Napoli e il professore di T. Montanari
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Due sindaci, un miracolo di L. Settembrini
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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
“Siamo angeli con un’ala sola”
1 Luglio 2011 ANNO III • NUMERO
Editoriale
Tanto per ridere
Silvio, t’ho lasciato solo
Sapessi com’è strano Ora anche il traffico risentirsi innamorati sembra sorridente
di Sergio Passaro
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aro Silvio ti scrivo, così ti distraggo un po’. Perdona il “tu” alla Lucio Dalla, è per sdrammatizzare. Ci conosciamo? Beh, ormai ti sarai dimenticato di me, è passato tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo sentiti al telefono: era venerdì 16 gennaio 1987, tarda serata. Come faccio a ricordare così bene? Fidati, ho le mie buone ragioni: mezz’ora dopo aver parlato con te ero disoccupato. A quei tempi io lavoravo a Il Giornale di Montanelli, tu avevi da poco comprato una squadra di calcio, il Milan. Allora non era certo uno squadrone, più vicino alla serie B che alla coppa dei campioni; tu (basta guardare le foto dell’epoca che poi, non si sa come, sono sparite dagli archivi) avevi molti meno capelli di oggi ma più entusiasmo nel tuo ruolo di apprendista presidente. Proprio su questo si rideva in redazione e Montanelli – che come sai era tifoso della Fiorentina – ci dava carta bianca nel tirarti qualche bonaria frecciata, nonostante tu fossi, guarda caso, anche proprietario del Giornale. Quel venerdì ci preparavamo a pubblicare un’intervista a tre giocatori del Milan che scherzavano sul fatto che tu, ai primi passi nel mondo del pallone, sembravi più un tifoso che un presidente. Una presa in giro comunque educata, a tratti perfino affettuosa, che sarebbe uscita all’indomani con il titolo: “La difesa del Milan attacca Berlusconi”. Sarebbe uscita: invece non uscì. Perché? Beh, sin d’allora piccoli bisignani crescevano, qualcuno che tu dovevi aver piazzato in redazione ti avvertì dell’imminente terribile articolo contro di te. Tu, allarmatissimo, prima facesti chiamare da Fedele Confalonieri, poi chiamasti di persona. In tutto cinque telefonate: invano provai a convincerti che ti eri preoccupato per nulla, tentai di spiegarti che se avessimo tolto quell’innocua intervista dalla pagina l’avrebbero saputo tutti e avrebbero sberleffato il Giornale. Ricordo che, per tranquillizzarti, addirittura mi permisi di suggerirti di metterti una parrucca con le treccine alla Gullit e di andarti a godere la partita in curva, in mezzo ai tifosi veri. Accanto a me c’era un amministratore del Giornale che impallidì e mi disse: “Nessuno ha il coraggio di dire certe cose al Cavaliere, ma forse è di questo che lui avrebbe bisogno”. Vedi, quel mio consiglio irriverente era dettato da rabbia, sì, ma anche da sincerità. Nulla da fare: tu non capisti, l’intervista alla fine saltò, scoppiò il previsto putiferio, io mi dimisi dal Giornale. Insomma quel venerdì sera le nostre strade si separarono e io adesso mi sento terribilmente in colpa. Già, perché dopo di allora a me è andato tutto bene, a te no. Sì, vabbè, hai guadagnato un sacco di soldi, possiedi tante case, sei diventato premier un paio di volte, qualche soddisfazione te la sarai tolta anche tu. Ma sull’informazione, scusami, non ci siamo proprio: troppe reti tv accatastate l’una sull’altra tra editti bulgari e videocassette demodé, troppe cravatte (direbbe Paolo Conte) e direttori sbagliati, insomma troppi autogol. Del resto, che voto dare a uno che aveva sudato per acquistare Il Giornale di Indro Montanelli e alla fine si ritrova con il giornale di Sallusti? Zero in media. Per questo, caro Silvio, quando una sera in tv ho visto la registrazione di te che parlavi al telefono ad una sala vuota (e invece eri convinto che fosse piena), mi sono pentito: non dovevo lasciarti solo. Scusami.
