Ambasciata Tealtrale - Novembre 2010 - Anno II Numero 10

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LUIGI SETTEMBRINI

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GIANCARLO CAUTERUCCIO

a pagina 7 acquifera.org

circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

1° NOVEMBRE 2010 TEMA: CITTÀ APERTA

Donne libere by James O’Mara

Per dignità

L’incontro

Rivoluzione Gli angeli con faccia e cuore con una sola ala di Luca Telese

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are la rivoluzione è sempre esaltante e pericoloso. Fare la rivoluzione a novembre può sembrare provocatorio e indelicato. Fare la rivoluzione a Firenze è suggestivo e persino romantico. Ma. al di là di tutto, il problema è che fare la rivoluzione, oggi, è un imperativo morale irrinunciabile. Nessuna esagerazione, sia chiaro. Siamo gente di campagna, abituata al senso delle proporzioni: sappiamo non prenderci troppo sul serio. Ma sappiamo anche che l’Italia di questi giorni è un paese impantanato, avvitato su se stesso, imputridito in vicende bieche e incapace di declinare al futuro il verbo sognare, il verbo sperare, il verbo pensare. L’Italia ha caratteristiche straordinarie, uniche nel mondo, un Paese portatore sano di entusiasmo e di intelligenze, di passione e di energia. Eppure passiamo il tempo inseguendo le società offshore che comprano case all’estero, viviamo di dichiarazioni banali e vuote di chi sguazza nell’acquario della politicuccia romana, aspettiamo le riforme gattopardesche che mortificano la repubblica democratica fondata sul lavoro e affondata sulla SEGUE A PAG.3 rendita.

Florence Dance Center Performance, monastero della Certosa

Passato e futuro

Come se ne esce?

Una parola: coraggio

L’ottimismo della volontà

di Curzio Maltese

di Fiorella Mannoia

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I

agionar di politica è la principale occupazione dei fiorentini, quale che sia il loro mestiere ufficiale, dai tempi dell’Alighieri. Il sommo padre provò in tutti i modi a fare il politico, ma già allora quelli troppo onesti e intelligenti erano svantaggiati, così s’arrangiò a diventare il più grande poeta d’ogni tempo. A volte con Roberto Benigni immaginiamo Dante ai tempi nostri, seduto a tavola con noi a parlar male di Berlusconi e della Chiesa in mano a trafficoni e affaristi. E comunque non avrebbe fatto carriera nemmeno oggi. La premessa per dire che non c’è luogo migliore di questa città per inaugurare un laboratorio politico aperto ai cittadini. Nella città dove tutto il mondo arriva per ammirare il passato, un bel pezzo d’Italia arriverà per spiare il futuro. Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Al contrario. Quello che rende la politica italiana così lenta rispetto al resto dell’Occidente, gerontocratica, conservativa, allergica al cambiamento, è proSEGUE A PAG.2 prio l’assenza di memoria storica.

di Matteo Renzi

l problema è: come se ne esce? Non so dare a questa domanda sempre la stessa risposta, dipende dallo stato d’animo in cui mi trovo. A volte sono più ottimista, a volte invece penso che non ci sia più niente da fare, che questo Paese sia ormai perduto, senza speranza. È un dato di fatto: siamo al livello di corruzione del Ruanda, che occupa il nostro stesso posto nella graduatoria, abbiamo un tasso di evasione fiscale come pochi Paesi nel mondo industrializzato, con una classe politica - salvo poche eccezioni - corrotta a tutti i livelli, collusa con la criminalità organizzata che gestisce la quasi totalità della cosa pubblica: appalti, rifiuti, sanità, perfino i loculi al camposanto. La scuola pubblica e l’università sono allo sfascio, i tagli sono arrivati persino a quel già misero sostegno che era destinato alle famiglie dei disabili. Migliaia di lavoratori hanno perso il posto e molti altri sono a rischio disoccupazione. La ricerca è ridotta a zero e i nostri giovani laureati migliori (quelli che se lo possono permettere) lasciano il Paese per cercare lavoro all’estero. SEGUE A PAG.3

Occhio di bue

e ci pensi è curioso, il modo in cui in questa splendida città si incastrano, come tessere di un mosaico policromo, o come rappresentazioni di ombre su una quinta teatrale, il passato e il presente della sinistra italiana. Se ci pensi è sorprendente il modo in cui girano vorticosamente i cardini delle sliding doors che decidono - facendo perno su questo baricentro - il passaggio fra equilibri antichi e moderni, fra la piccola e la grande storia. Perché Dio non gioca a dadi, ma il destino sì, e quando sceglie come campo di battaglia questa città, improvvisa grandi rappresentazioni drammaturgiche. Qualcosa ricomincia a Firenze, dunque, dal congresso di Sinistra e libertà, e dal singolare incontro tra Nichi Vendola e Matteo Renzi. Due più diversi di loro sulla carta, non si potrebbero trovare, ma forse proprio per questo i due si parlano e stabiliscono un legame, in questo apocalittico 2010, proprio nella stessa città dove nel 1998 era iniziata la storia dei Ds. Anzi. Esattamente nella stessa città in cui quella storia era finita senza fiammate, con un altro congresso SEGUE A PAG.2 nel 2007.


Riflessioni

Passato e futuro

segue dalla prima

Patria di un nuovo pensiero

Dalla città-laboratorio una parola: coraggio

di Luigi Settembrini

di Curzio Maltese

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onostante inadempienze e provincialismi, Firenze è ancora una realtà simbolica dal prestigio universale. Capace di rappresentare e promuovere ideali che in un momento di valori e certezze azzerati occorre risvegliare. Firenze dovrebbe trovare la forza di fare quello che lei sola potrebbe: candidarsi ufficialmente patria di un nuovo pensiero, aperto alla conoscenza e al rispetto dell’uomo. Alle priorità della natura, alla cultura del progetto. Quel gioco gentile e profondo, quel Novo Stil Novo di cui parlano Rifkin, Latouche e un numero ogni giorno crescente di filosofi, economisti, intellettuali, artisti. Occorre un segnale forte della necessità/volontà di dar voce a chi non si rassegna a vivere senza idee, qualità, obbiettivi, speranze, voglia di comprendere. E perché no, di amare. Il sindaco Renzi potrebbe dare impulso a uno studio che spieghi perché Firenze può proporsi come la casa aperta di chi vuole risuscitare impegno culturale, sociale, politico. La casa aperta di chi vuole combattere discriminazione e intolleranza, la casa aperta di chi vuole risvegliare alla democrazia e alla comprensione una società cloroformizzata. Di chi vuole combattere l’acquiescenza ad atti, propositi, secessioni, comunicazioni, violenti e volgari. Fi-

