CAPITOLO I
NASCITA DEL REGNO D’ITALIA
Verso l’Unità d’Italia
«Maestà, vi consegno l’Italia!» È il 26 ottobre 1860: un giorno epico per la storia e la retorica risorgimentale, tassello in parte conclusivo di un processo, iniziato già qualche decennio prima, che porterà forzatamente gli italiani a diventare un unico Stato.
Siamo a Teano, vicino Caserta. Garibaldi stringe la mano a re Vit torio Emanuele II e pronuncia questa frase; un pensiero che rac chiude il percorso, lungo e tortuoso, che si concreterà nella nascita del Regno d’Italia, un regime politico destinato a durare ottantacin que anni.
L’Italia era un’unità territoriale molti secoli prima di diventare uno Stato nazionale con frontiere naturali chiaramente definite, se guendo su tre lati il mare e sul quarto la catena delle Alpi e, nono stante avesse da secoli una condivisa cultura artistica e letteraria che varcava i confini dei singoli Stati, vi era una conflittualità e una ani mosità determinate sia della sua storia sia della sua geografia e così, fino al 1860, la parola Italia serviva a designare solo una penisola, tanto che il Cancelliere austriaco Metternich, la definiva sprezzante mente un’“espressione geografica”.
Giuseppe Mazzini, filosofo, patriota e giornalista genovese, espo nente più significativo del patriottismo risorgimentale, è il primo a sognare un’Italia unita; la sogna a partire dalla fondazione della Giovine Italia nel 1831, influenzando un’intera generazione di giovani patrioti che per questa idea si faranno massacrare nei moti libera li degli anni Trenta.
Il principale ostacolo per unificare l’Italia è la presenza austriaca nel Nord-Est della Penisola. Qui, la prima città a insorgere fu Venezia, seguita da Milano con le sue “Cinque giornate” che co strinsero il generale Radetzky a ritirare le truppe nelle fortezze del quadrilatero. I milanesi chiesero aiuto ai piemontesi guidati da Car lo Alberto che nel 1848, con la Prima guerra d’Indipendenza, ripre se le ostilità contro l’Austria ma venne battuto dopo soli quattro giorni a Novara. Così, scelse di abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II dichiarando fallita questa prima spedizione indipen dentista.
Il 1848 è un anno da dimenticare anche per Pio IX che, a seguito dei moti rivoluzionari nello Stato pontificio, alla morte del suo Pri mo ministro Pellegrino Rossi e alla proclamazione della Repubblica romana, fugge a Gaeta ospite dei Borbone e vi rimane per poco più di nove mesi. Il governo repubblicano guidato da un triumvirato, di cui faceva parte Mazzini, verrà abbattuto dalle truppe francesi; ne conseguirà il ripristino della precedente istituzione.
Nonostante il fallimento di tutte le imprese militari successive al Congresso di Vienna, il sogno unitario non si infranse – anzi – il cre scente consenso che giungeva da tante parti della Penisola, convinse Garibaldi che fosse possibile tentare una spedizione nel Regno delle Due Sicilie per sottrarlo ai Borbone.
Garibaldi, mazziniano e repubblicano, riuscì a unire alla sua cau sa poco più di mille persone, di cui molte per niente addestrate alla vita militare, che partirono da Quarto, vicino Genova, il 5 maggio 1860. Sbarcati a Marsala, nel trapanese, sconfitti i borbonici a Calatafimi e raggiunta Palermo, Garibaldi si dichiarò Dittatore della Sicilia. Procedette alla conquista del Meridione, fino a Napoli, mentre Francesco II di Borbone, mal consigliato dal suo ministro degli In terni Liborio Romano, si rifugiò nella fortezza di Gaeta, privo della sua flotta che non rispose all’ordine di scortarlo fino alla meta.
Resta un interrogativo: davvero un esercito poco addestrato, male armato e composto da poco più di mille persone poté sconfiggere quello borbonico, definito il migliore fra quelli italiani, i cui uf ficiali venivano addestrati all’Accademia Nunziatella di Napoli? Dubbi che studi recenti sciolgono con il tradimento di Liborio Ro mano, il quale verosimilmente si accordò con i Savoia per un ruolo di prestigio nella nuova realtà politica.
