L’interesse per il Mobbing ed il problema della terminologia

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L’INTERESSE PER IL MOBBING ED IL PROBLEMA DELLA TERMINOLOGIA Un ambiente di lavoro ostile ha dei costi molto alti in termini di sofferenza umana e di efficienza lavorativa. PerFormat desidera ringraziare l'autrice Sara Casarosa per aver dato la disponibilità alla pubblicazione di questo articolo. Luglio 2005 Sara Casarosa Dott.ssa in Psicologia

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Il quadro storico Negli ultimi dieci anni l’argomento mobbing ha assunto un rilievo particolare in diversi ambiti disciplinari come la psicologia, la sociologia, la medicina ed il diritto, infatti la violenza sul posto di lavoro è un problema presente in più parti delle organizzazioni ed in vari settori dell’economia (Argentero, Bonfiglio e Zanaletti, 2004). La diffusione del fenomeno a livello europeo è stata considerata “marginale” per diverso tempo, praticamente fino al 1997, anno in cui la Comunità Europea, attraverso una sua Commissione, ha problematicamente sollevato la questione; secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 1998 il numero totale dei mobbizzati a livello europeo ha raggiunto livelli molto alti 1 (Murru, 2004). Un ambiente di lavoro ostile ha dei costi molto alti in termini di sofferenza umana e di efficienza lavorativa, ma gli studi sul conflitto interpersonale nel lavoro e sulla qualità della vita lavorativa sono stati relativamente pochi in ambito europeo, fatta eccezione per l’impulso che c’è stato nella penisola scandinava nell’ultimo decennio (Einarsen, Raknes e Matthiesen, 1994). Le ricerche sul mobbing sono state avviate con un certo ritardo rispetto agli studi effettuati su altre forme di aggressione e vessazione esercitate sul luogo di lavoro, come la violenza sessuale o la discriminazione razziale. La letteratura internazionale e le ricerche scientifiche sul tema, notevolmente intensificate negli ultimi anni, pur avendo permesso una migliore comprensione del fenomeno, non possono essere considerate tanto esaustive da creare un corpus teorico ed empirico sufficientemente sistematico su questo tema (Depolo, 2003). “The harassed worker” (Il lavoratore molestato), in questo modo Brodsky nel 1976 intitola il primo libro riferito al tema mobbing. La pubblicazione dello psichiatra americano non ha avuto grande richiamo tra gli studiosi del tempo e nella società, infatti egli non è stato in grado di distinguere quello che oggi viene chiamato mobbing dal semplice stress lavorativo ed ha guardato al lavoratore come vittima della sua povertà e non tanto come vittima del sistema relazionale in cui è inserito (Leymann, 1996). In realtà, il termine con il quale il grande pubblico ha imparato a conoscere la violenza psicologica sul luogo di lavoro, è stato coniato nel 1963 dall’etologo e premio Nobel Konrad Lorenz, il quale ha studiato il comportamento aggressivo negli animali ed ha individuato con il termine “mobbing” la reazione di odio che negli animali induce l’attacco collettivo di più creature deboli contro il più forte (1986). In queste parole è possibile riconoscere un parallelismo con ciò che si intende per mobbing sul posto di lavoro, dove spesso la vessazione viene perpetrata dal gruppo attraverso comunicazioni offensive che solo in casi estremi si traducono in vere e proprie aggressioni fisiche. Al termine mobbing sono state attribuite diverse derivazioni: dal sostantivo inglese mob che significa “moltitudine in tumulto”, al verbo to mob, che letteralmente significa “attaccare”, fino alla locuzione latina mobile vulgus, come “moto di gentaglia” (La Rosa, 2004). Non a caso in inglese il linciaggio è definito mob low (La Rosa, 2004).

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In base alla ricerca effettuata dal 1996 al 2000 (intitolata “Violence, bullying and harassment in the workplace”) da parte dell’European Foundation for the Improvement of Living Conditions, il fenomeno del mobbing risulta molto frequente a livello europeo. I dati evidenziano livelli alti soprattutto in Finlandia, Svezia, Gran Bretagna e Danimarca, nonostante in questi paesi l’attenzione legislativa per il fenomeno sia consolidata da anni (Murru, 2004). I dati sono consultabili sul sito www.eurofound.ie.

