Ambra Cusin, Lucia Fattori, Maria Stanzione Modàfferi, Gabriella Vandi (a cura di)
Oltre Il Senso di Infinito a partire dal “Sentimento oceanico”
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Ambra Cusin, psicoanalista, membro ordinario della SPI e dell’IPA, membro didatta dell’Istituto Italiano Psicoanalisi di Gruppo, ha curato con G. Leo Psicoanalisi e luoghi della negazione, Frenis Zero (2011). Tra i lavori: “Sull’irrappresentabilità di Dio. Una riflessione dal vertice psicoanalitico”, in L. Fattori e G. Vandi, Psicoanalisi e fede: un discorso aperto, F. Angeli, 2017, Psicoanalisi in Terra Santa, Frenis Zero, 2017. Vive e lavora a Trieste. Lucia Fattori, psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Spi e dell’Ipa. Docente a contratto di Psicologia dinamica presso l’università di Padova, città dove vive e lavora. Ha co-curato Psicoanalisi e fede: un discorso aperto, F. Angeli (2017). Fra le pubblicazioni: Exstential crises in two religious patients, The International Journal of Psychoanalysis (2015, con C. Secchi). Maria Stanzione Modàfferi, psicoanalista, membro ordinario della SPI e dell'IPA; vive e lavora a Napoli. Ha curato Le figure del vuoto, Borla 2012. Tra i lavori: "Dal caos alla scrittura: Margaret Little", in P. Cupelloni, Psicoanaliste. Il piacere di pensare, F. Angeli, 2012; "Terra-Mare psicoanalitica. Illusione, credenza, fede, delirio: limiti e confini", in L. Fattori e G. Vandi, Psicoanalisi e fede: un discorso aperto, F. Angeli, 2017. Gabriella Vandi, psicoanalista, membro ordinario della SPI e dell'IPA. Ha presentato vari lavori a Congressi Nazionali e Internazionali. Ha co-curato il volume Psicoanalisi e fede: un discorso aperto. Franco Angeli, 2017. Tra le pubblicazioni: “De la confusión de lenguas a compartir un código: la experiencia de rêverie”, Revista de Psicoanálisis de la Asociación Psicoanalítica de Madrid” (2012, con C. Carnevali). Vive e lavora a Rimini.
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Indice generale Prefazione di Sophie de Mijolla-Mellor...................................................... VII Introduzione
A partire dal sentimento oceanico. Oltre di Ambra Cusin, Lucia Fattori......................................................................... XI
Prima Parte Sentimento oceanico, verso l’infinito L’uomo terrestre naviga verso l’ignoto. La psicoanalisi delle origini e la tensione all’Oltre di Rita Corsa, Gabriella Vandi ........................................................................ 3 Soggetti dell’Oltre. Infinito terminabile e interminabile di Maria Stanzione Modàfferi ......................................................................... 19 Di fronte all’immensità: il Timore Reverenziale di Cesare Secchi .............................................................................................. 33 Vivere l’Oltre di Lidia Leonelli Langer .................................................................................. 43
Seconda Parte Il superamento del limite Riflessioni intorno alla perversione come patologia del limite di Gabriella Vandi .......................................................................................... 61 Tra soglie e limiti. Etica e antropologia dell’Oltre di Paolo Augusto Masullo ................................................................................ 75 Biotecnologie e illusione di immortalità: uno sguardo psicoanalitico di Rita Corsa .................................................................................................. 89
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Oltre Il Senso di Infinito a partire dal “Sentimento oceanico”
Terza Parte Psicoanalisi e infinito. Alcuni punti di vista oltre Freud Percorsi dell’Oltre. Erotismo, arte e religione in Lou Salomé di Mario Aletti................................................................................................ 105 L’Infinito del Punto dentro quello dello Spazio: Bion e Matte Blanco inquadrano nel mio cervello il caso psicotico di un collega australiano di Guelfo Margherita....................................................................................... 125 L’Infinito nella mistica ebraica: spunti per un raffronto con “l’incertezza non lineare” in psicoanalisi di Ambra Cusin .............................................................................................. 141
Conclusioni L’Oltre: indefinito e infinito di Ambra Cusin, Lucia Fattori, Maria Stanzione Modàfferi, Gabriella Vandi..... 167
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A Nino
Prefazione di Sophie de Mijolla-Mellor
Piero è un bambino di cinque anni che un’ordinanza giudiziaria ha separato da sua madre, colpevole di maltrattamenti. Poco tempo prima di questa decisione, la donna aveva perso un secondo bambino durante la gravidanza. Le domande filosofiche non lasciano mai Piero tranquillo, e quel giorno si trattava della natura dell’infinito. Convocata a rispondere, senza troppo riflettere, io propongo questa definizione che mi sembra di natura rassicuratoria rispetto al vissuto di mancanza e di perdita che gli appartiene: “L’infinito? È quando uno può dire sempre più uno, più uno, più uno; allora questa cosa non si fermerà, non avrà mai fine”. Ma Piero non si lascia imporre la mia visione e vuole avere l’ultima parola. Così la sua risposta non si fa attendere: “Si può dire anche meno uno!”. Non commenterò le diverse interpretazioni che può suscitare un dialogo così breve, ma partirò da questa prospettiva opposta e complementare costituita da “più uno/meno uno” per evocare le due facce della medaglia del sentimento oceanico, cioè la pienezza narcisistica e la nostalgia. La distinzione proposta in quest’opera tra la “sensazione oceanica”, vissuto di perdita delle frontiere dell’Io1, riemergenza di un vissuto arcaico, e il “sentimento oceanico” che al contrario si caratterizza come una paura di essere assorbiti dentro l’oceano, mi sembra molto stimolante tanto più che è legato alla nostalgia, concetto altrettanto difficile da identificare. Si può considerare che la sensazione oceanica rappresenti una apertura della psiche2 perché riporta a delle forme arcaiche del funzionamento psichico che sono inadatte alla rappresentazione di parola e fondatrici, proprio per questo, di invenzioni, soprattutto poetiche. Questo vissuto oceanico, se entra in risonanza con i nostri propri ritmi, ci porta anche a ritrovarli attraverso la strada di una apertura illimitata verso l’esterno. La scelta è quella del riferimento acquatico, che marca ritmo, movimento e rollio, ma anche altre immagini come quella del silenzio del deserto, o quella delle cime montagnose, possono presentarsi per connotare l’immagine di un infinito al di là dei limiti umani, rinviando a delle immagini arcaiche di benessere. Ma il rovescio della medaglia che gli autori sottolineano 1 Freud, 1929: “La patologia ci insegna a conoscere un gran numero di stati nei quali la delimitazione di una frontiera tra l’Io e il mondo esterno diviene incerta” (p. 559). Io, da parte mia, ho confrontato questo punto di vista con quello che alcuni autistici descrivono intorno alla loro visione del mondo: Moi, l’enfant autiste (Barron, 1992), Si on me touche je n’existe plus (Williams, 1992) e Ma vie d’autiste (Grandin, 1984). 2 Citato in Mijolla-Mellor, S. (2004), Bisogno di credere, Borla, Roma, 2006.
