Ambasciata Teatrale - Aprile 2011 - Anno III Numero 4

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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

When the Saints Go Marching In Scatto

1° APRILE 2011 ANNO III • NUMERO

di James O’Mara

Poesia

I giapponesi in marcia cantano la ballata dei fiori che sbocciano

Beata la Città dove i banchieri...

di Ren Izuta

di Fabio Picchi

戦後、日本人は「365歩のマーチ」を歌った。 「幸せは歩いてこない。だから歩いてゆくんだ ね。一日一歩、三日で三歩。三歩進んで二歩下 がる」 1億2千万人の一日一歩。思いは1つ。 再びみんなの足跡に花が咲きますように。 泉田蓮 Nel tragico dopoguerra, i giapponesi cantavano una canzone.

Marcia dei 365 passi “La felicità non giunge da sola. È per questo che noi tutti camminiamo. 1 passo al giorno, 3 passi per 3 giorni. Pur avanzando di 3 passi ogni giorno, indietreggiamo di 2”. 1 passo al giorno di centoventi milioni di persone. I desideri vibrano all’unisono. Sperando che i fiori sboccino in ciascuna orma.

Bob Dylan o San Sebastiano?

Sintesi esaustiva

Occhio di bue

Angeli custodi in silenzio di Milly Mostardini

C’

è chi ce li ha, i santi in paradiso, e chi non ce li ha: fa una bella differenza. E c’è chi i santi li sente lontani, distanti: in realtà poco curioso di certe perfezioni. Ci sarebbe un po’ collegata la faccenda dei miracoli: qui servono semmai scongiuri e scaramanzia, non vorremmo ci fosse bisogno di miracoli, per cavarsela alla bene e meglio. Ma tant’è, ognuno ha qualcosa in cui crede, giù il cappello per tutti. Io ho motivo fondato per credere agli angeli custodi. Quelli fanno fatti e non prediche, sono silenziosi, invisibili, a vederli ci potremmo spaventare: ma guarda i risultati, e sei sicuro che sono stati fisicamente presenti, non virtuali. Ti ricorderai, da ragazzino curioso del mondo e incapace di non cacciarti in vari pasticci, come te ne trovavi fuori, zitto e in segreto, con qualche ammaccatura giustificabile per nonni e genitori, passato di colpo da sono all’acqua allo stupore? Imparata la lezione? Mai. Tanto che da adulto, e di più, hai cominciato a riconoscere il soffio Segue a pagina 2 lieve dell’ala, a chiamarlo, muto e sicuro: “Vieni, ora”.

In scena di Tommaso Chimenti

a pagina

2

Editoriale

B

eata Città, che hai nei santi banchieri gente capace di guardare le persone negli occhi e capirne l’onestà. Banchieri capaci di andar di notte a cercare giovani nascosti in affollati locali dove sognano di imprese e si domandano come intraprenderle. Banchieri capaci di offrire loro rispetto e consulenza, formazione e partenariato emotivo come padri di famiglia coscienti che il presente produce il futuro con cui tutti avremo a che fare. Sì, santi banchieri che fanno tracimare i loro guadagni sui loro territori illuminandoli di speranza e certezza, di ambizioni che si trasformano in rettitudine, dando a Cesare quel che è di Cesare e alla collettività ciò che è della collettività. Beati ortolani, che scelgono il meglio del prodotto dei nostri santi contadini. Santi anziani che vanno per fossi nelle nostre montagne, nelle nostre campagne, nelle nostre colline, a cercar lumache, funghi e marroni. E nel mentre li tengono puliti e nel controllare il loro territorio fanno sì che le piogge non si trasformino in alluvioni. Santi maestri, santi insegnanti, che si fanno beati tutti i giorni nel raccontare di numeri, di poesie, di geometrie e filosofie, che insegnano con passione ai nostri figli il disegno e il reciproco rispetto. Beato il cinema che a Natale ti insegna l’amore, a Pasqua l’ardore e che in estate ti porta nelle arene estive a conoscere e riconoscere il cinema ungherese, il cinema cinese e l’altrui piangere e ridere a crepapelle. Beati i teatri di questa città, aperti di mattina e stracolmi di gente, aperti di pomeriggio e ancora stracolmi di ancora più gente per essere esauriti dalla passione del palcoscenico, tutte le sere e tutte le notti, con maschere applaudenti, tecnici entusiasmati, registi innamorati, attori generosi, applausi, applausi, applausi di gente intorno a te, a me, a loro. Beata Città, di cui ora non ricordo il nome. Trilla il telefono, mi sveglio e mi sento un po’ santo a volerle così bene a questa mia città. Prendo un caffé stracolmo di zucchero e mi avvio al lavoro. Incontro Daniele, Taib e Driss, la Chiara e Marco, Francesco e Giordana, Elena e Niccolò. E poi pian piano arrivano tutti quegl’altri, compresi i miei figli, tutti santi anche loro con forse, nel loro futuro, anche qualche beato.