renze può tornare a essere la capitale dell’anima dell’uomo. Basta comprendere quanto è urgente per i giovani e il loro futuro, per i vecchi e il loro passato, rimettere in gioco il suo credito universale. Penso a un’idea, semplice da realizzare e da promuovere: uno studio affidato all’invenzione di un gruppo eterogeneo di grandi scrittori tra i quali premi Nobel, Pulitzer, Goncourt, ai quali chiedere – dando a ciascuno un indirizzo specifico – di scrivere ognuno un testo inedito capace di dirci cosa significa, quale enorme valore simbolico rappresenti Firenze per il mondo. Lo studio diventerebbe un libro che proprio sindaco e scrittori presenterebbero in alcune tra le maggiori capitali e città del mondo. Sono certo che molti sarebbero gli scrittori disposti a impegnarsi su un progetto del genere. Tra questi, per esempio, Tahar Ben Jelloun (Marocco, Goncourt 1987); Jay Mac Inerny (Usa); Gao Xingjian (Cina, Nobel per la Letteratura 2000); Erica Jong (Usa); Petros Markaris (Turchia); Isabel Allende (Perù); Hanif Kureishi (Pakistan-Gran Bretagna); Elie Wiesel (Romania, Nobel per la Pace 2000); Michael Cunningham (Usa, Pulitzer 1999); Michel Houellebecq (Francia); Mario Vargas Llosa (Perù, Nobel per la Letteratura 2010); Roberto Saviano (Italia); Banana Yoshimoto (Giappone); Paul Auster (Usa).

COMPAGNIA TEATRI D ’ I M B A R C O

MARCO POGGIOLESI FERDINANDO ROMANO SIMONE MORGANTINI

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oltanto il confronto con il passato, un grande passato nel caso di Firenze, permette di leggere con intelligenza il presente e il futuro. È la ragione per cui da anni sostengo, senza alcun successo, che proprio Firenze è il luogo ideale per allestire mostre d’arte contemporanea. Ma torniamo alla politica. Qui sono nati i movimenti degli anni Novanta, si è svolta la grande adunata pacifista dei no global. I fiorentini hanno mandato a Palazzo Vecchio il più giovane sindaco d’Italia e si può immaginare da qui che anche nei palazzi decrepiti della politica italiana possa finalmente entrare aria nuova. La bella iniziativa di Matteo Renzi si svolge negli stessi giorni della Rivoluzione d’Ottobre, anche se forse il compagno sindaco - si fa per dire - non l’aveva calcolato. Quindi, fra le parole

L’incontro

nuove sulle quali rifondare la politica italiana bisognerebbe inserirne una antica e attualissima: rivoluzione. Non soltanto è assai più bella di rottamazione, ma è decisamente più necessaria. Dalla deriva sudamericana della nostra democrazia non si esce soltanto mandando a casa Berlusconi, che naturalmente sarebbe un’ottima idea. Si esce con la rivoluzione di un quadro politico bolso e degenerato, un ricambio radicale non soltanto di generazioni, ma di stili, linguaggi, valori. A Firenze è nata la scienza moderna e la moderna politica, rivoluzioni che hanno cambiato la visione del mondo per sempre. Da questo passato glorioso si può trovare il coraggio per questa rivoluzione piccola, che pure sembra oggi impensabile.

segue dalla prima

“Siamo angeli con una sola ala, voliamo solo se stiamo abbracciati” di Luca Telese

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ove anni, quasi dieci, tra l’uno e l’altro: un frammento di epoca. Era stato ancora fastosamente burocratico il primo congresso, ovvero la celebrazione del dalemismo nella sua fase di massimo fulgore. I giornalisti chiusi nel recinto dal lider maximo, Giampaolo Pansa con il binocolo, una epigrafe di Rilke scelta da Gianni Cuperlo: “Il futuro entra in noi molto prima che accada”. Fu a lungo discussa, quella citazione: finché qualcuno, recuperando il brano integrale, non scoprì che non era un battesimo di speranza, ma un epitaffio declinato sull’ineluttabilità della morte. Le parabole dei grandi comunicatori, producono spesso, esiti paradossali. E in fondo era tutto vero. Non si trattava di una primavera, ma di una parabola discendente, anche dietro la maschera cerea e impassibile di D’Alema. Era stato terribilmente malinconico e sereno, l’ultimo appuntamento dei Ds, dieci anni dopo: un congresso dolente e lieto, senza passioni e senza rabbia. Ho dovuto recuperarlo il ricordo di quel giorno, persino con un piccolo sforzo. A Firenze tutto era iniziato come in un caleidoscopio rovesciato: per una strana collisione fra le vecchie regole e i nuovi riti, tutta la rappresentazione si era aperta con l’acclamazione di Piero Fassino a segretario. Senza nemmeno un voto formale: mi venne in mente che i quarantenni della Quercia erano diventati pop-brezneviani senza rendersene conto. Era un congresso che iniziava dalla fine, dunque, come la pizza di un film proiettata al contrario: il segretario aveva indicato la via maestra del Pd. E a Firenze se n’era andato Fabio Mussi, con un discorso di commiato senza rancore: “Noi ci fermiamo qui. La nostra intenzione è di costituire un movimento politico autonomo, che si propone di aprire un processo politico nuovo, più a sinistra del Partito Democratico. Alleata del Partito Democratico. Si aprono due fasi costituenti. Sarebbe bello un doppio successo. Buona fortuna, compagni”. A Firenze, quel giorno, si era consumata l’unica scissione che la storia della sinistra ricordi, priva di insulti e di cori. Livorno, metonimia della separazione tragica e lacerante che aveva infiammato il secolo, a Firenze – ma un’altra Firenze, quella del 2007 – la città in cui si era chiuso quasi silenziosamente un capitolo di storia: la Sinistra Democratica che esce dal congresso, come si esce da una sala quando cala il sipario, con il soprabito in mano. Mi è tornata in mente, questa immagine di passato prossimo già seppiata e crepu-