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è precisamente questo “Meno uno”, questa sensazione di un troppo che toglie invece di aggiungere. Questa posizione assomiglia alla distinzione che Winnicott aveva fatto tra la “non integrazione” come stato normale degli inizi della vita, e la “disintegrazione” come processo patologico, una regressione che fa spavento. Mentre la non integrazione è un dondolio piacevole, la disintegrazione è uno shock brutale e inatteso in cui il suolo viene a mancare là dove l’avremmo normalmente atteso. La certezza rassicurante di non “poter cadere fuori dal mondo” che Freud prende a prestito dal poeta romantico Grabbe è il contrario della sensazione di assenza dei limiti, perché questa si troverebbe rivolta nel suo contrario e diventerebbe allora la garanzia per il soggetto di essere all’interno, quale che sia il punto dello spazio in cui si trova. La proposta di differenziare chiaramente la “sensazione oceanica” dal “sentimento oceanico” invita a legare il “più uno” e il “meno uno”: il primo risveglia il neonato onnipotente che non abbiamo mai cessato di essere, il secondo dà parole a quell’incomprensibile senso di sgomento che possiamo provare in quei momenti in cui ci troviamo di fronte a quello che i filosofi hanno chiamato “il Sublime”. Kant3 lo definirà come “ciò che piace immediatamente andando contro il vantaggio del sensibile” e questa opposizione al piacere sensoriale gli appare come la migliore garanzia contro la Schwärmerei (fascinazione), illusione che consiste nel credere di vedere qualche cosa al di là dei limiti dei sensi. Il Sublime, come il bello, si avvicina all’intelletto e all’immaginazione riunite, ma va oltre quest’ultima e crea un sentimento misto di gioia e terrore. Heghel ne “L’estetica”, situerà il Sublime nel secondo tempo del movimento dialettico, quello dell’antitesi e dunque della presa di coscienza del negativo e della distanza che separa l’essere infinito dalle esistenze particolari. Il sublime corrisponde a questo momento in cui l’Idea manifestandosi annienta il supporto sensibile che la esprime. Come viene ipotizzato in questo volume, il “sentimento dell’infinito” potrebbe allora essere scomposto in più fasi che segnano l’evoluzione affettiva dell’uomo. A partire dalla “sensazione oceanica” si ha la perdita dell’illusione di onnipotenza nell’istante in cui il processo di individuazione, e dunque di separazione, entra in campo. La fase ulteriore è il recupero parziale della grandezza perduta dopo averla proiettata sul “Padre- Madre” con il quale il bambino può allora identificarsi. Questo non gli assicurerà un recupero completo del vissuto iniziale che è irrimediabilmente sparito; di qui la nostalgia che accompagna paradossalmente il ritorno di quel vissuto. Poiché la nostalgia non è legata all’assenza, ma al contrario alla presenza dell’oggetto tanto desiderato, questa Sehnsucht, angoscia patologica, sensazione di bramosia-angoscia, non può essere eliminata dall’apporto 3 Kant, E. (1790), La critica del giudizio, Bompiani, Roma, 2015.
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Prefazione dell’oggetto desiderato. Freud all’angoscia del “troppo bello” opporrà la consolazione religiosa, quella che si fonda sull’ “aggrappamento” al padre: “L’impressione terrificante dell’inermità infantile aveva risvegliato il bisogno di essere protetto-protetto e contemporaneamente amato- bisogno che il padre soddisfa. Il riconoscimento del fatto che questa inermità dura tutta la vita ha fatto sì che l’uomo si sia aggrappato ad un padre, un padre questa volta più potente. L’angoscia umana di fronte ai pericoli della vita si appoggia sul pensiero del regno benevolo della divina provvidenza, l’istituzione di un ordine morale per l’universo assicura la realizzazione delle esigenze di giustizia così spesso rimaste irrealizzate nelle opere di umana civilizzazione e il prolungamento dell’esistenza terrena attraverso una vita futura fornisce la cornice spazio-temporale in cui questi desideri si realizzeranno. Alcune risposte alle domande che la curiosità umana si pone rispetto a questi enigmi, la genesi dell’universo, il rapporto corpo-spirito, si elaborano seguendo le premesse del sistema religioso. È un formidabile sollievo per l’anima individuale vedere i conflitti infantili derivati dal complesso paterno, conflitti mai completamente risolti, esserle per così dire tolti di mezzo e ricevere una soluzione accettata da tutti” (Freud, 1927, p. 460). A questa prospettiva che ha messo l’infinito “al di fuori” voglio contrapporre, per concludere, la nozione spinoziana di Sostanza, così come il filosofo la definisce all’inizio del libro primo dell’Etica: un essere che si concepisce da sé, che esiste in sé e che non ha bisogno di nessun altro essere. La Sostanza è il nome stesso dell’Infinito nell’infinità dei suoi attributi: c’è dunque un’interiorità totale dell’Infinito a se stesso. Mentre per noi l’Infinito è indeterminato, nel senso che non si può dire niente di preciso su di esso, per Spinoza, (contrariamente, per esempio a Plotino, che cerca di vivere l’Infinito in diretta attraverso un sentimento oceanico o qualche cosa di analogo) per accedere all’infinito bisogna passare attraverso gli attributi della sostanza. Non si perde nulla giacché l’attributo e i suoi modi finiti che gli corrispondono sono solo dei mezzi logici per esprimere la Sostanza. La Sostanza non è separabile dai suoi attributi e l’Infinito non può esistere altrimenti che attraverso il finito. Il finito non è dunque un altro mondo rispetto all’Infinito, ma è la modalità logica di leggere l’Infinito. Così il conoscere bene un individuo ci riporta per esempio a conoscere Dio poiché Dio vi è interamente contenuto. L’esigenza che ha il cuore dell’uomo non è un’esigenza di ordine trascendente, ma è l’esigenza di un Bene che doni il godimento della gioia. Agire bene è cercare di vivere nella gioia: questa è la massima dell’etica spinoziana. La prospettiva spinoziana di un terzo genere di conoscenza, quello dell’amore intellettuale per Dio, Dio di cui l’individuo è una parte, ri-
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Oltre Il Senso di Infinito a partire dal “Sentimento oceanico”
solve il sentimento doloroso della nostalgia prendendo in considerazione nell’Essere, compreso se stesso, non quello che è il limite, o la negazione di sé, ma la sua essenza positiva, la sua affermazione interiore. Colui che comprende se stesso e comprende i propri sentimenti chiaramente e distintamente, ci dice Spinoza, ama Dio e quanto più comprende se stesso, tanto più comprende i propri sentimenti. Nessuno, egli aggiunge, può odiare Dio, e l’amore verso Dio non può cambiarsi in odio perché nessuno può costringere Dio ad amarlo. Il terzo genere di conoscenza è il momento in cui l’uomo, invece di cercare la comprensione delle cose nelle relazioni degli attributi tra di loro, risale con l’intelligenza all’attributo infinito che è l’unità e la ragione di tutti questi singoli attributi. Egli giunge così fino a Dio di cui quel particolare attributo è un’immediata espressione, percorso che non è possibile fino a quando l’uomo non si sia sbarazzato dei pregiudizi che l’autorità religiosa tenderebbe ad imporgli. Ecco così il positivo e il negativo sostituiti dal riconoscimento del “parziale” come espressione dell’Infinito grazie ad un processo di individuazione che si basa su una comprensione che non implica né l’abbandono di sé, né la rassegnazione nostalgica.
