Ambasciata Teatrale - Giugno 2011 - Anno III Numero 6

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Caos Multisale di Adriano Sofri

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Non toglietemi il buio Alessandra Mammì

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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze 1 GIUGNO 2011

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ANNO III • NUMERO

Cinema

di James O’Mara

Nel nome di mio padre di Juan Pittaluga

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Chief Dan George - Inediti dal set di Piccolo grande uomo - 1972 - by James O’ Mara

E Ringo faceva roteare le sue pistole fumanti di Alberto Severi iccoli privilegi imprevisti parevano incredibili colpi di fortuna. Era il segreto della felicità di un’infanzia sostanzialmente povera. Così quando il modesto appartamento preso in affitto dal babbo nella prima quindicina di settembre, a Torre del Lago (non a Viareggio e non in alta stagione) rivelò possedere una terrazza che dava sulla platea di un cinema all’aperto, io e mia sorella rasentammo l’euforia. Che bazza! La sera si potevano vedere a sbafo i film sul grande schermo, senza pagare il biglietto, seduti sulla seggiolina impagliata a ciucciare il mottarello diaccio di freezer! Lassù qualcuno ci amava, indubbiamente. Grazie, Gesù. Sei un amico. Uno dei film più belli in assoluto della mia vita – altro che Chaplin, Kubrick, Fellini o Truffaut! – fu così uno spaghetti-western intitolato, mi pare, Tre colpi di Winchester per Ringo. E la scena più memorabile fu quando Ringo, interpretato credo dal grande Giuliano Gemma, dopo aver vinto uno sfida pistolera entusiasmante, ripose le colt nelle fondine, non senza aver fatto fare alle pistole una vorticosa piroetta, girandole attorno al dito medio infilato nel grilletto. Ganzissimo! Anzi: ganzifero. Ghìvi-

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arigi, calda notte d’estate. Sono le quattro del mattino. Da quanto tempo sono davanti a questo foglio bianco? Mi sento pesante, affaticato. Eppure non ho fatto nient’altro che aspettare. Il foglio bianco insiste e per un attimo è offuscato dal fumo denso del sigaro. Ancora nessuna parola. Ma da quando? Da che ora? Ormai da troppo tempo, un tempo che si è fatto molto più lungo di tutta questa notte. Forse da sempre? Senza dare nessun frutto, ho dovuto far finta di seminare. So bene che, se non dai niente, non ricevi niente. Intanto il sudore gocciola vivo sulla pagina vergine. Io non sono nessuno. Colui che non diventa il suo lavoro, rimane bestia, rimane inumano. Cos’è che non va? Cosa mi succede? Questa notte sarà decisiva, e io ancora non ne ho coscienza. Con impeto spingo via le pagine bianche. Cadono leggere, indifferenti. Non sono neanche più arrabbiato con me stesso. Sento la pulsione di andare avanti. Cammino in una grande stanza che non voglio abbandonare prima che non mi dica qualcosa di sincero. Improvvisamente capisco una cosa. Ho toccato un confine del Segue a pag.2 mio Io, la realtà.

Occhio di bue

Gesti teatrali

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aris, nuit brûlante d’été. Il est quatre heure du matin. Depuis combien de temps je suis devant cette feuille blanche? Je me sens lourd, fatigué. Je n’ai pourtant rien fait d’autre qu’attendre. La feuille blanche insiste, troublée à présent par la fumée lourde du cigare. Elle est toujours non écrite. Mais depuis quand? Depuis quelle heure? Cela fait longtemps. Un temps bien plus long que cette nuit je crois. Depuis toujours? Alors j’ai dû faire semblant de semer des choses, puisque tout ce temps est passé sans récoltes. Je sais que si tu ne donne rien, tu ne trouve rien. En attendant, la sueur tombe vive sur le papier vierge. Je ne suis personne. Celui qui ne devient pas son travail, reste bestial, inhumain. Qu’est-ce qui ne va pas? Qu’est-ce qui m’arrive? Cette nuit, je ne sais pas encore, sera décisive. Je pousse les feuilles blanches violemment, elles tombent légères, indifférentes. Je ne suis même plus fâché contre moi-même. J’ai ce sentiment d’avancer. Je marche dans la grande pièce que je ne veux pas quitter avant qu’elle me dise quelque chose de sincère. Soudain je comprends quelque chose. Je dois me dire une phraSegue a pag.2 se à moi-même.

do. Bestiale. Ringo era la pistola più veloce del West (e anche il fucile: di qui il Winchester del titolo), aveva appena sostenuto una sfida pazzesca con dei tipacci formidabili, mandandone almeno un paio al creatore, ciononostante si prendeva il ghiribizzo, del tutto inutile, ma esteticamente sublime, di quella doppia piroetta delle pistole ancora fumanti. Era cinema, si capisce: ma il gesto risultava prettamente teatrale, nell’accezione un po’ derogatoria che l’aggettivo talvolta assume, come di un che di enfatico, di pleonastico, di gratuitamente istrionesco. Per me, invece, c’era più sostanza lì, che nella sparatoria che l’aveva preceduto. L’essenziale era il superfluo. La cosa più seria era il gioco. Per questo, in generale non credo che occorra preoccuparsi troppo, con eccesso di correttezza politica talebana, per le armi giocattolo in mano ai ragazzini. Soprattutto se dopo aver ucciso il nemico, il ragazzino si picca di far roteare le pistole attorno al dito, prima di riporle nella fondina. Sta giocando, e lo sa. Sta facendo teatro. E non rischia, come accade talvolta in televisione, di confondere il reality con la realtà. E viceversa. Sipario.