Q U A R T E T T O ARABESQUE RASSEGNA

scolare, quando mi sono ritrovato nel catino rovente del Saschall, a seguire per il mio giornale il primo congresso di Sinistra e libertà. Folla ai cancelli che dice: “Fateci entrare”. E poi l’uno-due: apre Vendola, ma il saluto introduttivo lo fa Renzi. Non con un discorso formale, un saluto augurale da padrone di casa, ma celebrato con un racconto a braccio in cui sorprende tutti e si fa ricoprire di applausi. Perché? Semplice. Perché Renzi aveva raccontato che in un momento decisivo nella storia della sua battaglia contro gli apparati, dopo le primarie, la sua coalizione si stava sgretolando, e l’aiuto era arrivato dal leader più lontano da lui: “Ti ricordi Nichi – ha raccontato dal palco – in una bella telefonata mi avevi detto: ‘Non ti preoccupare Matteo, vengo io in città e risolvo’. Ed infatti, come avevi detto, venisti a Firenze e la sinistra sostenne la mia candidatura”. A pensarci bene non potrebbero essere più diversi: Renzi trentenne, cattolico, di origine rutelliana. Vendola cinquantenne, omosessuale, portatore di orecchino, e ultimo erede della cultura ingraiana. Ma nel tempo di oggi, nei giorni della politica destrutturata e e deideologizzata, ci sono due cose, che nella Firenze del Saschall rendevano incredibilmente affini Vendola e Renzi. Entrambi sono rottamatori del vecchio che non finisce, ovvero di quel che resta del gruppo dirigente ex-post-neo-comunista, romanocentrico e usurato da un ventennio di comando senza ricambio. Entrambi vengono da due province che in realtà sono capitali. Entrambi sono stati forgiati nel fuoco incandescente delle primarie, che poi è la declinazione algebrica nella nuova politica nel tempo del consenso. Vendola appassiona dicendo che le famiglie italiane non esistono più e vanno ricostruite. Raccontando in pubblico i frammenti del suo lessico familiare: “Per me la famiglia sono i racconti, a casa, a Terlizzi, davanti al braciere, che poi è il termosifone dei poveri. Noi bambini tiravamo le scorze d’arancio sopra il braciere, e mio padre ci leggeva le lettere dei condannati a morte della Resistenza”. Renzi, invece, cita il sacerdote prediletto di Vendola, l’uomo del cattolicesimo sociale: “Come diceva una persona da cui tu hai imparato nella vita, e che io ho incontrato sui libri, Don Tonino Bello: ‘Siamo angeli con una sola ala possiamo volare solo se stiamo abbracciati”. Angeli e demoni della politica, sul cielo di Firenze, mentre girano i cardini della storia. Sarebbe bello se non fossero le ali di cera di Icaro, a sostenerli in questo folle volo.

Gesti Teatrali

D I A R T E G I A P P O N E S E Il momento più bello era quando si apriva la gabbia

B I Z A N T I N A S A N DY M Ü L L E R M

di Alberto Severi

MARIA CASSI GIAMPAOLO MUNTONI

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a il momento davvero emozionante dell’intera vicenda non era quando si andava alle Cascine e si sceglieva, fra milioni di gabbiette a forma di gazebo, di pagoda, di castello, di trullo, quella che più mi aggradava (perché era ovvio che si sceglieva la gabbia: gli animaletti neri e lucidi e un po’ ripugnanti che vi erano reclusi sembravano tutti uguali, e facevano tutti il medesimo, lamentoso cri-cri da perseguitati incolpevoli). Non erano nemmeno i due o tre giorni nei quali, nella minipagoda appesa in terrazza, il poero grillo grullo, seminascosto da un’immane foglia di lattuga, scambiava i suoi cri-cri sempre più disperati coi compagni di sventura deportati nelle gabbie appese sui terrazzi dintorno, e pareva un coro del Nabucco arrangiato su due sole note. No. Il momento davvero catartico, e dunque teatrale, era quando col babbo si andava nel boschetto d’acacie accanto alla fornace abbandonata, e lì, chinandosi

fino al suolo erboso, si apriva la porticina della pagoda-gabbia e si restituiva il malcapitato grillo alla Natura e alla Libertà, giusta i dettami di Jean-Jacques Rousseau. Ecco. Con tutto il rispetto (?) per le tradizioni fiorentine della festa del grillo e del Savonarola bruciato, degli scannamenti fra Bianchi e Neri, dell’esilio di Dante, delle torri e dei cuori blindati, delle logge e dei circoli chiusi, dei poteri forti e poco chiari, delle banche d’affarucci e dei portafogli stitici, dei lavavetri banditi e degli ambulanti accusati di far concorrenza sleale (e d’esser pure negri), già allora sentivo di preferire la Firenze che regalava al mondo il Rinascimento e dava il nome all’America, si gemellava con Kyoto e dialogava col Mediterraneo, aboliva la pena di morte e sparava ai nazisti dai tetti di san Frediano. Insomma, non la Firenze che metteva in gabbia i grilli. Ma quella che li liberava. Sipario.


Per dignità

segue dalla prima

Come se ne esce?

segue dalla prima

Rivoluzione mettendoci la faccia e il cuore

L’ottimismo della volontà

di Matteo Renzi

di Fiorella Mannoia

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problemi sono gli stessi da vent’anni: una pressione fiscale allucinante a fronte di servizi non sempre all’altezza della pubblica amministrazione, la scuola e l’università pensate più in funzione dei posti da occupare che dei cervelli da far funzionare, il grande tema della giustizia affrontato solo per risolvere il problema di uno (indovina chi?) e non di tutti, cittadini e aziende. E potremmo continuare con l’ambiente, la tecnologia, il lavoro, l’innovazione, i beni culturali e compagnia cantante fino ad arrivare alle questioni più spicciole come dimezzare indennità e numero dei parlamentari, risposta immediata e chiara al torrente in piena dell’antipolitica. Sulle questioni di merito discuteremo dal 5 al 7 novembre alla stazione Leopolda. Quello che poniamo da subito è un problema di metodo: nel mondo civile i partiti rimangono sempre gli stessi, ma i leader cambiano. Se perdono le elezioni i dirigenti politici si fanno una fondazione, scrivono un libro, danno suggerimenti, ma vanno a casa. Qualcuno di loro è talmente bravo che dopo dieci anni di governo va a casa direttamente senza bisogno di perdere le elezioni. I partiti restano, i leader cambiano, i problemi si affrontano. Da noi è tutto alla rovescia: i dirigenti politici si fanno le fondazioni, scrivono libri,

