Un’ora sola … alla ricerca del volto materno

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Un’ora sola ‌ alla ricerca del volto materno Una lettura psicoanalitica transazionale del percorso di ricostruzione della relazione materna che la regista Alina Marazzi fa nella realizzazione di un cortometraggio. Dicembre 2008 Francesca Vignozzi Psicologa francescavignozzi@virgilio.it


Allontanandosi da un dolore, pare necessario rifare gli stessi passi che ci hanno condotto ad esso. Fitzgerald, Tenera è la notte UN’ORA SOLA TI VORREI: LA CELEBRAZIONE DI UN “INCONTRO” Assieme al film, nel DVD, sono presenti due interviste fatte alla regista, Alina Marazzi. Nella prima, che risale all’Aprile del 2001, essa esplica la sua volontà di “montare immagini di vecchi filmati di famiglia”. La regista comincia a spiegare il progetto e l’intento che lo muove, ecco le sue parole: Come se volessi in qualche modo ricostruire un’…(silenzio) immagine che nella mia memoria è molto confusa… Parla della madre, Liseli, e l’eloquio si rallenta, come per cercare “lontano” i termini che possano spiegare. In questa ricerca appare visibilmente in difficoltà, si interrompe, lo sguardo che, in un primo momento, era rivolto alla telecamera ora comincia a fissarsi nel vuoto. Poi, spiegando di aver sempre saputo dell’esistenza di pellicole che ritraevano la figura materna, continua: Quando ho deciso di guardarmeli tutti è stato un momento di…(silenzio) incontro…(sorride) con questa…faccia che non avevo mai veramente guardato e…(si interrompe) Gli occhi sono rivolti in basso, le cominciano a scendere le lacrime, il sentimento di dolore esperito si manifesta senza filtri e si sostituisce alle parole, il controllo viene meno e l’Adulto che pochi minuti prima aveva cominciato a parlare lascia il posto ad un Bambino indifeso, sofferente e inconsolabile. Poi prosegue: Niente…siccome nella memoria questo volto è così annebbiato ho pensato che sarebbe stato utile per me ricostruire un’immagine reale, positiva…(silenzio) di questa mamma che non c’è… Ancora lo sguardo è rivolto in basso, successivamente sembra farsi forza, compare di nuovo l’Adulto, si asciuga le lacrime e torna a guardare la telecamera. Infine, però, si manifesta lo Stato dell’Io Bambino parlando e percependo l’assenza della madre. Continua a descrivere il film: Mi piacerebbe che avesse un sentimento evocativo, che parlasse non tanto di lei,della sua storia, di quello che è successo, di come si chiamava e tutto quanto…ma che parlasse di questa…relazione, che parlasse di me più che di lei o di me in relazione a lei. A questo punto Alina parla sotto voce e lo sguardo dal basso si sposta in alto a sinistra, sembra che cerchi di ricordare, che ricerchi nel passato un senso al suo progetto. Riprende a parlare con l’Adulto


ma presto il suo Bambino si ripresenta. Alina si blocca, non ce la fa più a essere forte, sente la fatica di spiegare, inclina la testa da una parte, sorride stancamente e accetta di interrompere momentaneamente l’intervista. La telecamera si riaccende e l’intervistatore le chiede cos’è che la emoziona così tanto di questo percorso alla ricerca di sua madre. Alina piange liberamente, sposta continuamente gli occhi che, infine, si fissano verso la telecamera. Ma lo sguardo è rivolto oltre, è uno sguardo nel vuoto. Alina è triste, le lacrime le scivolano sul volto senza che lei opponga resistenza; infine si volta a sinistra per cercare una risposta che per il momento non è in grado di dare. La realizzazione del documentario rappresenta l’ultima fase di un processo che si è sviluppato a partire dalla decisione di Alina di andare alla ricerca di materiale relativo alla madre, espressione di un desiderio di “incontrare” e conoscere questo “volto”, prendere coscienza della sua essenza, oltre che della sua storia. Il ricordo della figura materna è infatti vago nella memoria di questa figlia che all’età di sette anni ha perduto la mamma, morta suicida, una mamma che ha potuto avere raramente vicino a sè perché quando Alina aveva due anni, Liseli è stata ricoverata in una clinica psichiatrica a causa della depressione clinica di cui soffriva. Nessuno ha più parlato ad Alina di questa madre dal momento in cui è morta. Alina è una giovane adulta di ventotto anni quando il padre le parla per la prima volta di lei. Questo episodio segnerà la sua vita. Esso rappresenta, infatti, la presa di coscienza della perdita, il superamento della fase della negazione nel processo di elaborazione del lutto. Nel libro Un’ora sola ti vorrei la regista racconta: Durante quel soggiorno a New York per la prima volta avevo parlato con mio padre di mia mamma1…Per tutta la sera mi parlò di come si erano conosciuti, del loro amore, di tutto quanto. Quello che a un certo punto i figli vogliono sapere dai genitori: la loro storia, da dove vengono. Io tutto questo non l’avevo mai saputo e cominciai a conoscerlo allora. Fu l’inizio di una lunga ricerca che mi ha portato alla realizzazione del film ( pag. 7). Alina, in questo momento, prende contatto con il dolore che la consapevolezza di questa mancanza suscita in lei. Racconta che quella notte non è riuscita a dormire e che, per la prima volta in vita sua, ha pianto per la morte della madre. A tal proposito spiega: Fino ad allora le lacrime erano state trattenute; era come se, non sapendo quello che era successo, non avessi neppure il motivo di piangere (ibidem, pag. 8). Da qui la necessità di rievocare il ricordo della madre, cercandolo nella sua memoria: “ricordi come immagini”, dice: 1