Teatro del sale www.teatrodelsale.com Martedì 5 aprile proiezione del cortometraggio “Skateistan” di Orlando Von Einsiedel. Dopo Matteo Renzi, Raffaele Palumbo e Fabio Picchi batteranno all’asta 3 bellissime tavole da skate dipinte dalle ragazze (vedi foto sotto) e ragazzi afga-

ni della scuola “Skateistan” di Kabul: lo skateboard è l’unico sport che in Afghanistan può essere praticato in pubblico anche dalle ragazze, essendo uno sport del tutto nuovo e non conosciuto e per il quale non sono ancora state codificate norme di

In scena

comportamento. È vietato alle bimbe andare in biciletta, ma possono andare in skate! Tutto il devoluto dell’asta sarà donato per questo bellissimo progetto. In collaborazione con Map of Creation Associazione Culturale. www.skateistan.org

San skateboard

Giovedì 14 aprile Tomaso Montanari presenta “A cosa serve Michelangelo” edito da Einaudi. La vicenda del crocifisso cosiddetto «di Michelangelo» acquistato dallo Stato italiano è una metafora perfetta del destino dell’arte del pas-

sato nella società italiana contemporanea. Strumentalizzata dal potere politico e religioso, banalizzata dai media e sfruttata dall’università, la storia dell’arte è ormai una escort di lusso della vita pubblica.

Da Gerusalemme

di Jacob Simkin

La pietra del professor Vilnay

Miracoli quotidiani che avvengono in una vita di teatro

di Sefy Hendler

di Tommaso Chimenti

I

santi, si sa, sono tali, o lo sono diventati e certificati, per i miracoli compiuti in vita. Ci sono piccoli miracoli quotidiani, senza che nessuno si scandalizzi o si offenda, spazi dove è ancora possibile che alcune apparizioni avvengano, che diverse epifanie facciamo il loro sopralluogo. Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Ci sono luoghi sparsi dove non si fa cultura in maniera pomposa ma con scansione quotidiana come il companatico, come non se ne potesse fare a meno. In modo semplice e naturale. Firenze e dintorni, dicevamo. Né Lourdes, né Fatima, né Medjugorje. C’è una rete capillare di esperienze, una ragnatela di respiri da cogliere. Dal centro alla periferia, che in fondo è un concetto aleatorio: il Seipuntozero (www.seipuntozero. it) di piazza Piattellina, accanto a piazza del Carmine, diretto da Alessandro Fantechi e Elena Turchi, è un minimalista monolocale di trenta metri quadri che si rifà alla minuscola galleria d’arte di Maurizio Cattelan, la Wrong Gallery di un metro quadrato a Londra. Qui il gruppo Isole Comprese Teatro ha messo in scena quest’inverno, per dieci spettatori a volta, Orazione intima da Artaud, sudato e coinvolgente lavoro con Gillo Conti Bernini. In zona Gignoro l’Exfila (www.exfila.it) ha in mano il polso dell’underground musicale e delle performance indipendenti. Spostiamoci. Area Rifredi: la Cabina teatrale di Saverio Tommasi (www. saveriotommasi.it) dà spazio al teatro civile di parola, due piani in via Romagnosi, dalle storie clandestine alla strage dei Georgofili, da Don Santoro al precariato al nucleare. Proseguendo. Osmannoro: F.A.F. (www.florenceartfactory.com) un capannone di 500 metri quadri dove si svolgono anche concerti per macchine da cucire oppure i Codice Ivan, compagnia vincitrice del premio Scenario, prova, dove si sono esibiti la vecchia e nuova avanguardia da palcoscenico: Laboratorio Nove, Pathosformel, Kinkaleri. “Il manicomio è il condominio dei santi”, dice Ascanio Celestini. Parole sante. Un po’ come il teatro. Oh when the saints go marching in, in sottofondo di grancassa e rullante.

Ri-cercata Ross e la zanzara di Clara Ballerini

N

el mondo medico e scientifico i santi non hanno proprio una vita da santi: il sacrificio è espressione di vanità ed il successo è legato ad una immensa quanto egoista ambizione. Nonostante ciò, è proprio la vita non impeccabile e comunque dedicata a portare molti ricercatori su un piano non comune: quello di chi in virtù del proprio instancabile lavoro intellettuale contribuisce con decisione al bene comune. Roland Ross, nato in India da un militare inglese, voleva fare l’artista, ma il padre lo voleva medico e così fu. Padre di due figli, medico a Bombay e Calcutta, dove soffriva moltissimo il clima e la diffidenza degli indiani, non smise mai di inseguire la sua intuizione circa il parassita responsabile della malaria e nel 1902 fu insignito del premio Nobel per la medicina per aver scoperto che la zanzara era responsabile della trasmissione della malaria: la lotta alla malattia poteva cominciare. Eppure in modo forse poco nobile ma emblematico, il suo percorso è costellato da aspre dispute con colleghi dell’epoca circa la proprietà intellettuale della sua scoperta. Difficile dire cosa sia stato per Ross prioritario.