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Introduzione A partire dal sentimento oceanico. Oltre di Ambra Cusin, Lucia Fattori
Siamo davanti ed in mezzo agli oceani degli oceani degli oceani… degli oceani di Dio. Non più Dio nell’uomo ma l’uomo nel mezzo di Dio. Matte Blanco (1975, XCVI)
Freud, nella sua professione di ateismo, aveva preso le distanze non solo dalla religione, ma anche da quel senso di eternità e di infinitezza, da lui ribattezzato “Sentimento Oceanico”, che l’amico Rolland gli aveva proposto come base del sentire religioso e, in quanto esperienza universale dell’uomo, quasi come prova indiretta dell’esistenza di Dio. Freud infatti nel primo capitolo del Disagio della civiltà (1929), interamente dedicato al Sentimento Oceanico, sostiene che questo sentimento può essere semplicemente inquadrato all’interno del narcisismo primario e ricondotto alla mancanza di confini che l’Io esperisce nell’ originaria fusionalità con il padre delle origini il quale, come aveva specificato ne L’Io e l’Es (1922, p.493, nota 2), è in realtà un padre-madre, un genitore arcaico sessualmente indifferenziato. Ma, a nostro parere, rimangono aperti molti interrogativi intorno a questo sentimento ed a quel vissuto di infinitudine ad esso collegato che lo avvicina ad esperienze particolari e non facilmente descrivibili, come quelle talora perturbanti provate dai mistici o quelle intense di certe fruizioni estetiche. Quello che Freud individua come “Sentimento Oceanico” appare infatti uno stato d’animo complesso, sia a livello fenomenologico, sia rispetto al suo statuto metapsicologico. Per quanto riguarda l’aspetto fenomenologico ci domandiamo se non si possano cogliere, a ben guardare, due differenti manifestazioni del senso di infinitezza. A partire da Freud, che mette insieme, ma nello stesso tempo implicitamente differenzia, “sensazioni e sentimenti di comunione”1 (1929, p.565) ci sembra che si possano distinguere due fenomeni diversi: uno che avviene sul piano della pura sensorialità e uno che avviene sul piano dei sentimenti. Il primo fenomeno, che ci sembra forse più appropriato chiamare “Sensazione Oceanica”, potrebbe corrispondere a quel vissuto somatico di 1 Corsivo nostro
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fusione con un paesaggio vasto e maestoso, di immersione in un tutto che ci avvolge, di comunione totale con l’altro/Altro, che a livello corporeo ci dà, in momenti particolari ed eccezionali, uno stato di profondo benessere. Questo livello sensoriale, in cui viene esperita una comunione con la natura e con l’umanità tutta, sembra proprio corrispondere a quel fenomeno che Rolland voleva porre all’attenzione di Freud e che Freud descrive come percezione della perdita di confini: il corpo prova un senso di indefinitezza in cui l’Io piacevolmente si perde dilatandosi fino a confondersi con l’ambiente esterno; Freud parla a questo proposito di “piacere puro” (1929, p. 560), attraverso un legame esclusivamente libidico (1921, p. 290 nota 2, p. 291) con l’ambiente circostante. A titolo di esempio di immersione totale nella natura ricordiamo certi stati di benessere che proviamo quando a mente sgombra ci lasciamo cullare in mezzo al mare dall’ondeggiare ritmico di un’imbarcazione (de Mijolla Mellor, 2017) o, come esempio di fusione con l’ambiente umano, possiamo andare col pensiero a quelle situazioni intense in cui, cantando in coro, ci sentiamo felicemente all’unisono coi gli altri o in cui, ascoltando della musica coinvolgente assieme ad una persona amata, avvertiamo una profonda intimità e sperimentiamo uno stato di vera beatitudine. Ma c’è un secondo fenomeno o, forse, un secondo livello, che comprende a sua volta una gamma di fenomeni, in cui il contatto con l’illimitatezza sembra dare luogo non ad un semplice stato di benessere, ma ad uno stato d’animo complesso ricco di emozioni anche contrastanti. Ci riferiamo a quei momenti in cui, nel contatto con qualcosa di estremamente bello o straordinariamente grande, siamo presi o da una gioia malinconica, da un dolce struggimento o addirittura da uno stato che dal senso di pienezza trapassa in qualcosa di inquietante, quasi di angosciante. Sembra trattarsi di un complesso e variegato insieme di rappresentazioni, che è dunque più propriamente avvicinabile ad un sentimento: potremmo chiamarlo il “Sentimento di Infinito”. Di questo sentimento, che ipotizziamo rappresenti un secondo livello dell’oceanico pensiamo dunque di poter individuare varie forme, a partire da una a tinte più lievi, caratterizzata da una sfumatura melanconica che si mescola alla gioia, per arrivare ad una a tinte più forti, in cui la gioia è legata ad un’inquietudine che potrebbe avere a che fare, come vedremo in seguito, con l’apparire del perturbante. Per il momento prendiamo in esame solo la forma più delicata e leggera, in cui gioia e pena si mescolano in relazione a situazioni di “comunione con il tutto” accompagnate da uno sfondo melanconico. A titolo di esempio pensiamo a quando, di fronte a momenti felici in cui stiamo con delle persone care in un luogo suggestivo, sperimentiamo, accanto ad un senso di pienezza, un nodo alla gola o un pianto delicato o a quando di fronte
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Introduzione ad un certo paesaggio (l’aprirsi ad esempio di una nuova visuale in montagna, dopo aver superato un passo) proviamo, insieme alla gioia, un inspiegabile struggimento. Questa esperienza a sfondo melanconico potrebbe corrispondere a uno stato emotivo complesso, maggiormente evoluto e articolato rispetto al primo livello, quello della sensazione oceanica, e che si colloca su un registro rappresentativo. In esso è presente un mescolarsi e un susseguirsi di emozioni varie. Può questo Sentimento di Infinito dolce-amaro essere riconducibile a quel sentire cui diamo il nome di nostalgia? Possiamo parlare di nostalgia d’infinito? Il termine nostalgia sottolinea nel suo etimo l’aspetto della sofferenza: è il dolore del ritorno (νόστος άλγος / nóstos álgos), inteso come tensione causata dal forte desiderio di tornare allo stato originario. Nel caso della nostalgia connessa con l’esperienza dell’Infinito potremmo pensare che la sofferenza sia dovuta a vissuti legati all’impossibilità di rivivere l’esperienza precoce della fusione originaria Io-ambiente: questa viene evocata ed avvicinata in certi momenti senza che però possa più essere pienamente rivissuta. Ci chiediamo: tale nostalgia è sovrapponibile a quella nostalgia dell’onnipotenza che Freud prende in considerazione