“A CHE GIOCHI GIOCHIAMO IN TERAPIA?” BERNE E WINNICOTT: CASO CLINICO

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“A CHE GIOCHI GIOCHIAMO IN TERAPIA?” BERNE E WINNICOTT: CASO CLINICO Abstract: l'obiettivo del lavoro consiste nella comparazione del concetto di gioco così come è stato trattato dalla teoria analitico transazionale e dalla teoria psicoanalitica, facendo riferimento in particolare alle formulazioni di Winnicott. Si ipotizza che il gioco inteso in senso berniano possa rappresentare un fenomeno transizionale nel processo terapeutico, quindi diventi un'area intermedia di cura che il paziente sperimenta nel rapporto con un terapeuta sufficientemente buono. Dicembre 2009

Andrea Marconcini a.marconcini@gmail.com Psicologo

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A CHE GIOCO GIOCHIAMO IN TERAPIA? Berne e Winnicott: caso clinico Nel gioco analitico vi sono almeno due punti di vista: quello del paziente e quello del terapeuta. Diventa possibile litigare su tutto, come diventa possibile la terapia.

Questa relazione nasce da un'interrogativo che mi sono trovato ad affrontare durante il trattamento di alcuni pazienti. “Qual'è la mia prima reazione come terapeuta quando riconosco di aver giocato1 col paziente?” Può capitare di accorgersi, in alcuni frangenti della terapia o durante un colloquio, che la strutturazione del tempo ricada in quello che Berne ha definito “gioco”. Le transazioni tendono a procedere secondo una certa ritualità e nel setting si crea un senso di condiscendenza che afferma Berne, scaturisce da un livello molto arcaico della personalità. “I pazienti manifestano facilmente un funzionamento pseudo-Adulto, mentre il loro reale Stato dell'Io è uno stato infantile” (Berne, p. 103, 1966). L'Autore parla a questo proposito della necessità di un intervento risolutivo da parte del terapeuta: questi infatti deve in qualche modo correggere questa direzione, quindi affrontare il paziente mettendolo di fronte a interpretazioni razionali ed evidenziando gli elementi magici nel suo operare in modo da costiuire uno stabile stato dell'Io Adulto. In altre parole, operare una decontaminazione. La familiarità del terapeuta rispetto ai giochi in generale e la consapevolezza rispetto al proprio gioco favorito, diventano obiettivi per i terapeuti principianti che, in questo modo, possono evitare o di cadere nelle manipolazioni inconscie del paziente (Berne, p. 258, 1966) o di sbarazzarsi del proprio epicopione passandolo, attraverso i giochi in terapia appunto, a pazienti vulnerabili (English, p. 100, 1976). L'esperienza clinica, definisce la natura “oggettuale” del gioco, che impostato dall'A 1 del paziente, viene rinforzato dai caregivers, diventando uno schema fisso di stimoli e reazioni. Questa risposta automatica, viene riproposta nella stanza terapeutica per “ottenere” quello che viene definito tornaconto di copione, il rinforzo cioè al piano individuale incoscio progettato a partire dalla nascita. Per ritornare alla domanda iniziale, ricorrerò ad un esempio clinico. Consideriamo le seguenti transazioni: Pz:“Quanto dura la terapia? Cioè quanto posso attribuirlo al lavoro terapeutico e quanto no?” Tp: “Come mai mi fai questa domanda?” Pz: “Bhè perchè i miei mi fanno pressioni rispetto al pagamento.. cioè quando starò meglio.. come faccio a sapere che se sto meglio, è grazie alla terapia..” Avevo di recente letto Migone (2006), quindi di fronte a questo interrogativo ho ripercorso mentalmente il breve excursus storico sulle ricerche dell'efficacia in psicoterapia, la ricerca sui 1

Nell'accezione dell'A.T.

