SISTEMA FAMILIARE E ADOLESCENZA L'autrice pone a confronto i maggiori contributi storici sull'adolescenza per poi trattare pi첫 nel dettaglio i processi di sviluppo e le dinamiche familiari. Marzo 2006 Francesca Vignozzi Psicologa e psicoterapeuta in formazione
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Contributi storici sul tema dell'adolescenza La famiglia è un po’ come il bel tempo, che viene notato solo quando non c’è. Csikszentmihalyi, Larson, 1984
Risale al 1904 il primo studio sistematico sull’adolescenza. Fu Stanley Hall ad inaugurare una nuova fase di ricerche che si proponevano di analizzare con metodo scientifico questo periodo dello sviluppo umano (Blos, 1962; Palmonari, 1997; Malagoli Togliatti, Ardone, 1993). E’ infatti in questi anni che l’adolescenza comincia ad essere riconosciuta come fase specifica della vita e non solo semplice passaggio dalla condizione di bambino a quella di adulto. Sono due i fattori che contribuiscono alla sua affermazione prolungandone la durata: il processo di industrializzazione e l’istituzione di un sistema scolastico obbligatorio. Il periodo di preparazione al lavoro si dilata, l’ingresso nel mondo degli adulti viene rimandato, la fase adolescenziale assume di conseguenza sempre più importanza nella vita dell’individuo (Scabini, 1995). L’orientamento psicoanalitico dominante negli anni ’30 ha approfondito e continuato il contributo originario di Hall (Palmonari, 1997). Sigmund Freud (in Winnicott, 1975) descrive la pubertà come il momento in cui la vita sessuale infantile raggiunge la sua forma definitiva e definisce l’adolescenza “oscura sotto molti punti di vista”. Ciò che intercorre fra l’inizio di tale periodo, rappresentato dallo sviluppo sessuale, e la sua conclusione, determinata dall’ingresso definitivo nel mondo degli adulti, costituisce “un enigma non risolto”. Ma è soprattutto Anna Freud a fornire un importante contributo alla conoscenza di questa fase dello sviluppo. Con l’insorgere della pubertà l’individuo deve far fronte e deve riuscire a equilibrare due opposte esigenze: da una parte l’energia istintuale risveglia in lui desideri di tipo sessuale, dall’altra un Io sempre più forte tenta di controllare le pulsioni. Solo attraverso la gestione di questo conflitto avverrà la formazione del carattere. Nel caso in cui l’Io sia troppo fragile, il soggetto verrà sottomesso dalle forze istintuali e compariranno i sintomi nevrotici1. James Joyce in Dedalus descrive in modo particolareggiato il disordine interiore di Stephen, il protagonista, che lotta con se stesso per reprimere i propri impulsi sessuali: Com’era stato sciocco il suo tentativo! Aveva cercato di costruire una diga di ordine e d’eleganza contro le sordide maree della vita interna e di arginare, con regole di condotta, con interessi attivi e nuovi rapporti filiali, la violenza periodica delle sue interne maree. Tutto inutile. Dall’esterno come dall’interno, l’acqua aveva straripato: ancora una volta le onde si dibattevano selvaggiamente sugli argini distrutti (J. Joyce, 1960, P.129). Blos (1962) ritiene che durante la fase adolescenziale avvenga un secondo processo di separazioneindividuazione nei confronti dei genitori. Riprendendo la teoria dello sviluppo infantile elaborata da Margaret Mahler, egli descrive il percorso di crescita dell’adolescente il quale, da un sentimento di fusione con il mondo circostante, arriva a concepirsi separato e distinto dall’ambiente in cui è inserito, con specifiche motivazioni, obiettivi, credenze. Hall (in Blos, 1962) ha definito l’adolescenza una “nuova nascita” in quanto si verificherebbe nel corso di essa un rinnovamento
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totale di tutti gli aspetti della personalità e tali cambiamenti, a livello cognitivo, emotivo e sociale, sarebbero universali perché determinati biologicamente e perciò indipendenti da variabili culturali (Palmonari, 1997). Margaret Mead, in seguito alla sua ricerca effettuata nell’arcipelago di Samoa, nel Pacifico Meridionale, smentisce quanto teorizzato da Hall dimostrando l’importanza delle influenze ambientali e culturali nella modalità di espressione dei fenomeni adolescenziali. In una società primitiva dove la differenziazione del lavoro è assai limitata, il senso del gruppo sostituisce quello della famiglia e le norme comportamentali sono condivise da tutti, il passaggio all’età adulta non è caratterizzato da tensioni, crisi, conflitti, interiori o nei confronti della famiglia. Le tempeste emotive dell’adolescente occidentale dipendono dalla maturità fisiologica ma soprattutto da uno specifico assetto sociale che getta l’individuo in una crisi profonda, per la scelta professionale da effettuare, in cui tutto ciò che viene escluso viene vissuto come opportunità non colta, per il senso di solitudine che accompagna il processo di separazione dai genitori, in concomitanza con la faticosa costruzione di una rete di rapporti con persone significative esterne alla famiglia (ibidem). Nel secondo dopoguerra Piaget enfatizza l’importanza degli aspetti cognitivi nell’adolescente e descrive l’adolescenza come il terzo stadio dell’egocentrismo, un periodo in cui l’individuo è convinto di poter incorporare la realtà nel pensiero e trasformare il mondo con l’onnipotenza del ragionamento (Blos, 1962; Lutte, 1987). Winnicott (1975) riconosce l’adolescenza come qualcosa che necessita di cura: “esiste una ed una sola cura efficace dell’adolescenza…La cura consiste nel passare del tempo e nel completamento dei processi di graduale maturazione: due fattori che insieme concorrono a determinare, alla fine, la comparsa dell’età adulta”. Erikson fornisce un contributo fondamentale allo studio dell’adolescenza. Enfatizzando il ruolo del contesto culturale e sociale nello sviluppo individuale, sostiene che esso si compie attraverso il superamento di una serie di stadi qualitativamente diversi l’uno dall’altro e organizzati in modo gerarchico. Per accedere allo stadio successivo deve essere risolto un dilemma specifico: quello che caratterizza l’adolescenza è espresso dalla tensione fra identità e diffusione dell’identità. È