ANTONELLA GRIPPO SECTA, UN’INDAGINE OSCURA
PROLOGO
ROMA, TRENT’ANNI, QUATTRO MESI E SETTE GIORNI PRIMA
“Non posso farlo… Non questo” si disse in preda al panico. Ma ormai era troppo tardi, i fratelli gli stavano già intorno vestiti dei paramenti sacri. Incenso nell’aria, antichi marmi sbrecciati sotto ai piedi. Indossavano grembiuli diversi, dai simboli mai visti prima, fasce e guanti candidi di un’innocenza ormai persa. Il collo era cinto da pesanti gioielli cerimoniali che brillavano come le iridi di Caronte, il traghettatore di anime. L’aria strinava di gelo e paura mentre la luce si arrendeva a un buio nero di peccato.
Gli occhi dell’eletto, pesanti e carichi di terrore, vagavano tra i simboli dei grembiuli, posti a ricoprire e nascondere, come voleva la tradizione, la sede degli istinti e delle passioni. In quello stato di stordimento che precede il sonno, ricordò a fatica le parole di un antico testo: «Userete il grembiule per tutta la vita e, alla vostra morte, esso sarà deposto sulla bara destinata a conservare i vostri resti e con essi rimarrà sotto le immote zolle della terra».
Il suo era stato un lungo viaggio cominciato, come per tutti gli altri iniziati, dal primo grado della massoneria. Molti anni prima, il Venerabile, nascosto dietro lo stesso cappuccio che oggi, invece, era sistemato in modo tale da lasciargli scoperto il viso, lo aveva ammesso ai sacri misteri.
E la sua ascesa era iniziata.
Prima con gli altri fratelli, poi in una scalata sempre più elitaria e sotterranea fino al vertice del vertice: la punta del pentagramma. La loggia che sta al di sopra di tutte le altre logge, la più nascosta, la più segreta.
Chiuse gli occhi, cerulei e sfuggenti, e vide il pentagramma incuneato nel cuore del pentalfa, la stella fiammeggiante a cinque punte. Ora sapeva che era quella la rappresentazione geometrica di tutte le logge del mondo.
Ricordò le letture fatte: la stella del pentalfa e i suoi molteplici nomi. Per gli Egizi era Sirio, raffigurata mentre splende su Iside. Per gli antichi sacerdoti celtici, i druidi, era la Luce spirituale e, per gli alchimisti, era il Fuoco filosofico che brucia le scorie per la rivelazione dell’Oro interiore.
Ora quelle letture sarebbero state vivificate dall’ultima iniziazione.
Adesso era lì. A ossequiare il rito del vertice del pentagramma nel nucleo più interno del pentalfa.
Un lungo drappo nero copriva i muri del tempio. Giunto a quel grado, infatti, l’iniziato non doveva lasciarsi distrarre dai simboli dipinti sulle pareti. Quella farragine di lingue e segni disparati, dall’egizio all’ebraico, dalle formule matematiche a quelle alchemiche, doveva tacere.
La vita doveva lasciar posto alla morte.
Il macabro altare sul fondo era coperto da un velo trasparente su cui erano state poste tre croci. I fratelli erano seduti, raccolti in un profondo silenzio con la fronte appoggiata alla mano, in segno di immenso dolore.
Tutto secondo la regola.
Gesti ripetuti nei secoli. Sempre uguali.
I cappucci, non più calati sul viso, lasciavano intravedere uomini potenti, dalle cariche prestigiose. Insospettabili. Come insospettabile era il luogo. Si muovevano come topi nei sotterranei di una chiesa cristiana. Una catacomba diventata tempio in cui da secoli si respirava solo l’alito nero della morte e il desiderio della vendetta.
Tra poco avrebbe celebrato il rito più segreto dell’Ordine proprio nel cuore della cristianità, a due passi dalla chiesa di San Pietro. Sorrise, non senza una punta di soddisfazione.
