Introduzione
Il paesaggio interiore di Carlo Petrini* Negli anni Cinquanta, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, il poeta Andrea Zanzotto -recentemente scomparso- ebbe a scrivere: “Dopo i campi di sterminio, stiamo assistendo allo sterminio dei campi”. Un gioco di parole molto violento, ma quanto mai lucido. Del resto i poeti sanno leggere la realtà e guardare avanti come nessun altro: lo sterminio dei campi è iniziato in quegli anni e poi non si è più fermato. Anzi, si è intensificato a tal punto da diventare violentemente palese ovunque, e non c’è più parte della nostra Italia che si salvi. Questo libro è ricco di dati e di storie che lo dimostrano, e che tuttavia sono soltanto una parte di un tutto dalle proporzioni più grandi. Un disastro nazionale come pochi altri nel secondo dopoguerra; un disastro che non soltanto riguarda colate di cemento inaudite, ecomostri, città che si sviluppano male e troppo, speculazioni e malaffare, mercato immobiliare gonfiato, scempi naturalistici: ciò che ne soffre terribilmente prima di tutto è l’agricoltura, e quindi ne soffre il nostro paesaggio. Lego immediatamente agricoltura e paesaggio, saltando a pie’ pari il preambolo ambientalista classico, perché trovo che la giu5
sta indignazione per l’invasione del cemento non evidenzi ancora abbastanza come questa spinta che sembra inarrestabile stia compromettendo per sempre uno dei beni comuni più importanti del nostro Paese: il terreno fertile. E con esso in primis l’agricoltura: il settore umano-economico più martoriato, deteriorato, svilito, abbrutito d’Italia, anche per altri motivi. È ciò che ci dà cibo, ciò che ci garantisce il nutrimento ma anche la salvaguardia di una biodiversità unica, intrinsecamente legata al saper fare umano, antiche tecniche di produzione, di trasformazione della natura in cultura che rappresentano non soltanto il piacere e l’orgoglio di una gastronomia che tutti ci invidiano, ma che sono un comparto economico decisivo, rilevante e anche il più moderno in ottica futura, se si pensa a come possa tradurre tutto il suo fare in buone pratiche sostenibili. Ciò di cui sto parlando si potrebbe tradurre -in una parola- nella nostra identità, nelle nostre realtà locali, nel cibo cui si legano i modi di vivere e rapportarsi agli altri, ovvero ciò che siamo come italiani. E questo è il paesaggio, certo, ma dunque non soltanto un paesaggio connotato in senso estetico: piacere per gli occhi derivato da quegli scorci incredibili che il nostro Paese sa regalare. Non soltanto bellezza pura. È bellezza esteriore ma soprattutto interiore, perché l’antropizzazione del paesaggio ci dice chi siamo e ci garantisce posti in cui sia bello vivere. E vivere è mangiare, lavorare, riposarsi, relazionarsi, conoscere: stare bene. Il paesaggio non può essere soltanto bello, quella bellezza deve essere il risultato di un’armonia più profonda che ci parla anche di chi vive quel paesaggio, chi lo plasma, chi ne gode. Per me paesaggio è come parlare di piacere, e lo dico da presidente del 6
movimento internazionale Slow Food, il “movimento per la tutela e il diritto al piacere”. Tratta di cibo Slow Food, ma trattando di cibo si occupa anche di paesaggio. Tutelando il piacere che sta nelle cose materiali, ciò che mangiamo, non possiamo esimerci dal tutelare la biodiversità che ne è il fondamento, il sapere umano che sa trasformare e che trasforma anche il paesaggio. Non possiamo non educarci a riconoscere questo piacere, imparare a scegliere, a inseguire quella qualità che abbiamo riassunto in uno slogan, “buono, pulito e giusto”, che vuole un piacere alimentare organolettico e culturale ma anche sostenibilità ecologica e giustizia sociale nei processi di filiera. Sbaglia chi pensa alla gastronomia come