ELLEKAPPA
L’OROSCOPO a pagina 2
circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
(Mogol-Battisti)
Foto di James O’Mara
Editoriale
Qui da noi a Firenze di Fabio Picchi
I
Il viaggio della vita
La provocazione
Agenzia Viaggi Brontoloni di Raffaele Palumbo
N
o, non si può fare. Ricorda troppo certe deportazioni novecentesche. Ricorda troppo certi campi di rieducazione da rivoluzione culturale. Però... Sarebbe affascinante vedere al lavoro un’Agenzia di Viaggi Necessari che lavori in sostanza sull’uso delle parole. Sull’attribuzione di senso, più che sullo svago di chi cerca un po’ di relax in un’isola esotica. Niente di tutto questo. La nostra agenzia dovrebbe avere personale sparso su tutto il territorio fiorentino. Agenti segretissimi che si aggirano tra i banchi dei mercati, tra le code alla posta, all’uscita delle scuole. Loro compito, ascoltare le parole della gente e poi organizzare il viaggio. Si sente dire alle volte: “Mamma mia, il quartiere di San Lorenzo è diventato peggio di Scampia!”. Presto fatto. La persona che ha pronunciato la frase, viene presa e portata per una settimana - una settimana, non un mese o un anno - a vivere direttamente in via Antonio Labriola, nelle case dei puffi, nel cuore dell’inverosimile quartiere napoletano, che da solo fa 80mila abitanti. Oppure quando si sente dire: “Le strade del centro di Firenze sono diventate più sporche di Bombay”. Benissimo, tutto gratis. Il nostro viene gentilmente preso e portato a vivere nello slum di Colaba, come quello raccontato da Gregory David Roberts nel magnifico viaggio chiamato Shantaram. Una volta ho sentito dire - vicino alla stazione - “sembra di stare a Gaza”. L’agenzia lavorerebbe a pieno ritmo. Aerei sempre pieni. Però dice che no, proprio non si può fare.
Occhio di bue
o che da laico amo la Sinagoga, io che amo tutte le Chiese della mia città. Io che da laico voglio una Moschea che simboleggi la nostra caparbia abitudine di fiorentini alla nostra e altrui libertà. Io certo che nessun versetto o pensiero satanico mi terrà in solitudine davanti a un per me augurabile toscano Shish-Kebab. Io che da laico temo i nazionalismi e amo i popoli. Io che da laico ho in odio i vessilli di tutte le guerre ma che amo tutte le bandiere. Amo la nostra bandiera che si fa sintesi del privilegiato regalo ricevuto da chi prima di noi ci ha regalato questa città in questo territorio con tutta le sue complessità e le sue bellezze. Non ultima l’abitudine al ragionamento. L’Islam fiorentino desidera un luogo che per loro sarà luogo di culto, del loro culto. Dovremo essere noi tutti fiorentini, cattolici, cristiani, ebrei, atei a volere questo simbolo come altro simbolo parlante del bisogno di pace e fratellanza. E provo meraviglia per chi, da cattolico, parla dello scorrere del tempo come qualcosa che si trasforma semplicemente in un incerto “si vedrà”. La Pira e il suo muoversi nel mondo in anticipo sui tempi ci è ancora d’insegnamento con la differenza che adesso è il mondo che si muove qui da noi, il mondo senza il quale i nostri anziani non sarebbero curati, le panetterie e i ristoranti avrebbero un bel problema. Un mondo che genera piccoli nuovi fiorentini con la nostra C aspirata, indelebile marchio di appartenenza a una comunità e tanto altro che ormai incontri ovunque, nelle università, in luoghi dirigenziali e non. Sta lì la nostra speranza per un futuro migliore. Qualsiasi altro ragionamento non è prevedibile fra chi ci amministra. Certo che la simbolica chiusura di piazza Duomo ha saputo rendere un centro alla città, certo che l’abbattimento della pensilina di piazza Stazione simboleggia la capacità di urbanistico rinnovamento. Esempi questi di un quotidiano amministrare, di un attento amministrare che saprà urgentemente rispondere a questo bisogno simbolico per noi tutti. Ma principalmente torno a dire la Moschea, come luogo di un culto che si fa casa certa del viaggio quotidiano di alcuni nostri concittadini. Nel ricordarci “a sua immagine e somiglianza” cerchiamo con umiltà di fare il possibile, anche se personalmente mi auguro che Firenze e i fiorentini organizzino una loro Rivoluzione d’ottobre con le intramontabili parole Libertà, Uguaglianza e Fraternità aggiungendo un necessario oggi giorno: con le reciproche entusiasmanti differenze.