nella parte finale del succitato capitolo del Disagio della Civiltà, attribuendola ad un secondo momento del Sentimento Oceanico? “Posso immaginarmi - egli afferma - che in un secondo tempo il sentimento oceanico sia entrato in relazione con la religione”: sorgono infatti dei bisogni religiosi, “derivati dall’impotenza infantile e dalla conseguente nostalgia2 del padre” (Freud, 1929, p. 564). I bisogni religiosi, afferma Freud, possono essere collegati al sentimento oceanico all’interno di un quadro di dipendenza assoluta del bambino dal padre delle origini. Egli spiega dunque questo vissuto, che attribuisce al secondo momento del Sentimento Oceanico, chiamando in campo proprio la nostalgia, la nostalgia dell’uomo per la perdita dell’onnipotenza o, meglio, per la perdita dell’illusione di onnipotenza, cui si collega il bisogno difensivo di proiettare l’onnipotenza sul padre (padre/madre) al fine di riappropriarsi della stessa attraverso il fantasticato ricongiungimento col genitore. Ne conseguirebbe un desiderio nostalgico nei confronti del padre per ri-sperimentare, nella fusione con lui, il vissuto di illimitatezza. Nel momento in cui il bambino si rende consapevole della propria impotenza e inermità cercherebbe dunque l’esperienza di essere tutt’uno con un padre onnipotente, cui affidarsi, come mezzo di consolazione per lenire il dolore dovuto all’acquisita consapevolezza delle proprie limitazioni. E dunque in realtà anche Freud individua due momenti-livelli in cui porre il cosiddetto Sentimento Oceanico; ma mentre dedica molto spazio 2 Corsivo nostro
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al primo, la sensazione di comunione con il tutto, dedica al secondo, la nostalgia del padre, solo poche righe. Questi due livelli sono riconosciuti come riconducibili a due esperienze diverse, ma può Freud chiamare nello stesso modo la tensione verso il ricongiungimento e lo stato di benessere dell’appagante comunione con il tutto? Rifacendoci al secondo fenomeno/secondo tempo, quello in cui abbiamo ipotizzato si collochi l’ambito della nostalgia, potremmo descriverlo come uno stato intenso di emozione, in cui un eventuale attimo di pienezza, corrispondente alla momentanea illusione di ricongiungimento col padre\madre delle origini (se seguiamo l’ipotesi di Freud), si mescola ad un vissuto complesso: in esso compaiono sentimenti gioiosi e penosi, esaltazione e timore, il senso profondo di essere stati in modo eccezionale in contatto con qualcosa di bello e di grande e il rimpianto per quell’attimo ineffabile che già è irrimediabilmente trascorso e che si avvicina alla pienezza dell'esperienza originaria di onnipotenza e di mancanza di limiti, senza mai raggiungerla. Freud comunque da parte sua usa il termine sentimento anche per indicare il primo fenomeno, quello che a noi sembrerebbe di dover piuttosto chiamare “Sensazione Oceanica” e fa esplicito riferimento al un contenuto ideativo, consistente nella rappresentazione della comunione con l’esterno che accompagnerebbe le modificazioni fisiologiche. Afferma infatti: “Non è facile parlare scientificamente dei sentimenti. Si può tentare di descriverne gli indizi fisiologici. Dove ciò non è possibile – e temo che anche il sentimento oceanico eluda una caratterizzazione siffatta – non resta da far altro che attenersi al contenuto rappresentativo” (Freud, 1929, p.558). E ancora nella stessa pagina parla di “sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima con l’ambiente”. Si tratterebbe dunque per Freud di un fenomeno in cui compare un contenuto rappresentativo, associato a modificazioni fisiologiche. Ma poi, in realtà, egli sembra sottolineare più l’aspetto corporeo dell’ “Oceanico”: infatti a conclusione del primo capitolo del Disagio della civiltà (1929, p.565), parla di “modificazioni oscure” e di un “fondamento fisiologico” , laddove il fondamento fisiologico rimanda decisamente ad aspetti sensoriali, più che ai sentimenti. Egidi (2017), osserva come nell’Oceanico sia presente “anche se poco sviluppato, quel collegamento accennato da Freud (attraverso gli stati “oscuri” e primordiali) tra sentimento di comunione con il tutto e corporeità” (p.176). Anche de Mijolla-Mellor (2017) fa riferimento all’area sensoriale quando, associando il Sentimento Oceanico all’ipotesi di Ferenczi sulla vita intrauterina, cita a sostegno di questa alcuni interessanti studi sul feto relativi a sensazioni di fusionalità che sembrano appunto rimandare al cosiddetto
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Introduzione Sentimento Oceanico, il quale viene così ricondotto ai suoi fondamenti arcaici, ovvero ad una base fisiologica legata alla sensorialità del feto. Mangini (2018), a proposito della vita psichica del feto, fa riferimento a delle “senso-percezioni” che si pongono ad un livello pre-rappresentativo: esse corrispondono al contatto diretto e totale del feto con l’ambiente intrauterino in assenza di barriera parastimoli. Ancora de Mijolla-Mellor (ibidem) sottolinea come nell’ambiente intrauterino non ci sia differenza, per quanto riguarda la durezza e la temperatura, tra il feto e il suo ambiente. È la sensorialità tattile dunque a predominare, ponendosi come trasversale a tutte le altre sensazioni e dando luogo al vissuto globale di assenza di limiti. Ricordiamo che già nella fase embrionale, ed esattamente alla settima settimana viene sviluppato il tatto (cui seguiranno gusto, olfatto e sensibilità vestibolare) e la pelle è fin da quel momento un organo molto sviluppato. Questa pelle non è ancora in grado di discriminare fra dentro e fuori e di fare quindi da confine, ma percepisce in maniera indifferenziata l’ambiente intrauterino e il proprio interno. Anche la seconda modalità in cui a nostro parere si presenta il vissuto di infinito, quello della nostalgia, potrebbe avere a che fare con la vita intrauterina: il senso di apertura e di gioia, dato dall’affacciarsi del soggetto per un attimo sull’infinito, sull’illimitato, e lo stato di pena apparentemente inspiegabile potrebbero costituire le due facce della stessa medaglia, se le leghiamo all’uscita dall’ambiente intrauterino e all’esperienza della nascita. Baudelaire (Le spleen de Paris, 1869) afferma che la nostalgia è rimpianto per il paese non-conosciuto, per il paese che si ignora. Forse noi analisti possiamo dire “rimpianto per il paese conosciuto quando l’io consapevole ancora non c’era”, ovvero durante la vita fetale. Il rimpianto per un paese di cui non c’è un ricordo consapevole spiega forse quel misterioso senso di inquietudine che può a volte accompagnare momenti felici di contatto con l’infinito. Un paziente porta in sequenza questi due sogni: “Girovagavo camminando dentro a dei cunicoli e avevo paura di non trovare l’uscita. Mi passano accanto persone che portano una bara… Mi angoscio. In quel mentre vedo una porta, la apro e fuori c’è il mare infinito”. “Ero un uccellino dentro la gabbia. Si apriva la porta della gabbia ed uscivo. Non so perché, piangevo…”