danno consigli ma rimangono lì, sempre, tenacemente abbarbicati allo strapuntino della seggiola. Non si schiodano, guai a chi li tocca. Si cambiano i partiti, si cambia il nome dei partiti, ma i leader sono gli stessi, con le solite facce, le solite idee, il solito linguaggio. Con un gruppo di amici abbiamo pensato di non nasconderci. Di non restare in silenzio, quatti quatti ad aspettare che il grande orologio biologico della cooptazione faccia scattare il nostro turno. Ci siamo buttati nella mischia con la lealtà di chi non ha niente da chiedere per sé, se non il rispetto per le proprie idee. Ci hanno detto che siamo sfasciacarrozze e pierini, giovanotti e maleducati: noi abbiamo solo chiesto il rispetto di quella norma maleducata dello Statuto del Pd che dice che dopo tre mandati si va a casa. Vorrà dire che lo chiederemo per piacere: “Scusi, cortesemente, potrebbe rispettare le regole e lasciare quello scranno dopo qualche decennio?”. Non abbiamo grandi ambizioni, insomma. Vogliamo solo fare la rivoluzione. E vogliamo farla con il sorriso sulle labbra di chi vuole bene alla politica e si ritiene umiliato quando ne calpestano la dignità. Meritiamo di più dello squallore di questi anni: tocca anche a noi provare a cambiare la rotta, mettendoci faccia e cuore.

Ora di ricreazione Quel circuito meraviglioso che fa scorrere l’acqua fino all’Africa di Giancarlo Ceccanti

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hissà di cosa si parlava cinquant’anni fa con Fabio, compagno di banco sognatore, durante l’ora di ricrezione. Di sicuro, si aspettava a gloria quel neanche tanto breve intervallo, agognato soprattutto per poter finalmente dar fondo alla merenda e per quel bicchiere di latte che la Centrale di Firenze distribuiva tutte le mattine, tenuto in caldo sui radiatori del riscaldamento. Di sicuro, nessuno dei due poteva immaginare che da grandi, per un caso che penso non abbia niente di fortuito, ci saremmo trovati a collaborare intorno ad un progetto molto ambizioso e fortemente coinvolgente. Il progetto è quello di Acquifera, una onlus nata espressamente per sfruttare la professionalità specifica del geologo nel campo della ricerca idrica, nei Paesi del Terzo Mondo dove la carestia d’acqua è più sofferta, per eseguire interventi diretti utilizzando tecniche semplici, coniugando per quanto possibile conoscenze locali e tradizionali a tecnologie innovative per un utilizzo

dell’acqua possibilmente a costo zero. Grazie a questa collaborazione, nel giro di pochi anni Acquifera è potuta crescere operando in realtà diverse del Camerun, del Kenia, del Kosovo dove sono già stati realizzati due piccoli acquedotti e dove sono in corso altri progetti a cui stiamo lavorando. Ma anche grazie ad un altro fattore di grande rilevanza. Perché una cosa è venuta a galla occupandosi di questo progetto tra le mille difficoltà, legate poi soprattutto o quasi solamente alla ricerca di fondi da poter impiegare e sfruttare al massimo. Si è letteralmente materializzato quella sorta di circuito invisibile che alimenta l’impegno sociale e civile, la solidarietà fra le persone ed i popoli; incredibili sono stati certi incontri insperati e inattesi nati intorno a questa idea e a questa proposta che ha consentito già di gettare qualche piccolo ponte. Forse non è sbagliato pensare che tutto questo sia potuto accadere anche grazie all’antica, mai seppellita vocazione di questa città.

L’

innovazione è ferma. Le piccole imprese sono in affanno e le grandi minacciano di chiudere per aprire in Paesi più vantaggiosi economicamente. L’informazione è, nella quasi totalità, asservita al potere e ogni voce che esprima dissenso viene, usando un eufemismo, ostacolata. La giustizia è tirata per la giacca a seconda della convenienza politica del momento. Cultura è ormai una parola derisa, sbeffeggiata, se ci si lamenta per la mancata attenzione verso quella che è sempre stata una nostra risorsa c’è sempre il politico di turno che ironizza dicendo cose tipo: “Mangiatevi pane e Dante”, affermazione che dovrebbe scandalizzare, che dovrebbe indurre a rispondere che se la scuola non funziona questo Paese è perduto, che senza cultura un popolo perde la sua identità e non ha futuro. O forse, dietro tutto questo c’è un disegno ben preciso: la volontà di annientare la coscienza critica delle prossime generazioni, ridurle alla schiavitù dei modelli televisivi incentrati sul nulla, perché siano innocue e meglio gestibili? Che cosa dobbiamo pensare? L’Italia è stata, seppur con tanti problemi, intrighi, misteri mai risolti, la patria della cultura, della musica, della bellezza, dell’eleganza, del cinema, dell’arte. Che cosa ci sta succedendo? Che cosa ci hanno fatto? Che cosa spinge noi italiani a non accorgerci che questo seminare odio è solo una trappola, un modo per metterci gli uni contro gli altri, per riuscire a controllarci meglio? Il divide et impera il dividi e domina fa parte di una tattica antica che ha dato sempre i suoi frutti, lo sanno bene i grandi tiran-

ni della terra di tutti i tempi. Ma non è odiando l’immigrato, l’omosessuale, come ci spingono a fare, o mancando di rispetto alle donne che risolveremo i problemi che affliggono l’Italia. I problemi si risolvono scegliendo una nuova classe politica, formata da donne e uomini motivati dall’amore per il proprio Paese. Persone che abbiano voglia di difenderlo dagli avventurieri dell’ultima ora che giorno dopo giorno ci stanno depredando dei nostri soldi, della nostra cultura, della nostra dignità, per arricchire i loro patrimoni personali. Di chi è la colpa? Di tutti! Di chi ha manovrato per portare il Paese a questo livello di assenza di etica e di moralità, ma soprattutto, di chi negli anni, inerme, è stato a guardare senza fare nulla, anche quando ne ha avuto la possibilità. Ritornando alla domanda iniziale: come se ne esce? Con l’ottimismo della volontà: costruendo una politica nuova, onesta. Ognuno la cerchi nel proprio orientamento politico, purché sia lontana dalle vecchie logiche di partito e rappresenti i cittadini in nome e per conto della Costituzione, la sola Carta che ci rende tutti uguali davanti alla legge. Bisogna ritrovare l’unità degli intenti e dei valori, affinché la questione morale divenga una priorità imprescindibile per uscire dal baratro dove siamo sprofondati. Occorre ritrovare la nostra coscienza critica, la nostra dignità di Italiani per bene, informandoci su quello che succede, mettendo da parte l’odio e ritrovando quell’umana compassione che una volta ci apparteneva e che oggi sembra ormai perduta. Prima che sia troppo tardi.