Fino a un anno prima ne ignorava addirittura l’esistenza, lui che aveva passato tutta la vita tra i suoi fratelli. Gli sembrò lontanissimo il momento in cui era entrato per la prima volta nel tempio con il calzone sinistro arrotolato fin sopra il ginocchio. Ripercorse in un lampo tutte le iniziazioni ricevute, gli occhi bendati, le mani coperte
di guanti insanguinati, la corda a quattro nodi al collo, un fratello con il pugnale in mano che minacciava di trafiggerlo. Poi gli riecheggiarono nelle orecchie le storie ascoltate attentamente fin dalla prima iniziazione. “Adoniram scelto da Salomone, regolava le paghe degli operai che fabbricavano il tempio. Egli li divise in tre classi, apprendisti, lavoranti e maestri…”
Ricordò l’oscura caverna in cui l’iniziato doveva penetrare tra le grida dei fratelli: “... colpisci tutto ciò che ti si oppone, entra, difenditi e vendica il nostro Maestro. Non puoi essere eletto che a questo patto”.
Si rivide nel Gabinetto di riflessione, il Gallo con il motto Vigilanza e perseveranza, le sue labbra sul teschio colmo di vino rosso sangue e ripercorse tutta la sua vita da fratello finché la voce del Venerabile lo riscosse dai suoi ricordi con la formula del rito: «Che ora è?»
Lottando con sé stesso per rimanere vigile, rispose: «La prima ora del giorno, l’istante in cui il velo del tempio si squarciò, in cui le tenebre e la costernazione si sparsero sulla terra, in cui si oscurò la luce, in cui la pietra cubica si infranse e la parola fu perduta».
Guardò un’ultima volta il lugubre altare. L’odore era terribile. Bevve dal teschio ma, giunto a quel grado segretissimo, non sentì il sapore del vino. Il liquido denso gli rivoltò lo stomaco e perse i sensi.
Quando finalmente fu libero da quell’incubo, sapeva che ormai da iniziato si era tramutato in assassino. Anche se non era stata sua la mano che aveva ucciso. Ormai non c’era più modo di tornare indietro.
Fu allora che il suo urlo disumano attraversò il buio del tempio. «Nèkom, l’ho ucciso.» La formula. La parola di passo.
Gridò e fu ammesso.
La farfalla era immobile. Posata sulla caviglia destra, poggiata sul bordo della vasca.
Donatella sembrava guardarla con lo sguardo fisso. Appigliato alle ali.
Quella che era una donna appena sbocciata stava per esalare l’ultimo respiro. Un fremito la scosse. Distolse per un attimo lo sguardo dalla farfalla tatuata sulla sua caviglia. Poi ritornò a fissarla. Per sempre.
L’acqua nella vasca era ancora tiepida quando sua madre entrò in bagno.
Non capì. La chiamò.
Non capì. La scosse.
C’era sua figlia riversa nell’acqua, senza vita. Il piede destro poggiato sul bordo della vasca. Il corpo esile e nudo. Solo il tatuaggio della farfalla sulla caviglia sembrava ancora aver vita. Sgargiante. Il regalo per i suoi diciotto anni.
Il viso di Donatella era pallido. Lo strazio della madre era sterminato, un buco nero di pena.
Un flusso di elettroni aveva attraversato la vasca d’acqua, il filo del termoventilatore era ancora immerso nella vasca. Un nodo strozzato metteva leggermente a nudo i cavi.
Dalla scossa era emerso un corpo di gloria. Impudico e cereo come uno spettro. Attraversato dai pianti della madre. Percosso dalle sue grida intonate in punti di domanda.
«Perché mia figlia?»
L’urlo fu disumano. Fuori la luce del sole e quella della ragione erano tramontate da tempo sui Sassi di Matera e sulla Gravina. Un
presepe di pietre e tufo sferzato da fiati di vento che avvolgeva tutto come un sudario impalpabile, arrotondando i profili delle case intrappolate dalle rocce.
Il respiro della città era imprigionato lì, muto e immobile.
Il respiro della madre invece, sobbalzava affannosamente. Scossa da tremiti, affogava nell’orrore a quella vista di morte innaturale. Troppo precoce per gli occhi della sua vecchiaia improvvisa, ormai gravida del lutto di una figlia.
