RASHOMON
La realtà può essere osservata da diversi punti di vista e in funzione di quello da cui la si osserva si matura un’idea diversa della realtà stessa. Quella che osserviamo è quindi una realtà soggettiva e non oggettiva e l’idea che ne abbiamo, specialmente quando la raccontiamo ad altri, è influenzata non solo dalla nostra cultura e dalla nostra storia ma, principalmente, dagli interessi personali, di classe o di clan che difendiamo.
Nel 1950 Akiro Kurosawa, il grande regista giapponese, nel film Rashomon, ispirato al racconto Nel bosco di Akutagawa, rappresentò proprio la grande capacità dell’uomo di mentire, anche a sé stesso. Il film racconta dell’incontro di un monaco buddista con un boscaiolo e un passante mentre trovano riparo dalla pioggia, al limitare di un bosco, sotto la porta nelle mura in rovina della città di Rashomon. Nell’attesa che cessi la pioggia il monaco rievoca la storia di un processo per l’assassinio di un samurai, avvenuta proprio in quel bosco, a opera di un brigante che ne aveva violentato anche la moglie. Il monaco, che era stato coinvolto come testimone, poiché aveva incrociato le vittime lungo la strada poco prima dei tragici eventi, riporta le versioni dell’accaduto fornite al processo dal brigante, dalla moglie e dalla stessa vittima, interpellata tramite un medium. Le testimonianze divergono significativamente dando l’impressione che si tratti di fatti diversi e non del racconto dello stesso episodio. A chi dare ragione?
A queste testimonianze si aggiunge inaspettatamente anche il racconto del boscaiolo, che aveva assistito al fatto e non aveva testimoniato per non essere coinvolto.
La narrazione del boscaiolo pare più veritiera, perché non è parte in causa, ma si scopre poi che anche lui aveva approfittato della cir-
costanza rubando preziosi oggetti dalla vittima e togliendo così credibilità alla sua versione.
In apparenza può sembrare un film sui caleidoscopici aspetti della realtà poiché le versioni di tutti i protagonisti e dei testimoni divergono, invece la realtà è oggettiva ma la visione e il racconto sono influenzati dagli interessi particolari di ognuno oppure, come nel film, dalla necessità di salvare il proprio onore e la propria reputazione oltre che per coprire le proprie miserie e debolezze.
Ci sono poi delle realtà per propria natura difficili da interpretare, come l’economia di un Paese. Come vedremo non ci sono ricette salvifiche e certe per guidare l’economia ma negli ultimi 20 anni, soprattutto a causa dell’introduzione dell’euro, si è diffusa nel mondo una visione “ideologica” dell’economia non più interpretata come analisi dei dati e costruzione di modelli capaci di valutare in modo appropriato i fatti e dare soluzioni ma con una serie di dogmi da applicare urbi et orbi e con gli stessi criteri in tutto il mondo: dalla Germania a Tahiti. Con la caduta del muro di Berlino è crollata la dialettica tra visioni contrapposte come quella socialista e quella liberista, l’economia pianificata e quella di mercato come se tra le due non ci fosse un mondo di possibilità intermedie diverse.
Sembra quasi che la sinistra abbia maturato una sorta di senso di colpa per la creazione di quel muro e che la caduta dell’impero sovietico abbia annullato culturalmente e ideologicamente tutti i principi del socialismo e del comunismo. Insomma, insieme all’acqua sporca si è gettato anche il bambino. Ecco che i principi del liberismo sono dilagati senza trovare più contrapposizione fin quasi a far diventare sinonimi nella pubblica opinione liberismo ed economia.
E così una scienza sociale, che in quanto tale è opinabile, è diventata un catechismo applicato con la stessa ipocrita ferocia della Santa Inquisizione gesuitica nel Medioevo.
Mancano non solo il bagno di realtà e le verifiche fatte con il rigore del metodo scientifico, ma anche la dialettica democratica su quali siano le soluzioni migliori in funzione delle classi sociali che si intende tutelare.