Riflessioni
Gatti
Ha ragione Proust: per viaggiare servono nuovi occhi
Dormo e sorrido
di Luigi Settembrini
By Kate McBride
S
ul mio vocabolario il viaggio viene definito lo spostarsi da un luogo all’altro distante dal primo, e d’altra parte i vocabolari sono un po’ come gli ingegneri: precisi ma freddini. Serendip, re e filosofo dello Sri Lanka, la pensava in altro modo. Tanto è vero che, per educare i figli, anziché mandarli a scuola, impose loro di partire per un viaggio. Un viaggio quale che fosse, purché si trattasse di un tragitto, un percorso, una via. Si può viaggiare anche dentro la testa di un amico, il cuore di un amante. Perché Colombo e Vespucci rischiavano la vita affrontando oceani smisurati e ignoti su navi grandi come un bilocale? Marcel Proust sostiene
che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi. Amerigo Vespucci voleva quindi nuovi occhi? Di sicuro. Difatti, con i suoi occhi nuovi, descrive così il paesaggio durante il suo quarto viaggio alla scoperta del continente sudamericano: “Quello che vidi fu... tanti pappagalli e di tante diverse specie che era una meraviglia; alcuni colorati di verde, altri di uno splendido giallo limone e altri neri e bene in carne; e il canto degli uccelli che stavano negli alberi era cosa così soave e melodica, che molte volte rimanemmo ad ascoltare tale dolcezza. Gli alberi che vidi sono di tale e tanta bellezza e leggerezza
Gesti Teatrali
che pensammo di trovarci nel paradiso terrestre[...]”. La prova definitiva che per viaggiare ci vogliono gli occhi è costituita da quei giapponesi intruppati dietro la bandierina del tour operator, che girano senza veramente vedere. Forse s’aspettano che il sindaco di Firenze li saluti da un balcone di Palazzo Vecchio, travestito da Lorenzo de Medici. Sant’Agostino afferma che gli uomini viaggiano per stupirsi degli oceani e dei monti, dei fiumi e delle stelle e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi. (Però Matteo Renzi abbigliato in quel modo sarebbe Magnifico per davvero. Viaggio o non viaggio, resterebbe strabiliato anche il Santo).
La valigia dell’attore
Elogio del portapacchi
Quel Globe non è a Londra
di Alberto Severi
di Alessio Sardelli
E
G
sistono ancora quegli elastici, coi ganci, che servivano a fissare scatole, masserizie, vettovaglie, tricicli, biciclette, monopattini, sui portapacchi delle familiari, quando si partiva per i viaggi più lunghi, negli anni ’60? Esistono ancora, i portapacchi? O, nelle familiari del terzo millennio, promosse a station wagons, tutto finisce elegantemente stipato e nascosto nel ventre stesso della carrozzeria, in portabagagli infinitamente capaci, come la borsa di Mary Poppins? Se è così, si è perso un altro gesto teatrale, che a noi bambini della prima motorizzazione di massa dava il senso e il gusto del viaggio: quello del padre di famiglia-demiurgo, che armeggiando con gli elastici uncinati come col filo di un aquilone, si arrabattava coreograficamente attorno all’automobile, ideando – chi con un progetto e una strategia precisa, chi all’impronta, seguendo l’estro – elaborati percorsi geometrici nei quali l’elastico tendeva a raggiungere la tensione massima, attorcigliandosi attorno agli spigoli delle scatole e al portapacchi, e conferendo all’assemblaggio di bagagli il massimo contributo di compattezza e stabilità. Quale somma soddisfazione nel saggiare la tensione dell’elastico, e nel considerare l’artisticità della composizione che, simile a un monumento impacchettato dallo scultore Christo, troneggiava sul tetto dell’automobile, sfidando ogni legge dell’aerodinamica! Sebbene il più, il viaggio, dovesse ancora iniziare, il prologo, così teatrale, già meritava l’applauso. E il sipario.