A Gaeta Francesco II e sua moglie Maria Sofia si difesero dall’assedio di Cialdini e delle sue truppe sabaude, da novembre 1860 fino a febbraio dell’anno dopo, ma le perdite umane e il degrado igieni co-sanitario sfociato in un’epidemia all’interno della fortezza, insie me alla sconfitta definitiva dell’esercito del Regno delle Due Sicilie lungo le rive del fiume Volturno, costrinsero i Borbone alla resa e all’esilio.
L’inizio del Regno d’Italia
Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II diventa re d’Italia, un territo rio che lui si limita a considerare soltanto come un allargamento del suo Regno di Sardegna: la capitale resta Torino, il sovrano estende tutte le leggi del Piemonte all’intera Penisola e lui stesso non cambia la propria intitolazione di “Secondo”, nonostante le richieste di alcuni parlamentari, affinché si rinominasse “Primo” della nuova nazione.
Il nuovo Stato italiano dovette affrontare l’arretratezza economi ca, l’analfabetismo e il profondo divario tra Nord e Sud del Paese. La prima classe di governo dell’Italia unita fu quella della Destra stori ca, erede del liberalismo e del moderatismo di Cavour. Essa procedette alla costruzione dello Stato centrale, ma dovette imporre una pesante tassazione per colmare il debito pubblico e si trovò di fronte alla Questione meridionale, con tutti i disagi del Mezzogiorno che si manifestarono attraverso il sovversivo fenomeno del brigantaggio.
Rimaneva aperta la Questione romana: Roma e il Lazio costitui vano ancora lo Stato pontificio. Una spedizione garibaldina fu fermata il 29 agosto 1862 sull’Aspromonte dalle stesse truppe del Regno d’Italia, per il timore di un intervento francese in difesa del Papa, infatti, Napoleone III minacciò di intervenire in difesa del sommo pontefice; a questo punto, il capo del governo italiano Urba no Rattazzi si vide costretto a inviare l’esercito per fermare i garibal dini in Calabria, dove lo stesso Garibaldi venne ferito.
L’impresa garibaldina, il cui esito aveva suscitato una tale ondata di sdegno da costringere Rattazzi alle dimissioni, ebbe l’effetto di alimentare il dibattito sulla Questione romana, ma il successivo go verno presieduto da Marco Minghetti, preoccupato di rinsaldare i rapporti con la Francia, si impegnò con “La Convenzione di settem bre” (1864) a rispettare i confini dello Stato pontificio in cambio del-
la promessa francese di ritirare, entro due anni, le truppe stanziate a Roma. A garanzia della propria intenzione di rinunciare a Roma, il governo italiano avrebbe trasferito la capitale del Regno da Torino a Firenze. Il Papa non mitigò il proprio atteggiamento, anzi, con l’en ciclica Quanta cura e con Il Sillabo, consistente in una raccolta di 80 proposizioni considerate come errori del mondo moderno e incompatibili con i principi cristiani, condannò, non soltanto il socialismo e il razionalismo ma anche il liberalismo, la libertà di coscien za e la libertà di stampa.
Nel 1866, grazie a un’alleanza con la Prussia in funzione antiau striaca, l’Italia ottenne l’annessione del Veneto. Infine, dopo che la Prussia sconfisse Napoleone III e causò la fine del suo impero – battaglia di Sedan, 2 settembre 1870 – il governo italiano poté annettersi lo Stato pontificio e spostare la capitale a Roma.
Il governo italiano, presieduto da Giovanni Lanza, procedette da un lato all’invio di un corpo di spedizione nel Lazio, dall’altro ad aprire un confronto con Pio IX alla ricerca di un’intesa. Ancora una volta, il pontefice si dimostrò intransigente, per cui il 20 settembre 1870, sciolto ogni indugio, l’esercito italiano aprì una breccia a colpi di cannone nella cinta muraria di Roma ed entrò in città presso Por ta Pia.
La presa di Roma avvenne in quella stessa data, con la guida del generale Raffaele Cadorna, padre di Luigi che sarà capo di Stato maggiore del Regio Esercito nel corso della Prima guerra mondiale.