Cinema

segue dalla prima

Caos multisale

Nel nome di mio padre

Una legge “ad Novolim”

di Juan Pittaluga

di Adriano Sofri

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’ai touché un bord de moi, la réalité: Je ne veux pas écrire, je ne suis pas écrivain. C’est simple, pourtant je n’ai pas le sentiment d’un renoncement, parce que secrètement quelque chose travail pour moi. Un soulagement m’envahi. Et une question: tout chemin a-t-il les péripéties tortueuses que j’ai empruntés? Tout se paye avec les monnaies que l’on porte dans ses poches. C’est mon désir qui m’empêche d’écrire. Quel désir? Celui de voir un film. Incroyable. Mais vrais. Alors je me souviens de ce sentiment de faute que j’avais à Rio de Janeiro fin des années 80, lorsque tard la nuit au lieu de me pencher sur mes textes de sociologie, je courais vers Botafogo voir la dernière séance d’un film américain des année 70. Ce même sentiment de faute que j’avais dans les froides nuits d’hiver dans la cinémathèque de Montevideo où j’ai découvert Fellini, Rossellini, De Sica, Antonioni. Et c’est là, dans l’infraction que j’ai fondé mon goût. J’ai été ensorcelée par la lumière noir et blanc du néoréalisme italien. Sans doute parce que le propre délabré des vielles salles du cinéma de Botafogo ou de la cuidad vieja, et leurs correspondantes copies détériorées me rendaient encore plus proche ce moment de naissance du cinéma. A six heure du matin je vais me coucher. Une joie se mélange à la peur inexprimable. Comment puis-je être content d’avoir peur? Parce que je viens de lever l’obstacle, je m’approche de quelque chose de crucial. Le cinéma était en moi un désir que me suis interdit. Pourquoi? C’était à cause de mon père que je voulais être un intellectuel. De mon père et de son époque cruel. Mon père fut un diplomate de gauche cultivé à l’extrême e intègre, qui eut la vie brisée par la dictature militaire uruguayenne, qui lui enleva deux fois son travail défigurant sa dignité. Il sombra dans une dépression suicidaire, vu qu’il ne servait plus à rien. Il n’avait pas réussi à devenir son travail. Ce serait en filmant un hommage à la fin de sa vie engagée et impuissante, que deviendrai ce que je voulais être. Le lendemain j’ai commencé furieusement à écrire le scénario de mon premier film Orlando Vargas qui sera montré au Festival de Cannes en 2005. Sans doute chacun doit payer de sa propre monnaie la traverser de l’autre coté du couloir. Je crois que les moissons humaines ne viennent que de ce qu’a semer le désir dans l’émotion de l’intimité.

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evo dire una frase a me stesso: io non voglio scrivere, io non sono uno scrittore. È semplice, eppure non la sento come una rinuncia perché, segretamente, qualcosa lavora per me. Un sollievo mi invade, ma anche una domanda: sono necessarie sul tuo cammino queste tortuose peripezie che hai intrapreso? Il pagare continuamente con le monete che hai in tasca? È il mio desiderio che mi impedisce di scrivere. Quale desiderio? Il desiderio di guardare un film. Incredibile. Ma vero. Mi torna in mente allora quel senso di colpa che avevo a Rio de Janeiro alla fine degli anni ’80 quando, a notte fonda, invece di chinarmi sui libri di sociologia correvo verso Botafogo a vedere l’ultima proiezione di un film americano degli anni ‘70. Lo stesso senso di colpa che avevo nelle fredde notti d’inverno alla cineteca di Montevideo dove ho scoperto Fellini, Rossellini, De Sica, Antonioni. Ed è lì, nella fuga, che ho dato le basi al mio gusto. Sono stato stregato dalla luce nera e bianca del neorealismo italiano. Senz’altro perché quel pulito slabbrato delle vecchie sale di cinema di Botafogo o della ciudad vieja, e le sue rispettive copie deteriorate, mi rendevano ancora più vicino al momento della nascita del cinema. Vado a dormire alle sei del mattino. La gioia si mescola a un’indescrivibile paura. Ma come posso essere contento di aver paura? Perché ho appena saltato l’ostacolo, mi sto avvicinando a qualcosa di cruciale. Il cinema era un desiderio che mi ero sempre vietato. Perché? Era a causa di mio padre che volevo diventare un intellettuale. Di mio padre e della sua epoca crudele. Mio padre era stato un diplomatico di sinistra, integro e acculturato fino all’estremo. Ha avuto la vita spezzata dalla dittatura militare uruguaiana che gli ha levato per due volte il lavoro, trasfigurando la sua dignità. Visto che non sarebbe servito più a nulla, cadde in una depressione suicida. Lui non era riuscito a diventare il suo lavoro. Sarà solo filmando un omaggio alla fine della sua vita, impegnata e impotente, che diventerò quello che volevo essere. Il giorno dopo cominciai furiosamente a scrivere la sceneggiatura del mio primo film, Orlando Vargas che sarebbe stato poi proiettato al festival di Cannes del 2005. Senza dubbio ognuno deve pagare con le proprie monete la traversata dall’altra parte del corridoio. Penso che le muffe umane nascano solo da quello che il desiderio ha seminato nell’emozione dell’intimità.

Ri-cercata Hollywood batte Newton di Clara Ballerini

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a complicata relazione fra cinema e scienza, due espressioni della creatività umana completamente diverse per metodo e scopo, ha fatto sì che spesso la scienza nei film obbedisca alle leggi di Hollywood piuttosto che a quelle di Newton o Darwin e Harrison Ford nei panni di Indiana Jones guadagna molto di più del biochimico di Extraordinary Measures. Quello che conta è che l’unione quasi simbiotica fra scienza e cinema riesca soprattutto a divertire, a stupire, a diventare una vera e propria forma artistica. Non importa se quello che accade è poco verosimile, se la scienza spesso diviene fantastica e si muove su registri improbabili: è spettacolo. Nei film la realtà diventa un materiale grezzo da cui poi ci si allontana per raccontare una storia. E’ vero, alcuni registi come Kubrick e Cameron sono stati ossessionati dalla integrità scientifica, perché così le loro storie erano più belle. E’ indispensabile che il cinema sia storia scientifica raccontata e che sia testimonianza del mondo tecnologico, perché come dice lo scienziato Stephen Jay Gould “E’ la necessità di una testimonianza diretta che separa la pratica scientifica dalla fede religiosa”.