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Il termine utilizzato in etologia viene introdotto successivamente da Heinemann (1972) nell’ambito della ricerca sull’aggressività tra bambini in età scolare, come sinonimo di bullying o bullismo. L’interesse verso l’argomento si è sviluppato principalmente in Scandinavia, dove solo agli inizi degli anni ’80, il tedesco Leymann parla di mobbing con specifico riferimento alla ripetuta e prolungata vessazione di natura psicologica esercitata nel contesto lavorativo; egli, trasferitosi in Svezia, intraprende delle ricerche a partire dal 1982, evidenziando i danni psico-fisici dei lavoratori sottoposti ad un comportamento persecutorio da parte dei capi o colleghi ed arriva a scrivere che “il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa” (Leymann, 1996, p. 168). Leymann è stato il primo studioso a tracciare un quadro generale del fenomeno descrivendone le varie caratteristiche, l’epidemiologia, gli effetti sulla salute ed i metodi di prevenzione. Occorre aspettare il documentario radiofonico promosso dalla giornalista Andrea Adams e la pubblicazione del suo libro “Bullying at work” (1992), affinché l’argomento riceva l’attenzione dell’opinione pubblica inglese (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003). Come sottolineato da Elisabetta Maier (2003), sulla scia degli studi di Leymann, sono state condotte svariate ricerche anche in altre nazioni come in Germania ed Austria (Zapf, 1993; Resch e Schubinski, 1996; Niedl, 1996; Schuster, 1996, 1999), in Francia (Hirigoyen, 2000) ed in Danimarca (Agervold e Mikkelsen, 2000). E’ evidente che in questi contesti si è sviluppato, prima che in altri, un terreno fertile per la tutela dei lavoratori e la promozione della salute della vita lavorativa. Analizzando le opere divulgative e le ricerche condotte nel contesto italiano, come per esempio Ege (1996, 1997, 1998), Depolo e Baldassarri, (1999), Ascenzi e Bergaglio (2000), Casilli (2000), Depolo e Maier (2000), Gilioli e Gilioli (2000), e Carrettin e Recupero (2001), è possibile notare come il mobbing sia un fenomeno trattato scientificamente solo in tempi recenti. Perché parlare di mobbing? Come è stato precedentemente sottolineato, il mobbing, pur essendo un fenomeno antico, soltanto oggi suscita un grande interesse; molto probabilmente questo aspetto è legato alla non casuale contemporaneità fra la diffusione di questo disagio ed i numerosi cambiamenti che hanno interessato il mondo del lavoro negli ultimi decenni (Sheehan, 1999). Come sottolinea Accornero (2000), è evidente il motivo per cui il secolo XX sarà ricordato come il secolo del lavoro e dei lavoratori; è un secolo che ha saturato ed accorciato sia il tempo del lavoro sia la vita lavorativa, che ha inventato bisogni nuovi e prodotto servizi nuovissimi, che ha volatilizzato il lavoro e cambiato l’impresa. Agli inizi del XX secolo, con l’avvio di quella che sarà poi etichettata società industriale, con il taylorismo e l’ottica definita one best way in quanto sistema fondato su basi scientifiche ed oggettive, con il sorgere delle grandi imprese, del lavoro su larga scala e della produzione di massa, le attenzioni sono state rivolte alle condizioni di lavoro a fini esclusivamente di maggiore efficienza, rendimento e produttività. Detta attenzione è stata però legata essenzialmente alle condizioni fisiche e fisiologiche, al di là delle quali si “nasconde” l’insieme ancora indistinto dei

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malesseri relativi alla sicurezza, alla qualità ed all’intensità del lavoro, fino al mobbing stesso (La Rosa, 2004). Oggi si parla di azienda snella, piatta, di outsoursing, di globalizzazione e flessibilità; vengono richieste, soprattutto in contesti altamente specializzati, un impegno professionale nuovo, la conoscenza di competenze strategiche e metacompetenze, skills sociali ed anche un coinvolgimento consensuale che richiede più che fatica fisica, una fatica mentale. Accornero (2000) puntualizza l’importanza di cogliere questo passaggio che sta mutando i rapporti di lavoro, più che dei contenuti di lavoro, nella consapevolezza che questo aspetto potrebbe sciogliere antichi dilemmi in fatto di professionalità ma creare anche nuovi assilli in fatto di garanzie. Infatti, il mondo del lavoro è investito da trasformazioni che, senza essere pensate e rivolte contro i lavoratori, avranno notevoli effetti su questi ultimi. Nel vortice delle attuali trasformazioni, il rapporto tra salute e lavoro risulta profondamente a rischio (Cassitto, 2001); il concetto di lavoro e di interazione sociale sul posto di lavoro concorre a sviluppare sia la soddisfazione che l’identità personale e sociale dell’uomo, il quale fonda gran parte del concetto di sé sulla qualità delle relazioni che intrattiene con i colleghi. Il lavoro rappresenta per l’individuo adulto la principale fonte di sostentamento (Einarsen e Raknes, 1997); vi sono alcuni aspetti che rendono unico il lavoro, infatti viene fatto riferimento ad una risorsa scarsa, cioè una risorsa non sostituibile da nulla (il lavoro si sostituisce con altro lavoro). L’importanza attribuita allo svolgimento di un’attività ha favorito e favorisce il mito del posto di lavoro. Trovare un’occupazione appare come il raggiungimento di una meta tra le più ambite possibili; in questo modo pensare e tentare di cambiare lavoro è un’impresa difficile dato che il mercato dell’occupazione è molto ristretto e difficile da affrontare (Menelao, Della Porta e Rindonone, 2001). Queste dinamiche economiche brevemente delineate hanno contribuito a far esplodere ad ogni livello la questione della violenza sul luogo di lavoro; ecco perché non è poi così casuale che si sia iniziato a parlare di mobbing a partire dagli anni Ottanta e Novanta (Gilioli e Gilioli, 2000). Il problema della definizione La violenza psicologica o mobbing rappresenta uno strumento di prevaricazione e vessazione potentissimo a disposizione di chi opera nelle organizzazioni, dal top manager al collega in posizione gerarchica più bassa. Le strategie d’attuazione possono essere svariate e sofisticate e gli effetti disastrosi: il mobbing è un’arma a doppio taglio, infatti è evidente che dopo non ci sono né vinti né vincitori (Depolo, 2003). Il problema mobbing, come sottolinea Depolo (2003), è molto più complesso e sfaccettato di quanto può emergere attraverso un’analisi immediata e superficiale; infatti, nonostante gli evidenti sviluppi della ricerca, la conoscenza sul tema presenta ancora delle lacune, alcune delle quali hanno fortemente rallentato l’assunzione, soprattutto a livello internazionale, di un modello e di una definizione comune a cui poter far riferimento. La prima problematica consiste principalmente nel riconoscimento di una precisa e condivisa terminologia; nella letteratura americana vengono utilizzate svariate espressioni quali workplace harassment (Brodsky, 1976), employee abuse (Bassman, 1992), petty tyranny (Ashforth, 1994), mistreatment at work (Price Spratlen, 1995), bullying (Einarsen e Skogstad, 1996) e victimization (Einarsen e Raknes, 1997).