in seguito alla costruzione dell’identità che l’individuo si forma ed è il senso di identità che permette all’uomo di sentirsi lo stesso nel tempo anche se si vede cambiato per molti aspetti. Pur comportandosi diversamente in situazioni e momenti differenti il nucleo della personalità è fisso e rigido, attorno ad esso ruotano le varie forme del Sé (Palmonari, 1997). Le ricerche di ispirazione psicologica “non clinica” realizzate a partire dagli anni ’60 prendono le distanze dalle teorie psicoanalitiche sull’adolescenza. Ad una visione di tale periodo come contrassegnato da una crisi profonda dei valori e dei significati, se ne sostituisce un’altra in cui l’adolescenza è riconosciuta come fase autonoma e prolungata della crescita umana, caratterizzata da una serie di sfide e compiti cui l’adolescente deve far fronte, specifici a seconda della sua appartenenza sociale e di genere. L’individuo che si affaccia nel mondo degli adulti non è colto da una grave crisi generale, accompagnata da sentimenti spesso contrastanti, da tensioni emotive, amori irrazionali e odi ciechi, prese di posizione estreme; gli studi recenti hanno smentito la
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necessaria presenza del fenomeno che gli psicanalisti hanno definito lo “storm and stress” adolescenziale (Coleman, Hendry, 1990; Palmonari, 1997; Ardone, 1999; Cicognani, Zani, 2003). Gli esiti delle nuove ricerche negano l’esistenza di un lungo periodo di crisi da superare per la formazione dell’identità. Nella maggioranza degli adolescenti il passaggio all’età adulta avviene in modo abbastanza tranquillo, caratterizzato da un buon rapporto con gli adulti, con gli insegnanti e con i pari (Coleman, Hendry, 1990). L’adolescente deve però risolvere una serie di problemi che riguardano diversi aspetti dell’esistenza (organizzare e dare un senso alle proprie esperienze, essere in grado di costruire relazioni interpersonali significative e continuative, essere autonomo nelle scelte, formulare giudizi morali), ma i disagi provocati dal bisogno di adattarsi a nuove modalità comportamentali sono raramente concentrati tutti in una volta, cosicchè egli tenterà di risolverli con i propri mezzi, libero da stress e tensioni drammatiche. Tali principi derivano dalla teoria focale dello sviluppo dell’adolescenza di Coleman (Coleman, Hendry, 1990), la quale, pur non essendo stata risparmiata da critiche, ha avuto il merito di spiegare il superamento impegnativo, ma senza gravi crisi e rotture, dell’età adolescenziale da parte della maggior parte degli individui. Nella traversata del grande fiume impetuoso2 l’adolescente non è sempre solo. Ci sono i genitori, gli amici, altri adulti significativi che lo possono accompagnare offrendogli un valido aiuto e sostegno, ma allo stesso tempo essi possono dargli indicazioni frammentarie e contraddittorie che aggiungono confusione alla sua mancanza di esperienza (Palmonari, 1997; Cicognani, Zani, 2003). Havighurst (in Palmonari, 1997) utilizza per la prima volta la nozione di compiti di sviluppo per indicare i problemi di ordine generale che gli adolescenti incontrano nei vari momenti della loro esperienza e grazie alla risoluzione dei quali si creano i presupposti per una crescita sana e soddisfacente. I compiti di sviluppo non sono, in una società complessa e pluralista come la nostra, difficoltà uguali ed inevitabili per tutti. Essi si definiscono nel rapporto fra l’individuo, la sua appartenenza sociale e l’ambiente in cui è inserito. A metà degli anni ’80 la ricerca sugli adolescenti ha subito un ulteriore sviluppo. Con l’affermazione della prospettiva ecologica è stata posta particolare enfasi al contesto sociale e in particolar modo alla famiglia dell’adolescente (Gecas, Seff, 1990). L’adolescenza è stata definita “un’impresa evolutiva congiunta” di genitori e figli (Scabini, 1995) che si caratterizza non tanto per la brusca e netta separazione dell’adolescente dalla famiglia, quanto piuttosto per una trasformazione dei legami preesistenti in una forma più matura. Ciò implica una rinegoziazione della relazione genitori-figli che diviene più paritaria e simmetrica (Marta, 1995). I processi di sviluppo in colui che cresce Si intende per adolescenza quel periodo della vita dell’individuo compresa tra la fanciullezza e l’età adulta. Essa comincia con la pubertà e si conclude quando il giovane si è formato come individuo autonomo ed è in grado “di stabilire rapporti significativi con un’altra persona, con i gruppi di
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riferimento più prossimi e con il proprio ambiente di vita più ampio, sia sul piano sessuale e affettivo, sia sul piano operativo e istituzionale” (Palmonari, 2001, p. 8). La maturazione biologica può avvenire fra i 9-10 anni e i 13-14. Generalmente le femmine hanno uno sviluppo sessuale più precoce di circa due anni rispetto ai maschi. Se l’ingresso in questo turbolento periodo di vita è oggettivamente determinato dalla comparsa dei caratteri sessuali secondari, la sua conclusione non è così facile da identificare, anche se in letteratura viene fissata intorno ai 18-20 anni, quando l’individuo ha acquisito “le competenze ed i requisiti necessari per assumere le responsabilità di adulto” (Palmonari, 1997, p.43). Il fanciullo diviene adolescente con la maturità fisica, l’adolescente diviene uomo con la maturità sociale. Oggi più che mai si sta amplificando il divario di tempo tra la pubertà e il raggiungimento da parte dell’individuo di uno status sociale che lo identifica agli occhi degli altri come adulto, indipendente economicamente, con uno specifico percorso professionale da effettuare già individuato, con un avvenuto processo di separazione nei confronti dei genitori ed una conseguente formazione di rapporti interpersonali significativi al di fuori della famiglia. Questo fenomeno prende il nome di “adolescenza protratta” ed è definito da Blos (1962) come un prolungamento della situazione adolescenziale determinato dalle condizioni culturali. Oggi viene individuata un’altra fase dello sviluppo dell’uomo che sta fra l’adolescenza e l’età adulta, la fase della