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Staino

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on ci vado mai al cinema. Dai tempi in cui si diceva: andiamo al cinema. Tutt’al più si diceva: il pidocchietto, il cinema dell’oratorio, il cineforum. Poi, magari, la multisala. Ora ne sento tanto parlare, a cena. Conversazioni roventi. Imparo che ci sono i multiplex, e che si dividono in megaplex, cityplex, e quelli di mezzo (si chiameranno mediaplex?). Vogliono ammazzare le sale indipendenti, desertificare il centro delle città, dicono gli uni a cena. Gli altri obiettano: ma le sale storiche sono già chiuse o stanno per chiudere per conto loro, perché le abitudini sono cambiate, e perché le vostre gestioni di cinefili fanno morire di noia. Ah, replicano i primi, e non vi importa niente che tutto il circuito dei multiplex finisca nelle mani di un paio di padroni? E che, grossi come sono, saranno liberi di decidere che film proiettare sui loro schermi, e poi anche che film produrre e importare? Può darsi, rispondono gli altri, però qui ora non si tratta dei duopolii, ma solo del multiplex di Novoli, e a voi snob non piace un posto fuori mano e popolato come Novoli, a parte il fatto che non è più fuori mano. E così via. Una discussione così era cominciata quando andai in galera, l’ho ritrovata tale e quale una dozzina d’anni dopo. Finché alla fine di maggio la cosa ha preso una piega svelta. Il consiglio regionale ha votato una correzione alla legge. La correzione stabilisce tre categorie. Quelli sotto le cinque sale non potranno avere più di 700 posti complessivi. Quelli oltre le otto sale dovranno avere una distanza di almeno 15 km da altre sale. Quelli medi, fra le cinque e le otto sale, non hanno nessun vincolo né di numero di posti né di distanza. Ora, una divisione in categorie che fissa i vincoli di due e non della terza è una cosa piuttosto buffa, e infatti si spiega con la questione di Novoli. Però, piuttosto che votare un’assurdità come una legge che per soccorrere, magari a ragione, una situazione particolare, prende un valore universale, è meglio votare una norma ad Novolim. Come nel Parlamento nazionale, no? In Consiglio regionale, l’Italia dei Valori ha votato contro, forse per convinzione, forse perché le piace punzecchiare il Pd. Il Pd (e Rifondazione) ha votato a favore. La Lega è uscita dall’aula per assecondare il voto favorevole. Si poteva fare di meglio.

In scena E poi la chiamano fiction di Tommaso Chimenti

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l cinema è stata la risposta al teatro. Poi s’è messa di mezzo la televisione. Ma cinema e teatro sono andati di pari passo, con stili e strumenti diversi, ma con la stessa cifra dell’importanza della visione da non far scadere. Cinema di qualità, s’intende. Sequenze di carne o di celluloide. Di commistioni, tra attori, registi e testi che fanno il salto, ora dall’una all’altra sponda e viceversa, la lista è infinita. Ma non è questo il quid. Se penso al cinema inevitabilmente mi appaiono le fumosità della bobina nella cabina di Nuovo Cinema Paradiso. Sarà perché ero piccolo, sarà perché avrei voluto entrarci anch’io lì dentro, sarà perché lo spioncino del proiezionista mi sembrava così in alto, cavaliere arroccato nella sua fortezza inespugnabile. Entrare lì dentro? Impossibile, mi rispondevo, nessuno può entrarci, come se dentro ci fossero custoditi segreti inenarrabili. I film le chiamavano pizze, e io me la ridevo. Titoli che scorrono. Alcuni anni fa al Teatro Fabbricone di Prato fui tra gli spettatori protagonisti di uno strano sdoppiamento, o, se vuoi, raddoppiamento. Sulla scena Danio Manfredini in Cinema Cielo. Il Cielo era una sala a luci rosse milanese. Lo schermo, il pubblico finto di manichini e pochi attori, dietro il pubblico vero (noi) a guardare le spalle, noi sì voyeur morbosi e curiosi pruriginosi, in un gioco di specchi. Guardo il me che guarda in una riproposizione che può essere estesa all’infinito. Chi c’è alle mie spalle, chi mi vede vedere, cosa stanno vedendo gli altri di me quando il mio sguardo è rivolto verso un altro orizzonte. Emozioni. E poi la chiamano finzione.


Pellicola romantica

di James O’Mara

Ritratto inedito di Margot Kidder su un set cinematografico - by James O’ Mara

Una stella a Firenze

Opinioni

Da Varsavia

Stregata da Dorothy e Scarlett

Giovani registi russi crescono

In coda per entrare all’Iluzjon

di Stella Rudolph

di James Bradburne

di Tessa Capponi

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anno 1939 segnò una svolta nella storia del cinema con l’uscita di due film piuttosto diversi l’uno dall’altro ma entrambi capolavori del medesimo regista, Victor Fleming, e subito diventati cult movies anche per lo straordinario carisma degli attori: Il Mago di Oz e Via col vento. Venivano continuamente riproiettati; tant’è vero che, una dozzina d’anni dopo, entrarono a fare parte della mia formazione mentre ero ancora alla scuola elementare. Messe da parte le favole (fairy stories) lette durante l’infanzia, mi trovavo ormai alle prese con l’Odissea di Omero ed ecco saltare fuori dalle pagine libresche con la prepotenza di una narrativa visiva sugli schrmi due racconti che suturavano favola e saga nel tema di un sofferto ritorno a casa, irto di trappole, incantesimi ed avventure talvolta degne di Ulisse. Indimenticabile la sapiente mistura del bianco e nero con il technicolor (allora agli albori) che articola il viaggio onirico della fanciulla Dorothy (una strepitosa Judy Garland) alla ricerca del fantomatico Mago di Oz per perorare un aiuto al fine di tornare alla fattoria nel Kansas volata via con un tornado come lo sono, d’altronde, le bellissime canzoni (Somewhere over the rainbow, ecc.). Invece è dalla storia vera della Guerra Civile americana che scaturisce la trama conclusasi con la fuga di Rhett Butler (Clark Gable) e Scarlett O’Hara (Vivien Leigh) dalla città di Atlanta in fiamme per tornare alla ben più signorile dimora di lei, occupata e devastata dai soldati del Nord (sempre in technicolor ed accompagnata da una formidabile colonna sonora). Indubbiamente l’impronta di codesti film lasciatami in tenera età (e di tanti altri in seguito) ha condizionato la vocazione di storica dell’arte che poi ho seguito. Il cinema si era presto insinuato di soppiatto nella mia vita e tuttora mi accompagna nello svisceramento di ciò che ci sta succedendo oggi.