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Le espressioni usate come sinonimi di mobbing sono molteplici, in particolare nei testi americani e nei numerosi siti Web2 è possibile trovare riferimenti quali to gang up, formare un gruppo di aggressori, work abuse, abuso sul posto di lavoro, whistleblowing, screditare attraverso delazione (Gilioli e Gilioli, 2000). Nella letteratura francese viene frequentemente usata l’espressione harcèlement au travail o harcèlement dans l’entreprise (Hirigoyen, 2000), mentre in Olanda è spesso usato il termine pesten (Casilli, 2000) ed in Giappone ijiame (Smith e Brian, 2000). In Italia, come sottolineano Gilioli e Gilioli (2000), è molto forte la tendenza all’anglismo dato che la stampa ed i media hanno contribuito ampiamente alla divulgazione del termine mobbing, nonostante siano state proposte altre alternative come terrorismo psicologico, molestie morali e vittimizzazione psicosociale. In realtà, la difficoltà maggiore a livello internazionale va ricercata nell’uso ambiguo che viene fatto nel Regno Unito del termine bullying, sia per indicare la violenza psicologica sul lavoro che quella esercitata dai bambini nelle scuole (Maier, 2002). Rayner (1997) fornisce una spiegazione dell’uso anglosassone del termine bullying per indicare le vessazioni sul lavoro; in un suo articolo l’autrice afferma che in Inghilterra è molto più frequente una violenza fatta da un superiore e quindi il termine bullying permette di differenziare questa azione dalla molestia esercitata tra colleghi parigrado, situazione molto più frequente nei paesi scandinavi. Come già evidenziato in precedenza, la conoscenza sulla tematica presenta ancora delle zone d’ombra, soprattutto per quanto riguarda l’assunzione di una definizione condivisa; a tal proposito appare necessario esaminare sinteticamente alcune definizioni di mobbing proposte da vari autori sul tema, tratte da “Bullying and emotional abuse in the workplace” di Einarsen e colleghi (2003, p. 33):  Harassment (Brodsky, 1976) “Tentativo ripetuto e persistente di una persona di tormentare, logorare o ottenere una reazione da parte di un altro individuo. E’ un trattamento che con persistenza tende a provocare, mettere sotto pressione, spaventare, intimorire o creare altrimenti un disagio in un’altra persona”.  Workplace deviance (Robinson e Bennett, 1995) “Comportamento intenzionale che viola importanti norme aziendali e, così facendo, minaccia il benessere dell’organizzazione o dei suoi membri o di entrambi”.  Workplace aggression (Baron e Neuman, 1996) “Comportamento di alcuni individui teso a danneggiare coloro con i quali lavorano o hanno lavorato, o l’organizzazione nella quale attualmente lavorano o dove hanno precedentemente

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I siti da consultare per approfondire il tema del mobbing sono centinaia, in particolare quelli scandinavi e quelli in lingua inglese. Da visitare: www.leymann.se (il sito dove si può trovare The Mobbing Enciclopedia di Heinz Leymann); www.freeweb.org/associazioni/mobby2000 (sito di un gruppo di auto-aiuto che fa riferimento alla Clinica del lavoro di Milano); www.aziende.iol.it/prima (è il sito di Prima, l’associazione di Bologna fondata da Harald Ege); www.successunlimited.co.uk (sito inglese ricco di notizie creato da Tim Field); www.hec.unil.ch/depart/deep/cahiers/TEXTES/txt-9907.pdf (uno studio dell’Università di Losanna sulle conseguenze mediche e psichiche del mobbing).

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lavorato. Questo comportamento è intenzionale e può causare un danno psicologico o anche fisico”.  Generalised workplace abuse (Richman, Rospenda, Nawyn e Flaherty, 1997) “Violazione dell’integrità fisica, psicologica e/o professionale del lavoratore tramite relazioni discriminatorie che non hanno un fine sessuale ma tendono a causare uno squilibrio psicologico”.  Workplace incivility (Andersson e Pearson, 1999) “Comportamento deviante, subdolo ed intenso caratterizzato da un’ambigua intenzionalità di danneggiare la vittima violando le regole lavorative del rispetto reciproco. I comportamenti incivili sono tipicamente maleducati e scortesi, manifestando una mancanza di riguardo per gli altri”.  Abusive supervision (Tepper, 2000) “Percezioni dei dipendenti riguardo al grado di tolleranza che i supervisori mostrano nei confronti di manifesti comportamenti ostili sia verbali che non verbali, fatta eccezione per il contatto fisico”.  Ethnic harassment (Schneider, Hitlan e Radhakrishnan, 2000) “Condotta verbale terrorizzante o comportamento emarginante che ha una componente etnica e stigmatizza un individuo a causa della razza di appartenenza. Questi comportamenti possono essere messi in atto giornalmente e contribuire alla creazione di un ambiente ostile, in particolare per le minoranze etniche”.  Workplace bullying (Namie e Namie, 2000) “E’ l’intenzionale, dannoso e ripetuto maltrattamento di un individuo-bersaglio (la vittima) da parte del bullo (l’aggressore) che è guidato dal suo bisogno di controllo sulla vittima. Comprende ogni tipo di maltrattamento sul lavoro”.  Emotional abuse at work (Keashly, 2001) “Interazioni fra i membri dell’organizzazione caratterizzate da comportamenti ostili ripetuti sia verbali che non verbali, spesso non fisici, diretti ad una o più persone allo scopo di attaccare la sua autostima e la sua figura di lavoratore competente”. Nel corso degli anni altri autori interessati al fenomeno hanno elaborato alcune definizioni:  Einarsen, Raknes e Matthiesen (1994) “Il bullying e la violenza sul lavoro sono situazioni in cui il lavoratore o il superiore viene sistematicamente maltrattato o reso vittima da colleghi o supervisori attraverso azioni negative ripetute come rimproveri offensivi, insulti, offese verbali, punzecchiature, isolamento sociale oppure tramite il costante degrado del proprio lavoro e dei propri sforzi. In questa situazione il lavoratore percepisce di non potersi difendere in alcun modo”.