La fede nei dogmi liberisti è tale e ha fatto tanti proseliti che i partiti di sinistra, avversari storici del liberismo, ne sono diventati i paladini e vengono create delle istituzioni che sfuggono a ogni controllo democratico, come la BCE o il MES, con l’unico scopo di im-
porre a governi liberamente eletti i dogmi del liberismo dei nuovi gesuitici funzionari del FMI, della BCE o delle varie istituzioni economiche.
La cosa più incredibile è che i governi e l’intera Europa hanno ignorato, e ignorano, l’evoluzione della ricerca economica e le avvertenze e le raccomandazioni di tutti i premi Nobel dell’Economia degli ultimi venti anni per applicare pedissequamente i dettami di questi funzionari tanto zelanti quanto ottusi.
A poco servono le ammissioni del FMI stesso sugli errori fatti, perché a pagarne le conseguenze non sono i responsabili di tali errori ma i popoli che li hanno subiti e i governi e i partiti e i politici che li hanno attuati acquisendo, per paradosso, in aggiunta pessima fama. Poco male se vengono spazzati via politici e partiti che, privi di ogni capacità intellettuale, hanno applicato le ricette sbagliate, ma le sofferenze dei popoli rimangono come cicatrici profonde che minano alla base la stessa fiducia nella democrazia.
Che fine hanno fatto i responsabili del disastro liberista in Grecia e in Italia? Christine Lagarde da presidente del FMI, che fu a capo della criminale gestione della crisi dei debiti sovrani, è passata a guidare la BCE, e Mario Draghi, che mise la BCE al servizio dell’Eurogruppo e della Troika per piegare la Grecia ad attuare un insensato piano di austerità, è stato chiamato a fare il salvatore della Patria in Italia. Klaus Regling, il direttore all’epoca dei fatti del MES, lo è tuttora.
Ma ci sono solo le ricette liberiste o solo le ricette keynesiane per guidare i governi nella propria azione di risanamento, gestione e rilancio delle economie nazionali?
No. C’è un gruppo di pensatori, in primis Michael Porter ma anche Richard Florida e John Kotter, che partendo dalle strategie aziendali hanno fornito portentosi strumenti di analisi per la costruzione di piani di visione per lo sviluppo delle Nazioni.
Di Porter sono note presso un ampio pubblico teorizzazioni come la catena del valore, le forze competitive, il modello del diamante da cui è nato un libro, Il vantaggio competitivo delle Nazioni, che, a mio modo di vedere, dovrebbe essere adottato da tutti i governi come un manuale per produrre piani nazionali e locali. Fondamentali anche i lavori di Richard Florida, The rise of creative class, e John Kotter, A sense of Urgency, che offrono strumenti utili per la
gestione dei cambiamenti nei sistemi complessi. Nessuno di questi è un comunista, anzi sono considerati i profeti delle strategie manageriali volte a trarre profitti dalle imprese. Profitti però sani, fatti nella economia reale e non sui mercati finanziari, e la loro visione dell’economia in qualche modo si avvicina alla necessità dei governi di fornire una matrice di riferimento che evoca il ruolo della politica e della P.A. come motore di sviluppo.
Personalmente vedo nel lavoro di Esther Duflo, Una economia per tempi difficili, un legame concettuale tra il lavoro di Porter e quello che viene comunemente inteso come il campo di applicazione degli economisti.
Nel corso della mia carriera lavorativa mi sono occupato, per la gran parte dei miei tanti anni di lavoro, di strategie, pianificazione, budget e controllo di gestione in grandi aziende nazionali e internazionali in posizioni di primaria responsabilità.