Il vento di Milano
Maria Cassi
di Lella Costa
di Claudio Bisio
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apeste come è strano scoprirsi innamorati di Milano... Che non è solo una questione politica, anche se conta eccome, soprattutto perché Giuliano Pisapia è davvero una gran persona e ha messo insieme un’ottima giunta che di sicuro farà un buon lavoro, anche se sarà dura. E’ che c’entrano anche i sentimenti. E’ che da troppi anni li avevamo sopiti, rimossi, messi da parte come il retaggio di un filo patetico di altri anni, altre utopie. Roba vecchia. Sovrastruttura che non ci potevamo più permettere. Dalla Milano da bere in avanti, passando per quella da pere e per quella da bare, l’unica cosa che sembrava contare era l’apparenza. Proprio non ci riuscivamo più a volerle bene, alla nostra città. Eppure ne avevamo una gran voglia, anche se non ce lo dicevamo, ma proprio mai (se c’è una cosa che accomuna i milanesi autentici, nativi o d’adozione, è il pudore). Così è bastata la scintilla di primarie vere, con tre candidati non solo veri ma anche talmente giusti che chiunque avesse vinto lo avrebbero sostenuto tutti, perché cominciassimo a dirci (ma sottovoce, che francamente sembrava un’enormità): dai, almeno Segue a pag.2 proviamoci.
o sono un milanese. E’ la frase che più mi è rimasta impressa di quel lunedì 30 maggio, pronunciata da decine di persone in piazza del Duomo, citando non senza quel pizzico di ironia che ha contraddistinto la campagna per Pisapia sindaco, il famoso Ich bin ein Berliner pronunciato da Kennedy davanti al muro di Berlino ancora ben saldo. Ricordo benissimo le facce. Ancora non ci si poteva credere. Facce felici ma al tempo stesso stupite. Appena i dati, le prime proiezioni, cominciavano a dare per certa la vittoria di Giuliano Pisapia contro la pluridecorata, plurimiliardaria quasi ex sindachessa (una donna veramente fuori dal comune, come con un po’ di sarcasmo l’ho sentita definire in quelle ore), ci si riversò presso la sede del Teatro dell’Elfo in corso Buenos Aires. Tra l’altro bello che il quartier generale di Pisapia fosse nel foyer di un teatro, fa ben sperare. La strada fu subito bloccata dai vigili memori di quanto era successo due settimane prima, quando impreparati, loro e noi, ci trovammo a ballare, suonare e cantare in mezzo al traffico bloccato (però sorridente, va detto. Come può un traffico essere sorridente, vi chiederete voi? Segue a pag.2 Può, può, dico io).
Di line e di lane
Occhio di bue
La secessione del ridicolo di Pietro Jozzelli
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attume, mondezza, sudicio: chiamateli come vi pare, i rifiuti di Napoli oltre a sommergere l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo (così la definiva Benedetto Croce), hanno avuto l’effetto collaterale di mostrare al mondo quanto sia ridicola l’accoppiata Bossi-Maroni quando parla di cose che non conosce, come ad esempio il bene di un Paese. Il diktat del padre del Trota - no al decreto d’emergenza che permetterebbe di smaltire i rifiuti napoletani nella altre regioni – dà sostanza all’appello secessionista gridato dai leghisti con gli elmi cornuti nella piana di Pontida ma, come dire, lo fa senza impegnarsi troppo. Infatti, che secessione è se un giorno si dice no al viaggio della mondezza e il giorno dopo si dice sì al trasferimento dei ministeri? Ora è più facile capire perché i leghisti sono divisi tra bossiani e maroniani, non sanno più scegliere se sia meglio condividere il puzzo e, insieme, i ministeri, oppure se sia meglio dire no a tutti e due: ma così facendo, come farebbero i dirigenti con i corni a garantire qualche migliaio di posti governativi ai propri tifosi, naturalmente pagati da tutti gli italiani?