Sicuramente interessante appare l’utilizzo dei termini “padre” e “mamma”, la cui scelta definirla casuale o dettata unicamente da esigenze linguistiche, potrebbe risultare una razionalizzazione o una giustificazione superficiale. In realtà la scelta di questi vocaboli intuitivamente rimanda al lettore una maggiore vicinanza emotiva dell’autrice alla figura materna rispetto all’altro genitore, almeno nel momento in cui essa scrive. Infatti, mentre il termine “padre” è denotativo, e quindi presume un atteggiamento Adulto nel suo utilizzo, quello di “mamma” è sicuramente connotativo, cioè proviene dallo Stato dell’Io Bambino e suggerisce la relazione di chi parla con quell’oggetto.


Poi, pochi giorni dopo, partii e durante il viaggio in aereo scrissi quei foglietti che ho riletto oggi, in cui trascrissi tutti i ricordi che avevo di mia madre. Ricordi come immagini. Sono dieci. Dieci immagini, non di più, in sette anni di vita (pag. 8). Alina sente il bisogno di integrare i rari ricordi della madre in suo possesso, di conoscere la sua storia, di comprenderne la morte attraverso la ricostruzione della sua vita. Alina fino a quel giorno sapeva poco di questa figura, “sapeva” come era morta, anche se nessuno glielo aveva mai detto. Ecco alcune parole della Marazzi sul film tratte dal sito www.unorasola.it: Per quasi tutta la mia vita il nome di mia madre è stato ignorato, evitato, nascosto. Il suo volto anche… Comincia a cercare e a raccogliere le informazioni che la riguardano a partire dalle circostanze della sua scomparsa rintracciate sul Corriere della Sera, datato Domenica 7 maggio 1972, il primo “pezzo di carta” dei tanti che raccoglierà in dieci anni. Alina commenta così il valore di questa scoperta: Dietro a quel piccolo rettangolo di carta di giornale ingiallita c’era in realtà un mare immenso, che ho deciso di attraversare (ibidem, pag. 10). Alina sa che c’è molto materiale concernente la storia della madre contenuto in un baule, conservato gelosamente nella soffitta della casa di nonni e contrassegnato dalla sola iniziale “L”: sembra tale il dolore ma anche l’indegnità in relazione a questa vicenda che nemmeno il nome di Liseli risulta pronunciabile. Per la prima volta la regista “incontra” la madre, prendendo visione di queste carte: fotografie, diari, lettere, oltre a tutte le fatture, certificati che documentano la permanenza di Liseli nelle varie case di cura. Alina viene così a conoscenza dei pensieri più intimi di una persona che inizialmente le appariva sconosciuta, e nel fare questo prevale in lei… …un sentimento di straziante nostalgia mista alla disperazione per non aver conosciuto quella persona. Mi scuoteva con singhiozzi violenti che mi lasciavano impotente…era la prima volta che sperimentavo un pianto così intenso, e in fondo erano lacrime che avevano il diritto di uscire (ibidem, pag. 13). Oltre a contattare il dolore, che si esprime attraverso un pianto antico, Alina comincia a sperimentare la nostalgia, lo struggente ma affascinante affetto relativo a qualcosa che non c’è più, etimologicamente “il sentimento di mancanza malinconica da qualcosa o qualcuno di lontano”. A questa definizione ben si aggancia quella di melanconia che, secondo Freud è determinata, nella maggior parte dei casi, dalla perdita, reale o affettiva, di un oggetto amato. Per sperimentare il sentimento di qualcosa che manca è necessario avere consapevolezza che dove ora c’è un’assenza un tempo c’era un legame d’amore. Alina celebrerà, al termine della lavorazione del film, la nostalgia “come sentimento necessario al superamento di una perdita”. Dentro ad un armadio ci sono anche numerosi filmati amatoriali che ricostruiscono la storia della sua famiglia a partire dai bisnonni materni. Tuttavia trascorreranno ancora cinque anni prima che Alina sia