giovinezza, resa possibile dal benessere del mondo postmoderno e che assume un significato istituzionale riferito non a tutti i giovani, ma solamente a quelli che dopo il diploma delle scuole superiori decidono di continuare la propria formazione iscrivendosi all’università. Si diviene adulti con l’acquisizione del senso di identità, “la consapevolezza da parte del soggetto di essere sempre la stessa persona anche se si sente cambiato, nonché di essere un individuo unico, diverso da tutti gli altri, dotato di un proprio stile nel modo di rapportarsi con il mondo”(Palmonari, 2001, p. 9). Si parla di “adolescenza prolungata” quando il soggetto, dopo il compimento del diciottesimo anno di età, non è ancora in grado di stabilire rapporti di intimità con persone al di fuori della famiglia, non impartisce alla vita una direzione da seguire negando a se stesso la responsabilità della scelta di un percorso professionale. Non rientra in questa categoria chi non ha iniziato la propria carriera lavorativa per motivi di studio. La stessa scelta di una facoltà universitaria orienta il soggetto verso un certo campo di possibili impegni lavorativi e allo stesso tempo esclude tutti gli altri (Palmonari, 2001). La condizione, infine, di coloro che dopo la licenza media abbandonano la scuola per necessità economiche o per libera scelta e si impegnano ad entrare nel mondo del lavoro viene definita “adolescenza abbreviata”, anche se il percorso psicologico per divenire adulti è tutt’altro che concluso (ibidem). Le ricerche più recenti smentiscono quanto affermano gli psicoanalisti riguardo ad una brusca rottura con il passato che avverrebbe nel periodo adolescenziale, caratterizzato da un cambiamento repentino e radicale della personalità (Palmonari, 2001, Ardone (a cura di), 1999). Vengono definitivamente prese le distanze dalla concezione, coniata da Blos (1962), di adolescenza come “seconda nascita”. Le conoscenze e le consapevolezze che appartengono all’infanzia non
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vengono sostituite, costituiscono invece la base sulla quale l’individuo, grazie anche alla sua capacità di utilizzare il pensiero simbolico, costruisce le nuove esperienze. L’età dell’adolescenza viene ad essere sempre più concettualizzata come un processo evolutivo “normale”, caratterizzato da una forte spinta al cambiamento che riguarda tutti i settori dell’esperienza individuale, sia a livello personale, sia a livello interattivo e sociale (Palmonari (a cura di), 1997; Malagoli Togliatti, Ardone, 1993; Scabini, 1995). Le differenze fra il bambino e l’adolescente non si limitano al piano fisico e sociale. Di importanza fondamentale sono anche le conquiste dell’adolescente in campo cognitivo. Le ricerche sullo sviluppo cognitivo sono dominate dall’opera di Piaget e della sua scuola di Ginevra. Lo stadio formale al quale si approda durante l’adolescenza (dagli 11-12 anni in poi) è per Piaget l’ultimo dello sviluppo cognitivo e prevede l’accesso ad una strategia di pensiero di tipo ipotetico-deduttivo. Tale strategia conduce ad un maggiore distacco dal reale che viene a subordinarsi al possibile. Grazie ad essa gli adolescenti si dimostrano capaci, rispetto ai bambini, di generalizzare, di descrivere la realtà in termini di contingenza, di utilizzare astrazioni, di contemplare ciò che non è ma è possibile che sia, di riflettere su ciò che non può essere. Si allargano gli orizzonti del pensiero, come afferma Lutte (1987): Gli adolescenti possono esprimere i loro sistemi di valori, i loro ideali in termini astratti come libertà, uguaglianza, giustizia, lealtà. Diventano anche più capaci di forme di apprendimento che implicano simboli piuttosto che delle cose concrete, di capire la dimostrazione matematica, l’algebra, di accedere alla nozione di legge, di acquisire in senso scientifico e storico, di cogliere l’idea astratta di passato storico, di far riassunti in cui l’essenziale di un testo viene riportato in poche righe (Lutte, 1987, p. 88). Per il primato del possibile sul reale l’adolescente diviene più abile ad elaborare e verificare ipotesi, risolvere problemi e pianificare attività; la capacità di memorizzazione si amplia, ma allo stesso tempo c’è una maggiore consapevolezza dei propri limiti e delle proprie carenze. Cresce la capacità di introspezione, che garantisce una più approfondita conoscenza del proprio io, e quella di identificazione, che permette all’adolescente di capire il modo di agire e di ragionare degli altri. E’ stata per anni fonte di discussione fra gli studiosi se questa forma di pensiero sia tipica di tutti gli individui o solo di coloro che appartengono a classi sociali più alte, hanno un grado di istruzione più elevato, vivono in un ambiente che favorisce lo scambio di idee ed il confronto di opinioni, sono inseriti in una struttura socio-economica complessa in cui buone capacità logiche e verbali vengono ricompensate. Secondo Piaget tutti i soggetti normali sono capaci di costruire un pensiero formale, a condizione che l’ambiente sociale e l’esperienza acquisita offra loro il nutrimento cognitivo e gli stimoli intellettuali necessari per questa costruzione (Palmonari, 1997). Gli studi più recenti dimostrano che lo stadio ipotetico-deduttivo non è una fase naturale o universale dello sviluppo umano ma una forma di pensiero tipica di persone altamente scolarizzate e addestrate nel ragionamento scientifico nelle società occidentali (Lutte, 1987). Un’altra conquista di questa fase della vita consiste nella separazione dai genitori, accompagnata