2

Gesti teatrali Sant’Antonio come Rivera l’Abatino di Alberto Severi

“D

ai un bacino a santa Lucia che ti protegge gli occhi”. Mimma, impugnandolo fra pollice e indice della mano tesa, protendeva fin sotto il mio naso il santino con su raffigurata a caldi colori vivaci la fanciulla con gli occhi che galleggiavano nel piattino d’oro, come due pesciolini bianchi e turchesi. E io, un po’ sbuffando, obbedivo, facendo schioccare le labbra sul cartoncino. Lei ritirava la mano, rimirava sorridendo compiaciuta l’immaginetta, come se il mio bacio ci fosse rimasto stampato sopra a mo’ di timbro, e dopo averci aggiunto con gaia fretta il suo, ricacciava il cartoncino in un mazzo, mischiandolo agli altri come si fa con le carte da gioco, e subito estraendone un altro, a caso. Collezionava santini come altri bambini collezionavano figurine di calciatori. Sant’Antonio Abate valeva Rivera: l’Abatino. Pizzaballa era sant’Erasmo, quello sbudellato: introvabile. Mimma guardava la nuova immaginetta, sorrideva ancora, come se avesse incontrato un amico che un po’ si aspettava di incontrare, un po’ no; avvicinava il santino alle sue labbra, e poi subito alle mie, come aveva fatto con quello precedente. “E ora bacia san Lorenzo!” Uff… Da che proteggeva san Lorenzo, trascinandosi dietro come un trolley la graticola del martirio? Dalle ustioni solari? E san Sebastiano trafitto dalle frecce? Dagli attacchi pellerossa? E san Giovanni decollato? Dagli scioperi negli aeroporti? Certo è che ciascuno di quei santi, teatralmente, ostentava gli strumenti, o le conseguenze, del suo martirio. Sant’Andrea con la sua croce fatta a ics sembrava esibire l’X-factor del martire di prima categoria. San Bartolomeo portava la sua epidermide ripiegata sul braccio come un gentleman porta il soprabito al guardaroba di un teatro. San Pietro da Verona, con la roncola conficcata sul cranio rasato dalla tonsura, pareva un buontempone reduce da una festa di Halloween (che all’epoca si chiamava ancora, per l’appunto, di Ognissanti). Più tardi, mi sarei sorpreso a pensare che ciascuno di noi, inconsapevolmente, porta su di sé, da sempre, le invisibili insegne di ciò che, prima o poi, gli darà la morte. Il volante della propria auto, o di quella di uno sconosciuto che incrocerà la sua strada, fra dieci o vent’anni anni. Un pacchetto di sigarette. Un coltello a serramanico, magari da lui stesso acquistato per souvenir in una pittoresca bottega alpina. Ma fin da allora, mi colpì il contrasto fra il gesto teatrale del santo effigiato, in cui la tragedia, pur pacificata, era evidente – ed era la Tragedia dell’Uomo Adulto, che sa la propria morte – e quel bacetto umido, mio e di Mimma, che tutto omologava in un’infantile affettuosa indistinta demenza. Beato quel popolo che non ha bisogno di santi, forse. Peccato, però, che sia un popolo di bambini. Sipario.

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Sintesi esaustiva

segue dalla prima

Angeli custodi in silenzio di Milly Mostardini

E

se no, come saresti riuscito a scivolare via incolume, nello spazio non calcolabile tra la parete di una galleria dell’Appennino, è notte e piove, e il cofano posteriore dell’auto che ti precedeva, ha fatto testa e coda, e si è messa di traverso davanti alla tua? I custodi arrivano in luoghi imprevisti, con travestimenti impensati: il giovanotto salvatore, apparso nel gran sole estivo dell’autostrada deserta, dalle parti di Modena, dove l’auto mi stava morta tra le mani, si presenta così: “Si rimedia alla svelta, ci mancherebbe, sono un meccanico dell’Alfa”. E io, salva! E lo squillo di telefono, davvero amico, con la voce di un professore francese, mai incontrato prima, che scandisce il tuo nome e chiede di te: mentre tu stai lì, alla portineria dell’unico motel, aperto nella notte di un Ramadan, dove rifiutano di accettarti, ospite inatteso, che ha già pagato in anticipo, ma sei donna, da sola, in un Paese fieramente musulmano, dove tutti sparano solo per festa? Semplice: il tuo custode non si distrae mai, nemmeno in Yemen, né in tanti altri casi. Tocca a te, risconoscerli gli angeli. Rientrando da un teatro, notte buia e gelida quest’inverno, fuori dalla porticina di servizio del liceo, trovi un tavolinuccio con due seggiole e tre ragazzi intabarrati: “Che ci facciamo qui? Noi si occupa la nostra scuola”. Ecco fatto, pensi, ho incontrato gli angeli custodi del futuro. Futuro che forse personalmente non vedrai, per motivi di anagrafe. Ma voi, state saldi ragazzi, voi lo vedrete. Credeteci, fateci da custodi.


Da Varsavia

Lasciate che i bambini

Trasparenti come cristalli

Santo primo ministro, un’Utopia

di Tessa Capponi

di Tomaso Montanari

Ś

L

więci pracują w ciszy podczas gdy inni wychwalają swoje sukcesy lub rozpaczają nad swymi porażkami. Święci wiedzą, że słowa mają leczyć a nie ranić. Święci mogą się wydać niesympatyczni, jako że nie mają czasu na małostkowości ponieważ muszą zajmować się maluczkimi. Święci proszą o mało dla siebie, ale o wiele dla innych i w obu wypadkach dziękują ci tak jakbyś otworzył przed nimi bramy raju. Święci wiedzą, że cierpienie jest czymś wielkim, nie dającym się zmierzyć i dlatego pragną pocieszać nas wszyskich, zawsze. Święci nie mają wyznaczonych godzin pracy bo wiedzą, że czas jest bezcenny. Święci są w stanie nie myśleć nigdy o przeszłości ponieważ wiedzą, że ona już nie istnieje. Święci są w stanie nie myśleć o przyszłości, ponieważ dziś jest tym wszystkim co posiadają. Świętych spotykamy codziennie; radują się gdy widzą nasz uśmiech i martwią się gdy jesteśmy smutni. Nie zarzucają nas mądrymi słowami, ale obejmują nas mocno i mówią „nie bój się“. Święci, z upływem czasu, stają się przezroczyści, jak najpiękniejszy kryształ i poprzez nich przebija światło Miłości, które „porusza słońce i inne gwiazdy“. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