disposta ad aprire quelle scatole e visionare le pellicole. Nel momento in cui apre l’armadio quello che trova la getta in un uno stato di stupore ed incredulità: Quindici ore di immagini di famiglia, della mia famiglia. Non potevo crederci. Tutta quella storia tenuta lì, nascosta; a parte il filmato di quella crociera, nessuno me li aveva mai mostrati. Molte scatole erano segnate con una L, l’iniziale di Liseli, Luisella. Era come una specie di codice segreto, pericoloso. Dentro a quelle scatole c’era un altro pezzo di mia madre (ibidem, pag. 15). Adesso la Marazzi passa dalla presa di distanza da essi all’accettazione della loro esistenza, per quanto minacciosa, e rende esplicito alla coscienza la possibilità e l’opportunità di un loro recupero. Nei confronti di tale materiale Alina però mostra ancora una forte ambivalenza nei sentimenti, come attrazione e fascino, paura e disperazione, espressione di un conflitto interno fra la parte di Sé favorevole al cambiamento, e che dunque vuole conoscere, e un’altra, prevalente fino ad ora, che preferisce negare. Dal superamento di ciò potrà avviarsi un processo volontario di ricerca, come all’interno della memoria, e in seguito di appropriazione, di immagini finora inaccessibili, relative alla madre. Alina, commentando le sensazioni che ha suscitato in lei una prima visione dei filmati, dichiara: Come per magia, in un attimo, quella misteriosa e sconosciuta persona proiettata sullo schermo davanti a me era come se fosse viva. In un secondo ero catapultata nel passato, all’epoca in cui viveva una madre conosciuta poco e molto dimenticata. Sono pertanto due le fasi che caratterizzano il percorso, durato in tutto dieci anni, intrapreso da Alina, sicuramente necessarie entrambe: in un primo momento, attraverso la presa visione dei filmati, dei diari, delle fotografie della madre, c’è la presa di coscienza della storia di questa donna, il riempire la memoria di lei che le permette di introiettare non solo la figura materna, ma anche la relazione con essa; nella seconda, attraverso la lavorazione del film, c’è l’attribuzione di senso alla perdita dell’oggetto amato. Ognuna di queste fasi è stata lunga, sofferta, ma altrettanto significativa e necessaria; possiamo, tra l’altro, notare come questo processo di cambiamento sia caratterizzato da un progressivo aprirsi all’Altro: la relazione viene approfondita con il tempo, diviene intima, fino a raggiungere una vera e propria identificazione: Alina decide, infatti, di usare la propria voce per far parlare la madre. C’ERA UNA VOLTA…OVVERO LA FUNZIONE DELLA MEMORIA Mia cara Alina…in tutto questo tempo nessuno ti ha mai parlato di me, di chi ero, di come ho vissuto, di come me ne sono andata…voglio raccontarti la mia storia, ora che è passato tanto tempo da quando sono morta…2 2

Il film inizia con queste parole tratte da una lettera, mai scritta, di Liseli indirizzata alla figlia. In realtà Alina utilizza questo espediente letterario per introdurre il materiale che viene successivamente presentato, inoltre la regista in questo modo ha espresso e, allo stesso tempo, appagato un desiderio, quello di “dialogare” con la madre immaginando che sia lei a raccontarle la sua storia.


Il raccontare e il raccontarsi attraverso l’uso della parola rappresentano il mezzo privilegiato attraverso cui il processo analitico si dipana. Perché l’espressione dei contenuti significativi e del vissuto emotivo ad essi associati possa avvenire è, in primo luogo, necessaria la presenza nella mente dell’individuo di tracce mnestiche relative ad essi e la loro disponibilità alla coscienza. Per quanto concerne i primi anni di vita, in cui comunque siano state vissute esperienze traumatiche o dolorose, risulta difficile distinguere in che misura l’incapacità effettiva di rievocare un certo contenuto sia da imputare alla mancanza del ricordo dello stesso o alla sua rimozione. Gli studiosi della memoria definiscono “amnesia infantile” il fenomeno in base al quale, prima dei 2-3 anni, compaiono solo frammenti di reminiscenze sottoforma di immagine visiva, per cui anche se è stata dimostrata l’esistenza di contenuti di memoria molto lontani, quello che manca nel bambino piccolo è la capacità di rievocare consapevolmente un ricordo episodico in modo organizzato e coerente, cioè in forma narrativa, abilità questa che si sviluppa a partire dalla comparsa del linguaggio (Nelson). Primo Levi in I Sommersi e I Salvati, sottolinea comunque come, anche in condizioni normali, in qualsiasi individuo di qualunque età, sia all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono, e in relazione a ciò aggiunge: “è probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte” (pag. 13). Un processo diverso, invece, è quello che riguarda i ricordi di “esperienze estreme”. Quando, infatti, si parla di vissuti traumatici, a prescindere dall’età a cui si riferiscono, l’allontanare dalla coscienza un ricordo diviene il mezzo più idoneo, anche se originariamente ritenuto disfunzionale, per sopravvivere alla sofferenza. Freud definì Rimozione il tentativo difensivo di evitare di rivivere un sentimento intenso e minaccioso o un dolore insopportabile attraverso l’isolamento nella sfera dell’inconsapevolezza di materiale comunque un tempo conosciuto. In base alla teoria del trauma riportare a livello cosciente un’esperienza “disturbante” con tutto il suo potere emotivo originario, rappresenta il compito terapeutico primario3. Non possiamo sapere quanto, e cosa in particolare, a livello inconscio, Alina conoscesse di sua madre4; ciò non toglie, comunque, che il lavoro di ricerca da essa effettuato vada nella direzione di una ricostruzione nella propria mente di questa figura, della sua storia. Possiamo parlare di un processo di creazione, oltre che di ripristino, di una memoria relativa alla figura materna ma anche al Sé, che si amplia, che si sviluppa in itinere. Ciò sembra essere in linea con quanti, ad esempio Bartlett, sottolineano nella memoria autobiografica una dimensione di ricostruzione del passato alla luce delle esigenze del presente, una funzione che si esplica ben oltre la semplice rievocazione del passato e che sembra costituire il maggior fattore di cambiamento nei modi di rappresentarsi il mondo ed i suoi abitanti, compreso l’Io stesso. L’autore la definisce inoltre come “costruzione immaginativa attraverso 3