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da un contemporaneo processo di identificazione con i pari che è caratterizzata dalla creazione di rapporti stretti con persone significative al di fuori della famiglia e, in taluni casi, dall’ingresso dell’adolescente in un gruppo. I gruppi spontanei o informali sono contraddistinti dalla stretta somiglianza dei membri che ne fanno parte, stesso linguaggio, stesso look, stessa condizione scolastica o lavorativa, stessa provenienza sociale (Malagoli Togliatti, Ardone, 1993; Palmonari, 1997). Erikson (in Coleman, Hendry, 1990, p.113) sostiene che “quando un individuo possiede un’identità, il sé includerà la consapevolezza della propria unicità come individuo e un senso di solidarietà con gli ideali di un gruppo”. Appartenere ad un gruppo fa sentire l’adolescente protetto, capito ed accettato, lo aiuta a riempire quel vuoto che ha lasciato in lui la separazione dalle figure parentali. Riesce così ad acquisire una sempre maggiore autonomia emozionale-affettiva che lo porta all’insofferenza nei confronti dell’autorità, a vedere nei genitori persone che possono sbagliare, le cui opinioni e credenze possono essere messe in discussione ed i valori da loro enfatizzati non appaiono più verità assolute, ma solo un punto di vista fra tanti (ibidem). Il gruppo dei coetanei, che Coleman e Hendry (1990) definiscono “un surrogato quasi perfetto della famiglia”, costituisce la prima fonte da cui provengono svariate forme di aiuto e inviti a compiere delle scelte coerenti con il concetto di sé che si sta progressivamente mettendo a punto. Il contributo della famiglia rimane però fondamentale per lo sviluppo dell’adolescente e non può essere visto in contrapposizione con l’aiuto ad esso fornito dai coetanei. Sono valide entrambe le fonti di sostegno ma è diverso il contributo che i due sistemi sono in grado di offrire: alla famiglia spetta un ruolo più significativo e un peso più determinante nella risoluzione di problemi concernenti ambiti evolutivi orientati al futuro, con particolare riguardo ai temi della scuola e del lavoro, mentre il gruppo esercita un notevole supporto soprattutto rispetto ai problemi di ordine relazionale. Imparando ad intrattenere relazioni soddisfacenti con la famiglia e con i coetanei, l’adolescente impara a strutturare il proprio ambiente sociale e a risolvere i propri problemi condividendoli con altri significativi (Palmonari, 1997). Non c’è tramonto, dunque, della partecipazione degli adulti all’educazione degli adolescenti, pur riconoscendo la crescente importanza, che assume in questa fase, il gruppo dei pari (Coleman, Hendry, 1990). La famiglia dell'adolescente Negli anni ’80 si assiste ad un cambiamento di paradigma per quanto riguarda lo studio dell’adolescenza, che ha spostato l’attenzione dallo sviluppo individuale a quello dei contesti sociali in cui lo sviluppo dell’adolescente ha luogo (Gecas, Seff, 1990). A determinare questo cambiamento teorico hanno contribuito l’importanza assunta dalla prospettiva evolutiva del “ciclo di vita” (life course perspective) nello studio dell’adolescenza e l’influenza del paradigma ecologico (Bronfenbrenner, 1986) che ha spostato il focus dell’analisi dall’individuo alle relazioni che questo instaura con le persone significative appartenenti al suo ambiente di vita (Palmonari, 1997). La life course perspective teorizza che nel ciclo di vita della famiglia siano distinguibili diversi periodi, in ognuno dei quali sono presenti uno o più eventi critici da superare per passare al successivo.
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Producono crisi le entrate, uscite e perdite dei membri della famiglia, situazioni in cui le abituali modalità di funzionamento familiare risultano inadeguate e che producono disadattamento e squilibrio se non vengono sperimentate nuove forme di organizzazione. L’adolescenza dei figli, che rappresenta una forma di distacco significativo dal nucleo familiare, è un evento critico che porta una modifica nella struttura della famiglia esigendo una ridefinizione dei ruoli. Scabini (1995, p. 164) definisce l’adolescenza “impresa evolutiva congiunta” di genitori e figli che si caratterizza non tanto per una netta separazione dell’adolescente dalla famiglia, quanto piuttosto per una trasformazione dei legami preesistenti (Lutte, 1987) in una forma più matura che implica una regolazione delle reciproche distanze e una rinegoziazione delle relazioni familiari (Marta, 1995), che divengono più egualitarie e reciproche (Cicognani, Zani, 2003). I genitori rivestono un ruolo fondamentale nel processo di costruzione dell’identità dell’adolescente che rappresenta l’obiettivo fondamentale di questo periodo della vita infatti il sentimento di continuità, la consapevolezza di essere sempre se stesso e di sentirsi coerente rispetto a tutte le esperienze precedenti, nonostante i cambiamenti sperimentati, sono i pilastri su cui si fonda il senso del Sé dell’adulto. I sentimenti contraddittori di aggressività e attaccamento nei confronti dei genitori rappresentano la continua lotta fra le spinte evolutive che premono per il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autonomia e una profonda nostalgia per il mondo infantile. L’insofferenza che mostrano spesso gli adolescenti nei confronti delle richieste degli adulti e delle routine familiari può essere spiegata dal fallimento percepito in queste situazioni del tentativo di svincolo dalla dipendenza dai genitori. Simone de Beauvoir in Memorie di una ragazza perbene riesce ad esprimere in modo efficace questo sentimento: “Avevo perduto la sicurezza dell’infanzia, in cambio non avevo guadagnato niente. L’autorità dei miei genitori non si era attenuata, e a mano a mano che il mio spirito critico si risvegliava la sopportavo con sempre maggiore impazienza. Non vedevo l’utilità delle visite, dei pranzi di famiglia, di tutte quelle corvées che i miei genitori ritenevano obbligatorie. Le risposte: “Bisogna”, “Non sta bene”, non mi soddisfacevano più affatto…(S. de Beauvoir, 1978, p. 109) L’adolescente oscilla tra momenti in cui si vive come figlio, e questo gli procura piacere e lo rassicura, a momenti in cui si sente grande e vuole la totale indipendenza: “La sollecitudine di mia madre mi pesava. Ella aveva “le sue idee”, che non si curava di giustificare, e così le sue decisioni mi apparivano spesso arbitrarie…Se mi avesse contrariata spesso credo che mi avrebbe precipitato nella rivolta. Ma nelle cose importanti – gli studi, la scelta delle mie amiche – ella interveniva poco; rispettava il mio lavoro, e anche i miei divertimenti, chiedendomi soltanto piccoli servizi: macinare il caffè…( S. de Beauvoir, 1978, p. 109). Il sostegno delle figure parentali si esplica proprio nella capacità di accettare il comportamento “altalenante” del figlio ed interpretarlo non come incoerente e irrazionale ma come tappa obbligata per il raggiungimento dell’autonomia emozionale. Come afferma Senise: Se l’adulto accetta questa condizione e non si propone di fornire un’identità posticcia o inventata, se è disposto ad ascoltare con interesse rispettoso e non giudicante, se sa cogliere ed accogliere