a storia dell’arte conta infinite immagini di santi, ma pochissimi loro ritratti: in genere erano troppo schivi, sconosciuti o indaffarati per posare di fronte a un artista. Tra le poche eccezioni, questa è indimenticabile. San Tommaso Moro era il primo ministro del re d’Inghilterra e volle che Hans Holbein ritraesse non solo lui stesso, ma anche tutta la sua famiglia: i disegni e i dipinti che ne scaturirono sono opere meravigliose e come fuori dal tempo. A vedere oggi un ritratto come questo sembra che l’equilibrio di Raffaello, la forza vitale di Van Dyck e la mano di Toulouse Lautrec si siano dati convegno, come per magia, su un unico pezzo di carta. E, soprattutto, sembra di stare faccia a faccia con Tommaso Moro, uno dei santi più intelligenti e simpatici della storia. Nella sua più importante opera letteraria (Utopia, 1516), egli seppe scrivere che “dove c’è la proprietà privata, dovunque si commisura tutto col denaro, non è possibile che tutto si faccia con giustizia, e tutto fiorisca per lo Stato”. Nella sua vita seppe esser fedele alla propria coscienza fino a rimetterci non solo la carriera politica, ma anche la libertà e, infine, la testa. Non è un caso se il suo grande amico Erasmo da Rotterdam, gli dedicò l’Elogio della follia. La dolce e saggia follia di un uomo che, rinchiuso nella torre di Londra, la sera pregava così: Dammi un’anima che non conosca la noia/i brontolamenti, i sospiri, i lamenti/e non permettere che mi crucci eccessivamente/per quella cosa troppo invadente/che si chiama io/Dammi, Signore, il senso del buon umore/Concedimi la grazia/di comprendere uno scherzo/affinchè conosca nella vita un po’ di gioia/e possa farne parte anche ad altri.

Erba voglio Balsamita benedetta

Tommaso Moro in un disegno di Hans Holbein

di Caterina Cardia

La valigia dell’attore Il sacrificio di Ipazia, la santa che non esiste nel calendario di Alessio Sardelli

M

i è capitato nei primi anni del nuovo secolo di recitare davanti ad uno dei più grandi poeti del Novecento e soprattutto recitare un suo dramma. Parlo di Mario Luzi, maestro insuperabile di poesia. Il poemetto drammatico era Ipazia, una delle donne più celebri della storia antica e moderna ed era ambientato in una stimolante e fiorente Alessandria d’Egitto tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo. Io interpretavo il prefetto della città e le mie parole risuonavano come staffilate sul pubblico: “Il potere si rivolge fatalmente contro chi se ne allontana”, oppure: “L’isolamento del potere è nefasto per il potere. Lo è anche per i sudditi e rende i tempi difficili anche più difficili”. Ed è a questo punto che mi appare Ipazia

nella sua santità di donna, vittima sacrificale del patriarca fondamentalista Cirillo (proclamato santo e dottore della Chiesa nel 1882). Lui che con un braccio armato costituito da monaci combattenti, sparse il terrore nella città. Il razionalismo di Ipazia che non si sposò mai a un uomo perché affermava di essere già “sposata alla verità” e diverse versioni concordano nel dire che rimase sempre casta e vergine, costituiva un contraltare troppo evidente al fanatismo di Cirillo. “Le strapparono le vesti di dosso, sfregiarono la sua pelle e lacerarono le carni del suo corpo con delle conchiglie affilate finché non esalò l’ultimo respiro. Squartarono il suo corpo e la ridussero in cenere”. Tale fu la fine di questa poliedrica donna, fine che portò il celebre

“CREPAPELLE”

E

rba della Madonna, di San Giovanni, di San Pietro, di Santa Rita, di Santa Barbara, di San Giacomo, di San Giorgio. Sono troppi questi santi e si rischia di fare confusione. Prendiamo un’erba sola che li consideri tutti: la balsamita major è l’erba di San Pietro ma anche l’erba della Bibbia. Forse per motivi di gerarchia ecclesiastica, nel Medioevo i fiori dorati, che sbocciano per l’appunto a fine giugno, durante il periodo in cui cade la festa del santo, venivano utilizzati come segnalibro della Bibbia. Era una pianta molto stimata in questo periodo per le proprietà curative, veniva utilizzata frequentemente come antispasmodica, diuretica e sedativa della tosse, dalle foglie ricche di olio si otteneva un balsamo per rimarginare le ferite ed era coltivata in tutti gli orti. Adesso in Italia si trova inselvatichita più o meno in ogni regione ma sempre intorno agli orti e ai giardini dove ha continuato a nascere e mai allo stato selvatico perché comunque è una pianta importata dall’Asia. Buonissima per aromatizzare frittate, carni in umido, tortelli e ripieni ha un profumo straordinario, che ricorda la menta e il limone ma è balsamita e se la volete in vaso dovrete trovarla da qualche parte, dividere i cespi prendendone le radici e reimpiantarla in autunno o in primavera considerando che ha bisogno di sole. In estate sulle punture di zanzara applicate le foglie pestate della balsamita e penserete che chiunque l’abbia importata sia un santo.