n recent decades, it seems to me contemporary cinema has taken an odd turn. Hollywood remains a paragon of technical excellence, but its production values are only a shell - mere appearances do not make great film. American cinema is now largely blockbusters and uncritical remakes void of any interest outside of their special effects, created to feed a seemingly insatiable market of waking somnambulists. On the other hand, contemporary Russian film is exciting, edgy and intelligent. Young Russian film-makers - some of them still in their twenties - are now turning out some of the best films anywhere today. Heirs to a long film-making tradition, where Mosfilm and Lenfilm created powerful portraits of Soviet life - often quietly subversive without attracting the censor’s attention, the new generation of post1991 film-makers have been taking the skills of their parents into the 21st century. Almost without exception, the most moving, funny, emotional and intelligent films I have seen in the last ten years are by young Russians. These films include popular films such as Valery Todorovski’s The Lover (2002) and Stilyagi (2008), Oksana Bychkova’s Peter FM (2006) and the bilingual Plus One (2008), Fyodor Bondarchik’s Zhara (2007), as well as art films including Anna Melikyan’s Russalka (2008), and Waldemar Krzystek’s Russian-Polish Mala Moskva (2008). To this list can be added the eccentric comedies of Aleksandr Rogoshkin, as well as his more serious works such as Transit (2008). The only tragedy is that these films - even those like Bakhtiar Khudojnazarov’s Luna Papa (1999) - are still not widely available in translation. If they were, we would find ourselves watching contemporary Russian films more often. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

zadko chodzę do kina. Nigdy nie byłam wielbicielką wielkiego czy małego ekranu, a zawsze wolałam tworzyć swoje długometrażowe fantazje, które dawały nieskończone możliwości zmian we własnej wyobraźni. Tu właśnie zaznacza się przewaga marzeni z otwartymi oczami; możesz być jednocześnie aktorem, reżysere, scenografem no i widzem własnej wyobrażni. Koło naszego domu w Warszawie było małe kino, które przed 1989 nazywało się „Stolica“, potem zostało przemianowane na“Iluzjon“, kiedy stało się siedzibą Kinoteki Narodowej, a kilka lat temu ostatecznie je zamknięto. Było to kino starego typu z drewnianymi,nie do końca wygodnymi, fotelikami, gdzie praktycznie nie było latem wentylacji, a zimą szczękało się zębami z zimna, ale jednocześnie nagłośnienie cię nie ogłuszało, a ekran był ekranem, a nie atakującą cię trójwymiarową przestrzenią. W latach 80 filmy z zagranicy docierały z wieloletni opóźnieniem, jeżeli wogóle docierały, bo działanie cenzury były niezgłębionym absurdem. Pamiętam, że gdy pojawił się film Ryszarda Bugajskiego „Przesłuchanie“, w którym Krystyna Janda, w sposób niezwykle realistyczy, grała rolę biednej aktorki kabaretowej okrutnie torturowanej w najczarniejszym okresie reżymu stalinowskiego, to można go było tylko zobaczyć, na zakonpirowanch spotkaniach w domach znajomych, na kasetach VHS kompletnie wytartych od ciągłego używania. Każdego roku władze państwowe dawały pozwolenie na organizowanie dwutygodniowego festiwalu filmowego zwanego Konfrontacje gdzie prezentowano una tantum nowości z całego świata. Powiedzmy sobie szczerze, że selekcja była dosyć jednokierunkowa, a sprzedaż karnetów dla widzów bardzo ograniczona (stało się w kolejce dniami i nocami), ale zawsze była to możliwość zaczerpnięcia swierzego oddechu, pewna przestrzeń wolności, którą mogłeś wywalczyć poświęcając swój upór i swój czas. Dawne kino dla wczorajszych widzów. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

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12/13 Giugno 2011



Gatti

Percorsi

Sintesi esaustiva

Tom, Felix e gli altri

Entrare in una storia

Istruzioni per l’uso di un capolavoro di Terrence Malick

by Kate McBride

di Massimo Niccolai

di Milly Mostardini

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n the long list of cats who entertain we find the characters of Felix, Tom, Garfield, the Cat in the Hat, Cheshire, Tigger, Puss n’Boots, Hello Kitty, Sylvester, Simba, Lucifer, Bagpuss, the Aristocats and so many others. Movie cat co-stars abound with “Cat” in the arms of Audrey Hepburn in Breakfast at Tiffany’s, Mrs. Purr in Harry Potter and Mr. Bigglesworth, Dr. Evil’s cat, in Austin Powers just to name a few. Cat movie stars include the Pink Panther and Tomasina and then there are stars with cat nicknames such as Cat Ballou and Catwoman. Let’s not forget Morris, star of cat food commercials and our own gatti who appear daily along the Arno, jumping in and out of their hole and playing alongside their riverside friends. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

■ Guarda su ambasciatateatrale.com Video by Kate McBride

inema, amore mio. L’ultimo volta che sono andato al cinema è stato per vedere Angèle e Tony un film splendido che mi ha preso dall’inizo alla fine. E’ per questo, infatti, che mi piace il cinema. Entrare in una sala cinematografica significa entrare in una storia. Ci accomodiamo su poltrone più o meno belle, troviamo la posizione giusta e poi le luci si spengono ed entriamo in un altro mondo, ci lasciamo coinvolgere. Poi le luci ritornano e piano, piano torniamo alla realtà: il viaggio è terminato e dentro rimangono ancora per un po’ gli strascichi delle emozioni che quel tempo ci ha fatto provare. Sono felice di aver vissuto questa epoca, non capisco come le generazioni più giovani riescano a provare quello che abbiamo e continuiamo a provare noi in una sala cinematografica, ma per questo devo ringraziare mio padre grande amante del cinema che fin da piccolo mi ha introdotto in questo posto magico. Già, è così che mi è apparso la prima volta quando sono stato condotto con tutta la famiglia in un piccolo cinema parrocchiale della mia città e lì ho visto il mio primo film interpretato da Stanlio e Ollio, con le luci che si spengevano ebbi un po’ di paura ma poi con l’inizio della proiezione mi lasciai prendere dalla storia, dalle follie di quei due splendidi personaggi che mi fecero ridere a crepapelle. Ma soprattutto non ero solo, anche altri si divertivano e condividevano con me questo magico momento. Da allora è stata una necessità di cui oggi provo in alcuni casi astinenza.