l’ambito esclusivo del buon mangiare inteso nel senso del classico gourmet, così come sbaglia chi pensa al paesaggio come mero elemento estetico da contemplare. La gastronomia è una scienza multidisciplinare che riguarda l’economia, l’ecologia, le scienze sociali, la storia e la memoria, l’agricoltura e la zootecnia, la produzione di energia (il cibo è l’energia della vita), la chimica, la botanica, l’antropologia, la letteratura e altro ancora. Lo sosteneva già Jean-Anthelme Brillat-Savarin nella sua “Fisiologia del Gusto” del 1825, ma purtroppo ce lo siamo dimenticati. Così anche il paesaggio è “multidisciplinare”: va letto nelle sue connotazioni più profonde, non ci si può fermare alla contemplazione così come nel cibo non ci si può fermare alle sensazioni gustative. I sensi sono solo la partenza, perché il loro risveglio e il loro allenamento ci permettono di vedere meglio la realtà. Ecco perché mi sono fatto promotore insieme all’associazione che 7
rappresento delle campagne di “Salviamo il Paesaggio” e del “Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio”. Ecco perché sono felice di introdurre questo libro prezioso. Perché così com’è sbagliato pensare che chi tutela la qualità alimentare tuteli soltanto cibi rari e d’eccellenza, e per questo difficilmente accessibili, è altrettanto sbagliato cercare di tutelare il paesaggio solo quando questo rappresenta qualcosa di straordinario. Come noi di Slow Food lavoriamo per la qualità del cibo quotidiano, e il diritto a un cibo buono, pulito e giusto per tutti, così crediamo che il paesaggio di qualsiasi luogo sia l’espressione di buone produzioni agricole, di un vivere compiendo atti e attività “buoni, puliti e giusti”, che tutti possiamo compiere. Azioni che riguardano l’agricoltura, ma anche il consumare, le scelte quotidiane di che cosa mangiare e cosa no. “Mangiare è un atto agricolo”, ha scritto a questo proposito il mio amico Wendell Berry, agricoltore e poeta del Kentucky, sintetizzando in una frase che ben ci richiama alle nostre responsabilità individuali. Beh, direi che qui possiamo tranquillamente parafrasare dicendo che “mangiare è un atto paesaggistico” (senza terreno fertile non si può mangiare) e questa è politica pura, intesa nel suo senso più alto e nobile, partecipativo, privo di secondi fini, il tutto nell’interesse comune. Questo libro si rivela un altro strumento indispensabile per orientare la nostra azione, per renderla consapevole e competente. Ci richiama alle nostre responsabilità ma ci indica anche degli strumenti per fare pressione, per agire concretamente, sia a livello locale sia a livello nazionale. Fermare il cemento e il consumo di suolo fertile deve diventare una delle priorità di un Paese che si voglia chiamare civile; lo scempio è andato troppo avanti senza nessun freno, è ora di porre un limite, più in generale di riprende8
re coscienza dei limiti. Non è l’unico ambito in cui li abbiamo superati, e nessuno di questi ambiti (agricoltura, economia, finanza, clima, ambiente, salute pubblica, omologazione culturale, tutela della biodiversità e delle bellezza) è disgiunto dagli altri. Per cui ci vuole una visione che potremmo definire “olistica”, un nuovo paradigma. Richiamarci all’azione -partendo dai sensi, dalla nostra sensibilità per passare dalla presa di coscienza fino all’azione- è un richiamarci alla politica, a un modo di fare e pensare nuovo, secondo nuovi paradigmi che ci restituiscano prima di tutto il nostro paesaggio interiore, la nostra identità, ciò che siamo e che possiamo affermare nel mondo e nelle nostre comunità. Ciò che probabilmente alla fine ci farà vivere un po’ più felici, anche se non esiste una definizione esatta di felicità. * Carlo Petrini è fondatore e Presidente di Slow Food
9