poeta Vincenzo Monti a declamare: “La voce alzate, o secoli caduti/Gridi l’Africa all’Asia e l’innocente/ ombra di Ipazia il grido orrendo aiuti”. È nell’ultimo pensiero di Ipazia verso i suoi carnefici che si coglie la santità e le parole del Cristo: “Strano Dio che ha paura delle parole. Che odia i libri. Strano Dio davvero. Ma è il Dio che loro vogliono dipingere quello che fa paura. La proiezione delle loro paure. Non è Dio. Perché Dio o gli dei li puoi chiamare in mille modi, ma se sono davvero lassù, dietro le stelle, e sono loro che regolano tutto, perché dovrebbero avere paura? E di cosa? Di noi? La paura e la violenza appartengono all’uomo, a Dio, appartiene l’amore”. Santa Ipazia nel calendario non esiste e non esisterà mai. A Cecilia.

DI E CON

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“St. Mario Poppins”


Percorsi

Tears in Heaven

di James O’Mara

“L’odio non serve a nulla, solo l’amore crea” Parola di padre Kolbe di Massimo Niccolai

P

er me che non sono uomo di fede ma esercito la nobile arte del dubbio, parlare di santi è molto difficile. Dico questo perché nel nostro immaginario il santo è colui che, per fede tutto fa o forse dovrei dire che, tutto subisce. Sarebbe utile dunque capire quello che sono i santi. Pensando a voce alta mi viene da paragonare questi soggetti alle figure eroiche che costellano il firmamento dell’umanità e che nel seguirne le gesta ci hanno sempre rassicurato. Soprattutto da seguirne, in questo caso, le gesta etiche. Ma in questo seguire sento una mancanza, il guardarsi attorno e vedere che le persone sono persone e che tutti i giorni lottano contro le peggiori avversità e che o armati di scafandri o solo della volontà e dal desiderio, semplicemente, dello stare assieme cercano costantemente di rompere quelle barriere che qualcuno che non ama, che non sa amare l’altrui soggetto mette sempre in atto. Mi piace pensare che anche i santi, quelli canonici, non abbiano fatto altro che, guardarsi attorno e rompere quelle barriere con grande paura e chiarezza ma sicuramente amando. Anche io in questo caso non posso fare a meno di appellarmi ad una persona: Padre Kolbe che ad Auschwitz mentre gli iniettavano una siringa di acido fenico disse al suo boia: “Lei non ha capito niente. L’odio non serve a niente, solo l’amore crea”.

Lacrime in Paradiso - Eric Clapton

Dall’Armenia

Gatti Arnie e i suoi patroni ridono a primavera

Il pane non perde mai la sua santità nemmeno se lo mangi gratis

Attraversava i fiumi prima degli altri: la leggenda infinita di Tiziano Terzani

by Kate McBride

di Sonya Orfalian

di Raffaele Palumbo

A

U

laughing saint welcomes the warmth of spring’s first days. Basking in the noonday sun, a cat named Arnie, who lives under the Ponte alle Grazie along the river Arno in Florence, grins thinking of his namesakes. One is Saint Arnold, the eleventh century French Bishop and patron saint of Belgian beer. The other is the Greek Saint Arnold, a musician of the eighth century who lived in the court of Charlemagne. The name Arnold comes from the Germanic words arn, the eagle, and wald, to rule. Arnie is a double entendre representing both the saints and the river. Let’s have a toast to the eagle eye that rules the Arno, our own laughing gatto, Saint Arnie. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Esperienze Le donne scesero dai loro villaggi e per incanto nacque un best seller di Monica Capuani

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Photo James O’Mara

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Passato e futuro

uando una donna parla troppo, in hindi si dice che le si è aperta la zubaan, che è come il vaso di Pandora. È questo il nome della prima casa editrice femminista, aperta venticinque anni fa in India da Urvashi Butalia. “Mi sembrava una bellissima metafora”, mi racconta a New Dehli, nel suo ufficio di donne che lavorano a ritmo continuo. “Il logo è una rielaborazione grafica dalle statuine del Chhattisgarh che infestano il mio studio. Tempo fa in quella zona vi fu una campagna di alfabetizzazione. Le più entusiaste di imparare a leggere e scrivere furono le donne, giunte da moltissime tribù rurali. Quando gli insegnanti se ne andarono, si vedevano donne leggere ovunque: sedute sui loro giacigli, sdraiate sui prati, mentre allattavano i figli al seno. Un gruppo di artisti cominciò a ritrarle e a creare queste statuine di metallo”. Nell’87, un centinaio di donne provenienti da vari villaggi del Rajasthan, si presentarono da Urvashi. Dopo un workshop governativo sulla salute delle donne, avevano prodotto un libro illustrato intitolato Conosci il tuo corpo. Urvashi Butalia è stata l’unico editore disposto a pubblicarlo. Ad oggi, in India, è ancora un best seller.