rriva un film, che non si può passare sotto silenzio e non è classificabile nelle categorie abituali: né thriller né d’azione, non sentimentalromantico, né commedia di costume o sociale, né da ridere, né uno di quei film meritevoli che tranquillizzano e leniscono lo spettatore. L’albero della vita del regista americano Terrence Malick cimenta i suoi spettatori: qualcuno approfitterà dell’intervallo per lasciare la sala, gli altri, resistenti, ne usciranno con parecchie domande interiori e disaccordi tra amici. Si comincia seccamente con la notizia che il figlio maggiore di una famiglia di Waco, Texas, è morto in circostanze e cause, che non ci sono descritte. Dal dolore dei genitori e dei due fratelli più giovani, lo schermo passa, senza soluzione di continuità, alle immagini della nascita del pianeta Terra. Una sorta di Big Bang incendia lo schermo di luci, suoni, immagini abbaglianti. Dura una decina di minuti, una lunghezza siderale al cinema. Ne segue la nascita della vita, nelle acque e poi sulla terra: questa parte è di una bellezza intensa e scioccante. Dalle cellule agli insetti, dal vegetale all’animale, al possesso di terre rocciose. C’è, indimenticabile per dolcezza e silenzio, un giovane dinosauro, innocente e crudele, che schiaccia con la zampa un’altra creatura già atterrata. Nemmeno il grande Stanley Kubrick aveva osato tanto nella sua famosa preistoria. Con Malick questo è poesia, pittura, musica, tutte insieme. Si torna al cuore del film, che è la storia della famigliola texana. E nella congerie, eccessiva, di film di ogni tipo sul tema della famiglia, queste immagini di Malick sono indimenticabili. Lo è il padre, uno straordinario Brad Pitt, così ambiguamente feroce e crudele con i figli. Lo è la madre, sempre bella ed elegante, secondo gli anni Cinquanta, che dovrebbe compensare a forza solo di tenerezze e giochi rilassanti, la repressione dei suoi bambini. In realtà passiva, sottomessa, non responsabile, è figura femminile vecchia per le spettatrici di oggi. Nell’idillio familiare, forse anche autobiografico, protagonista involontario della guerra tra padre e figli, è il ragazzo maggiore, tra infanzia e adolescenza: sul suo volto tormentato passano l’adorazione, la sottomissione, la perplessità, la paura e infine l’odio per il padre. Come il regista sia riuscito a ottenere una interpretazione tanto perfetta e sconvolgente da un ragazzino, ci lascia colpiti. Specie quando il ragazzo, consapevole della violenza del padre, comincia a sua volta a torturare il fratellino prediletto. Sono immagini che resteranno indimenticabili nella storia del cinema. Il film si avvia alla fine con una sorta di resurrezione: scivolando sul pack polare bianchissimo, tutti i protagonisti, meno il padre, tornano ad incontrarsi, si abbracciano, si sorridono, intrecciano le mani, mentre si ode cantare il Requiem aeternam. È un’appendice, a modesto parere di cinefila, non indispensabile alla storia, a parte la straordinaria prestazione di Sean Penn, nel ruolo del fratello minore, ora adulto. Ma è forse indispensabile alla visione religiosa che impregna tutto il film, da momenti quasi ascetici alle tante citazioni bibliche. Il Festival di Cannes ha assegnato a L’albero della vita la Palma d’oro. Il regista, uomo assai riservato, non si è presentato né alla premiazione né alla abituale conferenza stampa. I registi Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, pur in concorso al Festival, dietro Malick, avrebbero dichiarato che il film americano era il più meritevole del premio. Qualcuno ricorda La sottile linea rossa, film sulla guerra di Malick? Se pensate di andare a vedere questo suo nuovo film, siete avvertiti.

Lasciate che i bambini Al museo pensate a Mary Poppins di Tomaso Montanari

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uesta volta voglio rivelarvi un segreto. Quando sono di fronte ad un quadro di cui non riesco a trovare la chiave, ebbene, io penso a Mary Poppins. Sì, proprio al meraviglioso film di Walt Disney: quello dove una super-tata volante insegna a due bambini come la fantasia e la libertà siano più importanti – e più divertenti – del denaro. Ad un certo punto del film, l’amico spazzacamino di Mary (che si chiama Bert) disegna per terra, con i gessetti colorati, alcuni semplici quadretti che rappresentano campagne e cieli blu. I piccoli Jane e Michael sono affascinati da quelle immagini, e Bert chiede a Mary di fare una grande magia: ed è così che Mary, Bert e i bambini saltano sopra i disegni, e – meraviglia! – sprofondano in quel mondo dipinto, un mondo di prati fioriti a metà tra Monet e Seurat. Ecco, quando vi portano in un museo, e vi trovate di fronte ad un quadro, invocate a bassa voce la magia di Mary Poppins e tuffatevi dentro la pittura, dove un mondo parallelo vi aspetta. Un mondo dove tutto è possibile: godersi l’ombra di una strada di Giotto, galoppare sui cavalli di Paolo Uccello, sdraiarsi su un prato di Tiziano, infilarsi i guanti di Rembrandt o addentare una brioche di Chardin. Se avrete il coraggio di pensare a Mary Poppins la vostra vita avrà una gioia segreta. Quella di saltare nei quadri.

Esperienze The Reader, come la prima volta di Francesco Cury

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rima erano i cartoni animati, poi i lupini. Li prendeva mio padre nel piccolo bar con qualche spicciolo che aveva sempre, per abitudine, nella tasca destra della giacca. La scelta del film era la sua, l'entusiasmo e l'eccitazione tutte mie. Anni che la conosco, quella sensazione, anni che la sento, anni che ogni volta che guardo lo schermo la cerco. Si dice che, per chi ha una dipendenza, la vita si esemplifichi nella ricerca perenne dello stesso primo viaggio. Il mio è stato all'inizio degli anni 90' e avevo 8 anni, forse Philadelphia di Jonathan Demme. Sul vialetto d'uscita, a passo delle alte mura che chiudevano l'arena estiva di Forte Belvedere. Potenza e vita, la grandezza e la luce che attraverso la retina penetrano e Bum! Si imprime irrimediamilmente, plasma e accarezza, scolpisce e convince, che tu voglia o non voglia. Stato indefinibile, mi prese improvviso, inaspettato, sconosciuto. E lo sentii, lo percepii perfettamente. Sensazione di momentanea inadeguatezza al mondo. Come un sogno, un onirico capogiro. I passi si fecero leggeri sulla ghiaia, i suoni ovattati alteravano le mie percezioni, gli occhi umidi perché forse avevo pianto. Avevo visto il mio primo film. Oggi, nuovamente emozionato, come mia prima indicazione, The Reader di Stephen Daldry.