Pochi giorni dopo, l’annessione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia fu confermata con il consueto sistema del plebiscito, mentre nel febbraio 1871 fu stabilito il trasferimento della capitale da Firen ze a Roma. Nel maggio 1871 il Parlamento italiano aveva approvato unilateralmente, data l’indisponibilità pontificia a qualunque accor do, una legge per regolare i rapporti tra il Regno d’Italia e la Chiesa. La cosiddetta legge delle guarentigie, ossia le garanzie che il Regno accordava alla Santa Sede, riconoscendo al pontefice: il libero esercizio del potere spirituale su tutto il territorio italiano e l’extraterri torialità dei palazzi del Vaticano, Laterano e Castel Gandolfo, che dunque non erano soggetti alla sovranità dello Stato italiano, infine veniva offerta una dotazione finanziaria annua per il mantenimento della corte papale. Pio IX rifiutò tutte le proposte del governo italiano. La sua ostinazione a non riconoscere lo Stato italiano portò alla
formazione, in occasione delle elezioni politiche del 1874, del “Non expedit” – Non è opportuno – che suonava come un esplicito divie to rivolto a tutti i cittadini cattolici di partecipare alla vita politica italiana. La posizione del Papa diede origine a una grave spaccatura nel Paese che verrà sanata solo nel 1929 da Mussolini con i Patti La teranensi.
La Destra storica (1861-1876)
Il Regno d’Italia appena costituito aveva una popolazione di 22 mi lioni di abitanti. Era un Paese contadino e arretrato, con una spe ranza di vita media che non superava i 40 anni a causa di cattive condizioni igienico-sanitarie (assenza di acquedotti, fognature) che causavano una mortalità elevatissima, anche per la presenza in molte zone di tifo e colera. L’alimentazione era scarsa, insufficiente e sbilanciata, carente di proteine e vitamine, vi erano poi le malat tie che si diffondevano nelle zone paludose. In sintesi, mancavano vere misure di tutela della salute pubblica. Questo stato di cose in dicava la miseria in cui versava buona parte del nostro Paese che viveva per lo più nelle campagne, visto che il 70% degli italiani erano contadini.
Vi era una classe borghese moderna, presente nel Nord-Ovest, mentre al Sud dominava una nobiltà improduttiva che viveva delle rendite del latifondo. Il tasso di analfabetismo arrivava a toccare punte dell’80% della popolazione e mancava una lingua nazionale; nelle diverse aree geografiche italiane ci si esprimeva in dialetto e solo il 2%, secondo le stime del linguista Tullio De Mauro, conosceva l’italiano, vale a dire una forma di lingua letteraria scritta attinta dai migliori autori del Trecento fiorentino oggetto di dibattito in epoca risorgimentale che aveva visto trionfare l’ideale manzoniano di una lingua comune tratta sempre dal fiorentino ma parlato dalle classi colte del tempo, volutamente diffuso con l’edizione quarantana dei Promessi Sposi e oggetto delle disposizioni del ministro Emilio Broglio nell’ambito della Commissione istituita nel 1867.
Era stato creato uno Stato italiano, ma mancava una società ita liana, condizione ben sintetizzata da Massimo D’Azeglio nella frase: «L’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani».
Una grande arretratezza economica e un profondo divario persistono tra Nord e Sud Italia. Mancano infrastrutture – strade, ponti,
ferrovie – mentre lo sviluppo dell’industria era modesto e concentrato in Piemonte, Lombardia e Liguria, nei settori tessile, metallurgico e meccanico.
Come si è detto ufficialmente, il 17 marzo 1861 nasce il Regno d’I talia che per i Savoia è solo un’estensione del Regno di Sardegna tanto che all’Italia fu applicata la Costituzione sabauda con la sua legge elettorale a suffragio maschile censitario. In tal modo, il Parlamento eletto nel gennaio 1861 era espressione di meno del 2% della popolazione, composta da alta borghesia e aristocrazia.