L’ascolto di Giulio Picchi

(particolare)

Motori affettivi Caro Francesco: tu sai leggere dentro di noi di Andrea Marchetti

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irenze è una città che stupisce. Spesso è incredibile pensare a quante piccole ma fantastiche storie di vita assistiamo in questa meravigliosa città. Da pochi giorni è stato pubblicato un libro Le parole non sono aria a cura di un medico che lavora nella nostra provincia, padre di Francesco, un ragazzo speciale affetto da una forma di autismo grave. Questo padre ha avuto l’idea di raccogliere alcune lettere scritte da studenti di una scuola media e dedicate al loro compagno che a causa del suo deficit non comunica nei modi che noi definiamo normali. Il libro raccoglie una serie di lettere indirizzate a Francesco,

spesso commoventi, altre volte spiritose e spontanee. Il titolo porta in sé significati profondi e le parole in esso contenute lasciano tracce nel nostro modo di pensare. Una frase fra tutte mi ha particolarmente commosso, quella scritta dal suo compagno di banco: Francesco, sai leggere dentro di noi, senza fare una domanda, senza proferire parola e sai ascoltarci con quel tuo cuore da bambino chiuso dentro il corpo di un gigante. Meravigliose semplici parole che invitano tutti noi normali a cambiare radicalmente il nostro modo di vivere la vita e a vedere l’altro, il diverso, senza pregiudizi o finti pietismi.

Percorsi Abbattere le barriere che impediscono il con-tatto di Massimo Niccolai

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irenze Città Aperta... Vivendoci non sembrerebbe così aperta anzi, i suoi abitanti figurano molto chiusi, sempre pronti alla critica più atroce. Pare che ti vogliano allontanare, rimandare da dove sei venuto, ti guardano con un occhietto sfuggente emanando subito quel sorrisetto ironico e giudicante che riesce a generare irritazione. Evidentemente, però, questa città ha la capacità di produrre un’alchimia che la fa

immaginare un luogo dove ci si può lasciare andare, abbattere quelle barriere che impediscono il con-tatto. Ed è proprio sul con-tatto che un film così toccante come La meglio gioventù consegna a Firenze un ruolo tanto importante. È li, infatti, dove i protagonisti si ritrovano abbracciandosi, si innamorano baciandosi ma soprattutto si riconciliano, con se stessi, accarezzandosi.

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Lasciate che i bambini Quei cavalli che non si lasciano imbrigliare di Tomaso Montanari

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utto sale, in questo quadro. Sale il fumo delle ciminiere, sale il fumo che sbuffa dalla locomotiva, salgono i ponteggi che coprono le nuove case che salgono senza sosta verso il cielo. E soprattutto salgono, si inarcano, saltano i cavalli bianchi e rossi che danzano al centro del quadro. Non li cavalca un essere umano, ma un misterioso lampo blu:

gli uomini tentano invano di frenarli, di indirizzarli, di controllarli. La forza e la libertà di questi cavalli selvaggi sembrano ricordarci che le città non sono costruite dai programmi di chi le governa, ma dal movimento incontrollabile di chi le vive; che le città non appartengono a chi cerca di fermarle, ma a chi ne ama il movimento. Dopo cento anni esatti, questo

quadro più vecchio dei vostri bisnonni è ancora capace di squarciare il velo del futuro e di raccontarci come sarà, tra altri cento anni, una città viva. Una città senza mura, una città che corre, una città tessuta da tutti i colori, una città che non si lascia imbrigliare, una città che non è un museo ma un’officina. Una città che sale: una Città Aperta.

Umberto Boccioni, La città che sale (1910), New York, Museum of Modern Art

Metti una sera a cena per duemila persone

Affinché il sogno trasformi la realtà

di Raffaele Palumbo

di Marco Poggiolesi

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carabinieri in pensione e i figli dei commercianti della piazza siedono insieme al tavolo. Sono stati fortunati ad averne trovato uno libero. Loro, sono arrivati presto. La piazza è stata chiusa presto per dare da mangiare, gratis, a centinaia di persone. Ci sono i giornalisti e gli impiegati di banca, gli sportivi della pallacanestro e i notai, ci sono professori universitari e operai, i global e i no global. Sul palco, gli amici di sempre si alternano, spesso consegnando ai padroni di casa una targa, un riconoscimento, un regalo. Dal palco ricordano che la cena è gratis, ma ci sono dei banchetti dell’associazione che assiste - gratis - i familiari dei malati di tumore. Ci sono gli immigrati, gli extracomunitari che qui sono extramici. Arrivano i politici dell’amministrazione comunale, che - invece di essere fischiati o contestati, come accade spesso in questo periodo - vengono applauditi, o al massimo apostrofati con una battuta folgorante come a Firenze succede tra gli amici. In piazza ci sono le foto degli albori, struggenti, e sembra di entrare in una macchina del tempo, un tempo ovviamente mai esistito. Quando gli ingredienti erano genuini e i rapporti sinceri. Qui, quel tempo è adesso. Qui, questa sera in piazza - tra le centinaia di persone convenute - non c’è nessuna differenza di estrazione sociale, di reddito, di provenienza, di appartenenza. Siamo tutti in coda per cercare di afferrare il nostro piatto di spaghettini al pomodoro fresco. Alla fine della festa i cuochi hanno fatto un rapido calcolo. Oltre a tutto quanto il resto, sono stati buttati 110 chili di spaghetti e hanno mangiato quasi duemila persone.