Esperienze
lobe Theatre. Londra? No, Roma, direttore artistico, Gigi Proietti, romano romanista, profondo conoscitore e interprete del dialetto capitolino, un superbo Petrolini. Che c’entra, direte voi, il dialetto con Shakespeare? Orbene, il Bardo usava spesso per le sue rappresentazioni, attori provenienti da zone diverse dell’Inghilterra, creando curiose sinfonie verbali. Il primo appuntamento per un attore è l’approccio al testo, ovvero le prove a tavolino. La commedia da rappresentare è I due gentiluomini di Verona, protagonisti Gianluca Guidi, figlio di Johnny Dorelli, e Giampiero Ingrassia, figlio dell’indimenticato Ciccio. Naturalmente presente il regista Francesco Sala e nientepopodimenochè Vincenzo Cerami, che ha curato l’adattamento del testo, e Nicola Piovani, creatore delle musiche di scena. Non vorrei cadere nel banale se ad un certo punto è arrivato anche il Gigi nazionale, ma è così. I due ruoli affidatimi dal regista prendono due strade diverse: il nobile amico di famiglia in italiano e l’oste in toscano! Mentre leggo, cerco con occhiate oblique e velocissime, di carpire le varie reazioni dei maestri presenti. Niente, nessuna reazione. I maestri se ne vanno. È la sera della prima. Come tutte le prime, senti che tutti i nervi del corpo sono tesi, con tutti i muscoli a far loro da coro. Entro, sono Pantino, amico di famiglia e consigliere di Messer Antonio, teso, ma l’italiano risulta chiaro e preciso. Ed eccoci. A metà del secondo tempo, fa capolino sul magico palco del Globe, un minuscolo oste, che sembra essere uscito da una fiaba inglese. Con dialetto di romanza toscana dialoga e poi se ne va come è entrato, in punta di piedi, senza far sgarbo a nessuno, ma avendo pennellato il suo personaggio con il suo volgare, che ad un altro poeta, addirittura divino, sarebbe tanto piaciuto. Sorrido. I maestri sorridono, Cerami si congratula con me: “Che vis comica. Che bel personaggio poetico”. È andata. Mi rilasso. Guardo in alto: “Il Bardo che dirà?”. Mi guardo allo specchio e sorridendo dico: “Icchè tuvvoi che dica? I’toscano unlosà!”.
Percorsi
Da Brecht a Cecov
Quando penso di ritornare
di Monica Capuani
di Massimo Niccolai
L
Attrazione, desiderio. C’è qualcosa che mi attrae, non riesco a fermarmi e pensare che in fin dei conti posso rimanere qui tranquillo nel mio guscio qui sono protetto, conosco tutti e tutti mi conoscono, sanno quali sono le mie abitudini, mi vedono passare tutte le mattine per andare al lavoro, mi salutano e in quei saluti trovo un senso di protezione: mi riconoscono e mi sento tranquillo... eppure una strana forza mi trascina, mi logora, vuole che esca. Angoscia, decisione. Confliggere mi mette sempre angoscia: andare o no e poi chissà cosa troverò ma poi è proprio necessario partire, in fin dei conti sto proprio bene, ho il mio lavoro, ho la mia famiglia, i miei amici... E poi perché devo andare in altri luoghi, basta guardarsi intorno, è il proprio mondo perché andare... Eppure qual-
ondra. Era un teatro quasi nuovo, nel quartiere emergente di Islington, l’Almeida, quando tanti anni fa mi sedetti nella sala dalle pareti in mattoni dipinti a cementite per assistere a Madre coraggio e i suoi figli di Brecht con Glenda Jackson nel leading role. La capacità di devastazione spirituale della guerra, e l’effetto-valanga che ha sulla dignità della gente: mai il messaggio del testo mi era arrivato con tale potenza. La Jackson poco dopo decise di abbandonare le scene per la politica. Non dimenticherò mai il suo talento asciutto, virile. New York. L’anno scorso, ho raggiunto a Broadway la produzione inglese del Royal Court de Il gabbiano di Cěcov, con Kristin Scott Thomas come Arkadina. Biglietto, preso la sera stessa, in terza fila. Com’è semplice, Cěcov. Scenografia essenziale, luci geniali, costumi perfetti. Attori grandi, anche nel ruolo dei contadini che non parlano mai. Cristallino, pungente, attuale, universale, il testo, con l’aiuto della professionalità altissima di tutti. Negli anni che corrono tra questi due ricordi, ci sono tantissimi viaggi nelle due città che per me sono capitali indiscusse del teatro. Un teatro vivo, vibrante, che tocca corde non sempre accessibili della mente e del cuore, che influenza lo sguardo e il pensiero. Un teatro che qui da noi, purtroppo, quasi mai vedo.
cosa mi impedisce di stare, mi logora e allora non ho alternativa, parto... Preparo le mie cose, avrò con me tutto quello che mi serve, troverò le cose che mi necessitano, ho delle abitudini, non posso farne a meno, mi appartengono e poi gli altri chi sono non certo come me... Ritorno. Come disse un mio amico, “Non bisognerebbe mai partire perché quando si pensa di ritornare è lì che comincia il proprio viaggio”. Ed è proprio così, è lì che inizia il mio viaggio, il mio mondo scompare e nei volti delle persone vedo tanti altri volti sofferenti, soddisfatti, sicuri di sé, felici... Come la foto di un bambino che sta scendendo dal suo calesse ai giardini, è stato il suo primo viaggio da solo ed è felice di rivedere la sua mamma e raccontarle tutto quello che ha visto e provato.