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l’insicurezza palese o nascosta, lo sgomento espresso o in agguato, l’adolescente si sentirà riconosciuto nella sua ancora non raggiunta identità (in Pelanda, 2003, p.30). L’adolescente sente il bisogno di essere accudito ma allo stesso tempo di scoprire il mondo esterno. La sua esigenza è duplice, da un lato, desidera uscire dall’atmosfera familiare per ampliare le proprie esperienze in nuovi contesti, dall’altro, vuole poter rientrare in tale atmosfera qualora sia necessario. Il desiderio di autonomia, che non esclude il desiderio di sicurezza affettiva, gli consente di ricercare anche altrove valori, modelli e nuove modalità relazionali (Cicognani, Zani, 2003). I genitori devono aiutare il figlio nelle grandi scelte che deve compiere. In genere vengono condivise in famiglia le credenze sull’importanza del lavoro, dell’educazione, delle caratteristiche della personalità considerate desiderabili (ibidem). L’adolescente ha bisogno di sentire la presenza dei genitori soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà e stress, ma vuole essere lui a scegliere di farsi aiutare, non subisce più passivamente la loro intrusione, vuole che venga mantenuta una certa distanza che rispecchia la rinegoziazione dei ruoli e delle relazioni all’interno della famiglia, in direzione di una maggiore reciprocità e simmetria (Ardone, 1999). Se le ricerche più recenti svolte con ottica relazionale ed ecologica hanno smentito la visione psicoanalitica, entrata ormai nell’immaginario collettivo, dell’adolescenza come periodo dello “storm and stress” (Coleman, Hendry, 1990; Palmonari, 1997; Ardone, 1999; Cicognani, Zani, 2003), hanno però enfatizzato il disagio e la difficoltà del genitore nell’affrontare questo delicato periodo del ciclo di vita personale e familiare. Il processo di separazione, infatti, interessa l’adolescente ma anche i genitori: anch’essi devono separarsi dai figli, aiutarli nel loro processo di emancipazione. Inoltre, generalmente, i genitori di adolescenti hanno nel nostro contesto più di quaranta anni, età in cui scoppia, secondo diversi autori, la “crisi della mezza età” (Scabini, 1995; Cicognani, Zani, 2003) definita da Erikson ( in Malagoli Togliatti, Ardone, 1993) “crisi della metà della vita”. I coniugi, in questa fase del ciclo di vita, stanno in “mezzo” tra una gioventù ormai passata e un declino non ancora iniziato, rappresentano una generazione cerniera tra la generazione dei loro genitori e quella dei loro figli, costituiscono il punto di riferimento insostituibile per i più giovani e per gli anziani della famiglia. Scabini (1995, p.170) sostiene che questo periodo sia più critico per la donna, in quanto, “avendo spesso sacrificato la propria vita professionale per l’accudimento dei figli, nel momento in cui inizia il processo di separazione da essi può provare un senso di vuoto, di inutilità”. Il compito evolutivo dei genitori di un adolescente è il reinvestimento nella relazione di coppia. Dopo molti anni in cui padre e madre, l’uno a fianco dell’altro, si sono dedicati completamente al figlio adattandosi ai suoi ritmi e alle sue necessità, ora marito e moglie devono imparare di nuovo a stare l’uno di fronte all’altro, affrontando una nuova intimità. La sindrome del “nido vuoto” deve essere contrastata ridefinendo i propri obiettivi di fronte al cambiamento; la coppia genitoriale può rafforzare le relazioni amicali e sociali, riprendere a lavorare fuori casa o dedicare più tempo libero ai propri interessi (ibidem). La funzione del genitore è più che mai importante nel momento in cui il figlio adolescente
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abbandona la relazione privilegiata e totalizzante nei suoi confronti per affacciarsi al mondo esterno e ai suoi affascinanti personaggi. Egli deve favorire questo processo di svincolo, deve incoraggiare la separazione senza sentirsi abbandonato, dare fiducia ed affidarsi completamente al figlio, il quale ha interiorizzato ideali e modelli di comportamento della famiglia e, al di là di qualche piccola ribellione, saranno proprio questi valori a guidarlo fuori casa4. Il sistema familiare non ha esaurito ancora il suo compito. Il sostegno e la protezione che da dovuta distanza sarà in grado offrire permetteranno che i “voli”sempre più lunghi dell’adolescente fuori dal “nido” siano il più possibile sereni e sicuri (Scabini, 1995; Palmonari, 1997). Dinamiche familiari e adattamento Abbiamo visto il ruolo fondamentale che riveste la famiglia nell’aiutare l’adolescente a superare le difficoltà insite nel passaggio all’età adulta. Indipendentemente dalla prospettiva psicologica cui possiamo fare riferimento, risulta difficile, nonché fuorviante, analizzare lo sviluppo dell’adolescente senza considerare le influenze dell’ambiente sociale più prossimo al quale appartiene. I primi studi sull’adolescenza, guidati dal paradigma psicoanalitico, concepivano un adolescente fondamentalmente solo, angosciato dai cambiamenti e ribelle, che rifiutava i modelli offerti dai genitori in quanto appartenenti ad un mondo dal quale bisognava prendere le distanze, inadeguato ad aiutare e sostenere con il quale era necessario entrare spesso in conflitto (Winnicott, 1975). Gli studi più recenti, effettuati a partire da un’ottica più relazionale ed ecologica, a cui la life course perspective offre un importante contributo, concepiscono un’adolescenza più positiva e meno turbolenta e rivalutano il sostegno che le figure di riferimento all’interno della famiglia possono offrire. Ci sono però molte variabili che intervengono a determinare se effettivamente la famiglia è in grado di garantire aiuto e supporto