Seguirono al pianto ore confuse, colme di gente sconosciuta che invase la casa. Lia Annucci rimase chiusa nelle sue lacrime, seduta sul divano della sala da pranzo. Impenetrabile, come in attesa di qualcuno che le dicesse che Donatella, sua figlia, stava bene e che domani sarebbe stato un giorno normale.
Solo dopo qualche ora, in piena notte, riuscì a mettere a fuoco quello che stava accadendo.
Un uomo le stava di fronte, in piedi.
Lo sguardo di Lia si spostò dalla giacca scura al volto gentile dell’uomo. Ancora senza capire chi fosse.
«Mi dispiace, capisco il momento, ma devo farvi qualche domanda. Mi chiamo Michael Moore e sono un ispettore di polizia» disse tendendo la mano prima al padre e poi alla madre della ragazza.
La signora scosse impercettibilmente la testa, il padre restò fermo, come se non avesse neppure sentito la voce dell’ispettore.
«Può raccontarmi cosa è successo, signora? Ha trovato lei il corpo?»
Lia Annucci alzò gli occhi verso l’ispettore e provò faticosamente a descrivere i fatti ma il suo racconto era avvolto in una nebbia di incertezze e imprecisioni. Non ricordava l’ora esatta in cui lei e suo marito erano rientrati a casa dopo il concerto serale nella cattedrale della Madonna della Bruna.
Non ricordava se la luce, in casa, fosse accesa o spenta. Se fosse entrata prima in cucina o fosse salita direttamente al piano di sopra. Non sapeva se la porta del bagno fosse chiusa o aperta. Era certa solo di essere entrata lei per prima in bagno e di aver urlato, con quanta voce aveva in gola, per chiamare il marito dopo aver visto il corpo, senza vita, di Donatella nella vasca colma d’acqua. Anche l’ispettore aveva fatto in tempo a dare una prima occhiata al corpo ed era certo che qualcosa non andasse.
Ma non sapeva ancora cosa.
Apparentemente non c’era nulla che potesse fargli scattare un campanello. Apparentemente si trattava di un incidente eppure, per qualche motivo, l’ispettore Michael Moore era convinto che in quella tranquilla cittadina di provincia quella sera ci fosse stato un omicidio.
Decise di salire a dare un’ultima occhiata al corpo.
La ragazza era davvero bellissima tuttavia sembrava sciupata, come un fiore appena colto e già leggermente appassito. Le unghie troppo vistose, i segni neri del pesante mascara che non erano venuti via con lo struccante. I capelli corvini che le incorniciavano il volto pallido e leggermente smunto.
Il bagno aveva le mattonelle quadrate pulitissime, di un bianco lucido che quasi rifletteva il corpo e, mentre un fotorilevatore scattava le ultime immagini, Moore capì quello che non tornava.
Sudava freddo. Con gli occhi ancora chiusi. I battiti schizzati. Emise un urlo disumano, sussultò nel buio. Solo la luce delle fiamme era violenta. C’era qualcosa che bolliva in un calderone sopra quel fuoco, ma non riusciva a distinguere cosa. Si avvicinò di più e vide meglio, ossa umane e animali emanavano un puzzo tremendo che penetrava le narici e annegava il cervello. Ebbe un sussulto, poi tutto il suo corpo iniziò a tremare, in preda al panico.
Stava per morire.
Respirò con la bocca spalancata e si risvegliò seduta sul letto. Il suo letto. La sua stanza. Cercò di mettere a fuoco qualcosa di familiare: i suoi libri sul comodino nero laccato, la tazza con la tisana che si era portata a letto la sera prima, il tablet ancora in carica alla presa.
Un freddo infinito le penetrò le ossa, poi fu avvolta da un sudore gelido.
Inspirò.
Prese la coperta dai piedi del letto e vi si raggomitolò dentro. Era il suo primo attacco di panico notturno. Di giorno le era già successo. Spesso. Di notte mai. Solo insonnia e risvegli forzati, ma questa volta era stato decisamente diverso.