I
sleep, I dream, I journey ...To a small painting, the Allegory of Happiness, almost missed in a corner of the Palazzo Strozzi. Bronzino, the poet, paints images on copper. Happiness in the center, a porcelain smooth female figure, dressed in pink and blue, holds a cornucopia of fruit. She is loved. Cupid tugs at her dress and wraps his arm possessively across her thighs. To either side, Justice and Prudence guard her. Justice holds a globe, Italy in the center. The head of Justice is double-sided. The Roman god, Janus, looks away from Happiness and the face of a woman toward her. Janus, the Roman god of gates and doorways, the god of beginnings and endings. Time and Fortune kneel, lovingly gazing up at Happiness. Between them the enemies of Peace and the Wheel of Destiny lie defeated. Fame flies above her, just exiting the dream, sounding a trumpet alongside Glory who carries a crown garland made of laurel, ready to be placed on the head of Happiness. In my sleep, I smile. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
TRADUZIONI, APPROFOND
ambasciatat
Polvere di
Oroscopo BILAN
23 settembre di ELLEKAPPA
Il vostro schema karmico è decisamente positivo, Plutone in transito su Weimar lascia prevedere una prima decade movimentata, ma non preoccupatevi, sono solo normali rastrellamenti, e se non siete rom, immigrati, gay o seguaci della Costituzione non avete nulla da temere.
Amore
Venere posizionata sul suq del transatlantico rende irresistibile il vostro lato b al partito dell’Amore, che in base al nuovo codice etico varato dalle sue maitresse-à-penser troverà normale pagare per averlo. La luna consiglia: prima di farvi travolgere dalla passione accertatevi della solvibilità del partner e ritoccate la vostra tariffa.
Lavoro Photo by James O’Mara
Plutone in parallasse con D’Alema complica la vostra vita lavorativa. Vi
Emozioni In preghiera per Adamo di Patrick Pacheco
W
hen visiting Florence, tourists usually make a beeline for Michelangelo’s The David at the Accademia. But I was recently captivated by a far more minor work in the collection: The Dispute of the Doctors of the Church over the Immaculate Conception by Giovanni Antonio Sogliani. It too features a Biblical character. But one who stands in stunning contrast to Il Gigante. For there at the bottom of a painting of the Blessed Virgin in apotheosis, surrounded by angels on one level and adored by Church Fathers on another, is the prostrate and sepulchral figure of the dead Adam. While there are countless paintings of the expulsion from the garden of Eden, I had never before seen a depiction of the wages of sin as visited on its perpetrator. In the painting, Adam lies lifeless clothed in an animal skin to hide his shame, this man once envisioned so gloriously naked by Michelangelo on the ceiling of the Sistine Chapel. He appears in the painting almost as an afterthought. The eye is drawn upward to the Virgin. And the Fathers themselves regard Adam clinically, if at all, like surgeons surveying a cadaver in a Flemish painting. And yet the bereft figure arouses such awe and pity. Where, I think, are those who might mourn him, this first man central to Judaism, Islam and Christianity? Unlike the countless Mater Dolorosas receiving the body of the dead Christ, there no one to cradle or anoint Adam’s corpse. No one, that is, except perhaps us, his progeny. But why should we? After all, what has he bequeathed to us but frailty, the certainty of death. Yes, but with that, the essential and timeless urge to explore its mysteries through all art. And is that not worthy of a prayer for a dead man? ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Maria
Marco Po Sergio and t
Ferdinando
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Morgantin
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Qu Metamo
Oblivion
Sinforosa
M a d e m o Sarabande V
TOMASO M Pietro
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L o u n g
teatrale.com
i stelle
o del mese NCIA
e - 22 ottobre
accusano di voler radere al suolo la vostra azienda solo perché voi, da ex amministratore delegato, la amate talmente tanto che preferite vederla morta piuttosto che nelle mani di un altro. La luna consiglia: date una mano all’Africa e al vostro Paese: trasferitevi in Nuova Caledonia.