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risultati e sul processo e la consueta distinzione fra fattori specifici e fattori aspecifici. In qualche modo questa lettura mi rendeva sicuro rispetto al possibile intervento che avrei fatto. Tp: “Quindi non sai se attribuirlo al lavoro che fai con me o alla vita fuori dalla terapia.. Rispetto all'efficacia della terapia non è facile individuare quali fattori incidono nella guarigione..” Le conoscenze teoriche legate al contenuto della domanda spostano la relazione verso un gioco di “Magnifico Professore..” o comunque un rinforzo al comportamento ricattatorio del paziente (English, 1976) che clinicamente può rappresentare un tentativo di accondiscendenza seduttiva o comportamenti compensatori in grado di allontanare un terrore di inadeguatezza o un senso di vergogna (McWilliams, 1994). Ciò che ho svalutato nell'intervento che ho fatto, ritengo possa essere la paura di dipendenza del paziente espressa dal suo iniziale interrogativo2. Il disagio interno legato alla dipendenza viene riproposto nella relazione con me, ma processato attraverso meccanismi difensivi. L'analisi del livello controtransferale mi porta a riflettere che attraverso l'intervento non prendo in considerazione neanche la mia paura rispetto alla dipendenza, quindi in queste transazioni, le difese mie e del paziente, non vengono opportunamente elaborate. Quale valore aveva la mia risposta controtransferale? L'intensità di una tale domanda suscita un “agire” il gioco piuttosto che riflettere, assieme al paziente, sulle opzioni “esplorative” del suo stato d'animo. Quali riteneva potessero essere i parametri di cambiamento della terapia? E quale era il suo stato d'animo, se il miglioramento fosse dipeso dalla terapia? L'Analisi Transazionale classica, afferma che giocare i giochi del paziente porta a colludere con il piano di vita di chi è in cura, quindi operare un rinforzo alle difese che contribuiscono al destino patologico del paziente. Considerando il processo di questo colloquio, posso ritenere di non aver concesso l'opportunità al paziente di esplorare i bisogni sottostanti la richiesta, piuttosto, ho spostato l'emergere di una pulsione inconscia oggettuale attraverso una razionalizzazione. La situazione terapeutica diventa più controllata e meno angosciante, le ritualità del gioco placano l'angoscia legata al rapporto stesso (Winnicott parla a questo proposito della tensione tra la realtà interna psichica che si rapporta alla realtà esterna oggettiva), quindi il mio Adulto viene nuovamente energizzato e capace di prendere visione delle dinamiche nel setting. Arriviamo così al momento in cui mi accorgo che il tempo terapeutico è stato speso in un gioco. Riflettendo in seguito sugli scambi transazionali, potrei comprendere la dinamica avvenuta, eppure, considerando il gioco berniano messo in atto, automaticamente prevale il senso dell'errore: Tp: [“..hai giocato di nuovo.. hai sbagliato.. hai fallito il test.. hai confermato il copione del paziente”] 2 Interepretazione altrettanto valida potrebbe far riferimento alla paura dell'abbandono dal momento che le pressioni richiamavano il termine della terapia.

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Immagino che va da sé la riflessione conseguente: tendo a rispondere all'interruzione di un gioco con un altro gioco. Il gioco interpersonale diviene gioco intrapersonale. Accanto alla responsabilità come soggetto curante, quindi volto a tutelare il benessere del paziente, emerge un senso di colpa, affiora cioè una certa reazione persecutoria che può essere tradotta a sua volta in un gioco intrapsichico “Mi hai beccato a giocare” Il conflitto intrapsichico del paziente rispetto alla paura della dipendenza viene riproposto in maniera inconscia, nel rapporto con me e successivamente da me introiettato. In termini A.T. il paziente e il terapeuta si agganciano nella formula di gioco (Berne, p.30, 1972). L'Anello che offro come terapeuta è determinato da una mancata elaborazione delle mie paure incosce così che, seguire il