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 Bjorkqvist, Osterman, Hjelt-Back (1994) “Azioni ripetute che portano a disagi mentali, a volte anche fisici, e dirette verso una o più persone che, per alcune ragioni, non sono in grado di difendersi. Questo tipo di violenza esula dalla violenza sessuale che spesso consiste in un unico episodio; il bullying non è né un singolo episodio né un conflitto a breve termine tra individui con pari forze che, una volta terminato, ripristina l’equilibrio. Il bullying è una forma di aggressione a lungo termine diretta verso una persona che non è capace di difendersi e che porta alla sua vittimizzazione. La vittima è esposta ad una escalation dell’aggressione che causa la perdita della stima di sé ed un crescente stress mentale”.  Leymann (1996) “Comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzanti”.  Zapf (1999) “Il mobbing è un comportamento sociale negativo, una sottospecie di stressor sociale sul lavoro. Esso infatti è relativo ad una relazione sociale ma ciò che lo differenzia da un vero o proprio stressor è il suo verificarsi solo in situazioni di disuguaglianza di potere ed in modo frequente e prolungato. Diversamente dagli altri tipi di stressor sociali, quindi, il mobbing è un conflitto protratto nel tempo, esercitato verso un individuo-bersaglio, la cui gravità aumenta progressivamente”. Attualmente la maggior parte degli esponenti sul tema concordano (Majer e Giorgi, 2004) con la definizione proposta da Einarsen et al., in “Bullying and emotional abuse in the workplace” (2003, p. 15): “ Il mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica, una forma di offesa morale, volta a spingere una persona alla sua esclusione dal contesto lavorativo o danneggiare alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione. Per etichettare come mobbing determinate attività e processi, i comportamenti di vessazione devono essere esercitati ripetutamente e regolarmente (per esempio una volta alla settimana) e per un certo periodo di tempo (per esempio per almeno 6 mesi). Il mobbing è un processo di intensificazione di un conflitto (escalation) nel corso del quale una persona si trova in una posizione di inferiorità ed è vittima di sistematiche azioni negative da parte di uno o più aggressori. Il mobbing non si riferisce né ad un conflitto scaturito da un incidente o da evento isolato né ad un conflitto in cui tra aggressore e vittima intercorre la stessa relazione di potere”. I concetti affini Il termine violenza, pur essendo un termine singolare, si presenta in una molteplicità di modi e di manifestazioni (Courcy, 2004), infatti sul posto di lavoro possono essere riscontrate altre forme di violenza che comunque non vanno considerate equivalenti del mobbing.

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Il bullismo La difficoltà nel trovare una definizione specifica del mobbing è legata in parte alle prime ricerche sul bullying o bullismo ed in parte, come è stato precedentemente sottolineato, al fatto che terminologie differenti vengono usate per indicare lo stesso fenomeno (Maier, 2002). Negli ultimi 30 anni un’area d’interesse per la psicologia sociale è stata quella del bullismo nelle scuole; infatti in Scandinavia e nel Regno Unito sono state avviate ricerche sistematiche sul comportamento aggressivo dei bambini in età scolare (Heinemann, 1972; Olweus, 1996). In questi studi, il fenomeno che va sotto il nome di bullying o bullismo è descritto come un comportamento distruttivo dove le azioni negative vengono messe in atto da un piccolo gruppo di bambini contro un altro che non può difendersi. Se questa violenza viene prolungata nel tempo può portare la vittima alla perdita di autostima ed allo stress. Il modello causale che ha guidato la ricerca sul bullismo è stato di carattere disposizionale, quindi si ritiene che una persona promuova in ogni situazione lo stesso pattern di comportamento e conseguentemente essere un bullo viene visto come un tratto stabile della personalità; il profilo tipico del bullo delinea una persona che non ha acquisito il valore del rispetto degli altri, aggressiva ed incapace di provare empatia (Bjorkqvist et al., 1994a). Nell’ambito delle ricerche promosse fin dagli anni ’80 (Bjorkqvist, Osterman e Lagerspetz, 1994), sono state fatte considerazioni interessanti circa le diverse strategie in relazione al genere ed all’età. Nei bambini piccoli l’aggressività viene espressa fisicamente, mentre, con lo svilupparsi delle competenze verbali e sociali, prevalgono modalità più sofisticate. Nelle ragazze, a partire indicativamente dagli 11 anni, vengono attuate prevalentemente strategie vessatorie più indirette come la diffusione di false notizie e l’esclusione dal gruppo dei pari. Il bullismo è quindi un fenomeno che può, nelle sue caratteristiche fondamentali, essere considerato molto simile al mobbing, anche se alcune differenze non sono trascurabili. In primo luogo, il mobbing è una forma di molestia tra individui adulti all’interno di un contesto lavorativo e non tra bambini in età scolare; inoltre nel caso del bullismo la relazione è caratterizzata da una disparità di natura fisica mentre nel mobbing il riferimento va alle posizioni gerarchiche ricoperte. Nel mobbing, generalmente, si assiste ad un gruppo di aggressori (Zapf, Knorz e Kulla, 1996) contro una precisa vittima, il capro espiatorio, invece nel bullying risulta più frequente individuare un singolo aggressore contro una o più vittime. Altro aspetto discriminante tra le due forme d’interazione conflittuale può essere ricercato nel tipo di azioni messe in atto; infatti nel bullying prevalgono azioni di tipo fisico, mentre nel mobbing risultano maggiormente frequenti azioni sofisticate come l’isolamento ed il degrado sociale. Altra fondamentale differenza è rintracciabile nei modelli di riferimento per la spiegazione dei due fenomeni descritti; infatti, come avremo modo di vedere in seguito, la violenza psicologica sul lavoro è stata recentemente spiegata a partire da modelli causali basati su fattori contestuali e sociali, diversamente per il bullying le cause sono sempre state ricercate in tratti stabili della personalità (Maier, 2003). La violenza sessuale Il tema delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro è stato oggetto di molti studi principalmente negli Stati Uniti (Bassino, 1999), ma dagli anni ’90 è al centro anche dei dibattiti nazionali ed europei.