Da Boston fino al Risorgimento
Sosta sul Nilo vista da Caravaggio
di Stella Rudolph
di Tomaso Montanari
L’
C
impulso a viaggiare scaturisce da curiosità e svago, desiderio di acculturamento, di allargare gli orizzonti; oppure da una cesura nella vita, una fuga, un senso d’incompiutezza, comunque sempre tesi all’autorealizzazione. L’insieme di questi motivi spiega il destino della bostoniana Margaret Fuller (1810-50) nel lasso tra il viaggio di andata nel 1846 verso l’Italia e quello di ritorno quattro anni dopo. Coltissima fanciulla, poi brillante giornalista e femminista ante litteram nonché intrinseca del circolo del filosofo R. W. Emerson, Margaret era ormai una protagonista della cultura americana quando, dopo una delusione amorosa, decise di mettersi in viaggio nella veste di corrispondente sui moti politici in atto qui. Ne rimase coinvolta visceralmente: conobbe il conte Giovanni Angelo d’Ossoli, di dieci anni più giovane e ardente mazziniano, lo sposò e partorì un figlio, Angelino; insieme combatterono per la Repubblica di Roma nel ’49, lui sulle barricate e lei a capo di uno degli ospedali allestiti da un’altra eroina del Risorgimento, la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso. In seguito passò un anno di relativa tranquillità con la famigliola a Firenze, di stanza in piazza Santa Maria Novella. Fu l’ultimo. I tre salparono da Livorno nel maggio 1850 per gli Stati Uniti e morirono tutti quanti nel naufragio del bastimento il 16 giugno sulla spiaggia di Fire Island a poca distanza dall’approdo. I corpi degli sposi non furono ritrovati. Resta il memoriale eretto dagli amici della Fuller nel cimitero di Cambridge (Mass.): “BY BIRTH A CHILD OF NEW ENGLAND/BY ADOPTION A CITIZEN OF ROME/BY GENIUS BELONGING TO THE WORLD”. Tutto sommato la singolare vicenda italiana di Margaret è una metafora del viaggio come inizio, complemento e fine.
Su Venere e Marte andranno i robot di Clara Ballerini
V
iaggio incredibile, complesso, non necessario ma subito indispensabile e bellissimo: era il 1969, avevo otto anni e l’uomo era sulla Luna. Quando abbiamo cominciato a viaggiare nello spazio? Circa 400 anni fa con Keplero, con Galileo, con Newton. Le loro scoperte i loro modelli teorici e la fabbricazione dei primi telescopi è stata la base del nostro sguardo allargato, base che ci ha permesso di conoscere, di fare ipotesi forti sulla nostra origine e di guardare i pianeti come qualcosa di molto di più che semplici puntini luminosi. Prima dell’era spaziale si sapeva poco del sistema solare, dei suoi componenti e della stessa Terra. Troppo pochi erano i fatti a disposizione: fino al 1966 si discuteva sulla probabile vegetazione di Marte, dieci anni prima l’opinione scientifica si divideva fra chi sosteneva Venere coperta da deserti, chi da oceani e chi da paludi. Il nostro viaggio futuro avrà come destinazione le stelle? Probabile, ma limiti fisici e biologici suggeriscono che non saremo noi a vederle, ce le racconteranno i robots, la nostra progenie meccanica. Viaggio virtuale ma pur sempre viaggio, come quello che suggerivano le parole di Bart Howard:“Fly me to the moon and let me play among the stars”. Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphilj, Roma © ADP - su Licenza Fratelli Alinari
Sintesi esaustiva
a Cassi
Quei due in cammino milioni di anni fa di Milly Mostardini
oggiolesi F the Spiders
o
ome per milioni di famiglie del nostro tempo, l’unico viaggio della famiglia di Gesù non fu una scelta, ma un obbligo: la fuga da un potere sanguinario, la ricerca d’asilo in un paese straniero. Ma a Caravaggio interessava la trama quotidiana del viaggio: una trama di fatica, di stupore e di incontri. E così sceglie di rappresentare il momento in cui cala la sera, e i viaggiatori si fermano sulla riva del Nilo. Mentre il babbo Giuseppe smonta il sacco del bagaglio, l’asinello sgrana gli occhioni mansueti di fronte ad un folletto appena piovuto dal cielo: un angelo sbarazzino, coi capelli color dell’autunno e le ali da rondine gigante. Questo strano compagno di viaggio ha un violino: e cosa c’è di meglio, per conoscersi, che far musica insieme? Ogni incontro – sembra dirci Caravaggio – ci completa. Senza la musica dell’angelo Giuseppe veglierebbe solo e triste: ma se quel povero falegname seduto sulla valigia non gli reggesse lo spartito, nemmeno l’angelo di Dio riuscirebbe a suonare. Mentre la fantasia di Giuseppe viaggia sulle vertiginose strade della musica, Maria e Gesù sprofondano nel viaggio fantastico del sogno. Forse Maria sogna il ritorno alla pace della sua casa di Nazaret, chissà se Gesù sogna di costruire un’umanità in cui nessun viaggio ci renderà stranieri.