Emozioni Toronto si scalda con il calore multietnico di Monica Capuani

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rrivo in una città dove non sono mai stata. Sono ancora sotto jet lag, ma una scrittrice mi ha invitata a cena. È Ann-Marie MacDonald, autrice del best seller Chiedi perdono. È appena tornata a casa dal teatro, dove sta recitando in Top Girls della geniale drammaturga inglese Caryl Churchill, diretta da Alisa Palmer, sua compagna nella vita, con la quale ha due figlie. Ci sono anche la regista cinematografica Patricia Rozema, (anni fa vidi il suo bellissimo

film, nella serie che il violoncellista Yo-Yo Ma dedicò alle suites di Bach), la sua compagna, Lesley Barber, compositrice di colonne sonore, e le loro due figlie. Famiglie normali, qui. L’indomani vado a fare un’intervista a Savoy Howe, ex attrice che ha creato il primo club di boxe inglese femminile, in collaborazione con il centro anti-violenza dell’università. Vado a fare un giro al St. Lawrence Market, che sorge sulle fondamenta della città: 120 stand dove i greci

si mescolano ai cinesi, i libanesi ai coreani, gli italiani ai giapponesi, perché questa è – felicemente – la città più multietnica del mondo. La sera, vado a cena lì vicino, da The Wine Bar di Jamie Kennedy, uno degli chef più celebrati in città. Legni caldi, bottiglie di vino, barattoli di sott’oli, cibo delizioso. Il conto si aggira sui 25 dollari canadesi a testa, vino incluso. Questa città si chiama Toronto. E cosa importa il freddo, se qui si respira?

Erba voglio Insopportabile l’idea di rinunciarci ivere realtà desolanti e conoscere solo queste rende difficile immaginare la possibilità di condizioni migliori. Visto che l’ispirazione creativa non nasce da un’astrazione guardare l’erba del vicino può tornare molto utile quando la nostra è in pessime condizioni. In Italia qualcuno ogni tanto riesce a farsi ispirare da realtà entusiasmanti neanche tanto vicine. In Danimarca, in Svizzera, in Germania, esistono da quasi

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50 anni, e da 10 sono riconosciuti dallo stato, gli asili nel bosco. In reltà si tratta della nostra scuola materna. A Firenze esistono delle piccole esperienze autogestite da genitori che si rifanno a questi esempi di didattica illuminata. Le lezioni si organizzano tra prati e alberi, dove le esperienze fisiche e le sensazioni diventano apprendimento e stimolano l’agilità mentale presente e futura.

Crescere sperimentando l’utilità e la bellezza dei diritti fondamentali dovrebbe rendere insopportabile l’idea di rinunciarci. A Firenze, se vi interessa, esistono la Libera scuolina di campagna il Campo di stelle e probabilmente qualcos’altro in un cassetto chiuso. In Italia esperienze di questo tipo si contano sulle dita di una mano, forse due. Magari non ci sono abbastanza boschi.

el pieno del mio dormire ho sentito una lieve musica risuonare lontana per le vie cittadine. Mi sono alzato e le sono andato incontro. Non era una ma erano più musiche: voci di poeti che recitavano Kerouac ai piedi del Dante di Santa Croce, un clown raccontava una storia d’amore ad una folla di vecchi bambini commossi, enormi tele come vele issate sopra gli archi degli Uffizi, una ragazza bionda abbracciava un violino, un giovane e la sua chitarra urlavano canzoni di protesta... Firenze immaginaria! Firenze Città Aperta, Firenze capitale dell’arte e della mia Vita. Il sogno che si fa realtà nei versi di Dylan. Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me/ I’m not sleepy and there is no place I’m going to/Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me/In the jingle jangle morning I’ll come followin’ you.

Classika Un auditorium che ci prenda tutti per mano di Gregorio Moppi

S

ogno del nuovo auditorium di Firenze. Che non sia solo un teatro Comunale nuovo, ormai un non-luogo che fissa pigro il proprio ombelico. Che ne respinga il compiaciuto immobilismo a cui nel tempo ci siamo tutti assuefatti. Che non si barrichi in un’arroganza fintamente elitaria, ma che invece esondi ovunque in città, prendendo ciascuno premurosamente per mano, compreso il bimbo, l’adolescente, l’anziano con la pensione minima. Che le sue attività non abbiano tregua, da mattina a notte fonda. Che vi si trovino sì dentro Beethoven e Puccini, ma pure libri e cibo, conferenze, proiezioni, performance, e tutta, tutta la musica senza preclusione di generi o epoche; e comunque tante cose diverse allo stesso momento. Perché l’auditorium scansi il rischio di diventare una riserva indiana di cultura, alla periferia delle vite dei più.

Incontri Aboliamo il “carino” e ritorniamo al “favoloso” di Ernesto De Pascale

E

di Caterina Cardia

V

Dylan Bob

Piazza grande

Disegno ed elaborazione di F. Picchi

cco cosa sento. Sarà un futuro eccezionale: una comunità all’avanguardia basata sull’apprendimento. Una città con i suoi ampi dintorni suburbani vissuta con audacia da audaci ed intraprendenti che guarda il futuro giudicandolo eccitante. Un nucleo civile dove si abolirà il termine carino per ripristinare il più entusiasmante favoloso: fabulous, come i favolosi Beatles, la favolosa Firenze. Si riparte insomma, si riparte da Firenze, da dove L’Italia - in un modo o in un altro - è sempre ripartita o partita. Si riparte dalla gente. We, the people. People have the power come ci ha ricordato Patti Smith. E si farà l’amore ognuno come gli va/e anche i preti potranno sposarsi/ma soltanto a una certa età.


Ri-cercata

Romantica Firenze

Futuro migliore: libero accesso alle pubblicazioni scientifiche di Clara Ballerini

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pen access: libero accesso in rete alle pubblicazioni scientifiche. È una diversa idea di testo e pubblicazione che determina da un lato un allargamento della comunicazione scientifica e dall’altro la comparsa di nuove regole, nuovi paradigmi e nuovi diritti. Come si realizza? Una possibilità è quella di procedere creando un autoarchivio: ciascun ricercatore mette in rete copia del proprio lavoro pubblicato e questo resta consultabile gratuitamente. Un’azione semplice che modifica il concetto di copyright e quello più vasto di proprietà delle idee.

Un altro modo per realizzare l’open access è quello di pubblicare su PLoS (Public Library of Sciences) o Frontiers, riviste scientifiche neonate in cui chi pubblica, dopo essere stato sottoposto a un processo di revisione da pari a pari, paga. Quindi nelle richieste di fondi scientifici devono essere previste le spese di divulgazione dei risultati. In entrambi gli esempi fatti si scommette sul cambiamento del modello economico che ruota intorno all’editoria scientifica variando la logica degli interessi. Si prospetta un futuro diverso e migliore, e tutti siamo invitati a partecipare.