Il vento di Milano
Risentirsi innamorati Ora anche il traffico sembra sorridente di Claudio Bisio “Tutta mia la città” di Lella Costa
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oi le primarie le ha vinte Giuliano, con quel sorriso e quella pacatezza e quella capacità straordinaria di catalizzare e motivare tutti, ma proprio tutti, compresi i ragazzi che a votare non ci erano mai andati prima e non solo per motivi anagrafici. E ci abbiamo provato, ce l’abbiamo messa tutta, ci abbiamo creduto, ma soprattutto ci siamo innamorati. Di Milano, di Giuliano, e anche di noi. Verso la fine della campagna elettorale succedeva di sorridersi per la strada perché ci si riconosceva, come dei carbonari: sarà anche stato il clima patriottico del centocinquantenario, ma poco mancava che ci scambiassimo frasi in codice tipo Viva Verdi. Ci siamo ripresi piazza del Duomo - Tutta mia la città -, abbiamo cantato ballato parlato gridato riso e pianto, ci siamo abbracciati, ci siamo commossi. Sindrome da innamoramento, appunto. Abbiate pazienza, so che avrei potuto scrivere cose più profonde, ma sapete com’è: dopotutto, è la prima volta che posso dare del tu al mio sindaco.
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n quel pomeriggio finalmente assolato (avevamo chiuso la campagna per i ballottaggi, il venerdì precedente, sotto un temporale con grandine di quelli che “non se ne vedevano da vent’anni”, ma si sa, tante cose non si erano viste da vent’anni) la gente spontaneamente (o forse stimolata da radio e web) si è riversata in Corso Buenos Aires, capendo subito che quella pur ampia via non sarebbe bastata a contenere tutti. E allora è partito una specie di corteo smandrappato, di bicilettata non prevista, di flash mob non voluto che si dipana verso il centro, verso la mitica piazza del Duomo, dove idealmente ci aspettava con un sorriso il cardinale Tettamanzi. Beh, in quel pomeriggio di festa anarchica (nel senso di non organizzata), di palchetto striminzito che non era stato previsto più di tanto, forse per disattenzione, più probabilmente per scaramanzia, ho visto sfilare di tutto. Gente che si presentava nel retro palco chiedendo di portare un saluto alla piazza e noi ci si guardava non sapendo se la risposta più giusta fosse sì o no, oppure “aspetta che chiediamo” ma il bello era che non c’era nessuno a cui chiedere, non c’era nessun comitato o segreteria o responsabile della comunicazione. E allora, rischiando di fare gaffe, si decideva noi, c’era Paolone Limonta, quell’omone buono, maestro elementare che vedete in tutte le foto di quei giorni dietro a Pisapia, che gli è stato accanto dal primo giorno dell’estate scorsa quando Giuliano decise (allora quasi contro tutto e contro tutti) di candidarsi alle primarie del centro sinistra; c’era Nico Colonna, che ricordo in tutte le piazze studentesche degli anni Settanta e che ora è il presidente di Smemoranda e c’ero io che ogni tanto dichiaravo: “Ci portano il loro saluto i sindaci di Torino e Genova!”, ed era vero. E ogni tanto urlavo: “E ora ci porta un saluto Gigi D’Alessio!” e non era vero. Poi un vecchietto arzillo ci dice che vuole salutare la piazza. “Chi sei?”, “Sono il figlio di uno dei fratelli Cervi”. “Sali!”. E poi Ricky Gianco, Lella Costa, Paolo Rossi e gli Stormy Six. “Cosa cantate? Cose nuove?”, “Ma va, faremmo Stalingrado”. Ci guardiamo tutti negli occhi: sarà opportuno, non lo sarà? Ma chissenefrega, la canzone è bella, parla di una città intera che ha resistito ai nazisti. “Salite!” Il finale però è stata, come nel venerdì precedente, “Tutta mia la città” dell’Equipe 84, nella bella versione ska di Giuliano Palma. E quando la piazza all’unisono cantava “Questa notte un uomo piangerà”, ognuno di noi aveva ben presente chi poteva essere.