Ri-cercata
Fortuna
Giove in contrapposizione con Mills, non depone a vostro favore confermando che questo non è un buon momento per voi. Sentite il sinistro tintinnare delle elezioni e le assicurazioni di fedeltà del vostro alleato padano cominciano a suonarvi false più delle notizie del Tg1. La luna consiglia: non abbattetevi, avete almeno tre buoni motivi per essere ottimisti: Grillo, Di Pietro, Veltroni.
Lasciate che i bambini
Una Stella a Firenze
DIMENTI E TANTO ALTRO SU
Romano
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Simone
Asse i b i o Duo
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uartetto rphosis
ino dalle loro prime tracce, lasciate sul pianeta, vediamo che uomini e donne si erano messi in cammino, andando. Viaggiando, si direbbe oggi. È una storia, questa, che amo raccontare. Nel 1976 il paleoantropologo Richard Leaky, che stava proseguendo gli scavi iniziati dal padre Louis negli anni ’50, scoprì alcune orme di ominidi, in Kenya, zona della grande Rift Valley, la faglia dell’Africa centrale, terra di laghi, sorgenti dei fiumi Congo e Nilo. Oggi è il parco nazionale di Ngoro Ngoro. Tra le orme di grandi animali, rinoceronti ed elefanti, di piccoli mammiferi, gnu e giraffe, ecco le orme dei due ominidi, le une più grandi accanto alle altre più piccole. Un adulto e un bambino? Un uomo e una donna? Sono vecchie di 3 milioni e 700 mila anni, più vecchie dunque del famoso scheletro di Lucy, trovato nel 1974 nel deserto dell’Etiopia. Le orme sono presso Laetoli, dove corre la lunga pista della migrazione annuale degli gnu, antilopi africane, verso le verdi pianure Serengeti. Le orme si suppone siano state coperte dalle ceneri di un’eruzione del vulcano Sadiman, che si trova nei pressi, oggi estinto: il terreno a causa delle grandi piogge avrebbe cementato le finissime polveri, poi indurite e sigillate dai sedimenti di successive eruzioni. Non dobbiamo immaginare però che i due in cammino fossero simili agli umani di oggi o all’homo sapiens, giovane di 75 mila anni fa, nemmeno Lucy è simile a una donna di oggi. Ma il punto è che i due camminavano eretti in piedi. Per andare dove? Forse in cerca d’acqua, cibo, terra migliore, una vita diversa. Erano i nostri progenitori primordiali: già in viaggio, migranti, pellegrini, fuggiaschi o esploratori, milioni di anni fa, che riempiranno la terra.
La fatica
Petralia
Incontri Willin’ è il vero canto del Viaggio di Ernesto de Pascale
V
ita da rocker. Non ti sbagli. Vivi di viaggio: bellezza, necessità, obbligo, complessità più una valigia dell’attore piena di altre cose. Celebrato da tutte le più importanti rock star (Tramps Like Us/Baby We Were Born To Run per citare Springsteen in Born To Run) il viaggio resta il passepartout per imboccare la strada dorata per la devozione senza limiti come lo definivano The Grateful Dead nella San Fracisco dell’estate dell’amore. La più grande celebrazione del
Viaggio con la V maiuscola è Willin’ canzone scritta a Los Angeles nel 1970 da Lowell George, leader degli appena formati Little Feat, una delle più importanti rock band americane dei Settanta. “The song - which bears an open reference to dopes & booze - quickly became a favorite among America’s truckdrivers, many of whom continue to regard it as the anthem of their profession... Although absurdly it never has been a hit”.
Classika In giro per l’Europa a cercare violini di Gregorio Moppi
liutaio israeliano di nome Amnon Weinstein che da oltre dieci anni percorre l’Europa o i s e l l e In grisaglia con il machete sulle spalle C’èallaunricerca di violini malmessi da rimettere in sesto di modo che, riacquistata la voce, posdi Giancarlo Ceccanti sano raccontare il loro lungo viaggio attraverso la storia. Strumenti – trovati in magazzini, scantiVieri Sturlini nati, su bancarelle e in botteghe antiquarie – riemersi dalla tenebra dell’Olocausto. Molti recano
MONTANARI S
uarracino
West Band
g e r i e
ono in viaggio; mi trovo in un villaggio dell’Africa equatoriale all’interno della foresta. Qua si vive con poco e la povera economia si regge sul lavoro della terra: olio di palma e cacao vengono commercializzati mentre ci si nutre di banane, papaie, ananas e arachidi che sembrano crescere un po’ disordinatamente ma con grande facilità, fra alberi giganteschi. Il vice capo villaggio che stavamo aspettando rientra dal lavoro, indossando una rigorosa grisaglia di taglio occidentale, poggiando sulla spalla l’inseparabile machete. È bagnato di sudore e stride così tanto l’eleganza dell’abito rispetto al contesto. Ma convince la sua risposta alla nostra espressione di meraviglia: la Terra va trattata con rispetto.