L’esperienza E la città diventa un teatro permanente che genera vitalità di Giancarlo Cauteruccio

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ittà Aperta, mi stimola a fare alcune considerazioni. Immagino la città come un organismo di produzione permanente di energia, una struttura aperta, attiva, in continuo stato di interrogazione su se stessa, sulla natura necessariamente porosa dei propri confini, culturali e fisici, e su ciò che la attende oltre questi. La città nel suo pullulare di segni, di forme, di suoni, di sguardi, di conflitti da sempre è stata la prima fonte di ispirazione del mio lavoro artistico. Non è un caso che io, ancora diciottenne, abbia scelto Firenze come città di elezione per iniziare a studiare architettura. Ero affascinato da ciò che avevo scoperto sulla storia dell’arte di Argan, il mio libro di testo al liceo. Ero fortemente attratto da quegli scenari, dove coesistevano bellezza e simmetria, sorpreso dall’idea che l’architettura potesse essere metafora del racconto; eppure ancora non avevo capito che la città fosse addirittura un libro aperto nel quale bisognava immergersi in profondità con l’intero corpo. Ecco dove sono le ragioni del mio transito disciplinare dall’architettura al teatro. Non si tratta di un modo per sfuggire all’architettura ma per restituirle, attraverso la relazione con il tem-

po e con il corpo, il suo reale valore. Non più la dimensione della città statica, continua, congelata nell’immagine consegnatale dalla storia, ma una visione in cui lo spazio della città viene inteso come sistema vivente, dinamico: un teatro permanente, uno scenario disponibile a essere costantemente attraversato, penetrato, posseduto. Perché è proprio nella possibilità di rivisitare la sua natura apparentemente immobile che la città trova la radice di un’inesausta vitalità. Le luci artificiali, le insegne al neon che nel cielo notturno modificano i confini degli edifici, gli edifici industriali, le nuove costruzioni che alterano gli skyline visti dal bordo delle colline, il traffico, i cantieri aperti, tutto questo è il respiro lento e inarrestabile della città, la sua voce roca, le membra pesanti del suo corpo di asfalto e vetro che si allungano a prendere nuovo spazio. Ecco l’altro passaggio fondamentale della mia relazione poetica con la città: il corpo fisico come elemento scalare dell’architettura, e la città stessa come metafora inesauribile del corpo umano. Il teatro, che contiene ed esprime in modo duraturo la complessità di queste relazioni, può contribuire a una migliore visione del concetto di Città Aperta.

Staino

Una Stella a Firenze La vocazione di accogliere di Stella Rudolph

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a secolare vocazione di Firenze come Città Aperta si espletò a partire dall’ incontro nel 1273 fra papa Gregorio X, Carlo d’Angiò re di Napoli e Baldovino imperatore di Costantinopoli, alloggiati nel palazzo de’ Mozzi per comporre un accordo di pace (ahimé non duratura) tra le fazioni dei guelfi e ghibellini che da tempo dilaniavano l’assetto civile − onde la prima pietra della chiesa di San Gregorio della Pace posta ivi dal pontefice, di cui rimane una lapide sulla facciata del museo Bardini che l’ha sostituita. Indi ci fu la visita dell’imperatore Giovanni VII Paleologo nel 1434 per il Concilio che riunificò la chiesa romana con quella greca, presieduto dal grande umanista Bessarione vescovo di Niceto, ospitati nel palazzo Peruzzi (nel borgo perciò poi chiamato de’ Greci): ironia della sorte, lo spettacolare ingresso di Giovanni VII venne celebrato nel bellissimo ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli nella cappella del palazzo Medici Riccardi commisto con quello di papa Pio II nel 1459 in procinto di lanciare l’ultima crociata, che fallì in partenza. Ma accanto alla disponibilità di accogliere (potentati, esuli, grand tourists, intellettuali, artisti), la cittadinanza si assunse il compito di innovare allorché, nel 1345, la rivolta dei Ciompi (salariati impiegati dalle varie Arti) lanciò in avanguardia il diritto allo sciopero e il sindacalismo. Firenze divenne la prima capitale dell’Italia unita nel 1865-70 in virtù della sua centralità geografica, che oggi – proprio attraverso i molteplici incontri e iniziative che vi si fanno − la pone di nuovo quale l’ago della bilancia tra il nord pseudo-celtico leghista ed il meridione nella nostra travagliata storia penisulare.

Madison O’Mara by James O’Mara

Gatti Non bombardate mai più il ponte dei nostri amici Arnie&Soot By Kate McBride

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city not occupied or defended by military forces is not allowed to be bombed under international law. This is a dictionary definition of the Open City. On June 1, 1944, Florence was declared an Open City, along with many others, in an attempt to save monuments from being bombed. The bridge where our due gatti, Arnie&Soot, rest did not benefit from this declaration and was destroyed along with all the other bridges of the center of Florence with the exception of the Ponte Vecchio. Today to be declared an Open City also reflects a desire for peace. Open cities openly support the use of public policy and funds for the purpose of fueling the fire of high ideals. Among other aspirations, an Open City accepts differences and requires citizens to share resources for the benefit of all of society. The road to achieve these ideals is long and, like the Ponte alle Grazie after World War II, is built stone by stone. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Photo by James O’Mara

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Pieni d’Islam

Cinema

La ricetta

Aspettando una moschea

Cantando contro i potenti

L’olio nuovo ci ricorda chi siamo

di Giovanni Curatola

di Juan Pittaluga

di Fabio Picchi

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toricamente le città musulmane dal punto di vista urbanistico non sono mai state aperte, anzi. Madinat al-Salam (Città della Pace, fondata il 1° agosto 762), che poi diverrà Bagdad, era circolare e con addirittura un duplice cerchio di mura. Ma se essere aperti vuol dire dialogare, ascoltare un discorso interessante o semplicemente starsene per i fatti propri; oppure riposare, o, ancora, stare a leggere un libro. Ma anche mangiare qualcosa, o addirittura fumare quando era consentito farlo, e talvolta corteggiare le ragazze con discrezione (con semplici e furtive ma

esplicite occhiate come da noi avveniva nelle chiese), e trovare ombra d’estate e un tetto sotto la pioggia, acqua, un gabinetto ... Questa è una moschea. Edificio che per architettura si apre su tanti fronti (lo so bene che la corrente malikita non permette l’accesso alla sala di preghiera per i non musulmani; ognuno ha, in un certo senso, i suoi lefebvriani), che è multiforme e sfaccettato con lo scopo di portare tutti nella stessa direzione: a Dio passando per Mecca. Una Città Aperta, qualsiasi città aperta, oggi, non può che avere almeno una moschea.