Firenze 12/13 giugno 2011
Riflessioni
segue dalla prima
di James O’Mara
De Magistris e Pisapia, la doppia sfida di Luigi Settembrini
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ono nato a Milano da una famiglia che più napoletana non potrebbe essere. A Milano ho vissuto quando ero giovane e al Piccolo, in platea, sedeva Brecht. Quando c’erano artisti, scrittori, attori, registi, poeti. Nuovi giornali, nuovi editori. Quando la voglia di volare era condivisa. Ma il decollo non è avvenuto. Milano non è mai divenuta una vera grande capitale europea. Per cinquant’anni ai comandi si sono avvicendati piloti che del cielo hanno avuto paura. Amministratori senza sogni, architetti grigi, finanzieri becchini, secessionisti convinti che la Padania fosse la Germania e il Po una sorta di sacro Gange. Chiuse le fabbriche, la cultura dei soldi è rimasta sola. Ma sola non basta. Non genera bellezza. Non crea identità, lo sanno anche i bambini. Milano. Per questo il venerdì si svuota. Per questo è così buia. Per questo, forse, il cielo non è come quello di Parigi, alto e leggero. Napoli, ai primi del ‘900, una capitale europea lo era già. “Vedi Napoli e poi muori” il detto che orgogliosamente ne vantava l’ unicità, la bellezza, lo spirito e l’ironia senza pari, la musica del dialetto, la poesia delle canzoni, l’intelligenza del teatro, il raffinato cinismo della gente. Era difficile dire se fosse più elegante l’aristocratico o il popolino di Eduardo. Qual è stato lo tsunami capace di ridurre quella capitale a una pattumiera e dare al “Vedi Napoli e poi muori” un nuovo tragico senso, legato questo alla sporcizia, al tanfo, al grave rischio di epidemie? Chi è il responsabile? La malavita, la politica? La testa di quei troppi che non si fermano al rosso, rifiutano il casco, sfrecciano in moto sui marciapiedi, disdegnano la raccolta differenziata? Mani sulla città di Rosi, già nel ’63 denunciava la formidabile corruzione napoletana, gli intrecci definitivi con la camorra. Ricordo la didascalia che chiudeva il film: “I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce”. Un pensiero bipartisan, maschilista, politicamente scorretto: possibile che la Moratti e la Jervolino (ovvero il contrario della grazia, delle sensibilità, delle qualità del loro sesso) siano divenute sindaci a Milano e Napoli per caso? Non sarà invece accaduto per un segno di dispetto del padreterno? Ai nuovi, Pisapia e de Magistris, un augurio sincero. Hanno alle spalle il vento dei giovani e dei moltissimi stufi delle promesse, delle riforme, dei processi e delle zoccole del premier, ma davanti un lavoro improbo se non addirittura impossibile. Pisapia deve riuscire a far finalmente volare l’aereo che inutilmente rolla sulla pista da mezzo secolo; de Magistris addirittura cambiare la testa e l’anima della sua gente.
L’intervista Lucarelli: “A Napoli si torna adesso” di Tomaso Montanari
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L’erba voglio E il frutteto diventò un museo a cielo aperto di Caterina Cardia
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uglio 2011 è il termine ultimo per sostenere un progetto straordinario nato trent’anni fa dal sogno di un ricercatore di piante che non ho avuto la fortuna di conoscere e purtroppo non conoscerò mai pur condividendo la stessa passione e conoscendo bene l’emozione della ricerca e la gioia della scoperta che rendono possibili imprese come la sua. Livio Dalla Ragione prima da solo e poi insieme alla figlia Isabella ha cercato per conventi, aziende agricole, poderi, orti e campi abbandonati lungo l’Alta Valle del Tevere alberi da frutto di specie antiche in via di estinzione o già considerati estinti per impiantarli ed innestarli nella sua azienda agricola a San Lorenzo di Lerchi, in Umbria, creando un patrimonio inestimabile di profumi e sapori che decenni di devastante semplificazione industriale ci hanno fatto dimenticare e smettere di desiderare.Un frutteto dove crescono 450 alberi di 150 varietà diverse tra mele, pere, fichi, ciliegie, susine, nespole e merangole dai nomi incredibili catalogati anche per territorio di origine, caratteristiche botaniche ed organolettiche, tradizioni ed usi culinari in un bellissimo libro, Archeologia arborea edito da Ali&no editrice che è il risultato degli anni di ricerche di Livio e degli studi di Isabella e che mi è stato
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regalato da poco dal mio amico Hans, pensatore olandese venuto in Val d’Orcia per imparare a coltivare olivo e vite e poi è rimasto per coltivare aglione, porro selvatico e moltissime altre piante selvatiche che andiamo a cercare e spesso troviamo e riseminiamo sicuri di fare cosa utile e importante per molti. Isabella Dalla Ragione cerca di realizzare il progetto pensato insieme al padre che prevedeva la trasformazione del frutteto in un museo a cielo aperto con un centro studi dedicato, suscitando l’interesse di grandi testate giornalistiche come il New Yorker, che definisce quest’azienda un’esperienza unica al mondo e nel totale disinteresse delle istituzioni pubbliche del nostro bel paese sta promuovendo la nascita di una fondazione di cui si può diventare soci fondatori versando la quota minima di diecimila euro. C’è tempo fino al 31 luglio per partecipare; se avessi dei soldi da investire non ci penserei un attimo perchè gli alberi sono in produzione e la biodiversità è la sfida del futuro. Per le informazioni dettagliate si può andare all’indirizzo www.archeologiaarborea.org, per assaggiare meraviglie come la pera briaca o il fico gigante degli zoccolanti si può andare solo a San Lorenzo di Lerchi,vicino a Città di Castello. Un giorno, chissà...