contenuto delle transazioni, piuttosto che confrontare il paziente sul senso della sua domanda, diventa per me più sostenibile rispetto alle angosce da cui mi difendo. Questo pensiero automatico che rappresenta un dialogo interno fra GN- e BA-, si connette senza dubbio con il mio controtransfert nell'accezione di materiale non risolto proveniente dalla mia storia, sia con i processi difensivi non elaborati di proiezione e introiezione del paziente (identificazione proiettiva) ma ritengo anche con quello che Casement (p. 10 , 1985) definirebbe “controtransfert alla teroria”: la teoria analitico transazionale, che definisce i giochi una fondamentale dinamica emotiva il cui culmine è nel tornaconto di copione, schematizza tale processo con una formula che talvolta può impedire la comprensione della realtà psichica del paziente (Semi, p.6, 1985, Fonagy e Target, p. 137, 2001). Fornire interpretazioni su fenomeni clinici con un falso, cioè non elaborato (e nel mio caso “persecutorio”) senso di riconoscimento, in qualche modo allontana il terapeuta “dal qui e ora della tensione suscitata dal rapporto col paziente”. L'orientamento che la formula del gioco indica rispetto a cosa avverrà nella dinamica espone al rischio di evitamento della nevrosi transferale dal momento che pone il terapeuta nella condizione di accelerare i ritmi del paziente ossia di fornire interpretazioni basate sulla massa di nozioni analitiche o sull'aderenza alla teoria (Casement, 1985). In qualche modo può inibire il mettersi in gioco del terapeuta che immerso nella relazione interrompe bruscamente questo delfinare nel contesto emotivo ed affettivo della relazione clinica proprio perchè cogniticamente risulta confermativo del copione, favorendo all'opposto una distacco antitetico alla funzione riflessiva che sopporta la confusione affettiva portata dalla vicinanza degli elementi del paziente (Migliavacca, 1989). Mantenere vive le riflessioni sia del gioco intrapsichico che del gioco interpersonale rappresenta un'occasione unica per il proseguio della terapia. Possiamo quindi riprendere le formulazioni di Chang e James (1987 in Novellino, p. 126, 2004) che parlano della dinamica del gioco inteso come conflitto intrapsichico del paziente che viene proiettato all'esterno, nella relazione terapeutica, per fornire una sensazione di controllo sul conflitto stesso. Le autrici soffermandosi sul valore difensivo di tale dinamica rappresentano il gioco come un fallimento della rimozione in conseguenza dell'affiorare di una pulsione dell'Es. Riflettendo sul mio dialogo intrapsichico, posso quindi mettere in evidenza come le difese rispetto alle transazioni transferali si traducono nei termini berniani di “Mi hai beccato a giocare” cioè un gioco che assume la dinamica di una reazione di angoscia autodiretta (test di capovolgimento da passivo in attivo). Allo stesso modo le angoscie transferali proiettate dal paziente possono essere assunte dal terapeuta sotto forma di oggetti persecutori quindi in un'angoscia (intrapsichica) eterodiretta “Ti 4


ho beccato a giocare” quando il clinico, accorgendosi di aver giocato, ne sperimenta il suo valore transferale (Weiss, p. 95, 1993). Il livello controtransferale del terapeuta si sostanzia in un gioco berniano fra gli Stati dell'Io, o in altre parole nello sperimentare i due poli opposti delle proiezioni del paziente che vanno dalla svalutazione alla idealizzazione onnipontente (Fonagy, 2001). Il gioco interpersonale assume una dimensione intrapsichica nel terapeuta che accorgendosi di aver giocato, si trova ad un punto di verifica: il gioco del paziente diventa in qualche modo un oggetto/fenomeno che il terapeuta si trova costretto a contenere. Reagire a questo come se fosse un errore rispetto al piano terapeutico o altrimenti passare ad un gioco per riprendere il controllo della terapia rappresenterebbe una situazione simile a quella descritta da Bion (in Casement, p. 124, 1985) di un contenitore spaventato dal proprio contenuto. Da questo punto di vista, giocare i giochi del paziente diventa in alcuni