Di line e di lane

l est tard à Paris cette nuit, j’essaie d’écrire pour Florence ville ouverte, mais ont cri tellement ici aujourd’hui. Le froid a fini par amadouer les manifestants contre une reforme des retraites qui voudrait nous faire revenir au moyen age social. Ce petit pouvoir veut nous rapetisser, ils voudrait même que nous soyons violent envers le différent. Mais les cris des étudiants qui tout à l’heure ont occupé la rue pour chanter contre cette arrogance persistent. Ils n’ont que le rêve comme arme, sans savoir encore que les cyniques du pouvoir adorent les utopistes, car tandis ils s’occupent de l’impossible, eux s’échangent secrètement le concret. Mais ils se trompent ces incrédules, comme ils se sont toujours trompé, et de trop soigner leurs petites monnaies, ils n’ont jamais vu venir la dépréciation de leurs valeurs. Et ils oublient, de manière groucho-freudo-marxisme, que c’est bien ici, dans ses mêmes rues et par ce même rêve et avec ses même jeunes, qu’est né mai 68, la commune de 1871 et la prise de la bastille 1789. Nous n’avons que peu de pouvoir sinon nos rêves face à Berlusconi et Sarkozy, qui ne représente que l’image TV de la fermeture arrogante d’une époque qui aimerait bien voir le possible se suicider dans la Seine. Mais il faudra se réveiller de se cauchemar. Ce n’est pas écrit sur la pierre que nous ne devons plus rêver de possible. Il n’est écrit nulle part que la vie se doit d’être une soumission a un réalisme économique qui n’est qu’une pauvre fable racontée par un faux sorcier qui a fini par croire a ses propres mensonges. Pourtant c’est bien nous, ce qui rêve encore en nous, qui est le plus ancré dans la réalité.Paris ce matin est une ville ouverte, parce que les jeunes ont crier vive le rêve du Néo-réalisme éveillé. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Da Gerusalemme

Quelle lamiere erano inutili

Caffè aperto in città chiusa

di Pietro Jozzelli

di Sefy Hendler

“F

irenze città aperta chiede pace”. Era il 10 novembre del 2002 quando Repubblica Firenze uscì con questo titolo a sei colonne in prima pagina. Il giorno prima si era svolto nelle vie cittadine il Social Forum, quell’incredibile happening fatto di entusiasmo e di speranza nel futuro che aveva convogliato nella vecchia città della cultura rinascimentale settecentomila giovani. I negozi del lusso avevano eretto barricate di lamiera e cemento contro il timore di vandalismi alle loro vetrine, donne e uomini di Firenze si affacciavano invece alle finestre per regalare tè e caffè ai giovani in strada. Non ci fu un incidente, quelle lamiere e quel cemento si rivelarono inutili. Anzi: utilissimi, perché imprigionarono nella loro ridicola marginalità griffe e consumistiche ambizioni. Quella pace chiesta dalla Firenze del Social Forum non c’è ancora, il dio della guerra continua a percorrere le vie del mondo, ma l’idea di città aperta è rimasta, come estremo tentativo di credere in un’altra vita possibile. Così è Firenze: solo toccando le corde più profonde dei suoi valori e della sua storia, riesce a dimenticarsi di essere ogni giorno una Firenzina.

lio nuovo come volete, sul pane, sul riso bollito, per uova crude in una potente maionese, su foglie di cavolo nero scottate, insalate di ogni tipo, fagioli e ceci. Sporcateci un puré per una volta senza burro ma con parmigiano, tuorli d’uovo, pepe nero, latte caldo mantecandolo questa volta con l’olio nuovo. L’olio nuovo che arriva tutti gli anni e ci ricorda chi siamo. Figli dei nostri padri, capaci come loro di lasciare ai nostri figli questo stesso Santo Onorato Patrimonio.

L’orto Coltiviamo l’utopia del giaggiolo di Stefano Pissi

I

l giaggiolo - specie iris -, il simbolo della città di Firenze, è una pianta erbacea della famiglia delle iridacee. É specie rustica che fiorisce una volta l’anno, di maggio. Sulle colline del Chianti viene coltivata a formare basse siepi. Come città antica anche Firenze ha eretto mura alte e costruito porte per difendersi dall’esterno, da una umanità antagonista, perché non conosciuta, e dal bosco, la natura poco addomesticata. Progresso. Progressivamente la cinta delle mura si è allargata, poi le porte si sono aperte. In questa evoluzione anche il giaggiolo ha contribuito a fare la sua parte; i coloni, mezzadri, lo coltivavano per ricavarne la radice commercializzata fino in Provenza, per la cosmesi. Siamo nell’8oo. Ci apriamo all’esterno per farci conoscere, ci apriamo per conoscere gli altri. C’è un progetto - un’utopia? - che come brace sotto la cenere rimane caldo perché vivo. Coltivare la propria città come un orto fiorito, luogo aperto da vivere. Mettere a coltura gli spazi verdi abbandonati e tornati bosco, dentro la città e nelle periferie, come metodo attivo di abitare Firenze. Trasformare gli incolti in zone conosciute perché abitate e mantenute, la prima mossa, fatta perciò dai cittadini stessi perché coltivatori e cultori della propria casa da aprire agli altri. Coltivare il giaggiolo non è impossibile.

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

SI RINGRAZIA UNICOOP FIRENZE [coopfirenze.it] SI RINGRAZIA LA FAMIGLIA CAPPONI [conticapponi.it] SI RINGRAZIA MARCHESI MAZZEI [mazzei.it] SI RINGRAZIA IL CENTRO GIANFORTUNA SI RINGRAZIA MUKKI LATTE [mukki.it] QUESTO NUMERO DELL’AMBASCIATA TEATRALE È STAMPATO SU CARTA NATURALE PRODOTTA CON IL 100% DI CARTE RICICLATE POST CONSUMER

l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Miriam Zamparella, Francesco Cury. Anno II Numero 10 del 1/11/2010. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

Disegno di Lucio Diana


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