apoli non è terra da andarvi per entro di notte, e massime un forastiero», diceva il toscano Boccaccio, che c’era cresciuto. La nottata di Napoli non passa: e andarvi dentro da forestiero è sempre più difficile. E, tuttavia, l’attrazione è più forte della difficoltà. Da fiorentino che lavora a Napoli, ogni volta che sbarco sotto il Vesuvio, sento che Napoli è tutto quello che Firenze non è: una spalancata sul mare, l’altra serrata tra le colline; quella battuta dal vento, questa con l’aria ferma; una smisurata e verticale, l’altra ordinata e orizzontale. Soprattutto, «Napoli è tutto il mondo» (lo diceva Giulio Cesare Capaccio nel 1634). E Alberto Lucarelli è uno di quei napoletani che ti ricordano che Napoli è parte dell’Europa, anche più di Milano o Torino: insegna diritto pubblico alla mia stessa università (Federico II) ma anche a Londra, ad Heidelberg, a Yale. Tutti questi aerei, però, non lo portano ad avere la testa tra le nuvole: uno dei suoi ultimi libri si intitola Governo e gestione dei rifiuti. Da pochi giorni Lucarelli ha accettato la sfida più difficile: quella di governare Napoli dopo la rivoluzione arancione, assessore ai beni comuni e all’acqua pubblica nella neonata giunta di Luigi de Magistris. La speranza di cambiare Napoli è razionale o emotiva? Non si tratta di una speranza. Ma di una volontà: della volontà assoluta di portare pratiche politiche radicalmente diverse nel governo del Comune. Il punto chiave è un collegamento forte con i cittadini, che saranno coinvolti davvero nell’attuazione del politiche pubbliche. E poi non vogliamo cambiare Napoli: vogliamo solo permettere che venga a galla tutto quello che c’è di buono a Napoli. Nella tragedia dei rifiuti c’è un lato paradossalmente positivo: la quantità e la qualità della partecipazione consapevole dei cittadini alla politica sono cresciute fino a livelli sconosciuti in tutta Italia. Su questa volontà hai scommesso abba-
stanza da cambiare perfino la tua vita privata, è vero? Sì, dal 2006 insegnavo anche alla Sorbona, a Parigi: la mia famiglia è ancora lì, per qualche settimana. Ma ora è il momento del ritorno, dell’impegno per Napoli al 100%. È il senso di una volontà, non di una speranza: si torna a Napoli ora, non domani. Quanto conta Napoli per l’Italia? Napoli è la terza città d’Italia. Il rilancio dell’Italia passa per Napoli. Si dice sempre che questa città ha potenzialità straordinarie: bene, è il momento di attuarle. Il vento di Napoli è lo stesso vento che soffia a Milano? Sì, assolutamente: il messaggio dei referendum è chiarissimo. I cittadini vogliono tornare ad occuparsi della cosa pubblica. Lo vogliono fare con rigore, attraverso processi di autoformazione permanente: è esattamente il contrario dell’antipolitica, è fare politica andando oltre la gestione della politica appaltata dei partiti. La Costituzione prevede una dimensione di rappresentanza, ma anche una dimensione di partecipazione diretta, che è il contrario del plebiscitarismo berlusconiano. Ecco, la novità è che si impone un nuovo modello di partecipazione costituzionale. Che ruolo può avere l’arte in tutto questo? È ormai solo intrattenimento, o può tornare a giocare un ruolo civile? Il patrimonio culturale inteso come beni civili e comuni è una leva fondamentale per far crescere una cittadinanza attiva. È sull’arte, sul teatro, sulla letteratura e sulla musica che si forma una vera partecipazione democratica, basata sulla formazione e sull’informazione. Senza questo, non c’è una critica sociale consapevole e diffusa, ma solo una cooptazione di pochi. Se capiamo che la funzione più importante del patrimonio artistico non è essere un volano per l’economia, ma un volano per la democrazia: beh, allora Firenze può avere davvero un ruolo centrale. E Milano e Napoli con lei.