passaggi della terapia una collusione delle sue difese dal momento che viene inconsciamente rinforzata l'attribuzione di un grande potere distruttivo ai suoi disagi e allo stesso tempo giocare i giochi del paziente ci conduce verso il suo terreno familiare, ci avvicina maggiormente alla sua realtà psichica, quindi verso una maggiore comprensione ed una reale intimità. L'interruzione del gioco è un momento ambivalente dove “si gioca la terapia”. La ritualità delle mosse del gioco può proteggere il paziente da un contenuto angosciante che non è in grado di contenere e che vorrebbe censurare ma che è affidato al terapeuta con la richiesta inconscia di non utilizzare meccanismi di evitamento o comportamente percepiti dal paziente come ritorsioni. In questo senso il gioco perde il suo carattere controllante ed assume la valenza di transazione inconscia del paziente diretta a verificare la capacità del terapeuta nel tollerare le emozioni spaventose per poterle affrontare. Nel gioco il paziente testa la relazione col mondo esterno e il progressivo esplorare un'area intermedia a sua volta alimenta il rapporto con gli oggetti: maneggiare le emozioni intense del paziente rappresenta la possibilità che qualcuno sia capace di sopravvivere, quindi un'opzione di ingresso dell'Altro nella relazione (che ha scaturito la difesa stessa), nell'area di gioco: è nel riconoscimento di queste aree quella del paziente e quella del terapeuta che si sviluppa il trattamento. “La psicoterapia si svolge nella sovrapposizione di due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta” afferma Winnicott (p. 94, 1971). “Se il terapeuta non è in grado di giocare allora non è adatto al lavoro. Se il paziente non è in grado di giocare allora c'è bisogno di fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di diventare capace di giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare. La ragione per cui giocare è essenziale è che proprio mentre gioca il paziente è creativo” (ibidem). Occorre soffermarsi sul concetto di gioco così come viene sviluppato da Winnicott (1971): le sue riflessioni partono dai lavori di Melanie Klein che si è occupata del gioco in termini di tecnica. In altre parole l'analista nel tentativo di curare il bambino che non possiede ancora la padronanza del linguaggio necessaria ad affrontare le teniche analitiche, utilizza il gioco per poter osservare il bambino e interagire con lui. Quindi si parla dell'uso del gioco o più propriamente di come usare il gioco nell'analisi. Questo passaggio viene approfondito dalla Freud, la quale ne “L'Io e i meccanismi di difesa” 5


riprende il concetto assimilando la tecnica della scuola inglese del gioco, alla tecnica delle libere associazioni. Il libero flusso delle associazioni corrisponde allo svolgersi indisturbato dei giochi e il bambino sperimenta un'interruzione in questa attività col terapeuta nel momento in cui fa esperienza di istinti od affetti dell'Es da cui l'Io cerca di difendersi (Freud A., p. 47, 1967). Quindi afferma che l'interruzione è la rappresentazione di una misura difensiva dell'Io, paragonabile alla resistenza del paziente nelle libere associazioni. Winnicott amplia il concetto inserendolo all'interno della cornice delle relazioni oggettuali teorizzando che il gioco sia uno spazio potenziale tra il bambino e la madre. L'area del gioco non è nè la realtà psichica interna né il mondo esterno. Questo spazio e tempo il bambino lo impiega investendo su oggetti del mondo esterno, i propri affetti e sentimenti (Winnicott parla di “elementi” che derivano dalla realtà interna o personale) (p. 89, 1971). Si parla quindi un “terzo” spazio, un'area intermedia compresa tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivamente percepito. Il fatto che il gioco in qualche modo occupa questo limbo, lo rende equiparabile ad un fenomeno transizionale che per Winnicott rappresenta uno stadio di evoluzione dell'uso dell'illusione. Dalla nascita l'essere umano si occupa del problema del rapporto tra ciò che è percepito oggettivamente e la percezione