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Mary Poppins e Bert dentro un quadro, scena dal film Mary Poppins (Walt Disney, USA 1964)


Contraddizioni

Abbasso lo zapping

Syriana come fosse Harry Potter

Per favore non toglietemi il buio: poltrona rossa, terza fila, centrale

di Raffaele Palumbo

di Alessandra Mammì

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on voglio parlare di cinema. Voglio parlare della sala buia, con le poltrone, rosse, e lo schermo bianco. Voglio sempre le prime file, al centro. Sono pronta a discutere con la bigliettaia e con il suo stupido computer che ragiona come una slot machine. «Le va bene H 27?» «No. Terza fila dallo schermo, potrone centrali. Se no cambio posto e le scombino tutto il quadro», minaccio io. Lo schermo lontano non lo sopporto. Ma è ancora peggio quello laterale. Mi devo tuffare nel film. Dal trampolino al cuore della piscina. In acqua fino alla fine. Fino all’ultimo titolo di coda. per questo detesto la gente che si alza prima che le luci si riaccendano. Protesto e a volte litigo. Sono uno spettatore talebano. Ma non parlatemi di golfo mistico, caverna platonica. Per me il cinema, l’unico, quello in sala, è la caverna

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ono anni che studio un film, come si studia un testo complesso che continua a parlarci e a dirci cose nuove ad ogni visione. Detta così verrebbe da pensare ad un grande film d’autore venuto fuori negli anni d’oro del cinema vero, quello che si faceva quando ancora non c’era Blockbuster, l’homevideo, i multisala con venticinque minuti di pubblicità prima del film e la tv a pagamento. In realtà si tratta di una recente, classica produzione hollywoodiana da 50 milioni di dollari. Ovvero un film americano con tanta azione, perfetto per il multisala, il dvd e il red carpet dei Golden Globe. Fu, nel 2005, il film dell’anno. Syriana, scritto e diretto da Stephen Gaghan (Traffic) e interpretato da una bella carrellata di star e premi Oscar, primi fra tutti George Clooney, Matt Damon e - solo per un cameo - William Hurt. Niente affatto marginali le musiche ipnotiche di Alexandre Desplat. Che c’è da studiare, vi chiedere allora voi? Come ama fare Gaghan, il film è un intreccio di storie, tanto da essere stato definito dal critico Roger Ebert “un esempio di cinema a hyperlink”. Il punto di partenza è il libro del veterano della Cia Robert Baer See no evil, tradotto in italiano con La disfatta della Cia (Piemme). E poi dentro c’è: una grande fusione tra due compagnie petrolifere americane prese di mira dall’antitrust e il tema della dipendenza dal petrolio, lo sfruttamento dei lavoratori asiatici non arabi nei paesi del golfo e il fatto che il petrolio “si va esaurendo” (Matt Damon), i grandi sommovimenti mediorientali e l’analisi su quanto siamo disposti a fare per accaparrarci il petrolio rimanente. C’è la costruzione del kamikaze e il rapporto padre-figlio, c’è il conflitto famigliapolitica e c’è la disfatta della Cia, ridotta a protettore delle corporation americane nel mondo. Su petrolio, Medioriente e Stati Uniti c’è tutto. Non casualmente - nel forsennato ping pong tra Teheran, Beirut, Washington, Ryad, etc. - non c’è mai nè Israele, nè la Palestina: a riprova di quanto siano irrelevanti nell’area e di quanto appaiano imprescindibili, semplicemente perchè usati strumentalmente. Ogni frame è una informazione, ogni inquadratura ci dice qualcosa che non sappiamo. Una mole di conoscenza paragonabile ad una lunga bibliografia sui temi citati, condensata in 128 minuti di film. Ma la cosa divertente, la cosa che incuriosisce di più è: come è possibile che un film del genere abbia incassato più di 50 milioni di dollari in un anno e che abbia avuto il successo di una grande film di puro intrattenimento? Come è possibile che un numero considerevole di persone abbia visto Syriana con i popcorn, come si guarda un qualunque Harry Potter? La sola presenza delle stelle di Hollywood non basta a dare una spiegazione credibile. Il segreto del film è nella scrittura. E la scrittura perfetta a renderlo un capolavoro. Densissimo e insieme leggero.

Emozioni Grazie a Jane ho ritrovato Pentimento di Monica Capuani

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ell’età passionale dell’adolescenza, avevo eletto a modello Lillian Hellman. Negli anni Trenta scriveva per il teatro (testi fantastici come La calunnia e Piccole volpi), era la compagna del giallista Dashiell Hammett (quello de L’uomo ombra e Il falcone maltese), entrambi perseguitati durante il maccartismo, era andata in Spagna durante la guerra civile armata di penna come Hemingway, e scriveva sceneggiature per Hollywood. Adelphi aveva pubblicato un suo libro-galleria autobiografico di ritratti delle persone che più aveva amato. Lo regalavo a tutte le mie amiche. Si intitolava Pentimento, come quando il pittore si pente del disegno e dipinge qualcos’altro sulla tela. Una sera, ero davanti alla televisione e la Rai trasmetteva un film con Jane Fonda e Vanessa Redgrave. Non esisteva ancora l’isteria da zapping. Poco a poco mi resi conto che il film era tratto da Julia, uno dei ritratti di Pentimento. Una ricca amica antifascista chiede a Lillian, che sta per fare un viaggio in treno per la Russia, di trasportare a Berlino del denaro per la causa, nascosto in un cappello d’astrakan. Quel film di Fred Zinneman mi ha dato un’emozione fortissima, l’ho sempre considerato il mio film. Solo fino a qualche mese era irreperibile, poi due care amiche me lo hanno scovato in dvd. È uno dei miei tesori più preziosi.

di Alì Baba. Magia pura. Il resto è cinematografia, televisione, industria. Sono le immagini allucinate che sobbalzano sul mio computer di lavoro, quando ha appena inghiottito il dischetto di un film in ungherese sottotitolato in inglese, con il time-code che rotola numeri in un angolo della schermata. Sono i film sullo schermo al plasma di casa che mi fanno addormentare sul divano; i classic-cult-family movie di Sky con l’info (pallino rosso) che ti dà la tramina, e l’info (pallino verde) l’ora d’inizio del prossimo. Prodotti deboli che cedono allo zapping dell’immaginario continuamente distratto. “Chi avrà vinto la partita?” “Cosa avrà detto Berlusconi?”. Detesto i futuristi che già decretano la morte del cinema in sala per promuovere allucinati scenari di film visti sull’I pad in metropo-

litana o memorizzati in qualche laptop “Così lo puoi interrompere e riprendere quando vuoi”. Perché mai? Nel patto col diavolo c’è anche il tempo. Due ore tutte. Perchè la sala è autorevole e forte. Lì il film non si lascia trattare come un sogno usa e getta. Una volta entrati è difficile uscire fino alla fine. Anche se il film è brutto, anche se viene sonno, la decisione di alzarsi e andarsene comporta responsabilità. E allora si preferisce dormicchiare scivolando in quel sonno surreale, dove nel dormiveglia i personaggi si sciolgono nella mente abbandonata e cominciano a fare tutt’altre cose da quelle previste dal film. Sarà successo davvero o l’ho sognato? Chissà. Tutto è possibile qui, nel buio, nella poltrona rossa, in terza fila al centro. Per favore non toglietemi la sala.