Firenze romantica
Una stella a Firenze
di James O’Mara
Il trasloco del portico di San Jacopo di Stella Rudolph
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erita almeno una notula la caparbietà dimostrata dai canonici regolari agostiniani per abbellire e tutelare la chiesa di San Donato a Scopeti nei dintorni di Firenze. Nel marzo 1481 essi, con un azzeccato fiuto d’avanguardia, commissionarono al trentenne Leonardo da Vinci l’Adorazione dei Magi per l’altare maggiore, stipulandone col contratto la consegna entro 24 o massime 30 mesi. Preparata con una quantità di disegni e più che abbozzata, la grande tavola fu depositata presso un amico da Leonardo prima di trasferirsi a Milano l’anno dopo. Avendo atteso invano il compimento di tale capolavoro fino al ’96, i monaci − ormai stufi − ripiegarono su Filippino Lippi per l’esecuzione di una pala sostitutiva col medesimo soggetto: destino volle che entrambi i dipinti eventualmente finissero agli Uffizi. Eppoi nel 1532, in seguito all’assedio dell’esercito dell’imperatore Carlo V, la comunità dovette perfino abbandonare quel convento reso inagibile; solo nel 1575 trovò una sistemazione permanente, presso il canonicato di San Jacopo sopr’Arno qui, e questa volta di certo gli agostiniani non si fecero privare di un’opera di pregio spettante a loro. Infatti traslocarono portandosi dietro, imballati tutti i componenti, l’intero portico romanico della chiesa di San Donato che rimontarono sulla facciata di San Jacopo sita nell’omonimo borgo Oltrarno per crearvi un atrio di tre archi bicolori poggianti su colonne con raffinati capitelli corinzi e grintose testine reggenti il cornicione. Nell’intento di conservare l’unica memoria concreta che detenevano dell’antica chiesa, con tenacia e prassi innovative di ricomposizione i canonici sfollati recarono tramite siffatto innesto un prezioso dono artistico alla città che li accolse.
Provocazioni “Ma questo libro dovete proprio farlo?” di Raffaele Palumbo Roma, settembre 2010 - “Io al suo posto mi preoccuperei”. Un’ombra d’angoscia appare sul suo viso. Prima di separarci. Sono passati quasi 10 anni, ma lui ha paura, e pensa che anche noi dovremmo averne. Due ore, uno di fronte all’altro, seduti in un bar. “Quante volte mi ha cercato per propormi questo appuntamento?” mi chiede appena ci vediamo. “Una sola volta, martedì, quando ci siamo parlati”. Mi mostra il suo cellulare, risultano sei, sette telefonate ricevute da casa mia. Una sarebbe durata sei minuti. La prima risalirebbe al 12 agosto. Ma io quel giorno non ero nemmeno a Milano. Mi sento raggelare. Glielo dico. [...] Hanno voluto fargli sapere che loro sanno del nostro incontro. Non ha cancellato l’appuntamento, ma ha voluto informarmi subito che ci stanno controllando. E ha scelto di rendere esplicito il nostro incontro. Ora ho capito perchè siamo in un bar tutto a vetrate. Alzo lo sguardo, a un tavolino all’aperto è seduto un giovane uomo, avrà sui trent’anni, è vestito in modo trasandato, indossa un paio di jeans e ha i capelli lunghi. Armeggia attorno a un computer. Mi pare che stia orientando un microfono verso di noi. Mi tornano in mente quegli uomini vestiti da black bloc fotografati mentre discorrevano tranquillamente con i loro colleghi poliziotti. Era il luglio 2001. “La ringrazio per aver accettato di incontrarmi. Con Lorenzo Guadagnucci stiamo scrivendo un libro per il decennale di Genova. Ci interesserebbe molto sentire anche il suo punto di vista”. Ma le mie domande resteranno senza risposta. Ha già sfidato una volta il codice d’onore della banda. E il prezzo è stato alto. Mi guarda diritto negli occhi. “Ma questo libro dovete proprio farlo? State molto attenti”. Dal prologo al libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci “L’Eclisse della Democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova”. Ringraziamento di Andrea Camilleri. Prefazione di Susan George. Serie Bianca Feltrinelli, pagine 266, euro 15,00.