soggettiva dei propri stati interni. La madre offre un inizio sufficientemente buono quando si inserisce in questo spazio e stadio di illusione venendo incontro ai bisogni dell'infante. L'offerta del seno fa maturare l'illusione che vi sia una realtà esterna (la madre o il seno, parti di essa quindi) che il bambino crea. “Psicologicamente il bambino prende da un seno che è parte del bambino e la madre dà latte ad un bambino che è parte di se stessa” (Winnicott, p. 35, 1971). Da questa iniziale simbiosi (o sana dipendenza), rappresentata dall'adattamento sufficientemente buono della madre, si assiste poi al suo progressivo “allontamento” (svezzamento) concomitanti al maturare nel bambino di processi mentali in grado di reggere l'esperienza della frustrazione. Tale esperienza rappresenta per il bambino una crescita matura in quanto l'adattamento incompleto (imperfetto) rende gli oggetti reali, ossia odiati altrettanto quanto amati. Il gioco come esperienza illusoria ma non allucinatoria risolve la crescita sana dell'individuo attraverso l'accettazione del paradosso: un oggetto è amato ed odiato allo stesso tempo. La risoluzione di un paradosso, secondo Winnicott, porta ad una organizzazione difensiva che nell'adulto prende il nome di Falso Sé. In altre parole un rapido passaggio ad un funzionamento intellettuale scisso potrebbe risolvere il paradosso dell'affetto e dell'odio, ma a prezzo della patologia dell'individuo. Il fenomeno transizionale induce quindi a puntare l'attenzione sia sull'importanza di una continuità nel tempo di un ambiente emozionale esterno, una base sicura (Bolwby, 1988), sia della possibilità di investimento su oggetti transizionali mediante i quali il bambino esplora la tensione fra mondo esterno e mondo interno, Questa tensione diviene capacità esplorativa similmente al processo di investimento in un oggetto transizionale che viene ripudiato e riaccettato, processo rappresenta la proiezione di un'esperienza esplorativa. Bolwby (1988) stesso sottolineando il ruolo cruciale che svolgono le esperienze di cura e sostegno offerti dai care-giver, afferma che la dimensione del gioco, seppure considerata in antitesti al comportamento di attaccamento concorre a definirne il legame, quindi la rappresentazione della 6


madre e del padre e il modello operante di sé in interazione con la madre e il padre. Tali modelli o rappresentazioni sottostanno ad un sistema di controllo dell'attaccamento che sviluppa poi metodi comunicativi (o transazioni) sempre più sofisticati per mantenere la figura di attaccamento entro certi limiti di distanza e accessibilità. La dimensione psicopatologica nella teoria di Bolwby sostiene l'idea di Winnicott che si radica nel primitivo deficit ambientale sotto forma di “madre non sufficientemente buona”, quindi l'inadeguatezza delle cure materne influenza il modello del Sé del bambino. La rappresentazione di Sé viene influenzata da come lo vede e lo tratta la madre quindi qualunque aspetto di lui la madre non riconosca, cioè non sia in grado di rispecchiare, anch'egli probabilmente non lo riconoscerà in se stesso. Quando una madre risponde a certe comunicazioni emotive del bambino, mentre rimane cieca od assente rispetto ad altre (o persino le scoraggia) si forma uno schema in cui il bambino fonda la sua identità sulla base di risposte favorevoli e disconosce altri aspetti. In altre parole si va a costituire quel Falso Sé, che potremmo indicare in A.T. come quello Pseudo-Adulto individuato da Berne a proposito delle contaminazioni. Si assiste ad uno sviluppo psicopatologico dell'individuo che adotta e rinforza meccanismi di sostituzione, ossia diremmo in A.T. lo strutturarsi di comportamenti ricattatori, cioè ripetizioni stereotipate di sentimenti permessi ai quali si ricorre ogni volta che sta per comparire un sentimento soggiacente più autentico ma scoraggiato (emozioni parassite). Un'emozione trova in relazione ai modelli parentali un'accoglienza od una sua proibizione. Lo sperimentare l'angoscia del gioco A.T. col paziente è quindi traducibile in una presa