Classika

Dylan Bob

Inganni da elisir d’amore

Il film me lo suono da solo

di Gregorio Moppi

di Marco Poggiolesi

L

E

’Italia non cambia. Preferisce da sempre avvoltolarsi nelle illusioni. Oggi come nel 1951, anno di Bellissima di Luchino Visconti. Allora come nel 1832, anno dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Visconti racconta dell’adescamento fascinatorio esercitato dallo schermo (del cinematografo, in quel caso), del desiderio prepotente di entrarci dentro a ogni costo per divenir parte di un mondo da favola; poiché le favole che traversano lo schermo sono tanto più appaganti delle nostre vite ordinarie, e il crederci ci conforta. Sotto Bellissima Visconti fa filare, ammiccanti, le note dell’Elisir d’amore. Storia di un piazzista cialtrone e ridicolo che, a villici insipienti irretiti dal suo carisma affabulatorio, vende medicamenti-patacca a poco prezzo spacciandoli per miracoli. E il curioso è che, da ultimo, non vengono i gendarmi ad ammanettarlo, ma anzi la gente se lo porta in trionfo quasi fosse l’uomo della provvidenza.

ra seduto nella penombra dell’ultimo tavolo ed abbracciava la sua chitarra. Anche lui come gli altri era arrivato a Saintes Maries de la Mer per festeggiare Santa Sara, protettrice di tutti i gitani. Accennò un impercettibile sorriso e mostrando i suoi anelli d’oro, con un gesto della mano mi invitò a sedermi accanto a lui; era proprio lui, che grande onore. A quel bar suonammo per ore canzoni antiche, tradizionali e mentre le note volavano frenetiche e veloci dalla tastiera all’intera piazza capii che ero proprio nel film che avrei sempre voluto scrivere, interpretare, vedere. Che ognuno sia il regista di se stesso, che ognuno sia il protagonista della sua storia, che ognuno scelga ottimi compagni di viaggio per partire per il lungo pellegrinaggio alla ricerca del suo film perfetto e quando lo ha fatto, che ognuno abbia di nuovo pronta la valigia.

La valigia dell’attore Quando facevo la raccolta di figurine dei “Magnifici Sette” di Alessio Sardelli

A

nni ’60 ero un piccolo monello che per andare dal giardino di Annalena, in via Romana, alla Porta impiegava di corsa una manciata di minuti, che tempi. Ora che ripercorro quelle strade con passo decisamente più lento e soffermandomi davanti a sale cinematografiche inesorabilmente chiuse, ripenso ai film che da pischellino mi affascinavano e che mi hanno avvicinato al mondo meraviglioso delle ombre elettriche. L’isola Misteriosa di Giulio Verne, dove un gruppetto di uomini ha a che fare con animali giganti, addirittura un pollo alto dieci metri che poi ucciso, se lo mangiano avidamente. Maciste all’inferno dove lo aspetta un mostro a tre teste e poi il primo film di fantascienza a colori Il pianeta proibito dove tra mostri dell’Id , uno scienziato mezzo matto e Roby il primo robot, appare un’affascinante ragazza in minigonna di cui io mi innamorai subito. Tutti i film di Louis De Funès, un piccoletto nervoso, ispettore francese, ossessionato da Fantomas. Per un pugno di dollari, I magnifici sette di cui facevo la raccolta di figurine dentro quegli album gonfi di colla Coccoina. Si piangeva con Gianni Morandi e Laura Efrikian, sua prima moglie, con In ginocchio da te e ci si sbellicava dalle risate con Franco

Franchi e Ciccio Ingrassia. Tutto questo accadeva all’Astor (ex Esedra), all’Artigianelli, al Goldoni. Tutte sale che oggi sopravvivono solo nei ricordi. All’Astor c’è un supermercato, all’ Artigianelli un magazzino anche se nel suo ex bar i Ragazzi di Sipario gestiscono con bravura un ristorantino e poi il Goldoni cinema che ospita tutto quello che non serve più. Ho visto con i miei occhi scaricarci una vecchia cucina. Beh, a qualcosa ser-

ve. Ma il cinema, di per se non è morto, sopravvive ad ogni tentativo maldestro dell’invidioso piccolo schermo, ed io ora che ho avuto il grande privilegio di viverlo in prima persona cioè di vivere sui set cinematografici, di stare davanti all’occhio della macchina da presa, sento che questa meravigliosa invenzione non finirà mai di stupirci e di tenerci incollati davanti al grande schermo. W il cinema!

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acquifera.org

Ricetta

di Fabio Picchi

A

vendo l’accortezza di comprare 250 grammi di corn biologici, fondete 50 grammi di burro a bagnomaria stemperandoci dentro un cucchiaino di pasta d’acciuga o ancor meglio un’acciuga sotto sale sfilettata. Dopo di che fate scoppiettare i grani trasformandoli in ampio volume di Pop Pop Pop Corn che rigirerete a fine cottura nell’acciugosa e burrosa fusione, aggiungendoci poco sale e molto pepe macinato di fresco. Variante possibile, se coraggiosi, col peperoncino. Se di fede islamica con cumino macinato. Se siciliani con polvere di fiori di finocchi. Berci senz’altro un prosecco sarebbe bello ma vi farebbe cacciare da qualsiasi sala cinematografica. Potrete perciò insistere perché durante l’intervallo vi venga servito al bancone del cine-bar cedrata Tassoni o spuma bionda. Altro sarebbe irrispettoso.