Da Tel Aviv Il profumo dell’inchiostro e della carta di Sefy Hendler
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
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La valigia dell’attore
Lasciate che i bambini C’è odore di brioche in quel quadro di Chardin
Aveva ragione Glauco: i camerini erano proprio lontani
di Tomaso Montanari
di Alessio Sardelli
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rrivare a Tindari e immergersi in un tramonto tra le rovine del Teatro Greco è come avere Ulisse vivo a due passi da te che con ampie gesta ti invita a salire sulla sua nave per continuare il viaggio. Una voce altisonante : “i camerini ‘ndo stanno?” mi riporta subito alla realtà. Siamo lì per recitare un altro Shakespeare e questa volta nientepopodimenochè La bisbetica domata. La voce in questione era quella di un signore burbero ma dal cuore d’oro che rispondeva al nome di Glauco Onorato. Glauco non è più tra noi, ci ha lasciato qualche anno fa, l’uomo che ha dato la voce praticamente a tutti: a Charles Bronson ne I magnifici sette, Gene Hackman, Sidney Poitier, Oliver Reed ne Il Gladiatore, James Coburn in La grande fuga, voce storica di Arnold Schwarzenegger e di Bud Spencer. Con il diaframma aperto al massimo pone nuovamente la domanda al mite custode del teatro e questo, con rapidi cenni, indica dei casottini verdi immersi nella macchia mediterranea. “Sono troppo lontani dal palco”, borbotta diventando serioso. Io per mitigare la situazione cerco di diminuire la distanza con “dai Glauco, saranno una ventina di metri e...”, non mi lascia finire che mi sovrasta con un “ti dico che sono lontani”, e se ne va sbottando. La sera. Teatro stracolmo, serata umidiccia ma bella. Inizia la rappresentazione, entriamo in scena io e Francesco Ciccio De Rosa, genio assoluto della comicità napoletana, di lui parleremo in altra occasione. Al mio: “Ecco messer Battista. Mi raccomando autorità!”, sarebbe dovuto entrare Glauco. Dico sarebbe perché sono stati i minuti più lunghi della mia vita teatrale. Nessuno. Io e Ciccio ci guardiamo.Terrore negli occhi. Pausa. Improvvisazione. Io parlo del suo bel vestito e lui delle mie belle scarpe. I secondi passano che sembrano secoli. Ci giriamo verso le quinte e scorgiamo una camicia bianca che si avvicina con velocità supersonica alle scalette, le affronta, entra in scena: è Glauco che, abbottonandosi elegantemente la patta dei pantaloni, mi sussurra in un orecchio ad arte: “La prostata. Te l’avevo detto che i camerini erano lontani”.
Il ricordo
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na volta Paul Cézanne ha detto che per tutta la vita egli aveva cercato di dipingere la “tovaglia, bianca come uno strato di neve fresca, sulla quale si elevano simmetricamente i coperti coronati di panini biondi” di cui parlava Honoré de Balzac in un suo romanzo. Questo folle amore per la poesia degli oggetti di ogni giorno, Cézanne l’aveva imparato da un altro pittore francese, vissuto cento anni prima di lui: Chardin, il “grande mago delle composizioni mute”, (così lo salutava Denis Diderot). Quello dei quadri di Chardin, è un silenzio che le parole fanno fatica a lacerare: lo sentite il profumo della grande brioche, appena sfornata e imbandierata da un ramo d’arancio in boccio? E che bello sarebbe tagliare questo babà, bagnarlo con lo sciroppo di lampone della boccetta dorata: pochi quadri hanno il potere di farci sentire il tessuto, l’odore, la materia della vita quanto questa natura morta. Tutto vibra di vita in questa merenda francese di duecentocinquanta anni fa: le pesche, le ciliegie, le lingue di gatto, e perfino la zuccheriera leccata e pretenziosa. Tutto vibra, immerso in quel misterioso “pulviscolo di emozioni che avvolge gli oggetti”: un pulviscolo che Cézanne riusciva a vedere solo nei quadri di Chardin. Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La brioche, 1763. Parigi, Museo del Louvre.