di panico da parte del Bambino del terapeuta che senza la supervisione dell'Adulto (privati quindi della capacità di mentalizzare), sopprime la consapevolezza (o l'esplorazione potremmo aggiungere) del sentimento e lo sostituisce con sentimenti artificiali autorizzati (English, 1976). Nel momento in cui il paziente cercherà di indirizzare le transazioni verso il gioco col terapeuta si realizza una sorta di passaggio che Winnicott ha definito il passaggio tra l'entrare in rapporto con l'oggetto e l'usarlo. Winnicott parla di queste due modalità di relazione nella misura in cui entrare in rapporto significa usare l'analista come proiezione di una parte del sé, mentre l'usarlo pone il terapeuta in una condizione esterna al mondo soggettivo del paziente: implica cioè per la realtà psicologica del paziente di aver sviluppato una capacità di usare l'oggetto, ossia di fare i conti con un oggetto che autonomo (se sopravvive alla distruzione del paziente, cioè se sopravvive ai test) porta il suo contributo al soggetto stesso in uno spazio potenziale. Possiamo quindi intravedere una corrispondenza simbolica del gioco berniano che al pari di un oggetto transizionale, diventa uno spazio e tempo di transizione tra il qui e ora e il protocollo di copione (elastico), tra il non esserci altro che il me del paziente e l'esserci oggetti (terapeuta) al di fuori del controllo onnipontente. Il gioco analitico transazionale fa emergere le paure regressive tra la realtà interna e quella esterna, tra il far finta e la realtà in una sorta di processo parallelo allo sviluppo infantile: la realtà psichica del bambino matura un confronto con la realtà esterna al pari del paziente che legato attraverso l'alleanza al proprio terapeuta richiede a questi interpretazioni e contenimento (Casement, p. 130, 1985). Fare terapia significa giocare col paziente sia nell'accezione winnicottiana, sia in quella berniana, laddove la prima diventa capacità esplorativa consapevole mentre la seconda parimenti indispensabile, diventa la capacità di sopravvivere ai test inconsci del paziente. Nel momento in cui la relazione terapeutica si sposta verso una maggiore intimità, cioè quando la modalità del far finta 7


viene gradualmente ad essere integrata con l'esperienza della realtà psichica corrispondente alla realtà esterna (Fonagy e Target, p. 154), si riprorranno l'emergere di emozioni o pulsioni proibite e conflitti terrorizzanti da cui il paziente si difenderà mettendo in moto la dinamica del gioco nella speranza di incontrare una realtà in grado di accettarli e confermare per il paziente il piano di vita inconscio (Weiss e Sampson, 2001). Il terapeuta che sta al gioco offre al paziente la possibilità di vedere una sua fantasia nella mente dell'adulto, reintroiettarla ed usarla come la rappresentazione del suo stesso pensiero, sviluppando in questo modo una integrazione matura tra “equivalenza psichica” e “far finta (illusione)”, in una realtà psichica riflessiva (mentalizzazione). In questo senso l'equivalenza psichica si pone in continuum con lo spazio potenziale dove la patologia va all'estremità di una perfetta adesione della realtà interna con la realtà esterna e la salute mentale si pone nel giocare in uno spazio potenziale dove si realizza la differenziazione me e non-me: “Dovesse un adulto pretendere la nostra accezione della oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, non vi scorgeremmo o diagnosticheremmo la follia. Se tuttavia l'adulto trova la maniera di godere dell'area intermedia personale senza avanzare pretese, allora possiamo riconoscere le nostre proprie aree intermedie corrispondenti e ci fa piacere trovare un certo grado di sovrapposizione” (Winnicott, p. 37, 1971) Il paziente dell'esempio prima riportato si presenta alla seduta della settimana dopo parlandomi di come si era sentito dopo aver ascoltato le modalità di procedere della terapia. Pz. “Sento che l'ansia riesco a gestirla meglio.. sento che va bene anche dopo l'ultima volta, in cui mi hai spiegato le modalità e come procedi..” Tp: “Vuoi dire che