Pieni d’Islam Da Fairbanks a Totò di Giovanni Curatola

L’

idea cinematografica di un certo Islam è particolarmente interessante, perché raccoglie una serie di luoghi comuni e banalità impressionanti. Non oggi, ieri. Il ladro di Baghdad (1924) con il mitico Douglas Fairbanks è in questo senso un classico godibilissimo: ispirato a un mondo di favola (da Le mille e una notte), è un campionario di sciocchezze visionarie, compreso un fantastico tappeto volante che mai appare in letteratura, ma sarà significativamente ripreso in Le mille e un’ora di Asterix (1987). Una pratica, quella dell’Oriente di colore, che però, a ben vedere, è parente stretta della pittura orientalista dell’800 (da Delacroix a Ingres a Gerome in poi), con un Oriente altrettanto favoloso, tutto centrato sul proibito e sulle donne, sull’harem e poi: sensuale, crudele, opulento, spudorato. Filone che continua in vari modi, da Totò le Moko (1949) con la qasba di Algeri che pare Spaccanapoli, fino al Fellini di Lo sceicco bianco (1952) e al premio Oscar Amarcord (1973), con il pittoresco corteo dello sceicco nel Grand Hotel e la mitica, inarrivabile Gradisca. Quanto questo Oriente islamico cinematografico di maniera (un po’ come i giapponesi che non hanno mai smesso

Di line e di lane

Un verre de vin rouge

di Ugo Federico

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di combattere la II guerra mondiale ed erano sempre cattivissimi), ci abbia inconsciamente suggestionato è difficile dirlo, ma in un angolino buio probabilmente questa visione in qualche modo resiste, resiste, resiste. Fino all’uso odierno di espressioni oscene (o sceme?) attribuite a un dittatore nord africano e adottate da un quasi dittatore nord brianzolo.

Da Gerusalemme

Prima Pagina, c’è poco da ridere

Il ponte verso una vita a colori

di Pietro Jozzelli

di Sefy Hendler

gni qual volta stappo una bottiglia di vino dapprima sono curioso, poi emozionato e alla fine anche un po’ critico. In effetti è come quando decidi di andare al cinema per vedere un film in una fredda domenica d’inverno. Ho visto numerosi film e ho aperto forse ancor più bottiglie, ed entrambe le cose possono arricchirti o renderti ahimè più povero. Ricorderò sempre il Dom Pérignon acquistato per la prima volta solo perchè James Bond in Goldfinger ne stappa una del 1953. Emozione incredibile, se chiudo gli occhi posso ancora sentire il profumo di pesca matura e di pasticceria secca e poi la morbidezza e l’eleganza di questo inimitabile Champagne. Oppure i soldi investiti per comprare l’indimenticabile Chateau Cheval Blanc bevuto da solo per smaltire una delusione amorosa proprio come il protagonista di Sideways che in un fastfood ne beve una del 1961 in una tazza di plastica da caffè. Vino immenso e raro che eccezionalmente ti arricchisce e allo stesso tempo ti rende più povero.

L’orto

di Stefano Pissi

I

l film più bello in cui meglio si definiscono i pregi e i difetti del giornalismo è Prima Pagina. Non fatevi ingannare dalle risate esplosive di Jack Lemmon e Walter Matthau, il film è serio, serissimo. E’ forse l’unico in cui, attraverso la dissacrazione ironica della mitologia del giornalismo americano, si coglie l’essenza di uno dei grandi poteri del Novecento, quella accozzaglia di genialità e di bassezze da angiporto di cui danno sempre prova i giornalisti, a cui spetterebbe di essere gli avamposti dell’opinione pubblica (il moderno Leviatano della società democratica). Fidatevi dei giornalisti, e al tempo stesso non fatelo. Sono quasi la stessa cosa dei registi: descrivono una realtà che non è mai reale (e come potrebbero, poveretti, visto che sono soltanto degli osservatori, anche se talvolta non in malafede) ma che dovrebbe apparire almeno verosimile visto che la patente di chi scrive in teoria è l’attendibilità. Così gli uomini che fanno il cinema: pretendete da loro la registrazione oggettiva del mondo? No, ci sediamo in una bella poltrona in una sala buia sperando di ritrovare l’essenza di un sentimento o di una storia, di cui abbiamo perso traccia per nostra vigliaccheria o per quella del cronista che ha tentato di prenderci per il naso.

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

www.ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi Anno III Numero 6 del 1/6/2011. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

SI RINGRAZIA

MARCHESI MAZZEI [mazzei.it] PODERE VOLPAIO [poderevolpaio.it] UNICOOP FIRENZE [coopfirenze.it] Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer

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l mais, Zea mays L. è una graminacea – pianta erbacea a ciclo annuale - esigente in nutrienti, temperatura e acqua. Nei campi è granella secca per l’alimentazione animale o polenta per i cristiani. Negli orti invece si coltivava per la raccolta della pannocchia fresca, presa alla maturazione lattea o cerosa – quando cioè i chicchi sono ancora morbidi e pieni di zuccheri semplici, dolci. Una volta raccolte venivano subito consumate, bollite o alla griglia, penso davvero più per snack che per vero cibo. Nel Mugello, anticamente, la coltivazione del mais era associata a quella dei fagioli che sfruttavano il possente fusto del cereale come tutore per arrampicarvisi; arrivati a maturazione prima veniva raccolto il legume e poi si passava alla mietitura del moderno frumento, il formentone, così lo chiamavano i mugellani. Dopo la mietitura le pannocchie venivano portate sull’aia per il mestiere della battitura, separare i chicchi dalla pannocchia. L’operazione veniva fatta in cerchio e i partecipanti parlando e battendo forte il cereale con il correggiato sul lastricato dell’aia socializzavano, si sfogavano. A fine giornata di lavoro niente pensieri. Dopo la cena spesso c’era la veglia – il cinema dei contadini, storie vere, sognate, vissute o che avrebbero voluto vivere: paure, sentimenti forti, batticuori, delusioni, tragedie, risate, pianti e qualche volta anche cazzotti; con scenografie originali e sceneggiature improvvisate e anche musica, in presa diretta ovviamente. Adesso invece, dopo che ci siamo evoluti in un progresso che a tratti sappiamo gestire, che non ci riconosciamo più, molto è cambiato; allora in un baleno il formentone è diventato popcorn, il focolare un maxi schermo (maxi - scherno direi) e la veglia, quando va bene, finisce al cinema. Disegno di Lucio Diana


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