Dopo Cavour e Rattazzi, le figure più rappresentative della De stra storica furono: Quintino Sella, Giovanni Lanza, Bettino Ricaso li, Marco Minghetti, Luigi Farini, Stefano Jacini e Silvio Spaventa, uomini che affrontarono il problema di rendere effettivamente unitario, sul piano amministrativo e legislativo, lo Stato.
Il problema fu risolto con un’organizzazione rigidamente centralista, mentre fu rifiutata la proposta del ministro degli Interni Min ghetti di istituire regioni dotate di autonomia amministrativa. Il nuovo regno fu diviso in 59 province e il 9 ottobre 1861 furono isti tuite le 59 relative prefetture, il prefetto era espressione del governo in ogni provincia.
Nel 1862 fu estesa a tutto il regno la legge “sull’Istruzione pubblica” che portava il nome di Gabrio Casati, già ministro della Pubblica istruzione del Regno Sabaudo dal 1859 al 1860. La legge Casati pre vedeva la gratuità e l’obbligatorietà dei primi due anni della scuola elementare, ma poiché la responsabilità della sua applicazione era assegnata ai comuni, la disparità di risorse pubbliche tra Nord e Sud si tradusse in una disparità di risultati.
La necessità di costruire un esercito nazionale fu affrontata im ponendo a tutta la Penisola, nel 1865, la coscrizione obbligatoria, cioè l’obbligo per tutti i giovani di prestare due anni di servizio mili tare. Là dove non era mai esistito, come nel Regno delle Due Sicilie, tale obbligo suscitò malcontento, specialmente fra le famiglie contadine a cui venivano sottratte braccia utili al lavoro; ne derivò un incremento del fenomeno del brigantaggio e soprattutto il sentimento di un tradimento delle aspirazioni unitarie.
Un altro passo verso la costruzione del nuovo Stato fu compiuto con l’unificazione del sistema monetario. Il 24 agosto 1862 Vittorio
Emanuele II firmò la legge in base alla quale la lira italiana sostituiva la moltitudine di monete in uso negli stati precedenti, facilitando la prosecuzione da parte della Destra della politica economica libe rista inaugurata da Cavour.
Per favorire la libera circolazione delle merci, il governò si impe gnò nella creazione di infrastrutture. I forti investimenti, che tale politica di ammodernamento richiedeva e che furono concentrati prevalentemente al Nord del regno, aggravarono le già difficili condizioni finanziarie del nuovo regno che aveva ereditato un elevatis simo debito pubblico dai singoli stati. Quando il deficit pubblico as sunse dimensioni preoccupanti, il governo decise di ricorrere all’aumento della pressione fiscale per raggiungere il pareggio del Bilancio che fu confermato nel 1876, obiettivo che fu sostenuto con estremo rigore dal ministro Sella che attuò:
- contenimento della spesa;
- imposte sui consumi;
- tassa sul macinato, la più contestata e portò a molte proteste.
Buona parte delle misure adottate dal nuovo Stato andarono ad accentuare il divario tra Nord e Sud e ciò portò alla nascita di un dibattito con relative inchieste che prese il nome di Questione meridionale, mai effettivamente risolto.
Le masse contadine che avevano affiancato Garibaldi nella libe razione del Sud avevano sperato che il nuovo Stato attuasse una ri forma agraria che avrebbe consentito loro di passare dalle condizio ni di braccianti a quelle di proprietari.
Ma a queste speranze deluse, si aggiunsero:
- coscrizione obbligatoria;
- inasprimento fiscale;
- politica economica liberista;
- predominio del sistema industriale del Nord che impose i suoi prodotti;
- venir meno delle commesse garantite in precedenza dal governo borbonico, per cui il Sud vedeva la propria economia sem pre più confinata al settore agricolo.
Tutto ciò portò al fenomeno del brigantaggio, da Roma risolto con la legge Pica (15 agosto 1863), un provvedimento che prevedeva
fucilazioni, lavori forzati a vita e carcere per i briganti e camorristi. La legge “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camor risti nelle provincie infette” restò in vigore fino al 31 dicembre 1865 e la sua provvisorietà nasceva dalla deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino che garantivano il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinnanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale.