Sappiamo che successivamente Freud capì che rimuovere la barriera della rimozione e permettere ai ricordi di venire in superficie non curava di per sé. Inoltre, il concetto di rimozione fu collegato più ad idee, impulsi e desideri inaccettabili che ad un vissuto traumatico realmente esperito ed è stata rivalutata la funzione adattiva di tale meccanismo a meno che questo non sia utilizzato in modo totalizzante ed esclusivo e che “elimini anche alcuni aspetti positivi della vita di un individuo” (McWilliams). 4 Westen, effettuando un‟integrazione fra recenti studi sulla memoria e pensiero psicoanalitico, ha distinto fra tipi di conoscenza, dichiarativa e procedurale, e modalità di espressione, implicita o esplicita, cioè con o senza consapevolezza conscia: la forma che assume un ricordo risulta determinata dalla combinazione di questi quattro elementi.


un’organizzazione attiva delle esperienze passate. Guidata da un atteggiamento affettivo di fondo che porta a selezionare, rielaborare, aggiungere dettagli a pochi elementi conservati sotto forma di immagini e verbalizzazione”. Il processo di recupero di materiale importante e doloroso è un processo attivo, complesso e mai uguale a se stesso. E’ in atto, ogni volta, un progressivo approfondimento emotivo, piuttosto che cognitivo delle tematiche, per cui uno stesso episodio può essere rivissuto più volte da un individuo ed ogni volta generare in esso sensazioni differenti, in relazione alla loro qualità e intensità, determinando in tal modo il passaggio dalla conoscenza di un’esperienza traumatica alla sua comprensione (Rogers). Pertanto, nel processo di elaborazione di un lutto, come nel caso della Marazzi, perché sia possibile arrivare all’esplicitazione del vissuto doloroso, così come avviene nella stanza di psicoterapia, è necessario in primo luogo che Alina prenda coscienza dell’esistenza della madre, ne ricostruisca la memoria, integrando nella mente le immagini visive relative ad essa. Solo introiettandone la “presenza” arriverà a dare un senso alla sua perdita perché ciò autorizza e rende possibile, in Alina, la reintegrazione del proprio mondo interno e degli oggetti che lo popolano. Alina commenta così il significato che ha avuto per lei la realizzazione del film: Solo con il tempo quello che ho conosciuto di lei ha assunto un senso pieno nella mia vita. Il film è la ricostruzione della mia personale ricerca del volto di mia madre. Un tentativo di ridarle vita anche solo sullo schermo, un modo per celebrarla ricordandola. Il valore della ricostruzione del passato viene esplicitato da Alina nell’intervista dell’Agosto 2005 che è contenuta nel DVD: E’ stato un percorso lungo…in questo tempo sicuramente il rapporto con la vicenda di mia madre, con quella storia, con la mia memoria è cambiato. Grazie al film sono riuscita a ricostruire un pezzo della mia memoria che era andata perduta, che era sommersa da qualche parte… QUANDO LA RELAZIONE CURA: LA LAVORAZIONE DEL FILM COME PROCESSO PSICOANALITICO A livello sociale il valore inestimabile della ricostruzione della memoria, della condivisione di un’esperienza, ma soprattutto del significato ad essa attribuita, è sicuramente dimostrato dalle conseguenze storiche e culturali dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti, senza dubbio il trauma collettivo più devastante del precedente secolo, del quale sentiamo ancora oggi la comune necessità di sapere, scrivere, fermare nella mente. Tutto questo sembra avere a che fare con un processo unanime di elaborazione del lutto non ancora concluso, molto probabilmente siamo ancorati a livello collettivo nella fase dell’evocazione e del racconto per arrivare alla definitiva accettazione di questo passato, senza la quale anche il presente perde di senso. Il tema della distruzione della memoria a livello sociale, è stato affrontato da Bradbury in Fahrenheit 451 (1953), la vicenda si svolge in un lontano futuro che assomiglia molto al nostro presente, un tempo nel quale, attraverso l’atto materiale della distruzione dei libri, viene cancellata non solo la