I miei inizi risalgono al 1980, quando come giovane industrial economist della SnamProgetti, fui inserito nei team che valutavano le alternative dell’attraversamento dello Stretto di Messina, quaranta anni fa se ne parlava già, del piano minerario del Sulcis e delle relative analisi costi benefici, del piano energetico dello Zimbabwe o del piano tariffario delle ferrovie messicane o dell’uso del MAS o dell’MTBE come alternative per la sostituzione del piombo tetraetile nelle benzine. Poi Lombardia Informatica, la Fininvest, con il piano strategico della nascente Mediolanum o la valutazione dell’acquisto della Standa e lo studio di fattibilità economica del terzo anello dello stadio San Siro, poi dirigente nel gruppo Cofide poi Allianz, Poste e infine Intesa Sanpaolo, dove ho arricchito la mia esperienza di pianificazione, strategie e controllo con la gestione del settore delle partecipazioni immobiliari e del più grande sistema di welfare aziendale presente in Italia.
Proprio da queste esperienze, specialmente in Poste Italiane, mi è nata la curiosità di approcciare in modo diverso i temi che affliggono il Mezzogiorno d’Italia. Poste, frutto dello spin-off di una parte della organizzazione dell’allora Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, è stato un esempio di come si possa risanare e far diventare competitiva l’amministrazione dello Stato. Ho quindi prodotto un primo saggio nel 2011, Si può fare, con le proposte per un piano di sviluppo del Mezzogiorno a cui sono seguiti numerosi interventi e
articoli che sono sfociati nel 2019 nella collaborazione con il M5S per la stesura del programma elettorale delle elezioni regionali in Basilicata.
Ma proprio dalle analisi e dalle esperienze fatte e dai tanti colloqui avuti nel corso degli ultimi dieci anni nel far conoscere le mie tesi mi sono reso conto di quanto sia difficile risalire la china del pensiero unico liberista e proporre una visione alternativa. Anche perché i liberisti propongono ricette salvifiche da applicare con un tratto di penna. Hanno spacciato la convinzione che la pigrizia operativa e intellettuale premi perché basta fare riforme, mai chiarite quali e in che direzione, e l’economia riparte.
La stessa politica diventa un impaccio, come se le riforme non avvantaggiassero alcune classi sociali a scapito di altre e che questo non richieda una mediazione politica. La verità è che questi benedetti piani di riforma si traducono sempre nel credo liberista fatto di tagli, più o meno brutali, alla spesa, tagli ai salari e precarizzazione del mondo del lavoro, oltre a liberalizzazioni e privatizzazioni. Poco importa se le ricette quasi ovunque abbiano invece prodotto abbattimento della crescita economica, aumento delle disuguaglianze e aumento del debito pubblico improduttivo, ossia non legato al ciclo degli investimenti pubblici. Ma loro continuano imperterriti anche perché, come abbiamo visto, continuano a gestire le leve del potere, prima solo economico e con i governi Monti e Draghi anche politico, e senza contraddittorio.
I presupposti di queste teorie sono tutti sulla concentrazione della ricchezza in mano a pochi che poi mettono in moto il resto dell’economia. Ma non funziona così. La ricchezza in mano a pochi rimane in mano a pochi che vogliono sempre di più. E diciamo chiaramente anche che la visione della necessaria svolta ambientalista è incoerente con la visione liberista della irresponsabilità sociale di impresa. Non c’è molto da credere sulla volontà di restituire un Pianeta più sano alle nuove generazioni, fatto salvo che con l’occasione si potrà continuare a concentrare la ricchezza in mano a pochi affidando proprio a chi i disastri li ha combinati i fondi per la riconversione ambientale.
Affrontare la lettura di proposte alternative basata su metodologie e visioni concettualmente diverse è impresa ardua. Occorre risalire il mainstream del pensiero unico e della sua macchina infernale
di propaganda. Anche perché affrontare un piano di lungo periodo per la crescita economica e sociale di una comunità richiede tempi che la politica non ha e quindi trova più facile applicare il prontuario delle ricette liberiste propagandato a più non posso sui media di proprietà dei beneficiari della concentrazione della ricchezza. Un drammatico cortocircuito alimentato dalla credulità della pubblica opinione che confonde notorietà e l’etichetta di “economista” con competenza e serietà. Ma questo cortocircuito per essere efficace deve essere supportato dalla stampa, che ha il compito primario di denigrare la politica e i politici per poi poter affermare che le soluzioni siano nelle stesse persone e gruppi di potere che hanno determinato il disastro economico degli ultimi 30 anni: il Pubblico è incapace, contro ogni evidenza, e il Privato è capace di far tutto, come per il ponte Morandi o Alitalia.