all’adolescente. Non sempre i genitori costituiscono una “base sicura” a cui rivolgersi nel momento di difficoltà (Ardone, 1999). Ciò dipende prima di tutto dalla situazione della famiglia. Se ci sono problemi economici o il nucleo familiare non è più integro, l’adolescente non solo non potrà ricevere molto supporto, ma, al contrario, dovrà farsi carico di una serie di problemi che anticiperanno il suo ingresso nel mondo degli adulti anche se psicologicamente deve ancora crescere (Palmonari, 2001). La qualità delle relazioni familiari è di fondamentale importanza per garantire all’adolescente una transizione serena all’età adulta (Ardone, 1999). Scabini (1995) descrive diversi tipi di famiglia che si differenziano in base alla “distanza interpersonale” tra i suoi membri. Secondo questo modello “la natura di una relazione è definita dal grado di sovrapposizione, lontananza e condivisione (fusione) dei rispettivi campi psicologici” (Scabini, 1995, p.103). Se i confini tra i familiari sono rigidi, le distanze così ampie da “ostacolare o impedire la trasmissione di contenuti cognitivi e affettivi da una persona all’altra”, gli interessi differenti, le situazioni non condivisibili, ogni individuo rimane fuori dal campo psicologico dell’altro, allora la famiglia viene definita da Minuchin (in Scabini, 1995) disimpegnata. Quando i
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membri della famiglia elaborano insieme gli stessi contenuti mostrando scarsa individuazione, i confini interpersonali sono vaghi e confusi, i campi psicologici sono sovrapposti l’uno all’altro, si parla di famiglia invischiata. Infine, quando i familiari sono vicini psicologicamente fra loro, pur manifestando ognuno la propria identità distinta e mostrando allo stesso tempo autonomia individuale e sentimento di appartenenza, i confini sono flessibili e chiari, lo scambio di informazioni è incoraggiato e sostenuto, la famiglia è definita connessa. Non c’è una distanza interpersonale ottimale stabilita una volta per tutte, la sua funzionalità dipende dalla fase che la famiglia sta attraversando. Certamente però una modalità relazionale che incoraggia il confronto salvaguardando le diversità, che crea allo stesso tempo intesa ed unione, come quella che caratterizza le famiglie connesse, rappresenta una risorsa per i membri della famiglia e soprattutto per l’adolescente (Scabini, 1995). Secondo Steinberg lo stile educativo dei genitori (parenting) influenza lo sviluppo evolutivo e sociale e il benessere dei figli. Cicignani (2002) definisce il parenting come : “quell’insieme di atteggiamenti che il padre e la madre manifestano nei confronti dei figli e che, considerati globalmente, creano il clima emotivo nel quale i genitori attuano i propri comportamenti, influenzando sia i comportamenti specifici, volti ad ottenere determinati risultati educativi, sia i comportamenti non finalizzati come i gesti, i cambiamenti del tono della voce e le espressioni spontanee delle emozioni (Cicognani, 2002, p.19). Baumrind (ibidem) nei primi anni ’70 distinse tre stili educativi fondamentali: autoritario, permissivo e autorevole. Il genitori autoritari danno grande valore all’obbedienza e al conformismo, pretendono rispetto per se stessi e per i valori della famiglia. Le regole vengono imposte senza essere spiegate o giustificate e devono essere accettate incondizionatamente. Non viene incoraggiata l’autonomia e l’assunzione di posizioni proprie viene interpretata come un segno di ribellione e mancanza di rispetto, impedendo così la responsabilizzazione e interferendo nel processo di individuazione. I genitori permissivi sono tolleranti nei confronti dei figli, non hanno pretese nei loro confronti, non esercitano su di loro né controllo né autorità, considerandoli impedimenti alla libertà che possono compromettere uno sviluppo sano dell’adolescente. I genitori con uno stile educativo autorevole, invece, offrono sostegno e guida ai figli, sono sensibili ai loro bisogni, rivolgono loro richieste appropriate e ragionevoli, affrontano i problemi in modo razionale enfatizzando la funzione della comunicazione e dello scambio reciproco, incoraggiano lo sviluppo di una volontà autonoma, l’assunzione di responsabilità legate all’età. Questo stile, caratterizzato da alti livelli di accettazione e controllo, ha esiti più positivi rispetto a varie misure di competenza e salute mentale, fra cui l’adattamento, la maturità psicosociale, l’autostima, l’esplorazione dell’identità, la riuscita scolastica e il benessere psicologico, e fa sì che l’adolescente divenga più autonomo, con buona stima di sé e maggiore autocontrollo (Shucksmith, Hendry, Glendinning, 1995; Palmonari, 2001; Cicognani, 2002). Una simile linea educativa, inoltre, correla negativamente con l’adozione da parte dei figli di comportamenti delinquenziali e con la depressione (Steinberg, 2000; Cicognani, 2002). Uno stile genitoriale autoritario, caratterizzato da un alto livello di
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controllo e un basso livello di sostegno, può produrre problemi nella formazione dell’identità, suscettibilità alla pressione dei pari, bassa autostima (Shucksmith, Hendry, Glendinning, 1995). Maccoby e Martin, rielaborando i concetti di Baunrind, hanno cercato di definire lo stile educativo attraverso la combinazione di due dimensioni: la demandingness, cioè le richieste che i genitori fanno ai figli per integrarli nella società sollecitando comportamenti maturi ed esercitando controllo e supervisione, e la responsiveness, cioè la disponibilità ed il sostegno con cui i genitori accettano i bisogni e le richieste del figlio al fine di favorire l’individualità e l’affermazione di sé. Dall’incrocio delle due dimensioni sono stati ricavati quattro diversi stili: autorevole, rappresentato da alti livelli di entrambe le dimensioni, autoritario, in cui si ha un alto livello di controllo ma basso livello di sostegno, indulgente, in cui, viceversa, è bassa la demandingness e alta la responsiveness, ed infine negligente o indifferente, nel caso in cui i livelli di entrambe le dimensioni sia basso (Cicognani, 2002; Cicognani, Zani, 