incisa sul fondo la stella di Davide. Provengono dall’est, dal ghetto di Varsavia, da Auschwitz. Appartenevano a ebrei: musicisti klezmer che, in tempo di pace, li usavano in casa o in strada per matrimoni, funerali o per chieder la carità. Durante la guerra, invece, uno di questi violini accompagnava, con agghiacciante, suadente serenità, l’ingresso dei prigionieri nei lager. Un altro era proprietà di un dodicenne, unico sopravvissuto alla distruzione del suo villaggio. Notato da un ufficiale nazista, il ragazzo venne obbligato a suonare alla mensa della SS finché, istruito dai partigiani, non fece saltare il comando tedesco con la dinamite. Pochi giorni dopo però anche lui venne ucciso mentre tentava di salvare un soldato russo da un’imboscata nemica.
La ricetta Pieni d’Islam
Cinema
Sotto le mura a raccogliere capperi La cultura è tonda come la Terra? di Giovanni Curatola
di Juan Pittaluga
N
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on ci volevo credere! Ma scherziamo, mi sono detto, chiedere a un islamista di parlare della bellezza, necessità, ecc. del viaggio? Cioè parlare di quell’Islam cha ha uno dei suoi 5 precetti fondamentali (il quinto, per l’esattezza, al-hajj) nel pellegrinaggio a Mecca una volta nella vita se si hanno i mezzi, che è il più bel viaggio che un musulmano possa immaginare? (Tolgo la curiosità; se non si hanno soldi o si rischia di far morire la gente di stenti a casa, come le villeggianti del conte Mascetti, è meglio astenersi, ché non si fa peccato). Quel mondo musulmano che ha nella dinamicità fisica e sociale la sua (incompresa) forza più grande? E il profeta Muhammad sulla sua cavalcatura magica (il mitico buraq, risposta islamica all’asino bianco/multicolore del Cristo che entra a Gerusalemme) che da Mecca vola, anche lui, a Gerusalemme per poi visitare il paradiso ed essere d’ispirazione a Dante, lui, dove lo mettiamo? Mah. Dove vorrei tornare, io, in un viaggio per assaporare tutta l’urgenza del viaggio? Forse al Cairo con un amico che non c’è venuto, oppure portarlo a Gerusalemme a fare il giro delle mura a raccogliere i capperi come facevo, incosciente ma felice, una ventina d’anni fa. Poi li mettevo sotto sale, i capperi, non i ricordi!
i le voyage n’est possible que par l’éloignement du familier, où peuton aller lorsque tout territoire a été découvert? Lorsque partir loin est revenir? La culture est-elle devenue ronde comme la terre? Il faudra aller dans l’espace, la où il n’y a plus d’oxygène, pour se dépayser. Mais qui a envie de vivre dans un scaphandre, sans toucher la peau de la différence? Le cinéma qui semble tourner autour du familier depuis vingt ans, ne sait plus sortir de cette métaphore et son infantilisation constante est une tentative vaine de retrouver la force de l’innocence. C’est qu’il lui manque un peu ce goût du voyage, qui est avant tout celui de l’étonnement Grec. Le voyage est possible. C’est la profondeur de, l’émerveillement qu’il faut suivre, si nous avons la chance de le rencontrer, mais pour ça, il faut s’éloigner n’est-ce pas? ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Da Gerusalemme Here comes the train di Sefy Hendler
Porcini all’insù e all’ingiù di Fabio Picchi
I
n fortunata abbondanza di cappelle di funghi porcini, una variante possibile è di cuocere le suddette prima a capo all’insù e poi a capo all’ingiù in un padellino rovente disponendo in assenza del gambo nel foro un tuorlo d’uovo. Nipitella e aglio per ulteriore condimento con spolverata di valdostana grattugiata, pepe e sporcatura d’olio. Abbondantissimo pane.