Il primo sembra un sogno di nascita dove, dopo ed oltre le strettoie limitanti, c’è l’esperienza dell’affacciarsi al mondo di fuori: è un ritrovare il mare che il piccolo bambino si è lasciato alle spalle? Il secondo sogno sembra descrivere come l’esperienza del superamento del confine (l’uscita dalla
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gabbia) porti con sé l’esperienza quasi dolorosa di apertura sull’infinito. Si tratta della consapevolezza della perdita irrimediabile del paradiso antico sperimentato prima delle strettoie, dei cunicoli e della gabbia? O ancora di una commozione dovuta al ricordo di questo Eden perduto? L’emozione gioiosa sembra legata ad un’agnizione, ad un improvviso riconoscere e ritrovare la felice esperienza originaria, ma trapassa in e si mescola con qualcosa di penoso. Sono emozioni che possono essere ritrovate in certe intense esperienze estetiche che probabilmente tutti abbiamo vissuto, in cui momenti di piacevolezza sono mescolati ad un misterioso e apparentemente ingiustificato elemento di sofferenza. Il secondo sogno con quel pianto misterioso (troppa gioia? dolore? commozione? rimpianto? l’insieme di tutte queste emozioni?) sembra alludere a questo stato d’animo. Ci interroghiamo, dunque, se, accanto a qualche rara e preziosa esperienza di piena beatitudine nel perdersi dentro al mare dell’Indefinito, esperienza riconducibile alla sensazione oceanica (il leopardiano naufragar m’è dolce in questo mare), non sia distinguibile e più frequente l’esperienza di un sentimento oceanico sotto forma di “nostalgia d’Infinito” dove la gioia si accompagna alla pena e alla tensione desiderante. Quest’ultima si costituirebbe ad un livello che si potrebbe definire “nevrotico” (de Mijolla-Mellor, 2017) in quanto realizza una momentanea soddisfazione di desiderio che comporta però dei costi in termini di sofferenza e si delineerebbe quale nostalgia dello stato di vita fetale in cui avevamo vissuto una sensazione di illimitatezza attraverso la piena fusione con il corpo materno. A proposito di questa tensione nostalgica verso l’infinito ricordiamo Sant’Agostino quando afferma: “Inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te” (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1,1). Riguardo allo statuto metapsicologico dell’“Oceanico” ci poniamo poi, sulla base di quanto sopra osservato e in relazione ai due differenti fenomeni/momenti che ci sembra possano essere individuati, il seguente interrogativo: l’esperienza di infinito è la riedizione tout court di quanto sperimentato nella fusionalità primaria, come sostiene Freud, o non può essere piuttosto il ricordo di quel vissuto di fusionalità e di beatitudine originaria, vuoi dell’Io arcaico, vuoi del feto? Per Freud l’“Oceanico” riemerge come “resto”/riedizione secondo il modello archeologico/stratigrafico, quando si verifichino particolari condizioni; a causa del riaffiorare dei vissuti legati alla fusionalità primaria l’Io ridiventerebbe momentaneamente, come allora, un essere/luogo senza confini. In definitiva per Freud il vissuto oceanico consisterebbe nella riapparizione di quanto rimane di uno strato antico della psiche, riapparizione dovuta alla “conservazione del primitivo accanto al trasformato” (Freud, 1929, p.561). L’ipotesi freudiana che il sentimento oceanico sia semplicemente il riemergere dei “resti”, ovvero di ciò che rimane di un’esperienza antica,
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Introduzione potrebbe forse riguardare il primo fenomeno, limitandosi all’aspetto somatico cioè a quella che abbiamo chiamato sensazione oceanica. Ma anche i cosiddetti resti non ripropongono tale e quale l’esperienza originaria: essi sono solo parti, frammenti di questa, come le rovine dei monumenti antichi che tornano alla luce sono solo parte del manufatto. Come questi ce ne danno solo una pallida idea, così l’esperienza dell’ “Oceanico” verrebbe comunque vissuta in forma parziale ed attenuata rispetto a quella originaria. Quanto poi al secondo fenomeno, quello che proponiamo di chiamare “sentimento di infinito”, avvicinabile al vissuto di nostalgia, esso sembra venire suscitato nell’attualità da occasionali elementi di somiglianza che richiamino quelli originali, ma non sembra legato al riemergere parziale degli elementi precedenti, quanto piuttosto, come si diceva, al presentarsi di qualcosa di diverso: dapprima il ricordo di quel mare in cui il soggetto ha soggiornato per tanto tempo, e, immediatamente dopo, il rimpianto per la sensazione perduta di costituire un tutt’uno con il liquido amniotico e la parete intrauterina, il rimpianto per quello stato di mancanza di confini, di indefinitezza. D’altra parte se la traccia mnestica di qualsiasi evento non è mai la semplice trascrizione dello stimolo percettivo, ma è costituita dalla percezione arricchita dal fantasma, ovvero da vissuti legati all’area della pulsione e quindi dell’affettività, e l’identità di percezione non esiste, il soggetto dovrà rassegnarsi all’irripetibilità dell’esperienza originaria per la quale non può che provare rimpianto e nostalgia. Il sentimento dell’infinito potrebbe a nostro parere essere allora il risultato di un processo costituito da quattro momenti. Il primo momento corrisponde alla sensazione oceanica, ovvero al cosiddetto “sentimento oceanico” descritto da Freud in termini di narcisismo primario, sperimentato inizialmente dall’Io e caratterizzato sul piano della sensorialità dalla mancanza di confini, ovvero dall’indefinitezza. Il secondo corrisponde alla conquista dolorosa del confine/ limite con l’accettazione della separatezza e l’approdo alla soggettivazione (per Freud la perdita dell’onnipotenza e la consapevolezza dell’impotenza). Il terzo consiste in un affaccio all’infinito oltre il limite appena acquisito, affaccio in cui balena la possibilità di un ritorno all’illimitatezza e all’onnipotenza originarie nella fusione con l’Altro, possessore dell’onnipotenza, in quanto questa è stata proiettata su di lui. Il quarto momento è quello della consapevolezza come presa di coscienza degli gli aspetti illusori di questo ritorno all’esperienza dell’indefinito e del sentimento di nostalgia per quei momenti originari perduti per sempre. Freud afferma, riferendosi alla nostalgia d’infinito e di onnipotenza, da lui ascritta al secondo tempo del sentimento oceanico, che questo essere “uno con il tutto”, che è il contenuto ideativo inerente al sentimento, “appare come un primo tentativo di consolazione religiosa” (ibidem, XVII