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Come sottolinea Depolo (2003), la ricerca scientifica su questa problematica ha fatto luce su aspetti determinanti come i comportamenti da definire molestie sessuali, le differenze di genere, i fattori che concorrono a causare questo fenomeno e le conseguenze negative per il molestato e per l’azienda. Esaminando la letteratura internazionale sulla materia, è evidente la tendenza a non considerare la violenza sessuale come un strategia di mobbing (Brodsky, 1976; Bjorkqvist et al., 1994a; Einarsen e Skogstad, 1996; Einarsen, 2000); questo ultimo si distinguerebbe principalmente per il fatto di essere esercitato tramite strategie vessatorie articolate in comportamenti subdoli ed offensivi reiterati nel tempo. E’ evidente che la violenza sessuale non può essere considerata tipica del contesto lavorativo, e pertanto non deve essere ritenuta sinonimo di mobbing (Bjorkqvist et al., 1994a). In alcuni casi certe forme di vessazione che usano come mezzo di oppressione, oltre al sesso, l’identità sessuale o la razza, pur non costituendo un aspetto tipico del mobbing, possono diventare modalità utilizzate dal mobber per raggiungere il proprio scopo (Olweus, 1996; Gilioli e Gilioli, 2000). Risulta quindi evidente che le attenzioni indesiderate di natura sessuale comportano gravi conseguenze per il benessere della vittima, per la qualità del lavoro e per i costi dell’azienda. Rimane comunque una forte analogia di base tra violenza e molestia, tanto che Casilli (2000) si riferisce al termine stupro morale per sottolineare la sensazione di vergogna che la vittima manifesta in entrambe le situazioni. Il bossing Il mobbing in questo caso non è legato a delle dinamiche sociali e ad un conflitto interpersonale, ma scaturisce unicamente dalla necessità dell’azienda di ridurre il personale; quindi il bossing rappresenta una particolare forma di mobbing verticale pianificato direttamente dai superiori o dai dirigenti dell’azienda, pertanto può essere definito come una vera e propria strategia mirata all’espulsione degli impiegati. Proprio alla luce di quanto evidenziato risulta chiaro il motivo per cui al fenomeno manchi una caratteristica tipica del mobbing, ovvero l’atteggiamento di esclusione da parte dell’intero gruppo di lavoro (Grieco et al., 1997). In questa forma di vessazione, alcune delle azioni prevalenti sono la dequalificazione del ruolo professionale, il demansionamento, l’esautoramento, il sottoutilizzo delle abilità professionali (Maier, 2002). Al giorno d’oggi il diritto dei lavoratori rende molto difficile per un’azienda licenziare qualcuno senza problemi; in questi casi si gioca ad ogni livello possibile, arrivando anche ad attuare una vera e propria strategia finalizzata a distruggere i dipendenti o un dipendente specifico. Ege (1996) sulla base di alcuni casi esaminati in Italia, ritiene che il mobbing pianificato sia un fenomeno molto più diffuso di quanto Leymann (1996) abbia sostenuto in alcune pubblicazioni e che addirittura in Italia vi siano delle condizioni favorevoli allo sviluppo di questa pratica. Infatti, l’elevato livello di disoccupazione e la conseguente paura di perdere il proprio posto di lavoro, sono un terreno fertile affinché la pressione esercitata dalle minacce del datore di lavoro diventi un reale strumento di bossing.

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Il conflitto Il mobbing può essere considerato come un fenomeno che si evolve a partire da un conflitto quotidiano non efficacemente risolto e si differenzia da questo ultimo per il suo carattere ripetitivo e protratto nel tempo (Leymann, 1996). Va notato che il conflitto di per sé non rappresenta automaticamente una condizione negativa e controproducente, ma come scrive Hirigoyen (2000, p. 55), “può agire da stimolo per un individuo a dare il meglio di sé” ed indurre il gruppo ad una riflessione sulle cause del problema per trovare una proficua soluzione. Ci sono diversi fattori che possono influenzare lo sviluppo del conflitto nell’ambito lavorativo; questi possono essere ricondotti principalmente ad elementi che dipendono dalla natura stessa dell’impiego, dal proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, dalla struttura dell’ organizzazione, da elementi legati alla carriera e dalla natura del rapporto con i superiori, i subordinati, i colleghi ed i clienti. I comportamenti offensivi possono assumere varie forme, che vanno dall’attacco personale aperto ed aggressivo al commento lesivo quotidiano; un’offesa isolata di solito causa solamente un’irritazione passeggera, ma se l’episodio si ripete con una certa frequenza, è probabile che gli effetti siano più dolorosi e duraturi. Gli attacchi e le offese possono anche essere reiterati e diventare un aspetto costante della relazione. E’ in questa occasione, e cioè quando il conflitto non viene gestito adeguatamente, che si può apertamente parlare di mobbing (Hirigoyen, 2000). E’ chiaro che il lavoro crea conflitti in quanto esso ha una natura sostanzialmente conflittogena 3, ma si può anche considerare il fatto che vi sia una progressiva difficoltà della nostra società a mitigare le relazioni interpersonali. Il conflitto nel lavoro non rappresenta un’acquisizione od un’anomalia dei rapporti interpersonali, quanto il riemergere di una parte di noi che si era assopita o sedimentata sotto la regolamentazione sociale (Marocci, 1996). Come afferma Spaltro (1990) un nemico è necessario, infatti la crescita psicologica di una persona non avviene in un ambiente caratterizzato da persone amorevolmente vicine, bensì in un contesto sociale dove c’è spazio per il confronto ed il contrasto; è in questa ottica che l’altro diventa un capro espiatorio, con la funzione di raccogliere la rabbia che l’individuo non riesce ad esternare verso quelle persone ritenute responsabili ma non immediatamente presenti. In questi processi, l’espressione verbale è il mezzo privilegiato ed esclusivo del litigio nel lavoro. Le inibizioni sociali impediscono al verbo di trasformarsi in atto; questo è attribuibile soprattutto al fatto che la cultura, oggi più che mai, ha reso la comunicazione un mezzo privilegiato per far valere le idee, per indirizzare la violenza in modo socialmente accettabile anche se sublimato. Infatti, la violenza comunicativa non necessariamente determina un danno minore della violenza fisica (Lazzari, 2001). Chiaramente far riferimento al conflitto nelle organizzazioni spinge a prendere brevemente in considerazione il punto chiave tra relazione e potere. Se un soggetto interagisce con un altro in modo tale che l’aumento di potere dell’uno corrisponda alla diminuzione di potere dell’altro, abbiamo una qualità di potere ripartitivo o semaforico, cioè a somma zero (mors tua vita mea). Questo tipo di relazione concepisce il potere come un’entità da ripartire tra i soggetti in questione, 3