Elettra Marras Lops andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Diede uno sguardo distratto alle luci su Ponte Milvio dalla finestra del salotto poi incrociò il suo viso nello specchio del corridoio. Le sembrò di vedere un fantasma. La pelle bianchissima che risaltava ancora di più sul nero dei capelli e gli occhi da cerbiatta incorniciati da profonde occhiaie.
Una cerbiatta impaurita e tremante.
I capelli ricci e il taglio degli occhi rendevano il suo volto simile a quello delle donne mediorientali ma più sottile e appuntito. Cercò di sorridersi allo specchio, provando a forzare sul viso quell’emozione che sembrava scomparsa dall’anima, ma riuscì solo a inarcare le labbra in una posizione falsa e innaturale, con il sapore amaro dello smarrimento e della sofferenza.
Era sempre stata magra ma ora il pigiama, dal taglio maschile, le cadeva di dosso. Sembrava svuotata. L’ultimo anno l’aveva stancata moltissimo. Prima la malattia della madre poi la sua morte. Aveva rinunciato a tutto per starle accanto. La sua vita, da studiosa nomade in giro per il mondo, si era ancorata accanto al letto di sua madre in ospedale. Gli ultimi giorni le teneva la mano per evitare che si strappasse il respiratore e continuava a cercare nel suo sguardo smarrito gli occhi lucenti che l’avevano messa al mondo.
Ma lei già non c’era più.
Rapiti i suoi ricordi dalla malattia, era diventata solo un piccolo nulla indifeso in cerca del proprio posto nel tutto.
Gli attacchi di panico di Elettra erano iniziati appena l’adrenalina l’aveva abbandonata. E il vuoto lasciato dalla morte della madre aveva amplificato il male con cui il suo lavoro la metteva in contatto.
Elettra Marras Lops, infatti, era un’affermata antropologa. Ma un’antropologa un po’ speciale. Lei dava la caccia all’occulto e a chi lo spargeva nel mondo. Ai seminatori del male.
Aveva incontrato tanta gente rovinata da presunti santoni, ladri di dolori e di soldi. Spacciatori di acqua e sale, benedetti da nessuno.
Accalappiatori di angosce o di eredità.
Truffatori trafitti da false stimmate.
Simulatori di finti miracoli.
Bugiardi, ingannatori, approfittatori di ogni tipo.
L’antropologa gli dava la caccia. Li cercava. Fingeva di aver bisogno di loro. Partecipava ai loro riti. Li studiava e poi li denunciava.
Nei suoi libri, in TV, sul web. Sputtanarli era la sua passione, salvare le vittime la sua missione. Per farlo non aveva che una strada: farsi affiliare. Ma tutte quelle iniziazioni rituali a cui aveva partecipato le avevano inghiottito una parte dell’anima.
Perché i maghi non esistono, ma il male sì.
Pensò, come faceva dopo ogni attacco di panico, che doveva farsi forza e reagire. Riprendersi pian piano la sua vita di sempre. Libri, studi, ricerche; il suo mondo era quello. Ma non ce la faceva. Non solo era avvolta da una stanchezza che le partiva dall’anima ma sentiva di non avere più alcuna protezione. Di non avere più nessun angelo che la custodisse, ora che non aveva più sua madre e i rosari che stringeva tra le mani per proteggere quella figlia così strana.
Mescolò nel bicchiere pieno d’acqua un po’ di zucchero. E si sciolse, anche lei come i granelli, nei suoi pensieri. Sentì il dolce sul palato e pensò che doveva respirare. E, soprattutto, doveva pensare di respirare. Richiamò alla memoria le parole che aveva usato in un commento a una cosmogonia dello Satapatha Brahmana: «Chi acquista potere sulla propria respirazione, la regola e la modula secondo la sua volontà, domina anche la circolazione delle energie nel suo corpo. Diventa il suo stesso inizio, il suo fondamento».
Respirò.
Soffi. Energie. Prana. L’essenza della vita.
Guardò, invidiosa di quella tranquillità, la gatta che dormiva in soggiorno, proprio sotto un’enorme statua di San Rocco in legno dipinto del Seicento. Un cane leccava le piaghe purulente del santo. E la gatta gli si era acchiocciolata proprio vicino. L’aveva chiamata Mau, il nome con cui i gatti erano noti nell’antico Egitto.