prima eri confuso e che nonostante ciò riuscivi a gestire questa confusione” Pz: “Già” Tp: “Allora sei migliorato anche nella confusione!” Pz: [sorride] Ritengo che non può esistere una terapia senza giochi: il terapeuta che ne sottostima l'importanza o che ne inibisce l'esplorazione porta l'intero processo terapeutico verso una collusione con le credenze patogene del paziente. L'evitamento dei giochi, o meglio la mancata capacità di elaborarli rinforza le fantasie del paziente che di fronte alle maggiori difficoltà emotive si possono usare solo difese di evitamento: si andrebbe a rinforzare l'attribuzione di un grande potere distruttivo dei propri disagi. Solo l'accesso di questi sentimenti alla relazione può far incominciare il processo di modifica della fantasia sottostante. Quindi se il terapeuta non si sottrae ai giochi del paziente e comprende fino in fondo il significato dell'esperienza di chi ha di fronte, può dare un contributo essenziale alla guarigione definitiva (Casement, p. 114, 1985). L'esplorazione del controtransfert del terapeuta concede alla relazione l'esplorazione del gioco, ossia del conflitto interno suscitato nell'interazione con l'Altro, creando un ambiente di transizione in cui il clinico può offrire transazioni da parte del BL e del GA+ e GN+, ossai fornire rispecchiamento empatico e possibilità di idealizzazione (Novellino, p.139, 2004; Wolf, 1988). Andare a considerare un errore, essersi spaventati di fronte alla partecipazione al gioco del 8


paziente, rappresenta in chiave psicoanalitica un momento in cui si può rintracciare un passaggio tra il trovare l'oggetto (terapeuta) e l'usarlo, laddove gli errori del terapeuta possono essere utilizzati come significanti di esperienze negative delle prime fasi dello sviluppo (Casement, p.144, 1985) In altri termini rappresenterebbe quello che gli psicologi del Sé definirebbero un processo di rottura-reintregrazione cioè un realistico e maturo rompersi del transfert perchè il terapeuta è destinato a “non riuscire” a mantenere un'armonia empatica perfetta col paziente (Wolf, p 120, 1988) . La convalidazione di questa esperienza di gioco permette l'elaborazione dei fallimenti empatici delle figure di accudimento, quindi l'opportunità di transferire all'interno della relazione analitica le decisioni di copione maturate di fronte al trauma cumulato (Khan, 1963 in Gazzillo e Silvestri, 2008, p. 78). Lo sviluppo patologico del bambino è dato dalle “brecce nella barriera protettiva, cioè in tutte quelle zone di esperienza in cui il bambino continua ad avere bisogno della madre come Io ausiliario per sostenere le funzioni del suo Io immaturo e instabile (Khan, 1963 in in Gazzillo e Silvestri 2008, p. 141). I fallimenti della madre, ma potremmo aggiungere della triade di accudimento (Casement, p.20, 1985), portano frequentemente allo sviluppo prematuro e selettivo di alcune funzioni dell'Io, come difesa di ridursi ad una dipendenza sprovveduta. L'uso dei giochi nella dimensione patologica ha lo scopo di rinforzare un Io idealizzato distante dalla realtà, privato della capacità di creare uno spazio potenziale e disturbato dal realismo della sua realtà psichica. Ritorna in questo senso la dimensione pseudo-Adulta rintracciata da Berne, nella dinamica del gioco messo in atto dal paziente. Le transazioni ulteriori del gioco sono volte a manifestare il falso Sé condiscendente rispetto all'ambiente, come difesa all'angoscia di disintegrazione data da carenze nell'holding materno. Questo diventa un gioco berniano, a cui il terapeuta deve sopravvivere interiorizzandolo, come funzione di un Io ausiliario capace di integrare e sostenere la tensione fra interno ed esterno e raggiungere così l'integrazione della modalità del far finta (in cui il bambino tiene scissi pensieri e sentimenti dalla realtà quotidiana) e della modalità dell'equivalenza psichica (dove c'è una coincidenza tra realtà interna ed esterna) (Fonagy e Target, 2001; Khan, in Gazzillo e Silvestri 2008) Il gioco come evento che ripete all'interno del rapporto di cura, un trauma