Marocci (1994) scrive che organizzare significa massimizzare l’utilità che deriva dai conflitti e dalle relazioni interpersonali, sociali e collettive.

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in quanto fissa ed indipendente. Se invece un soggetto interagisce con un altro in modo tale che l’aumento di potere di uno corrisponda all’aumento di potere dell’altro, si può parlare di potere distributivo, cioè a somma variabile (vita tua vita mea). In questa ottica il potere viene visto come un’entità variabile, da distribuire momento per momento, e strettamente dipendente dalla relazione tra i due soggetti (Spaltro, 2004). Nel considerare l’esistenza del conflitto alla base del rapporto lavorativo, va sottolineato che lo scopo della psicologia non è certo l’abolizione di questo ultimo, ma piuttosto quello di studiarlo e di intervenire. In questo modo, con un approccio soggettivo, il conflitto può diventare utile e non dannoso (Marocci, 1996). Lo stress La parola stress deriva dal latino strictus, che significa stretto e dal francese estreme, che significa situazione di tensione ed oppressione. Nella medicina e nella psicologia il termine stress è stato introdotto negli anni ‘30 da Hans Selye che molti anni dopo, in risposta all’Organizzazione Mondiale della Sanità, definisce lo stress o sindrome generale di adattamento (SGA) come una reazione aspecifica4 del corpo a qualunque5 esigenza esterna (1976). Dato che tutti i fattori che agiscono su di noi possono provocare un mutamento della risposta normale e che, quindi, qualsiasi sollecitazione esterna provoca una risposta di adattamento, si può affermare che un certo livello di stress è sempre presente in noi, ma non deve superare un determinato limite. In riferimento a questo aspetto Lancioni (1996, p. 89) scrive che “lo stress può essere considerato come una sollecitazione che permette di agire esibendo maggiore attenzione e carica, perché consente di mantenersi perfettamente vigili durante la prestazione. Contemporaneamente però può condurre il soggetto a sostenere gravi costi umani, poiché comporta danni psicofisici se egli non riesce a gestirne la dinamica in termini di durata nel tempo e di percezione soggettiva”. Difatti si parla di stress positivo e di stress negativo per distinguere la normale reazione del corpo, i processi comportamentali emotivi e fisici che aumentano la sensazione di benessere del soggetto da una situazione di esaurimento, di costante depressione e sollecitazione (La Rosa, 2004). Se inizialmente gli studi nell’area dello stress sono stati focalizzati su reazioni di tipo fisiologico e biologico, successivamente l’attenzione della ricerca si è spostata verso l’indagine delle reazioni psicologiche e comportamentali di fronte a stimoli di natura sociale. Infatti, fin dagli anni ’70, c’è stato un forte impulso nella ricerca per studiare il contesto sociale come uno degli ambienti maggiormente in grado di attivare delle risposte di stress. L’interesse delle scienze del comportamento per il fenomeno è cresciuto sempre più negli ultimi decenni, soprattutto in seguito alle scoperte fatte in merito alla capacità di stati psichici di modificare, in modo sostanziale, alcuni importanti parametri fisiopatologici. Attraverso svariate ricerche è stato 4

Selye evidenzia l’esistenza di un meccanismo complesso di risposta dell’organismo che elude la tradizionale visione secondo la quale un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa; infatti, nell’eziologia tradizionale si è soliti considerare qualsiasi richiesta ambientale come in grado di attivare risposte specifiche. Viene dato rilievo non tanto alla natura ma all’intensità della richiesta; ecco perché anche uno stimolo intensamente piacevole è in grado di attivare una SGA (Favretto, 1994). 5 Selye indica che stimoli pur diversi sono in grado di attivare una medesima risposta; viene quindi enfatizzato il fatto che non soltanto gli eventi straordinari sono in grado di attivare una SGA, ma anche richieste ambientali solite, se accentuate (Favretto, 1994).