na santo da non venerare. Un santo che non potrà mai diventare santo. Niente canonizzazione, niente persecuzione, niente beatificazione. Semplicemente un uomo, un fiorentino, nato il 14 settembre del 1938 e morto all’Orsigna il 28 luglio del 2004. In tanti ne hanno decantato le lodi, soprattutto per il suo giornalismo vero, per il suoi libri indimenticabili, per il suo rapporto con il cancro e poi con la morte vissuta fino all’ultimo giorno di vita. Qualcuno ci ha pure provato, sapendo che una volta morto non poteva più torcere il collo a nessuno. Da vivo, l’avrebbe fatto. L’hanno chiamato santone, per il kurta pigiama e la barba bianchi. Bastasse questo a fare di uno scorbutico spigoloso incazzoso duro come la pietra un santo! Tiziano Terzani era uno capace di arrivare al fiume prima degli altri, prendere la barchetta, legarsi dietro tutte le altre barche e lasciare a bocca asciutta e aperta tutti gli altri colleghi che speravano di guadagnare l’altra sponda per mordere la notizia del giorno e lasciarsi alle spalle le fregnacce di William Westmoreland. Altro che santo! Eppure, un personaggio religioso dalla lontana Asia, è riuscito con una sua riflessione a centrare l’obiettivo. Nella miope e meschina valutazione di un gigante del Novecento c’è stato pure qualcuno - anziani colleghi invidiosi rimasti attaccati alle poltrone e alle routine di sempre e diventati consapevoli di non aver scritto nessuna pagina di storia - che ha provato a liquidarlo applicandogli l’etichetta macchietta dell’anziano ex giornalista malato che si mette a fare il santone. E giù le solite polemiche dei soliti giornali italiani. Invece, dicevo, c’è questo anziano personaggio, un monaco suo amico, che aveva capito fino in fondo perché Terzani è riuscito a smuovere tante coscienze, a cambiare vite, a far parlare di sé per anni nonostante l’ostracismo dei colleghi anziani di cui sopra. Tiziano aveva dato, negli ultimi anni della sua vita, un nuovo straordinario impulso ad una grande, profonda ricerca spiriturale laica. Una spiritualità sincera, non superficiale, né codificata in teologie, né regolata da ministri del culto. L’accettazione dell’ignoto, la riflessione sulla nostra società che si crede completa e perfetta, la curiosità umile e insieme insaziabile nello scoprire che non sappiamo affatto tutto, che c’è un margine enorme di sconosciuto e forse di inconoscibile, di non nominabile, di eterno e di perfetto. Una enorme bestemmia, detta oggi e qui. La più grande. Più di qualunque pacifismo e antiamericanismo. Detta da un santo viaggiatore, un santo giocatore, un santo scrittore, un santo da non venerare e che non potrà mai diventare santo.


Dylan Bob

Una stella a Firenze

Staino

Juan, il vescovo mai beatificato Suonare anche contro l’indifferenza di Stella Rudolph

di Marco Poggiolesi

“S

I

anto subito!” si gridò vox populi nel 2005 alla morte di Giovanni Paolo II, il quale in effetti fra poco verrà canonizzato: colui che lungo il quarto di secolo del suo pontificato aveva promosso addirittura 1342 beati e 483 santi, ossia un primato di affollamento dei cieli nella storia bi-millenaria della Chiesa romana. Eppure tale rapido unisono di consensi non si constata nei metodici processi vagliati dalla Sacra Congregazione dei Riti (oggi dei Santi) in passato, giacché parecchie migliaia di candidati furono bloccati nell’ascesa agli onori degli altari dopo aver raggiunto lo stadio preliminare del riconoscimento quale servo di Dio e poi venerabile, senza passare ad essere dichiarati beati e alfine santi. Ne cito un esempio integerrimo: lo spagnolo Juan Palafox y Mendoza (1601-59), vescovo di Puebla nel Messico dal 1639 per 14 anni (nonché incaricato viceré nel ’40-42), insigne teologo, promotore delle scuole di Cristo avviate da san Filippo Neri all’insegna di una devozione interiorizzata e, per l’appunto, morto in odore di santità. Questo pastore infaticabile (fondò il seminario e ospedali ivi, fece restaurare numerose chiese) era anche un coraggioso difensore degli indios, al punto da istituire ben cinque cause a Roma contro le vessazioni dei missionari gesuiti nei loro confronti: la compagnia di Gesù non glielo perdonerà. Se nel 1691 Innocenzo XII riuscì a promuoverlo venerabile, il processo per la sua beatificazione nel 1726 fu insabbiato dall’ostruzionismo dei gesuiti ancora piuttosto rancorosi nei suoi riguardi, come quello avanzato nel 1777 da Pio VI e l’ultimo intentato nel 1852 da Pio IX. I documenti relativi giacciono presso la suddetta congregazione; basterebbe riprenderli in mano per verificare gli indiscussi meriti di questo personaggio caduto in oblio. I 320 anni trascorsi dall’inizio del suo iter verso l’altare mai raggiunto, palesano che la piena ricognizione di chi visse da santo tra di noi non sempre arriva tramite un decreto emesso dalla gerarchia ecclesiastica di cui, le risoluzioni, furono spesso inficiate da beghe di tutt’altro genere.