precoce, risultato probabilmente dall'interazione fra fattori di transfert e controtransfert può dall'altra diventare una risposta diagnostica funzionale alla terapia (Casement, p. 81, 1985). Afferma Winnicott “In fondo il paziente usa gli insuccessi dell'analista, spesso molto piccoli, forse manovrati dal paziente [...] Il fattore operativo è che il paziente ora odia l'analista per il fallimento che all'inizio si era presentato sotto forma di fattore ambientale, e cioè al di fuori del campo di controllo dell'onnipontenza dell'infante, ma che ora è rappresentato nel transfert. Così alla fine noi otteniamo successo sbagliando, sbagliando a modo del paziente.” (in Casement, p. 81, 1985). Ne consegue che il gioco berniano diventa un fenomeno terapeutico che rappresenta un terreno per far notare nei comportamenti del paziente le somiglianze fra i comportamenti odierni e le relazioni passate, quindi che conduce verso l'esplorazione del triangolo dell'insight (Transfert/terapeuta, relazioni Correnti, relazioni Passate - TCP) (Menninger in Migone, p.48, 2002). Il gioco winnicottiano, al pari del gioco berniano, diventa una porta di accesso all'elaborazione 9


dell'impasse transferale, dal momento che il paziente rimette in atto nel setting psicoterapeutico la relazione simbiotica originale (Novellino, 2001), in cui si rimodella lo spazio potenziale bambinomadre nel setting paziente-terapeuta (Winnicott, 1954 in Bolko e Merini, 1988), quindi il senso dell'esperienza del paziente del suo gioco come fenomeno transazionale che gradualmente può abbandonare o disinvestire in favore di un'esperienza autonoma nei riguardi delle altre persone. Concludo parafrasando le parole di Winnicott, che l'autonomia, obiettivo che anche Berne intende in chiave di “affrancamento amichevole dai propri genitori” (Berne, p. 212, 1964) si acquisisce in presenza del terapeuta, attraverso il suo esserci, e che la separazione e la discontinuità possono essere affrontate solo dopo un'adeguata esperienza di continuità emotiva. Questo per me significa rendere lo spazio analitico quello spazio potenziale di ricerca aperta e creativa praticabile senza il timore di perdersi. Bibliografia Berne E. (1964) A che gioco giochiamo. Bompiani [2005], Milano. Berne E. (1966) Principi di terapia di gruppo. Astrolabio [1986], Roma. Bolko M. e Merini A. (1988) Il setting in ”Psicoterapia e Scienze Umane” pp. 3-21, n. 2 anno XXII. Franco Angeli Editore, Milano. Bowlby J. (1988) Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento. Raffaello Cortina Editore, Milano. Casement P. (1985) Apprendere dal paziente. Raffaello Cortina Editore, Milano. English F. (1976) Essere terapeuta. Edizioni La Vita Felice [1998], Milano. Fonagy P. e Target M. (2001) Attaccamento e funzione riflessiva. Raffaello Cortina Editore Milano. Freud A. (1967) L'Io e i meccanismi di difesa. Psycho – G. Martelli, Firenze. Gazzillo F. e Silvestri M. (2008) Sua maestà Masud Khan. Raffello Cortina Editore, Milano. McWilliams N. (1994) La diagnosi psicoanalitica. Astrolabio [1999], Roma. Migliavacca C. (1989) Il processo analitico, tra seduzione e commozione in “Psicoterapia e Scienze Umane”, pp. 33-48, n. 2 anno XXIII. Franco Angeli Editore, Milano Migone (2006) Breve storia della ricerca in psicoterapia, pp. 31- 48 in La ricerca in psicoterapia. A cura di Dazzi N., Lingiardi V. & Colli A. (2006) Raffaello Cortina Editore, Milano. Migone P. (2002) Terapia psicoanalitica. Seminari. Franco Angeli, Milano. Novellino M. (2001) L'approccio clinico dell'Analisi Transazionale. Franco Angeli, Milano. Novellino M. (2004) Psicoanalisi Transazionale. Franco Angeli, Milano. Semi A.A. (1985) Tecnica del colloquio. Raffaello Cortina Editore, Milano. Weiss J. (1993) Come funziona la psicoterapia. Bollati Boringhieri [1999], Torino. Weiss J. e Sampson H. (2001) Convinzioni patogene.Edizione Quattro Venti, Urbino. Winnicott D. (1971 ed. orginale) Gioco e realtà. Armando Editore [2005], Roma. Wolf E. (1988) La cura del sé. Astrolabio [1993], Roma.

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