La Sinistra storica (1876-1896) Nel 1876 la Sinistra vinse le elezioni politiche e salì al potere Agosti no Depretis che attuò un programma maggiormente orientato a fa vore dei nuovi ceti imprenditoriali, tutelati attraverso l’imposizione di dazi doganali sulle importazioni.
Nel 1878 morì Vittorio Emanuele II e il successore Umberto I contribuì a determinare una svolta autoritaria nel governo, soprat tutto negli ultimi anni del suo regno. Avversato per il suo conserva torismo, fu da altri ricordato con benevolenza per il suo atteggiamen to dimostrato durante l’epidemia di colera che scoppiò a Napoli nel 1884, prodigandosi al punto da meritarsi l’appellativo di “re buono”.
Depretis commissionò al senatore ed economista Stefano Jacini un’inchiesta agraria che fotografò la situazione del nostro Paese. L’inchiesta mise in luce l’arretratezza della società italiana e la dram maticità delle condizioni di vita delle classi rurali.
Il governo Depretis:
- varò la legge Coppino che ribadiva l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni e fissava sanzioni per i genitori inadempienti;
- abolì la tassa sul macinato;
- abolì il corso forzoso della lira;
- varò una nuova legge elettorale che diminuiva il censo, portan do gli aventi diritto al voto da 40 a 20 lire, inoltre l’elettore do veva saper leggere e scrivere. In questo modo l’elettorato attivo passò dal 2 al 7% della popolazione.
L’Italia, in generale, visse in quegli anni una fase sociale di pro gresso e la popolazione aumentò dal 1871 al 1881 di circa un milione, passando da 27 a 28 milioni di abitanti. Le ferrovie da 7400 chilo metri di estensione passarono a 10.000 chilometri.
L’attivismo statale, sia sul piano internazionale – colonialismo –sia interno, costò il ritorno al disavanzo nel bilancio pubblico: il ri-
sultato dei maggiori sforzi della Destra svanì rapidamente ma il punto dolente del giovane Regno d’Italia era il distacco della politica (il Paese legale) dal Paese reale (il popolo) e il deficit democratico si nota leggendo il numero degli elettori, infatti il suffragio parlamentare aveva basi così ristrette che in alcuni collegi gli elettori erano un centinaio o anche meno, con deputati eletti con appena cinque o sei voti in tutto.
Per conservare la stabilità e il potere della classe politica, Depre tis, in politica interna, avviò la pratica del trasformismo, che indebo lì il Parlamento deteriorandone la moralità e fu fortemente osteggia ta dall’estrema sinistra, chiamata Estrema.
Col trasformismo Depretis intendeva dare stabilità ai suoi traballanti governi – ne presiedette otto in meno di dieci anni – chiedendo ai singoli parlamentari dell’opposizione il voto favorevole in cambio di vantaggi personali o nel collegio di elezione. L’intento di Depretis, comunicato esplicitamente in un comizio che tenne l’8 ottobre 1882 a Stradella, in provincia di Pavia, era quello di variare le maggioranze in base a convergenze d’intenti su singoli problemi, anziché su programmi politici a lungo termine e nel passaggio più significativo disse: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole ac cettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventa re progressista, come posso io respingerlo?» In verità, Depretis fa ceva leva sul fatto che il singolo eletto non era legato a un partito, come succede oggi, perché nel XIX secolo i partiti organizzati non esistevano e la candidatura al Parlamento era legata a una base clientelare; quindi, passare a un altro schieramento significava l’ul tima fase di una trattativa politica che soddisfaceva sia il singolo parlamentare sia lo schieramento che lo accoglieva.
In politica estera, nel 1882 strinse la Triplice Alleanza con l’Impero austriaco e tedesco contro la Francia e la Russia. Si trattava di un patto militare difensivo con l’obbligo di soccorso militare reci proco in caso di aggressione a uno dei tre Stati membri. Nello stesso anno acquistò, a un costo di 416mila lire – all’incirca gli attuali due milioni di euro! – dalla compagnia Rubattino, la Baia di Assab, in Eritrea, che trasformò in colonia. Successivamente la Sinistra storica tentò l’occupazione del porto di Massaua, sempre in Eritrea, ma la pesante sconfitta delle truppe italiane a Dogali decretò la fine del suo governo.