’irruzione del trauma, come l’epidemia del Covid ha messo in evidenza nella tragica cancellazione, violenta, anonima, brutale, di tanti nostri anziani e il lavoro analitico coi pazienti in tempo di pandemia ne ha raccolto le tracce vistose. Eppure, come ricorda Lucia Fattori, accanto al desiderio che nulla cambi, accanto alla necessità, che nulla e nessuno, per usare le parole di Freud da lei citate, «interrompa la dolce abitudine di vivere» è giocoforza osservare la straordinaria mobilizzazione psichica che il trauma può determinare riaprendo domande sopite, storie incistate, facendo sì che dalle crepe aperte dal reale si faccia strada l’interno di una dimora, il suo segreto. Accanto a tale possibilità, ovviamente, si situa la dimensione correlativa aperta dalla paura, dall’angoscia della malattia e della morte, ma è anche vero che queste intermittenze della vita (Monterosa) possono aprire la strada a nuove potenzialità, facendo sì che si possa riconoscere, nella crisi vissuta, anche una nuova necessità: quella di aver compreso che nessuno si salva da solo. Come vincere la tentazione della solitudine, come far sì che la tecnica non resti uno strumento fuori dell’umano, ma che possa permettere, anzi, di non disfarsi di un’esperienza di umanità (Corsa), è la grande sfida che il tempo attuale ci obbliga a prendere in considerazione. E questo forse ci è dato, come scrive Busato, dalla possibilità di riconoscere che nel tempo dell’invecchiamento si apre, lo ricorda Rossana Rossanda, un tempo per riflettere che forse prima non trovava luogo e modo di darsi. Una bella rivista che seguivo anni orsono, Le temps de la réflexion, ha accompagnato spesso i miei pomeriggi di lettura. Ne ho smarrito ahimè i vari numeri che avevo. Ma penso che in qualche modo questo tipo di perdita sia, per ciascuno di noi alle prese con l’invecchiamento, la possibilità di scrivere a modo nostro, nel lutto degli investimenti e degli oggetti XII
Prefazione che dobbiamo fare, il nostro personalissimo tempo di riflessione, accompagnato da una promessa di futuro indeterminabile, quello che il tempo a venire, il tempo oltre la nostra esistenza già ci consegna, obbligandoci a fare della nostra eredità un’eredità assumibile, condivisibile, degna di essere tradita. Dunque, proprio per questo, tramandata nella sua funzione più autentica: quella di generare, sempre, e ancora una volta, del nuovo.
Bibliografia DE M’UZAN M. (1977). Le travail du trépas. In: De l’art à la mort. Itinéraire psychanalytique. Paris, Gallimard. FARGE A. (2014). Le bracelet de parchemin: L’écrit sur soi au XVIIIe siècle. Paris, Bayard. SCHNEIDER M. (2001). “La voyageuse de nuit”. Champ psychosomatique, 4. VILLA F. (2010). La puissance du vieillir. Paris, Puf.
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