2003). Alle due dimensioni è stata aggiunta più tardi da Steinberg (2000) una terza, psychological autonomy granting, definita come la misura in cui i genitori incoraggiano il figlio a formare opinioni e credenze personali. Essa è importante soprattutto in adolescenza perché un alto livello di tale dimensione tutela il processo di individuazione e di separazione, consentendo l’acquisizione dell’autonomia emozionale da parte dell’adolescente. Durante questa fase dello sviluppo il controllo (demandingness) è soggetto a cambiamenti; infatti, si registra il passaggio da un tipo di relazione asimmetrica in cui il genitore esercita l’autorità, tipica dell’infanzia e della fanciullezza, ad una più simmetrica in cui il figlio acquisisce man mano che cresce sempre maggiore autonomia decisionale. Dunque, se il controllo è importante nella prima adolescenza (13-14 anni), è fondamentale che diminuisca nella media adolescenza (15-16 anni) per concedere all’adolescente di fare le proprie esperienze godendo di quelle positive e pagando di persona per quelle negative. Uno stile educativo incline al sostegno e in grado di incoraggiare l’indipendenza dell’adolescente porta ad una diminuzione dei conflitti familiari e a un aumento della soddisfazione e del benessere all’interno della famiglia (Cicognani, 2002). Risulta chiaro, alla luce dei numerosi studi svolti in questo campo, che lo stile genitoriale ha un impatto forte sull’adattamento degli adolescenti. Le ricerche effettuate da Shucksmith et al. (1995) hanno dimostrato che sintomi di malessere psicologico erano chiaramente associati con adolescenti provenienti da famiglie caratterizzate da relazioni disfunzionali tra i suoi membri, indipendentemente dal fatto che fossero intatte o meno e dal ceto di provenienza. I benefici dello stile autorevole e le conseguenze negative delle altre impostazioni educative sono dunque trasversali alle conformazioni della famiglia e ai vari livelli socio-economici (ibidem). Schneider (1998) conferma l’importanza dei fattori protettivi per la prevenzione dell’insorgenza della psicopatologia. Sulla stessa strada si era mosso trenta anni prima Kohlberg interessato alla possibilità di predire lo stato di salute in età adulta a partire dal comportamento nell’infanzia. Egli si augurava l’attenzione degli studiosi per queste tematiche attraverso analisi più approfondite di concetti come “resistenza (resilience) allo stress e invulnerabilità ai fattori di rischio in età precoce”
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(Schneider, 1998, p. 81). Una ricerca condotta da Stattin e Magnusson su una popolazione svedese ha evidenziato che i fattori di rischio in concomitanza di risorse emotive, cognitive e sociali hanno esiti meno negativi. Negli Stati Uniti i fattori protettivi più utilizzati risultano il locus of control interno e la presenza di relazioni interpersonali significative. Gli italiani, in base ai dati raccolti da Schnider e Manetti a Genova, sembrano più inclini, rispetto alla popolazione di oltre oceano, a rivolgersi in situazioni di stress a membri della loro stessa famiglia (ibidem). Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’adolescente attraversa una fase di particolare vulnerabilità, un percorso oggi più che mai caratterizzato da incertezze e rischi. Il passaggio all’età adulta, che avviene con la conclusione del complesso processo di costruzione dell’identità, è legato ad una costellazione di fattori del funzionamento familiare che possono ostacolare o facilitare tale transizione (Barbaranelli, Regalia, Pastorelli, 1998).
Sostegno e conflitto La nuova visione dell’adolescenza che si è andata strutturando negli ultimi anni ha permesso una rivalutazione del ruolo della famiglia nel garantire benessere e salute all’adolescente. La maggioranza degli adolescenti durante il processo di svincolamento e separazione dalla famiglia non vive come conflittuale il rapporto con i genitori (Buysse, 1997; Palmonari, 1997; Ardone, 1999). La qualità delle relazioni familiari influisce nel superamento dei problemi che caratterizzano inevitabilmente questa fase della vita (l’avere a che fare con un corpo che cambia e che spesso non piace, il frequente confronto con i coetanei, accompagnato dalla paura di possedere qualcosa in meno o di diverso rispetto agli altri). Numerose ricerche hanno dimostrato che i rapporti tra genitori e figli caratterizzati dalla presenza di supporto e coinvolgimento hanno come effetto un buon adattamento psicosociale dell’adolescente in termini di maggiori relazioni positive con i pari, migliori percorsi scolastici e più elevati livelli di autostima e autonomia, rispetto agli adolescenti che vivono in famiglie con bassi livelli di supporto (Gecas, Seff, 1990). Una ricerca di Marta (1995) ha avuto come principale obiettivo quello di individuare quegli aspetti del funzionamento familiare che determinano maggiormente il benessere psicosociale dei tardo-adolescenti. I risultati hanno evidenziato come la percezione da parte dei figli di essere supportati da parte dei genitori è correlata ad un basso punteggio di rischio e come sia la madre che il padre svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo adeguato dell’adolescente. L’adolescente che trascorre sempre più tempo fuori casa, che instaura rapporti stretti con persone estranee alla famiglia, che condivide sempre meno situazioni ed emozioni con i genitori, ha ancora estremo bisogno di sentirsi da loro accettato, capito e rispettato. L’esigenza che esprime è di costruire la propria autonomia sapendo di poter contare comunque sul sostegno psicologico della famiglia da cui si allontana. I genitori non devono interpretare l’allontanamento del figlio come una rottura dei rapporti, essi devono riuscire a farsi percepire presenti e disponibili ad ascoltare, nei