Santo Spirito

santi che conosco io sono tutti santi molto particolari. Alcuni bevono vino, altri sono sempre in ritardo, tutti fumano sigarette. Sono stati traditi, hanno tradito, soffrono per amore e certe notti li ho sentiti perfino bestemmiare. L’unica cosa luminosa sopra la loro testa è il neon freddo e impersonale dei locali dove suonano ma vi assicuro che compiono miracoli straordinari: continuare, sera dopo sera, a far vibrare di passione e note i loro strumenti nonostante certe indifferenze, certe incompetenze, certi giudizi e certe violenze. Io sto dalla loro parte e ogni domani sera della mia vita andrò ad ascoltarli. When the saints go marching in, Lord, how I want to be in that number, when the saints go marching in.

Classika Franz, un satanasso della tastiera di Gregorio Moppi

E

ra un satanasso della tastiera, l’equivalente pianistico di Paganini – sebbene, nel contegno e nell’aspetto - meno sulfureo di lui. Suo regno fu il gran coda, che volle rendere possente più di un’orchestra. Don Giovanni incallito, erano le donne a fargli la corte, e talvolta per levarsele di torno se la svignava quatto quatto dalle stanze d’albergo serrandovi dentro a doppia mandata l’esaltata di turno. Di compagne fisse, però, ne ebbe solo due, intelligenti, di gran classe: una contessa e una principessa. Già maritate ad altri. Non seppe rinunciare ad alcuna tentazione, neanche alla massoneria, eppure aspirò sempre all’aureola, al punto da trasferirsi in Vaticano e prendere gli ordini minori. Era Franz Liszt, ungherese che non parlava una parola d’ungherese, artista cosmopolita e generoso. Concepì la santità più come estetica che come regola, ma tanto gli bastò per inebriarsi di paradiso. Quest’anno se ne festeggia il bicentenario della nascita.

di James O’Mara

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acquifera.org

Ricetta

di Fabio Picchi

S

Di line e di lane

Cinema

La scelta di una donna

Così Casilda parlava ai Santi

di Pietro Jozzelli

di Juan Pittaluga

L’

I

ultimo santo che ho incontrato è una donna di mezza età, coda di cavallo a soffocare i capelli, occhi lampeggianti, mani nervose sempre in movimento evitate anche dalla fede nuziale. Era una donna giovane e attraente quando incontrò il suo destino, una bimba con gravi disabilità che sua cugina aveva messo al mondo. Per vent’anni si è presa cura di questa bambina diventata ragazza e poi donna, dopo che la madre morì di crepacuore in un giorno che stranamente sapeva di primavera. Non ne ha fatto né un dramma né un sacrificio da usare come bandiera, l’ha vissuto come una scelta che gli è apparsa inevitabile e al tempo stesso perfettamente libera, e sa Iddio quante volte si è maledetta per averlo fatto e quante volte, stringendosi con un gesto secco la crocchia, ha ricominciato là dove aveva intuito l’errore dell’abbandono. Non ho mai pensato a questa donna come a una santa, illuminata da una speciale virtù beatificante. Mi è apparsa come una donna che ha saputo scegliere, che ha riempito la sua vita di una doppia vita. Insomma, più completa e più bella della mia.

ciogliere una noce di burro in un tegamino per farci soffriggere garbatamente uno spicchio d’aglio tritato. Rigirateci poi fagiolini sbollentati, rompeteci sopra una chiara d’uovo e senza toccarla violentatela col fuoco coprendo il padellino con un coperchio per certa cottura. Aggiungeteci poi aiutandovi con il dorso di un cucchiaio due tuorli d’uovo. Aspettate poi qualche secondo perché il calore li aggredisca delicatamente. Tritate un non niente di nipitella fresca per condire insieme al sale e al pepe sia la chiara che il tuorlo. Pane in abbondanza per questi fagiolini che chiameremo Della Santa Profumata Alleanza.

l y a des Saints, je les ai aperçus, j’en suis presque sûr. Mais que veulent-ils me dire? Je n’ai jamais compris leur parole, sinon cette dextérité qu’ils ont à me souffler... J’ai vu un Saint passer dans le film La Vie est Belle de Capra, et puis un autre dans Miracle à Milan de De Sica et même peut-être dans La Nuit de l’Iguane de Huston. Il est évident que ces films ont une aura, mais est-ce la présence du Saint qui la donne? Ou le Saint est-il venu attiré parce cette lumière? Mois je suis sûr que Casilda, la vielle femme indienne qui faisait le ménage chez ma mère était familière des Saints. Il se peut qu’elle ne soupçonnait pas elle-même cette proximité, mais moi je l’ai vu en compagnie d’un Saint. C’est par l’élégance humaine qu’elle dégageait parfois que je sur certain de ça. Casilda m’a appris un langage subtil, sans se le proposer. Elle m’a expliqué comment nous avons tous la possibilité de parler à un Saint. Et je me dis alors que c’est ce qu’ont dû faire De Sica, Capra et Huston lors des tournages de ses trois films. Il se peut même que toute la vie d’un cinéaste ne soit que la recherche de cette rencontre. Alors il m’arrive de parler à n’importe qui, d’écouter n’importe qui, d’écouter bien comment n’importe qui me dit quelque chose. Je me demande parfois si par le miracle des mathématiques, ce n’est justement que l’accumulation de ces temps (perdu) qui vont se transfigurer en visage de Saint et je comprendrais alors quelque chose du visage humain. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Pieni d’Islam A pesca sul Tigri con l’archeologo che resisteva a Saddam di Giovanni Curatola