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evidenziato che situazioni di stress psicosociale, se ripetute e prolungate nel tempo, producono danni funzionali e strutturali. In sostanza, affrontare un problema particolarmente complesso o adattarsi ad una situazione psicosociale ostica, nel tentativo di ristabilire un equilibrio omeostatico tra l’organismo e l’ambiente, comporta l’attivazione degli stessi meccanismi fisiologici di risposta allo stress che si manifestano di fronte ad una situazione fisica estremamente nociva (Favretto, 1994). Negli ultimi anni, come sottolinea Maier (2003), l’attenzione è stata incentrata anche verso lo studio di stimoli di natura situazionale legati all’ambiente di lavoro; infatti, alcune ricerche recenti (Zapf et al., 1996) hanno dimostrato che nell’ambiente lavorativo stressor di tipo sociorelazionali, ovvero conflitti con superiori o colleghi, e stressor legati al compito, sono responsabili di patologie psicosomatiche e burnout. Un campo poco indagato ma di particolare interesse è quello relativo al legame tra stress e mobbing; questi due fenomeni sono strettamente legati ed è quindi giusto indagare in due direzioni contemporaneamente: da una lato come lo stress possa causare mobbing e dall’altro come il mobbing possa produrre stress (Ege e Lancioni, 1998). Per molto tempo il mobbing è stato studiato all’interno della ricerca sullo stress psico-fisico e, come sottolinea Leymann (1996), l’equivoco che ne consegue è se il mobbing sia il precursore o il risultato dello stress. Nel particolare deve essere evidenziato come il fenomeno stress possa verificarsi senza che successivamente si sviluppi una situazione di mobbing, infatti questo ultimo non è mai causato realmente dallo stress tuttavia può derivarne incidentalmente. Il mobbing può essere considerato come una forma estrema di stress psicosociale sul lavoro; elevati livelli di stress interpersonale ed organizzativo, congiuntamente a conflitti non risolti, possono costituire un terreno fertile per l’insorgere di episodi di mobbing (Leymann, 1996; Zapf et al., 1996). Al contrario di quanto è stato illustrato sino ad ora, lo stress si manifesta ogni volta che sia presente il mobbing, infatti in casi di persecuzione sul posto di lavoro nella vittima si verificano spesso somatizzazioni anche gravi. Lo stress rappresenta quindi una delle principali conseguenze legate alle vessazioni sul posto di lavoro (Ege e Lancioni, 1998).

Criteri caratterizzanti situazioni di mobbing I comportamenti messi in atto ai danni di colleghi o di subordinati possono avvenire attraverso modalità differenti; il termine azioni mobbizzanti indica delle vere e proprie azioni vessatorie che costringono il soggetto in una situazione di mancanza di difese. Non di rado si assiste all’assegnazione di incarichi privi di senso, al demansionamento ed esautoramento dalle funzioni professionali precedentemente assegnate, all’emarginazione e nei casi più gravi all’isolamento sociale (Depolo e Baldassarri, 1999). Maier (2003) sottolinea che, sulla base di un’analisi trasversale delle definizioni precedentemente presentate, è possibile individuare alcuni criteri cruciali per individuare situazioni di mobbing sul lavoro:

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Intenzione vessatoria e percezione di mobbing L’intenzionalità dell’aggressore di vessare la propria vittima, in base all’evidente difficoltà di poterla rilevare oggettivamente, è un aspetto che viene messo in discussione da alcuni autori (Randall, 1997) e sostenuto da altri (Bjorkvist et al., 1994a). Il dibattito sul tema della percezione non è certo facile e nonostante il giudizio super partes riguardo la natura offensiva delle azioni possa prescindere dall’interpretazione di chi le subisce e di chi le attua, ogni volta che è trattato un tema sociopsicologico non si può evitare di considerare come i soggetti in causa percepiscano la situazione. Non a caso, nei casi di mobbing è frequente rilevare una discrepanza sostanziale tra le diverse percezioni che le persone coinvolte danno dell’accaduto (Einarsen et al., 1994). Già Brodsky nel 1976 distingue tra una forma di aggressione soggettiva, in riferimento alla percezione della vittima di essere vessata, e una di natura oggettiva, laddove siano riscontrabili evidenze esterne dell’aggressione. Relazione di potere tra mobber e mobbizzato Molti ricercatori hanno posto particolare enfasi sulla relazione esistente tra mobber e mobbizzato, quindi sulla necessaria differenza di potere6 fra le parti coinvolte nella vessazione (Maier, 2002). Il concetto di potere è stato definito come la capacità di produrre un cambiamento negli altri; in questo senso una posizione gerarchica superiore conferisce un alto potere d’influenza per chi la ricopre (Salin, 2001). L’asimmetria di potere, ritenuta condizione essenziale ma non sufficiente (Bjorkqist et al., 1994b) affinché si possa parlare di mobbing, fa riferimento sia al potere formale che a quello informale 7; questa ulteriore precisazione permette di comprendere come la vessazione tra parigrado possa essere ugualmente devastante a quella esercitata da un superiore (Maier, 2003). Condizioni di frequenza e durata Il mobbing è stato definito come una forma di vessazione psicologica reiterata nel tempo, infatti viene fatto riferimento a comportamenti ripetitivi e persistenti (Einarsen et al., 2003). La frequenza con la quale vengono esercitate le azioni negative e la durata di esposizione della vittima risultano importanti discriminanti fra quotidiane situazioni di conflitto e vere e proprie vessazioni. Per la misurazione della frequenza sono usati indicatori diversi: per Leymann (1996) la frequenza minima di esposizione alla vessazione è di almeno una volta a settimana. Negli altri casi sono stati 6

E’ possibile individuare per lo psicologo delle organizzazioni tre punti sui quali concentrare l’attenzione (Depolo, 1998): in primo luogo, il potere non è una proprietà stabile di un individuo o di un gruppo, ma dipende dalle relazioni e dal contesto entro cui si esplica. Ne consegue che non esistono individui in assoluto potenti, ma situazioni di potere. In secondo luogo, il potere si esplica attraverso una differenza nel controllo delle risorse tra gli attori in gioco: chi controlla una risorsa che è necessaria o desiderata da un suo partner nell’interazione ha su di lui un potere. In terzo luogo, l’esercizio di potere “lega” insieme chi esercita l’influenza e chi ne è il destinatario; infatti le relazioni di potere sono caratterizzate da interdipendenza, nel senso che chi cerca di attivare il proprio potere, ha bisogno di conoscere la scala di valori del bersaglio. 7 Il potere formale deriva dal fatto di ricoprire una particolare posizione organizzativa, quindi il soggetto gode di un riconoscimento formale e di un’autorità legittimata. Inoltre vi è il controllo sulle risorse, sull’ambiente, sull’informazione, sulle ricompense e sanzioni. Diversamente, quando il soggetto gode del riconoscimento del gruppo grazie a delle qualità personali tra le quali le competenze tecnico-professionali ed il carisma, si parla di potere informale (Depolo, 1998).