storia, ma anche l’identità personale. Montag il protagonista, ormai in preda a una crisi interiore che lo porterà alla rinascita5, cerca di parlare una notte con sua moglie Mildred: “Non volevo disturbarti. Ma vorrei sapere.” “Che cosa?” “Quando ci siamo incontrati? E dove?”… “Diamine, ma fu da…” Mildred si interruppe “Non lo so” disse L’uomo si sentì cogliere da un gran freddo. “Non riesci a ricordarlo?” “E’ passato tanto tempo”… “Bè, non ha importanza” “No, non ha importanza, forse”, disse lui (ibidem, pagg. 50-51). Il processo sociale di ricostruzione del passato per mezzo della condivisione delle esperienze e dei valori riguardanti la realtà del mondo è simile al processo di ricerca che si avvia nella stanza di psicoterapia: anche a livello individuale, infatti, il percorso verso l’attribuzione di significato alla propria storia non può prescindere da una dimensione relazionale in cui la condivisione rappresenta l’essenza della cura (Migone, Tangolo). Ciò rientra nell’approccio espressivo, non direttivo psicoanalitico: il paziente parla di sé, lo psicoterapeuta ascolta empaticamente, interviene il meno possibile, il paziente così, con fatica, piano piano, riesce a liberarsi di contenuti dolorosi. L’esplicitazione stessa, il portare fuori di sé materiale fonte di angoscia, in presenza di qualcuno che accoglie, in un contesto specifico che protegge, di per sè costituisce un fattore curativo fondamentale. La “talking cure” consiste appunto nel parlare di qualcosa che non è mai stato detto ad alcuno, poiché di ciò si può non essere consapevoli, oppure lo si può solo pensare, oppure ancora verbalizzare a se stessi, ma la cura sarà possibile solo attraverso la verbalizzazione all’Altro, cioè, appunto, attraverso la sua condivisione: il terapeuta ascolta e non giudica il contenuto espresso dal paziente, quest’ultimo può a questo punto accettare e accogliere. Secondo la teoria della psicoanalisi sono due i fattori principali che curano. Il primo è la comprensione e l’altro è rappresentato dal legame affettivo con l’analista, che Friedman definisce “attaccamento”. Quindi l’efficacia del trattamento è costituito da una gestalt, un’integrazione, cioè, di un aspetto cognitivo con un altro che potremmo definire relazionale ed emozionale. Una persona si modifica grazie alla relazione con l’Altro. Berne, in Ciao…e poi? (1964) dice a proposito che: “l’espressione del viso influenza il modo in cui le altre persone reagiscono, è l’espressione del viso infatti a dare via libera al Bambino dell’altro, che rappresenta l’antagonista di copione ed è destinato a provocare il cambiamento di copione” . Dunque da soli non si cambia. Questo è possibile solo all’interno di una relazione: è l’incontro con lo psicoterapeuta o con un Altro significativo che porta al cambiamento. In particolare l’azione terapeutica può avvenire perché il legame riparativo con lo psicoterapeuta viene introiettato. Il professionista, nel momento in cui viene riconosciuto nel proprio ruolo, funge da 5

Anche in questo caso sarà l‟incontro con un altro individuo che permetterà al protagonista di intraprendere il percorso verso la consapevolezza e il cambiamento.


“specchio”, rappresenta cioè uno strumento attraverso il quale il paziente avvia un processo di indagine nel profondo di Sé, e lo fa perché si sente al sicuro. E’ alla luce di tutto ciò che prende corpo l’ipotesi che sia stato possibile per la Marazzi elaborare, per mezzo della realizzazione del film, la perdita della madre ed effettuare, in tal modo, un cambiamento nel profondo, così come avviene nel processo analitico. Il percorso di analisi di Alina Marazzi dura in tutto dieci anni, comincia infatti nel 1992, quando sente parlare per la prima volta della madre e si conclude con l’uscita del film nel 2002, anche se un’ulteriore tappa fondamentale è rappresentata dall’accompagnamento di questo film durante le varie presentazioni all’interno di numerose rassegne cinematografiche, soprattutto nei primi tempi, che hanno visto la presenza della regista in sala. Nel caso di Alina ciò che permette tutto questo è rappresentato dal film stesso: è questo, infatti, lo strumento che le ha permesso di introiettare l’oggetto d’amore perduto, di interiorizzare un legame riparativo significativo. E’ dunque il film che le fa da specchio, per mezzo di esso, infatti, si realizza in Alina, parzialmente consapevole e volutamente impegnata, una costruzione coerente e convincente di una verità che non è storica ma narrativa, ricordando come per la psicoanalisi l’esperienza soggettiva del paziente sia di valore estremo. L’Adulto Osservante di Alina viene attivato in un primo tempo dalla distanza protettiva data dalla ricerca e, durante la fase di lavorazione del film, dall’atteggiamento professionale assunto dalla regista, oltre che dalla presenza della telecamera, che consente da una parte che lo sguardo suo e di sua madre si possano incrociare, dall’altra di mediare e forse attutire emotivamente questo incontro. Inoltre, il lavoro di recupero di materiale concernente la madre consente alla Marazzi di conoscere due specifiche circostanze che disvelano l’attaccamento di Liseli alla propria famiglia, ai figli, e ciò costituisce per la regista un’esperienza emozionale correttiva, curativa di per sé. Analizziamole nei dettagli: Il film inizia con l’immagine di un vinile con l’etichetta “Mon disque”, inciso dai genitori di Alina alla stazione di Milano. Si sente la loro voce che con tono scherzoso, si rivolge ai figli fingendo di rimproverarli. Poi Liseli comincia a cantare Un’ora sola ti vorrei, ma l’incisione si interrompe subito. Alina verrà a sapere che in quell’occasione la mamma stava tornando a casa dalla clinica in Svizzera dove era ricoverata per trascorrere un periodo in famiglia. Alina, con l’intenzione di inserire la canzone nel film, ascolta il contenuto che segue il ritornello e che dice: “Io che non so scordarti mai/ per te darei la vita mia/ per dirti quello che non sai…/ Un’ora sola ti vorrei / io che non so scordarti mai/ per dirti ancor nei baci miei / che cosa sei per me”. L’impatto emotivo che ha avuto la conoscenza di queste parole da parte di Alina è stato intenso, scaturito dal pensiero che la madre cantando quella canzone inviasse un messaggio intimo e affettivo ai propri figli, nel quale esprimesse il forte legame che li univa e il desiderio di trascorrere ancora del tempo con loro. A distanza di anni Alina risponde a quel messaggio e ricambia il desiderio di vicinanza espresso a suo tempo dalla madre: questo desiderio si realizza: Alina e la madre si ricongiungono per un’ora, il tempo della durata del film. Un altro episodio inserito nel documentario sembra assumere un valore emotivo altrettanto significativo per la Marazzi nel momento in cui ne viene a conoscenza: in una scena si vede Liseli incinta insieme ad Antonio, il padre di Alina, che scherzano con la neve, dolcemente immersi in un’atmosfera magica, quasi sacra. Liseli, ridendo, dice qualcosa rivolta alla macchina da presa, Alina analizzando questa sequenza riesce a leggere il labiale della madre e nel film le ha ridato la parola:


“Aspettiamo un bambino”. Queste parole rappresentano per la regista “la testimonianza di un progetto e di un desiderio: essere desiderati dalla propria madre! Infatti noi sappiamo che se e quando c’è un desiderio, in quello spazio una persona può esistere e trovare spazio nella sua interezza” (Roberto Goisis). Attraverso tutto ciò Alina prende coscienza di essere stata voluta, desiderata, amata dalla madre prima che abbandonata, e questo sembra assumere un valore “ridecisionale” di per sé, poichè, seppur all’interno del lavoro più ampio e generale che ha avuto una funzione terapeutica nella sua interezza e globalità, permette il soddisfacimento di un bisogno antico il quale, rimasto inappagato, può aver provocato delle decisioni di copione (Moiso, Novellino). Queste intuizioni, probabilmente, hanno contribuito alla ristrutturazione del mondo interno di Alina mediante lo “smantellamento” delle convinzioni patologiche che fino a quel momento gli appartenevano e a procedere, in tal modo, verso l’autonomia. Inoltre l’introiezione dell’oggetto buono materno, al termine del processo analitico, permette alla Marazzi di superare il sentimento di angosciante solitudine che spesso coglie la madri in attesa di un figlio o quando questo è piccolo, la stessa angoscia che colse Liseli in America e che ha costituito l’evento scatenante la sua malattia. Nell’intervista a Roberto Goisis, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Alina infatti commenta: C’è da dire, però, che lei ora è una presenza molto forte dentro di me…E, così, in vari momenti durante la gravidanza, ad esempio, o quando Teresa (la bimba che Alina ha avuto circa un anno dopo il debutto del film) era piccola, nei momenti di sconforto, di abbattimento, nei quali uno vorrebbe un sostegno, una presenza...una mamma, un abbraccio materno, ecco, lì mi sono venute in mente e mi vengono in mente dei primi piani suoi nel film. E sono immagini che ora mi fanno molta compagnia. Forse è un passaggio ulteriore rispetto a qualcosa che mi è successo durante la lavorazione del film, quando, mano a mano che conoscevo aspetti suoi e della sua storia, io, che in genere non mi ricordo i sogni che faccio, ho fissato ben bene nella memoria i sogni dove lei era presente. Ora, forse, non sono più solo sogni, ma anche immagini. Alina decide di intraprendere il suo percorso terapeutico, all’età di 28 anni. Appare interessante che ciò avvenga esattamente alla stessa che aveva Liseli quando per la prima volta si è manifestata la sua malattia. Si evidenzia, inoltre, un’altra interessante analogia tra le decisioni prese dalle due donne: entrambe hanno come sfondo gli Stati Uniti: Liseli era lì quando è stata male per la prima volta, Alina era lì quando suo padre le ha parlato per la prima volta di questa figura ed è lì che ha cominciato a cercare tracce di questa presenza, a partire dalla sua stessa memoria. In America si è manifestato il copione della madre, che in questo luogo tenta il suicidio per la prima volta, e qui avviene la svolta verso il cambiamento e verso l’autonomia da parte di Alina che inizia il suo processo di ricerca attraverso il quale potrà attribuire un significato alla storia della madre e, di conseguenza, alla propria. Un’altra importante convergenza fra le due storie è rappresentata dal fatto che Alina si dà il permesso di “aprire l’armadio” e cominciare a vedere i filmati all’incirca alla stessa età in cui Liseli muore suicida. Berne, in Ciao…e poi?, dice che “la liberazione interiore può essere legata a un evento o al tempo”. In questo caso sembra esserci un anticopione legato al tempo: possiamo ipotizzare che per Alina l’esorcismo può avvenire “quando avrà superato l’età in cui morì sua madre”. Per cui, pur non sapendo molto del copione di Alina, possiamo affermare che a partire da quel viaggio negli Stati