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tempi e nei modi che la sua emancipazione dalla loro tutela impone. I rapporti, dunque, cambiano divenendo più paritari e reciproci. Se gli interventi ed il punto di vista dell’adolescente non verranno trascurati, la sua partecipazione alla vita di famiglia potrà essere molto positiva (Palmonari, 2000). Le crescenti richieste di autonomia dell’adolescente e la volontà di mantenere il proprio controllo sul figlio generano spesso tensioni e conflitti. Generalmente però tali scontri, più frequenti nella prima adolescenza, si affievoliscono con il passare del tempo quando gli scambi all’interno della famiglia divengono più paritari e reciprocamente rispettosi. Sostenere significa riconoscere al figlio il diritto di portare a termine il suo processo di individuazione-separazione concedendogli una sempre maggiore libertà di decisione e di azione ma non lasciandolo solo. La presenza discreta ma costante del genitore permette al figlio di sentirsi libero di decidere ma al contempo di poter contare sulla famiglia qualora avesse bisogno di aiuto. Esasperare il conflitto, al contrario, significa impedire all’adolescente di trovare il proprio spazio di indipendenza mancando di rispetto alla sua richiesta di autonomia, contrastando il passaggio da modalità di interazione asimmetriche a modalità più paritarie e reciproche attraverso un processo graduale di rinegoziazione dei ruoli e delle relazioni specifico di questa fase dello sviluppo (ibidem). Cicognani e Zani (1999), supportate dall’evidenza dei risultati di numerose ricerche in proposito, sostengono che : “Un clima familiare caldo e di sostegno, in cui tutti i membri della famiglia si sentono a proprio agio nell’esprimere la propria individualità e le differenze d’opinione, è un contesto facilitante per lo sviluppo dell’adolescenza, dal punto di vista non solo dell’acquisizione di competenze personali e interpersonali e dello sviluppo dell’identità, ma anche per l’acquisizione di strategie adeguate a fronteggiare i compiti di sviluppo e per la salute e il benessere complessivo” (Cicognani, Zani, 1999, p. 23). L’adolescente, riconosciuto protagonista attivo del proprio processo di crescita (Coleman, Hendry, 1990), condivide questo compito con coloro che appartengono al suo ambiente di vita. Un contesto familiare caloroso e supportivo fornisce all’adolescente la fiducia in se stesso e le abilità che gli consentono di sentirsi competente anche al di fuori della famiglia facilitando così il suo percorso evolutivo (Ardone, 1999). Una notevole quantità di ricerche ha dimostrato che solo in una minoranza di famiglie i rapporti tra genitori e figli divengono in questo periodo fortemente conflittuali. Sembra esserci sostanziale accordo in famiglia sui valori importanti nella vita, ruolo dell’istruzione, credenze religiose e, anche se in misura minore, opinioni politiche (Palmonari, 1997). Durante l’adolescenza, tuttavia, è normale che si verifichino delle perturbazioni transitorie nelle relazioni con i genitori che assumono però l’aspetto di semplici disaccordi su tematiche che riguardano perlopiù la gestione della vita quotidiana e delle relazioni all’interno e al di fuori della famiglia.. Spesso le incongruenze si riferiscono al grado di autonomia decisionale che spetta all’adolescente con normale perplessità da parte del genitore che generalmente vorrebbe tenere sotto controllo il figlio per un tempo più lungo di quanto desideri quest’ultimo. Il modo in cui i genitori vivono questo distacco è destinato ad avere effetti rilevanti sull’andamento del processo di
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crescita e di autonomia dei figli stessi (ibidem). L’emancipazione dalle figure parentali non rappresenta una rottura delle relazioni familiari, ma una trasformazione di tali rapporti in direzione di una maggiore reciprocità. L’indipendenza che ne deriva garantisce libertà affettiva di instaurare nuove relazioni e libertà di assumersi la responsabilità di se stessi in diversi ambiti (Coleman, Hendry, 1990). Lamborn e Steinberg (in Cicognani, Zani, 2003) sostengono che gli adolescenti emozionalmente autonomi, coloro cioè che mostrano fiducia nella possibilità di raggiungere propri obiettivi, fissati senza le pressioni dei genitori o dei pari, considerando al tempo stesso gli scopi altrui, che percepiscono alti livelli di sostegno e disponibilità da parte dei genitori e risultano più competenti e meglio adattati socialmente, mentre gli adolescenti a rischio (depressi, con comportamenti devianti, con scarse abilità in campo scolastico) hanno alti livelli di autonomia ma descrivono i genitori come poco supportivi e disponibili. Per evitare che lo scontro si trasformi in conflitto doloroso e perpetuante il sistema parentale non deve sottrarsi “alla cura del dialogo, ossia a quella capacità degli adulti di negoziare con il figlio i significati che orientano la sua condotta nel mondo” (Ardone, 1999, p.71). Palmonari (1997) ritiene che la possibilità di mantenere relazioni molto strette coi genitori non sia in contrasto con la ricerca di autonomia da parte dei figli, al contrario, la vicinanza psicologica tra familiari che manifestano allo stesso tempo una propria identità distinta e sentimento di appartenenza è la principale caratteristica della famiglia connessa descritta da Scabini (1995) come la più funzionale. I genitori rappresentano, insieme al gruppo dei pari, un insostituibile modello di riferimento anche in questa fase del percorso di crescita. Quello fra ambizione all’autonomia e desiderio di supporto è un rapporto dialettico: l’adolescente non sopporta l’interessamento dei genitori percepiti come invadenti e intrusivi, poi si lamenta amaramente perché nessuno sembra prendersi cura di lui. La qualità delle relazioni familiari è cruciale nel determinare la competenza e la fiducia con cui gli adolescenti affrontano il periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta (Palmonari, 1997). Il supporto familiare contribuisce a chiarire e semplificare il percorso che l’adolescente sta compiendo permettendogli di condividere situazioni complesse e affrontando gli ostacoli con maggiore serenità e determinazione. Gli effetti positivi dell’armonia familiare sugli esiti evolutivi dell’adolescente sono un buon adattamento sociale, benessere psicologico, autostima e fiducia in se stesso (Cicognani, Zani, 2003).
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