Accanto al San Rocco, disposti su un mobile modernissimo di legno nero lucido, spiccavano una Santa Lucia dal manto verde e gli occhi portati in dono in un piattino dorato, macabro trofeo di chissà quale prepotenza d’uomo, e una fila di Madonne, uguali e diverse, allineate come alfieri su una scacchiera celeste a presidio del Paradiso.
Se ogni casa ci dice qualcosa di chi la abita, quella di Elettra Marras Lops raccontava una storia avventurosa. Aveva raccolto oggetti sacri da tutto il mondo. Le panciute statue di Buddha guardavano, fisse e ridenti, sanguinanti crocifissi. Madonne e santi si alternavano a dee della fecondità africane dai seni cadenti e prosperosi. I can-
delieri dello Shabbat erano esposti accanto a una bambola Akua’ba, dalla grande testa ovale e piatta.
Ma quella che amava di più era la bellezza femminile e combattente di un San Michele Arcangelo dai riccioli biondi e dalla spada fiammeggiante. Sotto di lui, il primo ribelle moriva sconfitto mentre le sue corna, i suoi denti digrignati, i suoi occhi famelici e cattivi continuavano ad attrarla ogni volta che gli passava accanto. Si sentì fragile, sola e impotente. Aveva girato mezzo mondo. Ricevuto un centinaio di iniziazioni, molte delle quali sataniche, ma ora le sembrava solo di essere una marionetta a cui avevano tagliato tutti i fili.
Le sue affiliazioni tornavano sempre più spesso a farle compagnia. A risvegliarla dal sonno. Prepotenti. Brutali. Violente. Il suo inconscio di notte si vendicava. Aveva sempre creduto nell’osservazione partecipante. Era il mantra dei suoi studi antropologici. Non si può scrivere di ciò che non si vede. Di ciò che non si vive sulla propria pelle. E lei aveva scritto decine di libri e centinaia di articoli sui più strani culti e le più svariate sette. Ma ora era tutto così confuso nella sua mente.
Elettra era stanca. Tremendamente stanca. Però non poteva mollare proprio ora. Ora che era così vicina a conoscere alcuni dei rituali più segreti e oscuri di tutti i tempi.
L’indomani forse avrebbe avuto le risposte che cercava da una vita, ma ora doveva riposare.
Si addormentò un po’ più tranquilla e dopo cinque ore e 43 minuti riprese lentamente coscienza mentre la sua gatta irrompeva prepotente nella stanza da letto, reclamando croccantini e coccole. Elettra l’accarezzò a lungo prima di decidersi ad alzarsi per prepararsi un caffè con zenzero e cannella, come piaceva a lei.
La signora Ida Paolicelli portò premurosa al marito, che ancora dormiva nella stanza degli ospiti, una tazza di caffè. Mancavano pochi minuti alle otto di mattina. Lo scosse dolcemente.
«Che c’è?» domandò ancora nel sonno.
«Il caffè. Sono le otto Michael, non vai mai così tardi in questura.»
«Sono tornato tardissimo ieri notte» fece Moore sbadigliando. Aveva dormito solo un paio d’ore, appoggiato sul divano nella stanza degli ospiti, per non svegliare la moglie mettendosi a letto. O, forse, per non rispondere al fuoco di fila delle domande che sicuramente gli avrebbe fatto vedendolo rincasare così tardi. Non gli piaceva parlare con lei del suo lavoro, soprattutto quando c’era di mezzo un morto. Cosa che, per fortuna, accadeva di rado a Matera.
L’ispettore, in genere, si occupava d’altro. Usura, quella ce n’era parecchia.
Riciclaggio, corruzione.
Si era spenta da poco l’eco di una maxi retata condotta da polizia e carabinieri. Una cosa mai vista in Basilicata. Il Gip aveva disposto una quarantina di arresti in carcere: imprenditori, parlamentari e malavitosi, tutti accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma quella parola, mafia, sembrava ancora impronunciabile in città. Nella tranquilla, sonnacchiosa e bellissima Matera.