Uniti, in parallelo con quello effettuato insieme, e per la madre, molti anni prima, si avvia un processo riparativo lungo e profondo che la porterà all’elaborazione di questo lutto e, riscrivendo il suo copione, a dare un nuovo significato alla propria vita. Questo avverrà al termine della lavorazione del film. Non vi è dubbio, comunque, che l’assenza del ricordo della madre, nella storia della Marazzi, sia stata accompagnata dal perpetuarsi di un vuoto di rappresentazioni relative a tale figura, che nessun membro della famiglia ha contribuito, nemmeno parzialmente, a riempire. Alina, in un contesto simile, ha sicuramente vissuto una situazione conflittuale: il suo desiderio di conoscere e far conoscere è, infatti, in antitesi con la consapevolezza interiorizzata delle richieste di “no comment” della realtà familiare. Il nome della madre è addirittura impronunciabile e questo ha sicuramente contribuito alla “fissazione” di Alina nella prima fase dell’elaborazione della perdita della madre, ovvero la negazione della stessa. Il bisogno di conoscere della Marazzi certamente si scontra con un tabù familiare: una famiglia che nega e nasconde per dolore e per vergogna. Alina comincia a vedere i filmati nel 1996 e, chiedendo il permesso al nonno materno, autore della maggior parte di essi, utilizzerà il pretesto dell’interesse professionale per giustificare questo desiderio/necessità. In questo periodo li guarda da sola o, eventualmente, assieme a questo anziano signore, il quale commenta con un significativo “Io vedo solo un fascio di luce bianca”. Appare interessante che egli accusasse problemi di vista dovuti all’età, ma che poi abbia comunque continuato a trascorrere i pomeriggi a proiettare le pellicole in compagnia della badante! Attraverso il lavoro svolto Alina supera la vergogna e l’imbarazzo familiare nei confronti della malattia e poi della perdita della madre, si ribella così alla rigida prescrizione familiare sulla modalità di gestione della morte e del trauma, un fatto talmente sconvolgente da essere considerato, secondo la definizione di Fanita English, una “patata bollente” che nessuno vuole tenere e dalla quale è necessario liberarsi. Quindi più che un fatto intimo e privato, vissuto ed elaborato a livello familiare, sembra qualcosa di estremamente pericoloso, che non può essere elaborato individualmente, né condiviso, una chiusura, in tal modo, di un mondo verso l’esterno. Alina si impossessa di questa ricca memoria visiva, censurata fino a quel momento e decreta in tal modo il passaggio dalla negazione di un evento alla sua celebrazione pubblica. Partendo da qui credo che non si possa prescindere da un’analisi più ampia del film che mette in evidenza il senso di estraneità di Liseli verso il mondo borghese di cui dovrebbe far parte ma, allo stesso tempo, anche un’assenza di alternative che le consentano di stabilire un nuovo rapporto con la realtà. Alina nel suo libro commenta il primato nella sua famiglia della forma a discapito della vicinanza emotiva: Per tutta la vita quest’uomo ha filmato la moglie e poi la figlia senza però riuscire a vederle veramente, senza cogliere il vero sguardo che queste donne gli rimandavano. Le lettere e i diari mettono continuamente in discussione quest’apparente felicità (pag. 50). Alina riconosce in suo nonno un’intenzione, forse non del tutto consapevole, di raccontare la storia di una famiglia benestante attraverso “un controllato processo di autorappresentazione”. Ancora nel film Alina-Liseli dice :


Vivevo in un’illusione di serenità, ma già allora sapevo che non avrei trovato il mio posto nel mondo. In una chiave di lettura più ampia potremmo aggiungere “in quel mondo”, al quale evidentemente sente di non appartenere ma che comunque rappresenta per lei il solo e unico mondo possibile, quello in cui era nata, dove viveva, con un padre assente e una madre “perfetta” a cui sente di non poter mai assomigliare, dal cui confronto esce sempre perdente, un modello inarrivabile, al cui cospetto Liseli si pone con un vissuto di inadeguatezza, colpa, svalutazione6: Penso, penso, penso…se dico qualcosa mi sento rispondere che sono pagliacciate…in questi giorni ho un bisogno incredibile di parlare e di essere ascoltata ma alla fine mi dicono che sono noiosa e che mi faccio tanti problemi stupidi…per cui condotta da tenere: Non urtarsi con i genitori e non seccarli troppo con le faccende della tua coscienza perché per loro ci sono altre cose più importanti. Sarà Alina, una generazione dopo, a realizzare, con la trasposizione dal privato al pubblico della storia della madre, la presa di distanza da quel mondo e una liberazione dalle spinte, come il Sii perfetto o il Sii Forte, proprie non solo della famiglia, ma di un’intera cultura. Berne, in Ciao…e poi? (1964), spiega che “il copione significa semplicemente che qualcuno molto tempo addietro ha detto a un individuo cosa doveva fare, e che l’individuo ha deciso di farlo” (pag. 232). Non vi è dubbio che la Marazzi, consapevole delle sue azioni, abbia cambiato idea! Ad Alina viene fatta un’intervista nell’Agosto 2005, circa tre anni dopo l’uscita del film, anche questa contenuta nel DVD. E’ subito evidente, per quanto le immagini siano sfuocate, che la “bambina” confusa e sofferente rappresentata dalla regista nel commento del 2001 ha lasciato il posto ad un Adulto libero e consapevole, che guarda con sicurezza e talvolta con un sorriso sereno la macchina da presa, lascia fluire le parole ed esprime in modo chiaro le proprie riflessioni. Ad un’immagine sfuocata si abbina anche una modulazione della voce nuova rispetto a prima, più Adulta diremmo noi. Alina è conscia del cambiamento che è avvenuto in lei grazie alla realizzazione del film e a proposito commenta: Prima di iniziare il montaggio del film ho fatto una videoregistrazione in cui cercavo di spiegare che cosa volevo fare. Non riuscivo nemmeno a nominarlo, ero talmente scossa, emozionata che non riuscivo a dirlo, non riuscivo nemmeno a nominare il nome di mia madre… Inoltre quando le viene chiesto se il lavoro che ha realizzato ha avuto per lei una funzione terapeutica, essa risponde: …posso dire che questo lavoro mi ha profondamente cambiato e certamente ha avuto anche una funzione terapeutica rispetto alla mia storia. E’ stato detto più volte che questo film assomiglia ad un 6