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utilizzati indicatori generici quali “mai, raramente, a volte e spesso” (Einarsen e Skogstad, 1996) oppure “settimanalmente o mensilmente” (Einarsen et al., 1994); chiaramente questi indicatori sono fortemente soggetti a stime diverse da individuo a individuo (Maier, 2003). Per quanto concerne la durata, Leymann (1996) ha fissato a sei mesi la soglia minima di tempo affinché si possa parlare di mobbing; questo criterio è utilizzato in molti studi per distinguere la semplice esposizione a stress sociali nell’ambito del lavoro dal mobbing vero e proprio. La motivazione per cui Leymann utilizza il criterio dei sei mesi è legata al fatto che questo arco di tempo è frequentemente usato per la valutazione di vari disordini psichiatrici non collegabili a normali stressor occupazionali. I criteri utilizzati da Leymann si dimostrano in alcuni casi difficili da applicare dato che non tutti i comportamenti vessatori sono strettamente episodici (Einarsen et al., 2003). Negli studi finlandesi e norvegesi viene fatto riferimento ad un arco di tempo più generico in quanto il soggetto è chiamato a rendere noto se sia stato o meno vittima negli ultimi sei mesi di azioni vessatorie (Einarsen e Raknes, 1997). Nei paesi anglosassoni non viene posta attenzione alla durata ma piuttosto ad una condizione di tutto o nulla, oppure vengono utilizzati indicatori di frequenza estremamente generici e soggettivi quali la risposta aperta (Baron e Neuman, 1996). Metodologie di misura del mobbing Attraverso l’analisi della letteratura internazionale risulta evidente la difficoltà relativa alla comparazione ed alla standardizzazione delle molteplici stime fatte sull’incidenza del fenomeno; le difficoltà principali vanno ricondotte a problematiche di tipo metodologico, infatti l’ampiezze dei campioni di soggetti sono diverse tra loro ed in alcuni casi non sono gruppi rappresentativi della popolazione di riferimento; raramente sono stati previsti gruppi di controllo e spesso sono state impiegate metodologie di misurazione basate su percezioni soggettive. Come evidenzia Maier (2002), analizzando i metodi utilizzati per la misurazione del mobbing possono essere identificate due linee di ricerca principali: la prima, sulla scia dell’approccio di Einarsen (2000), si basa su di una dimensione globale e soggettiva che consiste nel fornire al soggetto una definizione del concetto, per poi chiedere di indicare se ritiene di essere vittima; la seconda si sviluppa a partire dagli studi di Leymann (1996) e si basa sulla somministrazione di una lista di azioni negative predefinite, per ciascuna delle quali gli intervistati devono indicare se le hanno subite, per quanto tempo, con quale frequenza e da parte di chi. Per una migliore comprensione dell’effettiva incidenza del fenomeno mobbing, può apparire necessario utilizzare un approccio integrato (Depolo e Baldassarri, 1999) basato su entrambe le strategie; in questo modo sarebbe possibile confrontare le percezioni di mobbing con l’esposizione ad azioni negative (Salin, 2001). Nel tentativo di misurare l’incidenza del mobbing, sono state quindi utilizzate metodologie differenti. Privilegiare un metodo soggettivo permette di ottenere una grande mole di dati relative ai vissuti delle persone, pur accettando difficoltà relative alla comparazione e generalizzazione dei risultati; impiegare metodologie più strutturate ed oggettive (Einarsen e Skogstad, 1996) permette la raccolta di dati quanto più possibile oggettivi e standardizzati, ma non vicini alle percezioni delle persone coinvolte (Maier, 2002). Di seguito vengono riportati i principali questionari utilizzati nell’indagine del fenomeno mobbing, presi in esame da Argentero, Zanaletti e Bonfiglio (2004): 14


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Leymann (1993) ha sviluppato il LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terror) nel quale vengono riportate 45 azioni negative aventi come criterio l’effetto o la conseguenza prodotta sulla vittima.8

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Bjoorkqvist, Osterman e Hjelt-Back (1994) hanno sviluppato la Work Harassment Scale, nella quale vengono presentate 24 azioni negative esercitate dai colleghi; per ognuna di queste il soggetto è chiamato a rispondere se le ha subite “mai, raramente, occasionalmente, spesso e molto spesso”.

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Einarsen, Raknes e Matthiesen (1994) in una delle primissime ricerche, hanno impiegato i 5 quesiti del Bergen Bullying Index9.

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Einarsen e Raknes (1997) hanno elaborato il NAQ (Negative Acts Questionnaire), un questionario che si riferisce a 22 azioni rispetto alle quali deve essere indicata la frequenza (mai, di quando in quando, mensilmente, settimanalmente e giornalmente) in riferimento ad un periodo preciso (negli ultimi sei mesi). In nessuno degli item viene fatto riferimento al termine mobbing o violenza, in modo tale che il soggetto sia libero di interpretare il contenuto. Successivamente lo strumento è stato revisionato permettendo di individuare due categorie di azioni negative riferite al mobbing interpersonale ed al mobbing legato all’attività lavorativa (Einarsen e Hoel, 2001).

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Queste azioni di per sé non hanno carattere negativo e possono essere considerate in gran parte tipiche di una normale interazione quotidiana; il loro significato cambia nel momento in cui sono presenti i tre criteri di frequenza, durata e intenzione negativa. Essendo azioni riconducibili prevalentemente alla sfera verbale e non verbale, esse sono difficili da dimostrare. Le 45 azioni ostili descritte da Leymann vengono raccolte in 5 categorie (attacchi alla possibilità di comunicare, alle relazioni sociali, alla reputazione sociale, alla qualità della vita professionale e minaccia di violenza) dopo essere state confrontate mediante analisi fattoriale con categorie simili considerate da altri autori (Argentero, Zanaletti e Bonfiglio, 2004). 9 I quesiti indagano il grado in cui il mobbing viene vissuto come un problema riguardante il proprio lavoro (Depolo, 2003).

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