La città in cui aveva scelto di vivere.
L’ispettore Moore aveva una strana storia. La sua era una famiglia inglese, arrivata in Italia nel Risorgimento. Il suo bis bisnonno era un commerciante inglese che era approdato a Marsala, in Sicilia, alla fine dell’Ottocento. Fu colpito così tanto dall’isola e dal suo liquore che iniziò a commercializzarlo in Inghilterra, sposò una siciliana, concepì un discreto numero di figli e fece avanti e indietro tra le due isole per tutta la sua lunga e felice vita. Lui era il suo bis bisnipote e aveva fatto più o meno lo stesso con una lucana. Dopo che suo padre aveva perso tutta l’eredità al gioco, Michael si era laureato e aveva perseverato nella sua passione per la legge e per sua moglie, Ida, seguendola a Matera.
Andò in cucina a fare colazione non senza portarsi dietro una delle carte che, la sera prima, aveva poggiato sul tavolinetto basso nella stanza degli ospiti.
Mentre addentava una fetta di torta di mele, inforcò gli occhiali per leggere da vicino, odiava farlo ma ormai era necessario. L’età avanzava e la presbiopia pure. Mise bene a fuoco e riguardò il referto del medico legale che aveva constatato per primo la morte della ragazza la notte precedente. C’era scritto: «Morte dovuta ad arresto cardiocircolatorio a seguito di folgorazione» ma nelle cinque righe
della nota si leggeva anche di una «profonda lacerazione alla nuca compatibile con la caduta nella vasca».
Ed era proprio quello che non tornava, come aveva già sospettato la notte precedente.
Per Michael Moore quella profonda lacerazione non era per niente compatibile con la caduta.
Sempre più pensieroso si versò un’altra tazza di caffè e si sistemò il nodo, già impeccabile, della cravatta allo specchio dell’ingresso prima di uscire.
In questura tutti lo conoscevano per la sua misurata eleganza. Sempre camicie bianche con le iniziali e i polsini appena fuori dalla giacca. I vestiti immancabilmente blu o grigi abbinati alle scarpe stringate classiche. Non si permetteva mai un colore fuori posto, né un maglioncino di lana, neppure in pieno inverno.
Michael bevve il suo caffè e passò gentilmente la tazzina vuota alla moglie, senza dimenticare di darle un bacio sulla guancia prima di andare via.
Ma non era diretto in questura.
«Ha notato lei il termoventilatore acceso?»
Nel salotto degli Annucci le domande dell’ispettore Moore iniziarono esattamente da dove si erano interrotte la notte prima. Anche il signore e la signora Annucci erano come imbalsamati nella posizione in cui li aveva lasciati. Solo il nastro bianco e rosso della polizia, che impediva l’accesso al secondo piano, stonava con l’ordine immobile della casa.
«Sì, certo che l’ho visto» rispose la donna «ma non mi spiego come sia possibile quello che mi ha detto il medico. È vero che è stato un incidente, che è morta fulminata dalla stufa elettrica?» La voce singhiozzava nella gola tremante della signora Annucci. Non riusciva ancora a smettere di piangere ma il silenzio stupefatto della notte prima, quando aveva ritrovato il corpo della figlia nella vasca da bagno, aveva lasciato il posto a un’ansia di risposte che Moore non aveva.
«Non l’accendevamo mai quella stufetta. Era lì a impolverarsi da anni perché mai Donatella avrebbe dovuto utilizzarla?»
L’ispettore si fermò un secondo a osservarla, seduta sul divano del salotto buono di casa, le sembrò invecchiata di dieci anni rispetto alla notte precedente. Il marito, seduto accanto a lei, non aveva ancora detto una parola. Si limitava ad annuire assente e a lisciarsi i pantaloni con le mani come per evitare di incrociare lo sguardo della moglie o di chiunque altro. Raggelato in una disperazione immobile e impotente.