L‟inadeguatezza nei confronti della figura del padre e l‟improponibile confronto con esso è un tema ricorrente nella cultura della prima metà del „900, a tal punto che l‟incapacità di vivere come soluzione a tale affetto accomuna i protagonisti dei maggiori romanzi europei del primo „900: basti pensare alla spaventosa trasfigurazione del protagonista della Metamorfosi di Kafka o all‟inquietudine di Zeno, nel romanzo di Svevo, che trova pace nel momento in cui finalmente ammette e riconosce l‟autorità del genitore “eravamo ormai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte”.


processo psicoanalitico perché segue un percorso di associazione di idee, di immagini, di libera espressione delle parole. Penso che sia vero. E’ stato un processo in parte inconsapevole perchè non c’era una sceneggiatura che seguivamo nel montaggio, non era tutto scritto, nemmeno io sapevo bene quello che stavo andando a fare, ho solo cercato di essere più libera possibile e di affondare più profondamente possibile nei miei sentimenti e nella memoria. Rende, infine, a mio parere esplicito come adesso, “liberata completamente dalle catene, abbia il coraggio di comporre la propria melodia”: Mi sono ritrovata a lavorare con del materiale escandescente per quanto mi riguardava dal punto di vista emotivo e forse proprio perché mi sono trovata faccia a faccia con tale intensità mi è sembrato di riuscire a trovare il giusto modo per mettere insieme quelle immagini, quei suoni. E’ come se il film fosse stato una grande scuola per me: dopo averlo fatto ho avuto la sensazione di sapere quello che sarei andata a fare da quel momento in poi. In Tenera è la notte (1973) Fitzgerald dice: Si scrive di cicatrici guarite, un parallelo comodo della patologia della pelle, ma non esiste una cosa simile della vita di un individuo. Vi sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma sempre ferite (pag. 204). Quando lessi le parole di Fitzgerald le trovai pervase da un forte pessimismo, ma per quanto mi riguarda egosintoniche, in linea con la mia personale concezione del trauma e degli esiti di questo sulla psiche dell’individuo. Effettivamente lavorare nella stanza di terapia alla soluzione di un conflitto, all’elaborazione di un trauma o di una perdita, fino a rendere possibile il cambiamento non significa tornare indietro, alla “condizione pre-sintomatica”, come è stato ampiamente esplicitato dalla Dott.ssa Giusti durante il convegno di PerFormat. Un percorso a ritroso in questo senso è, per fortuna, inverosimile, poiché implicherebbe una totale cancellazione nella memoria di una serie di esperienze e delle loro conseguenze. Berne, inoltre, in Principi di terapia di gruppo, spiega che il compito del terapeuta non è quello di “guarire”, “ma curare al meglio delle proprie possibilità (pag. 58)”. Avviare e concludere un percorso terapeutico perciò non significa “guarire”, significa ridurre un’enorme ferita alla dimensione di una punta di uno spillo…oggi mi sento di commentare…mica poco! BIBLIOGRAFIA Berne, E. (1966), Principi di terapia di gruppo, Astrolabio, Roma. Berne, E. (1972), Ciao…e poi?, Bompiani, Milano. Bradbury, R. (1951), Fahrenheit 451, Mondadori, Milano. English, F. (1969), “Episcripts and the hot potato game”, TAJ, 8, pp. 77-82. Fitzgerald, F.S. (1973), Tenera è la notte, Einaudi, Torino. Freud, S. (1915), Lutto e melanconia, in Opere di Sigmund Freud, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976.


Levi, P. (1986), I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino. Mac Williams, N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma. Marazzi, A. (2006), Un’ora sola ti vorrei, Rizzoli, Milano. Migone, P. (1989), “La teoria psicoanalitica dei fattori curativi”, Il ruolo terapeutico, 52, pp. 40-45. Moiso, C., Novellino, M. (1982), Stati dell’Io, Astrolabio, Roma.


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