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565). Questa ipotesi si pone di fatto ad un livello diverso rispetto all’ipotesi da lui precedentemente proposta – il semplice riemergere di un “resto” dell’esperienza originaria di mancanza di confini – dato che presuppone l’avvenuta presa di consapevolezza da parte del bambino o dell’uomo primordiale3 dei propri limiti e della propria inermità. Anche Freud in fondo sembra delineare tra le righe un processo, un processo in cui il bambino si sente inizialmente onnipotente ed illimitato nella fusione\confusione con il padre delle origini, ovvero con la figura genitoriale indifferenziata. In seguito il bambino si rende conto dei propri limiti e passa ad ascrivere l’onnipotenza al padre proiettando l’infinitezza e l’onnipotenza nell’altro da sé e nel fuori di sé. Infine egli nutre il desiderio nostalgico di rifondersi col padre onnipotente instaurando una dipendenza assoluta ed un affidamento totale a questa figura di padre\Dio per riappropriarsi indirettamente dell’onnipotenza perduta. Di qui l’origine del sentimento religioso. Si tratta però per Freud di un processo connotato negativamente in termini di regressione come tentativo di consolazione per il senso di onnipotenza che si è dileguato a contatto con la realtà. Egli configura un meccanismo difensivo non diverso da quello ampiamente descritto ne L’avvenire di un’illusione, consistente del ricorso, appunto illusorio, all’idea di una Provvidenza onnipotente e benevola, operazione che Freud definisce come “manifestamente infantile” (1929, p. 566); tale meccanismo inoltre costituisce, a suo parere, “un altro modo di rinnegare il pericolo proveniente dal mondo esterno” (ibidem, p. 565), dunque un diniego che nutre l’illusione e rema contro l’acquisizione del principio di realtà. Ma forse è possibile prendere le mosse da questo punto dell’argomentazione freudiana per arrivare a conclusioni di segno opposto, dando al processo un valore evolutivo, invece che regressivo. Andresen (1999) sottolinea come il bambino scopra, attraverso la contemplazione dell’immensamente grande, la grandezza irraggiungibile del genitore e quindi la sua alterità: nell’atto del confronto tra la propria piccolezza e impotenza con la grandezza dell’Altro – simile al “momento in cui l’infante guarda il cielo notturno e realizza l’enormità dell’universo” (ibidem, p. 517) – egli si rende conto della propria diversità e realizza così la differenziazione rispetto all’oggetto, con effetti maturativi piuttosto che infantilizzanti. Ci si può chiedere dunque, in linea con Andresen se la rinuncia alla propria onnipotenza e la proiezione di questa sul genitore (Dio?) non sia in definitiva, come sottolinea Secchi in un lavoro contenuto in questo volume, una prima forma di separatezza, un passo avanti verso la formazione dell’oggetto, che avviene in seguito ad una prima presa di consapevolezza della propria impotenza: l’esigenza di un Dio rappresenta in questo senso una sorta di passaggio evolutivo, un salto 3 Per Freud l’ontogenesi ripete la filogenesi.
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Introduzione di qualità, che permette all’infante umano di deporre l’onnipotenza iniziale, propria del narcisismo primario e della fusione soggetto-oggetto, affidandola, più o meno provvisoriamente ad un genitore idealizzato, all’imago idealizzata dei genitori, per dirla con Kohut (1971), così da poter iniziare ad entrare in contatto dolorosamente con la propria impotenza e aprire le porte all’esame di realtà. Si tratta di toccare il proprio limite ed immaginare un Oltre desiderando di congiungersi ad esso per recuperare su un piano fantasmatico l’onnipotenza originaria attraverso un momentaneo e illusorio4 ricongiungimento con l’oceano, cioè con l’utero materno, l’onnipotenza paterna, il tutto, l’illimitatezza, Dio… La mancata accettazione da parte di alcune persone di questo passaggio, doloroso, ma necessario, ovvero la presa di consapevolezza della grandezza dell’Altro e per contrasto della propria piccolezza, sembra portare ad un rifiuto del sentimento di infinito e di un Dio ad esso collegato, per il timore dell’annientamento dell’Io nel confronto schiacciante con l’onnipotenza e la grandezza infinita. Quando l’ateo Sartre (citato in Zundel, 1997) afferma: “Se Dio esiste, l’uomo è niente” sembra che egli voglia sottolineare come il paragone con l’immensamente grande schiacci l’uomo, lo annichilisca, lo faccia sentire annullato e forse umiliato. Afferma una giovane paziente caratterizzata da una vera e propria negazione della dipendenza: “Pensi che non vado in montagna perché di fronte alla vista delle montagne sento un senso di enormità che mi spaventa. Mi spaventa perché mi fa porre le grandi domande a cui non voglio pensare – si commuove – … mia nonna era religiosa … Sono momenti in cui si entra in sé stessi e nello stesso tempo si aprono tutti i pori… proprio le cose da cui io rifuggo. Sento le montagne così infinite, eterne, imponenti, sovrastanti. Mi schiacciano”. È come se la paziente considerasse naturale una sovrapposizione fra sentimento dell’infinito e sentimento della presenza\esistenza di Dio e tutto questo la facesse sentire piccola e schiacciata… Come se la grandezza dell’altro danneggiasse l’immagine di sé. Reazione che sembra avere a che fare con l’invidia, una specie di kleiniana invidia del seno. A questo proposito ci sovviene, per contrasto, un verso di M. T. Henderson (1987) che recita in riferimento a Dio: “Questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza”, dove il confronto non è tra grandezza e piccolezza, potenza e impotenza, ma fra il bisogno, come vissuto di povertà, e l’infinita generosità attribuita al seno/Dio. Ripensando a Vergine (2017) che sottolinea come accanto ad una fede più o meno evoluta esistano parallelamente forme di ateismo più o meno elaborate, potremmo individuare in questa forma di ateismo una forma primaria, caratterizzata da una sorta di invidia kleiniana per l’entità esterna su cui è stata proiettata l’onnipotenza, rispetto ad esempio a quella forma 4 Illusorio in senso winnicottiano.