C’è poi tutta la pubblicistica antimeridionale che attribuisce a fattori antropologici il crescente divario Nord-Sud del Paese. Anche in questo caso ci sono narrazioni di comodo che spacciano per realtà il seguente sillogismo: il problema del Sud è di tipo antropologico, se il problema è antropologico le soluzioni vanno ricercate in questo ambito, ma in ambito antropologico le soluzioni sono fumose o inesistenti quindi il problema del Sud non è risolvibile. Chiaro, no?
Quindi, come per l’assassinio del samurai, ci sono narrazioni della realtà di comodo volte a giustificare le carenze di un ceto intellettuale e dirigente palesemente inadeguato ma autoreferenziale, dove occorre necessariamente far parte del mainstream del pensiero unico liberista per non essere tacciato di populismo e sovranismo e quindi per entrare.
Per tutto ciò, prima di affrontare in questo lavoro la parte delle soluzioni e della valutazione del PNRR ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno occorre liberare la mente dall’indottrinamento liberista, dalla propaganda delle stampa, e dalle menzogne della pubblicistica antimeridionale.
Se avete già la mente libera da pregiudizie e falsità potete saltare le prossime 50 pagine, ma se di fronte alla lettura delle tabelle di questo libro sarete sorpresi, significa che anche voi vivete nella menzogna. Senza questa operazione verità non è possibile affrontare la visione di un piano strategico per il rilancio dell’Italia come Paese protagonista in Europa e nel Mondo.
Per chiarire la questione, nel seguito, si sono esaminate le tesi di tre autori, per motivi diversi emblematici della distopia informativa attuale: Francesco Giavazzi, Luca Ricolfi ed Emanuele Felice.
Ho cercato di far vedere come la gran parte degli studi economici più che esaminare i dati per comprendere le ragioni e le vie per risanare l’economia cerca nei numeri solo quelli che confermano il pregiudizio comune o proprio, un poco come i protagonisti del film di Kurosawa.
Ma se seguiamo il mainstream del pensiero unico, i nostri problemi non troveranno soluzione perché ci affideremo alle stesse persone che li hanno creati e che non riescono a trovare strade diverse da quelle che hanno trovato in passato e che si sono rivelate fallaci, perché vittime dei loro stessi pregiudizi.
Quello che occorre fare è ripulire la scrivania e gettare tutte le carte e ripartire da zero con la mente libera da ogni preconcetto cercando riferimenti concettuali in aree diverse di pensiero.
Rubo le parole a Esther Duflo, Nobel per l’economia 2019: «Quelli che si spacciano per economisti in televisione e sulla stampa – l’economista capo della banca X o dell’azienda Y, o il loro consulente o Confindustria aggiungo io – sono, con importanti eccezioni, in primo luogo dei portavoce degli interessi economici della loro azienda, gente che spesso si sente libera di ignorare il peso dell’evidenza scientifica. Inoltre hanno un’inclinazione, abbastanza prevedibile, verso un ottimismo di mercato a tutti i costi, che è il tratto che l’opinione pubblica associa agli economisti in genere».
Il fatto è che non esiste una ricetta universale, come lasciano intendere i liberisti o i keynesiani, ma soluzioni che vanno studiate, applicate caso per caso e con un monitoraggio continuo dei risultati: questa è la lezione della realtà come la spiega Duflo.
Sono consapevole del rischio in questo saggio di fare anche io cherry picking dei dati per sostenere le mie tesi e le mie soluzioni. Per questo motivo ho corredato questo lavoro di numerose tabelle e numeri da fonti primarie (specialmente Eurostat e Conti Pubblici Territoriali della Agenzia Governativa della Coesione Sociale) in modo che ognuno possa farsi un’idea sia dei numeri, che giustificano le mie osservazioni, sia di eventuali omissioni.