Un verre de vin rouge Un Porto molto navigato di Ugo Federico
T
ante cose accadono durante un viaggio difficile, a volte forzato, che ci cambiano migliorando ciò che siamo... Come in Portogallo, nella regione del Douro nel XVII secolo dove gli inglesi scovarono il vino di Oporto investendo grossi capitali per portarlo in patria sostituendolo al tanto amato clairet sottoposto ad embargo. Agli inizi il porto era vino rosso, non fortificato. Per renderlo più idoneo ad affrontare il viaggio in mare verso le coste inglesi, si pensò di aggiungere brandy al mosto per bloccare la fermentazione facendone un vino liquoroso. Frutto di una vendemmia estrema e di vitigni come la Touriga Nacional, la Touriga Francesa e Tinta Roriz il Quinta Do Tedo Vintage 1997 è figlio della sapiente esperienza di Vincent Bouchard, figlio di blasonata famiglia produttrice in Borgogna. Rosso granato con sfumature aranciate, ha profumi che vanno dal cacao al rabarbaro bruciacchiato con sentori di frutta secca e rosa canina. Una dolcezza in bocca equilibrata e bilanciata da una freschezza disarmante. L’uva viene vendemmiata a mano per via delle scoscese rive del fiume Douro, per poi essere pressata con i piedi per alcuni giorni in vasche di granito chiamate lagares. Sistemata in tini d’acciaio, viene fermata la fermentazoione con l’aggiunta di un’acquavite d’uva. Il vino viene poi invecchiato nelle famose pipe portoghesi che nella primavera affrontano un fantastico viaggio sul fiume a bordo dei caratteristici barcos con destinazione Vila Nova de Gaia dove riposano in cantine fresche per anni ed anni. Bevuto in compagnia, per chiudere un viaggio divenuto indimenticabile.
Di line e di lane
L’orto
Una leccia e i sugarelli sul Frejus
Cime o teste di rape
di Pietro Jozzelli Parigi. Due chilometri prima del Frejus, l’intesa prevedeva due palamite, una ventina di sugarelli e quattro gallinelle. Dopo il tunnel, mentre l’Espace filava a 140-160 all’ora, le palamite erano diventati dentici, i sugarelli resistevano, si affacciava l’ipotesi di una leccia o due, magari stellate. Prime luci dell’alba, cielo color del piombo, autostrada a perdita d’occhio verso il nord. Lo chef Mangiafoco pigiava sull’acceleratore e sui tasti dell’I-phone. Ogni tanto il flash stroboscopico di un autovelox o il lampo intermittente di altri fari, ancora più veloci. Era in corso una formidabile triangolazione tra gadget elettronici di ultima generazione e pesca con la rete nel medio Tirreno, cibo di mare antico come l’uomo e finezze di gourmet nel ristorante alla moda. Mangiafoco-Schumacher voleva arrivare prima di sera a Parigi, le cucine fiorentine reclamavano il pescato, dall’Espace partivano chiamate verso i vecchi sul mare: allora? Ricciole o tonnarelli, gallinelle o orate? Tra Grenoble e Macon, la decisione finale: una leccia, tre o quattro orate, tanti sugarelli. I sottoproletari del mare avevano resistito fino alla fine. Mentre fuori – come cantava il poeta – ormai era soltanto pioggia, pioggia e Francia.
di Stefano Pissi
S
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
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ono di ritorno da un viaggio, ma prima di partire, insieme al mio maestro d’orto, abbiamo deciso che erano, il tempo e la luna, adatti alla semina. Anche per quest’autunno rape; di tre tipi: da foglia, da radice – la testa – e da fiore – la cima. Si seminano a spaglio, sulla terra finemente sbriciolata, con il gesto della mano che si apre al mondo, che guarda il futuro. Mi piaceva l’idea che, prima di avventurarmi e di uscire dalle mura sicure del mio orto, avessi potuto vedere la speranza verde delle mie rape che crescevano. Mi piaceva l’idea di seminare prima per poi, al mio ritorno, trovare l’orto cambiato, nuovo, tenero verde tenue. Ma alla fine ho aspettato di veder spuntare, dai semi invisibili, le prime foglioline a viva conferma di un buon lavoro. Adesso sono pronto per il viaggio: la valigia, l’emozione del volo, l’entusiasmo dei compagni, la nostalgia mista all’agitazione del lasciare la propria casa la nostra quotidianità amata, e il necessario godimento che c’è nello stacco. Arrivato all’aeroporto, controllano documenti e bagagli... Ma com’è che il viaggio non parte! Documento scaduto, testa di rapa! Provo una seconda volta ma al check-in non mangiano la foglia. E allora mi consolo, d’altronde con le date non sono mai stato una cima... di rapa? Ma alla fine, buon viaggio. Disegno di Lucio Diana