L’attenzione dell’ispettore si spostò sui soprammobili del salotto. La signora Annucci doveva avere una mania per gli animaletti di Swarovski. Decine di uccellini, gattini, cagnolini in miniatura brillavano dalle mensole di una vetrinetta ordinatissima. Non c’era ombra di polvere da nessuna parte. Tutto sembrava avere un posto preciso da anni. Probabilmente fin dai primi anni di matrimonio. Nella stanza troneggiava un camino mai usato. Perfettamente pulito anche quello, era diventato la cornice ideale per un vaso di fiori di vetro. Sulla mensola c’erano solo due foto: una del loro matrimonio, una della comunione di Donatella. La purezza di quell’immagine contrastava nettamente con la scompostezza del corpo della ragazza senza vita che aveva visto, la sera prima, nel bagno del piano di sopra.
«Conoscete le frequentazioni di vostra figlia?» riprese l’ispettore.
«Mia figlia stava sempre a casa. Era una ragazza seria, ispettore» si affrettò a precisare la madre, improvvisamente severa.
Lo sguardo di Moore incrociò quello del padre proprio mentre l’uomo sembrava fosse sul punto di dire qualcosa ma si trattenne.
Era sempre così con i lucani, pensò l’ispettore. Ormai aveva imparato a conoscerla quella terra che era diventata anche la sua. E, dopo tanti anni, aveva imparato a conoscere i lucani e quel loro spirito di diffidenza verso le istituzioni che, ogni tanto, spuntava fuori come quei fili d’erba tra le pietre che, a furia di strapparli, ricrescono più forti. Proprio quella diffidenza che ora Moore intravedeva nei coniugi Annucci.
Fissò il padre in uno scontro muto ma armato di pensieri.
Gli sembrò di cogliere un lampo di disagio, forse c’era qualcosa che non gli piaceva nel comportamento di sua figlia ultimamente.
“Anche lui era angosciato dal dubbio che quello non fosse un banale incidente domestico?” pensò ma tacque.
Mentre rimuginava sulle domande che avrebbe voluto fargli, Moore continuò a squadrarlo attentamente calibrando la durata della
pausa in modo da rendere il silenzio pesante e indurlo a tirar fuori il rospo. Alla fine l’uomo cedette: «Da qualche mese faceva tardi la sera. Abbiamo anche litigato per questo» la voce del signor Annucci sembrò emergere dal silenzio di una vita mentre la moglie lo fulminava con lo sguardo.
«Ha idea di dove andasse?»
«Frequentava una vicina» s’intromise subito la madre «una brava persona che è rimasta sola dopo la morte del marito. Le faceva un po’ di compagnia».
L’ispettore ebbe l’impressione che il padre fosse poco convinto di quella risposta ma l’uomo tacque tornando a lisciarsi i pantaloni sgualciti, come perso nei suoi pensieri.
Per ora poteva bastare.
Il cielo non prometteva nulla di buono. Era uno di quei pomeriggi romani in cui lentamente l’azzurro si iniziava a tingere di grigio e, da un momento all’altro, si sarebbe potuto scatenare un temporale violento in grado di paralizzare la città per ore. Ma Elettra Marras Lops non avrebbe rinunciato a uscire nemmeno se fosse venuta giù l’Apocalisse.
Aveva un appuntamento importantissimo. Lo inseguiva da una vita e, tra poco più di un’ora, avrebbe finalmente incontrato qualcuno in grado di introdurla nella più esclusiva tra le ordinanze esoteriche.
Elettra aveva conosciuto persone appartenenti a ogni tipo di setta. Sette di origine cristiana o di matrice orientale. Sette islamiche o induiste. Culti ufologici, società legate alla teosofia o psicosette. Sette neopagane, magiche o sataniche.
Aveva passato più della metà della sua vita a muoversi, più o meno cautamente, nella giungla oscura di questa sacralità selvaggia. A chiedersi cosa potesse spingere l’uomo a credere a dei riti tanto insensati. A consolare famiglie disperate che non vedevano i loro figli, risucchiati da qualche pseudo-santone, da anni. L’unica setta in cui non era mai riuscita a infiltrarsi, l’unica in cui non aveva fonti interne o ex adepti era proprio la più conosciuta di tutte: la massoneria.