U

na persona speciale, frase della quale spesso si abusa, ma davvero non in questo caso. Un uomo fisicamente non troppo alto e di stazza ampia con l’aspetto bonario e cordiale delle buone forchette. Compitissimo, ogni volta che ci vedevamo (il che era praticamente tutti i giorni per più di sei mesi), si informava della mia famiglia e del mio umore e mi offriva una tazza di tè molto forte e senza zucchero, avendo memorizzato da subito i miei gusti. Poi si discorreva di lavoro. Essere il direttore del Museo archeologico nazionale dell’Iraq era indubbiamente un compito gravoso, complesso e di grande responsabilità, soprattutto dopo il saccheggio dell’aprile del 2003

al quale in troppi – ma non lui – avevano assistito senza reagire. Archeologo di fama internazionale, qualcuno gli rimproverava una compromissione con il partito baathista di Saddam Hussein, come se in Iraq, all’epoca, fosse stato possibile lavorare a qualsiasi livello senza la tessera del partito, per un cristiano, poi! Curioso, attento, instancabile, è stato il protagonista del salvataggio di innumerevoli opere d’arte. Poi le pesanti minacce alla sua famiglia lo hanno costretto a lasciare Baghdad, riparando prima in Siria e poi negli Stati Uniti dove insegnava in una università. Io gli devo molto in termini personali e anche di studio. Abbiamo condiviso il pesce del Tigri, mangian-

Si ringrazia Marchesi Mazzei [mazzei.it] Si ringrazia PODERE VOLPAIO [poderevolpaio.it] Si ringrazia Unicoop Firenze [coopfirenze.it]

dolo con le mani (e mi insegnava ad essere elegante in questo), grandi risate, immensi dolori per la morte di colleghi e amici brutalmente assassinati, angosce e anche progetti e sogni, e sempre il suo sguardo limpido e chiaro era incapace di mentire. Sono orgoglioso che il mio libro Iraq. L’arte dai Sumeri ai Califfi del 2006 abbia una sua dotta e anche affettuosa prefazione. Donny George Youkhanna era nato ad Habania (Iraq) il 23 ottobre 1950. L’11 marzo scorso a Toronto un infarto lo ha stroncato mentre si recava a tenere una conferenza. Il mondo ha perso un grande studioso, quelli che lo hanno conosciuto bene un indimenticabile amico. Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer

l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi Anno III Numero 4 del 1/4/2011. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

www.ambasciatateatrale.com

Disegno di Lucio Diana

Un verre de vin rouge

di Ugo Federico

U

na leggenda senese afferma che nel 1348 un frate domenicano alleviava la sofferenza dei cittadini affetti dalla peste bubbonica facendogli bere un vino miracoloso detto santo. Nasce così la definizione del vin santo che ancora oggi può essere considerato nettare degli dei. L’Occhio di pernice di Avignonesi è unico nel suo genere nato da una scrupolosa selezione in vigna di Prugnolo Gentile. I grappoli raccolti vengono pazientemente appassiti per 6 mesi. Dopo una pressatura con decantazione naturale avviene una fermentazione molto lenta sulle madri seguita da una maturazione in caratelli colmi per 10 anni. Di color mogano impenetrabile ha profumi che mi ricordano la marmellata di fichi di mia nonna, con note di rabarbaro, china e un finale decisamente balsamico. Sorprendente per sapidità ed eleganza. Vino raro ed immensamente prezioso.

L’orto

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di Stefano Pissi

vete mai provato a coltivare un orto? Coltivare, come scrivere, lascia una traccia, bella o brutta che sia e rimane un segno visibile, memoria indispensabile rispetto al timido pensare. Sono esattamente tre le primavere che coltivo quest’orto. Un orto lontano, ma vicino, difficile da spiegare. Di sicuro ci cercavamo da tempo, poi orto e ortista si sono trovati. Per lui ho rotto la crosta della terra, indurita dal tempo. Come compenso? La fatica, beatitudine del contadino che la sera, ti inebetisce di sonno, ti sprofonda nel letto. Per lui ho reciso rovi, a fare luce in quelle aiuole già gravide di semi in attesa. Come compenso? Verdura fresca e fiori. Insomma reciprocamente ci siamo coltivati e le mani portavano calli di soddisfazione e la terra era un letto arioso e leggero, fertile d’amore. Ci siamo coltivati nonostante sapessimo che poteva non essere eterno, insieme si fanno tratti di strada, ogni meta una nuova vittoria. Santità? Non esageriamo, per carità! Per me quotidiana azione cosciente e continua, magari discreta, un bel pensiero applicato, per il futuro si vedrà.


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