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di ateismo più elaborata, più meditata, propugnata da Freud e basata sui valori della ragione e della scienza. È interessante a questo proposito osservare come questa altra forma di ateismo, che noi chiameremmo “più elaborata”, potrebbe incontrarsi, e condividere i medesimi valori, con forme di fede a loro volta più elaborate rispetto ad un fideismo ingenuo: si pensi ad esempio al tipo di fede proposto dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il quale sostiene come il mondo ormai sia diventato adulto e possa proseguire benissimo senza la presenza di Dio, ovvero possa continuare a vivere “etsi Deus non daretur” (come se Dio non fosse dato). Dio infatti, a suo parere viene spesso usato come “tappabuchi”, perché viene chiamato ad intervenire per sostenere l’uomo nella sua fragilità e debolezza (sembra di leggere il Freud de L’avvenire di un’illusione), assumendo in definitiva una posizione marginale, defilata e legata non alla pienezza dell’essere umano, ma ai suoi aspetti più precari. Ma Dio non è per Bonheoffer il deus ex machina che porta a soluzioni fittizie per problemi insolubili o che ci fornisce incoraggiamento davanti ai nostri umani fallimenti. Quel Dio è assolutamente superfluo. Per Bonhoeffer le scoperte della scienza permettono di concepire l’idea di un infinito che si basa su se stesso, appunto, etsi deus non daretur, dove Dio è eliminato e superato. “Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. […] È al centro della nostra vita che Dio è aldilà” (1944, p.348-350). Possiamo dunque incontrare Dio in questo Oltre, che sta al centro della nostra umanità, un oltre che possiamo incontrare nelle infinite profondità del nostro mondo interno5. L’ateismo primario, da noi definito come meno elaborato, che non sa liberarsi dell’illusione di onnipotenza accettando di depositarla sull’imago genitoriale, non può dunque accostarsi al sentimento di infinito – a questo Oltre strettamente collegato all’inconscio – sotto forma di nostalgia perché sperimentare la nostalgia, in fondo, significa riconoscere che non esiste più quel tempo mitico dell’onnipotenza data dal senso dell’illimitatezza. E analogamente all’ateismo anche la fede ha bisogno di una sorta di elaborazione, di maturazione per poter riuscire a incontrare Dio in quell’aldilà al centro della vita, come indica Bonhoeffer, nell’inconscio come centro dell’umano. Una fede che ha pazienza nel lasciare irrisolto l’irrisolvibile, che tollera l’impotenza a risolvere problemi insolubili e non ricorre utilitaristicamente a Dio di fronte alle difficoltà. Il vissuto di impotenza appare in definitiva uno strumento vitale e necessario perché noi uomini possiamo essere in contatto profondo con la 5 L’infinito in fondo al cuore, titola efficacemente un suo libro il filosofo cattolico Jean Guitton a proposito della fede (1996).
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Introduzione nostra finitezza anche temporale, la non eternità e quindi la morte. Il poter depositare altrove illimitatezza, eternità e onnipotenza ci permette infatti di sperimentare quell’angoscia di morte che, sia pure spesso confinata in un angolo scisso della nostra coscienza, dà senso al vivere e genera speranza, speranza di farcela, di riuscire a raggiungere delle mete nel breve tempo che ci è concesso, generando gusto per la vita la quale, proprio perché ha un termine, diventa preziosa. Buzzati ben esprime questo sentimento del valore della finitezza quando nel Poema a fumetti (1969), parlando di Orfeo e dell’Ade afferma: “… ti ricordi quando a tarda notte Dinanzi al portone di casa E la luna stava tramontando dietro i tetti di Milano, L’amico ti diceva: non è spaventoso tutto questo, La vita il lavoro i soldi il successo l’amore? Tu rispondevi sì sì. E in fondo a tutto la morte? Non sarebbe meglio spararsi? Tu rispondevi sì, sì, non capivi Che solo questa angoscia era la bellezza, la luce, Il sale della vita. […] Oh la perduta angoscia, gli incubi, l’angustia... (1969, p.80).
A ben pensare la seconda ipotesi freudiana, quella della proiezione dell’onnipotenza sul genitore e della tensione verso il ricongiungimento col genitore onnipotente, si presta a qualche riflessione critica non solo sul versante regressione versus evoluzione, ma anche in relazione allo stesso supposto effetto consolatorio: come si concilierebbe questo sentimento “consolatorio” con il turbamento e la pena presente in quei vissuti di cui la nostalgia d’ infinito sembra essere l’esperienza centrale? Inoltre l’aspetto penoso presente nel sentimento di infinito non è solo legato ai tenui e delicati vissuti nostalgici. Accanto alla modalità nostalgica ci è sembrato infatti di poter individuare un’altra gamma di emozioni più forti sempre riconducibili al Sentimento di infinito, emozioni in cui è presente un’inquietudine vera e propria, data, più che dalla tensione desiderante verso il ritorno ad un tutto in cui ritrovare la quiete, come nell’invocazione sopra citata di Sant’Agostino, dalla presenza di qualcosa di perturbante. Ci riferiamo a situazioni in cui, più che lo struggimento della nostalgia, di fronte a una situazione che ci fa sentire in contatto con l’infinito, avvertiamo, accanto alla gioia, qualcosa di profondamente inquietante, oppure sperimentiamo un’esaltazione cui segue inspiegabilmente un senso
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di timore quasi angosciante. Pensiamo ad esempio a quando, nuotando in acque trasparenti, improvvisamente ci rendiamo conto di una sorta di profondità senza limiti, di un farsi blu scuro intenso del mare, così che dal piacere transitiamo repentinamente in un turbamento che quasi si avvicina all’angoscia. Forse è questo stato d’animo complesso quello che compare nella particolare esperienza dei mistici, così come ci viene riportata dagli scritti di chi ne è stato protagonista: nell’estasi il contatto con l’immensamente grande sembra accompagnarsi a qualcosa di misteriosamente doloroso, ad un elemento di timore e di forte turbamento. Proprio se teniamo presente l’esperienza descritta dai mistici, possiamo dunque ascrivere l’aspetto in qualche modo penoso del sentimento di infinito anche ad un’altra causa, accanto all’effetto nostalgico della tensione desiderante: potrebbe esserci in questo affacciarsi all’immensamente grande un troppo di emozione, con effetti traumatici legati all’effrazione dello scudo protettivo, un vero e proprio shock. Si configurerebbe così l’esperienza del cosiddetto “timore reverenziale” (Fattori e Secchi, 2017, p. 129), come vissuto paradossale legato al desiderio contraddittorio di “vagheggiamento dell’oggetto e terrore di esso, volerlo raggiungere e volersene ritrarre” (ibidem,129). Anche il momento di depersonalizzazione di Freud sull’acropoli è stato del resto spesso letto (ad es. Black, 2006), e da Freud stesso ipotizzato, come un tentativo di fuga della coscienza da un troppo di bellezza…Viene in mente la “sindrome di Sthendal”, ovvero quel particolare turbamento che coglie il viaggiatore di fronte all’opera d’arte: il “troppo bello”, infatti, può generare un malessere che arriva a configurarsi in alcuni casi come un vero e proprio scompenso (Magherini, 1989). Freud conclude il primo capitolo del Disagio della civiltà dicendo: “Confesso di nuovo che mi è molto difficile lavorare con queste grandezze a stento afferrabili” (ibidem, p. 565). Quasi una forma di “timore reverenziale”? Anche Egidi (2017) nota come l’esperienza di contatto emotivo con l’elemento materno primordiale stia in definitiva alla base di esperienze opposte: una di massima serenità nel sentimento di fusione con il tutto, il cosiddetto “sentimento oceanico”, l’altra che ha a che fare con il perturbante e che è di carattere angoscioso e orrorifico. Quest’ultima rappresenterebbe “il disorientamento di fronte all’arcano e all’inquietante estraneità di quanto è più familiare per ogni essere umano, cioè il corpo materno, dove è stato ospitato nella vita fetale” (p. 176). Il riferimento è a Freud (1919) che attribuisce una delle forme del perturbante al contatto col ricordo rimosso dell’utero materno e al riemergere per un attimo oltre i confini della rimozione, del desiderio per quel “luogo in cui ognuno ha dimorato” (p. 106 ). Ma l’elemento perturbante potrebbe essere letto anche come minaccia di perdita dell’identità nel contatto con l’Infinito che, rimandando all’In-
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Introduzione definito originario rischia di annullare il faticoso processo che ha portato all’individuazione: il rischio, avvertito in qualche modo attraverso la misteriosa inquietudine, è quello di essere risucchiati dall’utero materno, di sprofondare nell’Oceano, di essere catturati dal blu scuro di un mare infinitamente profondo. Ci chiediamo dunque se il sentimento di infinito non incroci anche il tema dell’identità personale. Nella nostalgia abbiamo colto la presenza di vissuti “penosi” legati alla tensione indotta dalla mancanza: il mettere l’accento sul timore di perdita dell’identità darebbe ulteriore ragione dei vissuti francamente angoscianti che talora nell’esperienza dell’infinitezza coesistono con quelli gioiosi. Infatti il rischio di perdita di un’identità già acquisita, costituisce una minaccia per l’integrità dell’Io e spiegherebbe la presenza, nel sentimento di infinito, degli aspetti di inquietudine e di sofferenza; aspetti che non avrebbero invece ragione di essere nella fase della fusionalità originaria e del narcisismo primario, dove il tema dell’identità non si è ancora posto. Nel processo che abbiamo delineato in relazione alla nostalgia, il desiderio, in quanto ricerca di un oggetto, contribuisce a creare il senso di identità, dato che se c’è un oggetto che può appagare il desiderio c’è anche un soggetto desiderante. Ma l’Io può avvertire che il pur auspicato ritorno ad un oggetto originario completamente appagante con cui fondersi annulla di fatto il desiderio stesso: il soggetto collassa sull’oggetto coincidendo con lui e vede minacciata la propria identità per cui l’esperienza potenzialmente piacevole diventa nello stesso tempo angosciante; il proprio desiderio del ritorno nell’utero materno viene avvertito come un pericolo per la conquistata separatezza e il vissuto è quello di un utero-mostro che cerca di risucchiare e di ricatturare. In altre parole il “perturbante”, l’elemento familiare avvertito nell’esterno/estraneo, non sarebbe altro che il proprio desiderio di fusionalità proiettato su un esterno che diventa minacciosamente calamitante. In definitiva possiamo pensare che il troppo bello, troppo pieno, troppo soddisfacente con la sua carica di traumatismo laceri la nostra pelle psichica (non si dice “scoppio di gioia”, “non sto più nella pelle per la contentezza”?) – facendo saltare i nostri confini, quelli che definendoci ci limitano, ma ci fanno anche sentire come soggetti, ben accomodati dentro il nostro involucro e la nostra identità. Ci domandiamo infine se il sentimento dell’infinitezza oltre a corrispondere alla tensione verso un’esperienza di contatto profondo con un Io-tutto, che ci permette di toccare per un momento la radice stessa del nostro essere e del nostro sentirci esistere, non possa forse, in quanto ricerca perpetua di perfezione e di pienezza, rischiare di costituire talora una scelta
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perversa: il diniego del limite insito nell’idea di infinito e di eterno potrebbe portare ad un narcisismo di morte che serve a negare la dipendenza e di fatto a rendere impossibile la relazione e l’investimento sull’oggetto. In tale caso il vissuto di infinito, o l’incessante ricerca di esso, porterebbe infatti ad una tensione verso una perfezione impossibile e verso un “Oltre” irraggiungibile che impedirebbe di vivere e di godere il momento presente. Il rischio è che venga distrutto il fondamentale valore di sé e dell’oggetto pur all’interno dei limiti umani, nella rinuncia, ad esempio, alla fatica per il raggiungimento di una conoscenza che sarà sempre deludente perché parziale, o nel misconoscimento della bontà di una relazione, dato che coinvolge esseri necessariamente difettosi, o nel rifiuto della bellezza stessa dell’imperfezione. Come si vede il tema dell’infinito, a partire dal freudiano Sentimento Oceanico, porta a parlare di sensazioni e di sentimenti, ma anche di nostalgia, di desiderio, di mancanza, di separazione, di identità, di timore reverenziale, di perturbante, di perversione e di eccesso traumatico. Veniamo così messi in contatto con una ricchezza di possibili articolazioni che si spalanca davanti a noi e ci invita ad inoltrarci nel tema, sia pure in compagnia di tanti punti di domanda.
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