Gesti teatrali Meglio un biscotto che un’ora di playstation di Alberto Severi
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l biscotto era un gesto per così dire polivalente, che solo in alcune occasioni si caricava di teatralità, in senso proprio. In molte delle sue applicazioni, invece, risultava – di necessità – così fulmineo, quasi subliminale, da sfuggire di fatto ad ogni apprezzamento percettivo che non fosse il dolore e la stizza di chi lo subiva. Chiariamo. Il biscotto era il colpo secco inferto con l’unghia del dito indice (più raramente: col medio), fatto scattare in avanti a contrasto col polpastrello del pollice della stessa mano. Ma questo è il punto: inferto a chi, o a che cosa? La sua più antica applicazione pratica, se si esclude quella del far risuonare il cristallo, per saggiarne e/o illustrane la purezza (e qui la forza del biscotto, nei più rudi, andava controllata, sennò addio bicchiere), fu forse quella mirata ai lobi delle orecchie del compagno di scuola seduto nel banco davanti. Specie se i lobi risultavano inusitatamente sporgenti o carnosamente penduli, insomma così invitanti da rendere di fatto la tentazione irresistibile, soprattutto in presenza di taglio di capelli a sfumatura alta, tale da esporre l’orecchio inerme a facili incursioni da tergo. Il poveretto bersagliato dai biscotti, con le orecchie incandescenti e doloranti, di norma si rivoltava infuriato, e veniva perciò redarguito dalla maestra. Cosicché al danno si univa la beffa, e l’Ingiustizia che governa il mondo si appalesava precocemente allo sventurato fanciullo in tutta la sua trista maestà. Ma il biscotto aveva anche applicazioni più bonarie. Allorché, da esempio, si rivolgeva a cose inanimate. Prive di sistema simpatico. E dunque, immuni al dolore che, giusta l’intuizione leopardiana, travaglia l’esistenza agli umani e agli animali in genere. Di solito erano applicazioni lùdiche. Ad esempio, si impiegava il biscotto per giocare a volino con le figurine dei calciatori. Oppure, per imprimere il moto alle bilie di vetro (e qui se mai il dolore insidiava il biscottante, non il biscottato), o alle bilie di plastica, sulle piste paraboliche tracciate sulla spiaggia. Ricordate? quelle piccole palle dotate di una metà trasparente…che mostrava, sulla faccia interna dell’altro emisfero, l’effige di un ciclista della gloriosa era pre-doping: le star Gimondi, Merckx, Bitossi, Adorni, o gli eroi umili: Taccone, Zandegù… Erano, questi, biscotti veloci e poco meditati, sbrigativi, scarsamente teatrali. Una teatralità matura e compiuta arrivò forse solo negli anni ’70, col boom del gioco del Subbuteo. Inventato nel 1947 da un inglese – leggo su Wikipedia –, il calcio da tavolo, coi suoi omìni dal basamento basculante, conquistò all’epoca tanti adolescenti, salvandone molti dalla deriva del terrorismo o della tossicodipendenza (o nel migliore dei casi: dall’autoerotismo coatto). Pare che stia tornando di moda, per salutare reazione alla disumanizzante virtualità delle playstation, in una di quelle sacche di resistenza luddista ove si continua a preferire il libro cartaceo all’e-book e all’i-pad, e a smaniare per i 33 giri in vinile versus compact disc e download da i-Tunes sull’ i-pod. Per imprimere al mini-calciatore il movimento necessario a colpire la palla con la giusta angolazione e la forza appropriata (magari col mitico girello ad effetto che riusciva a fargli aggirare l’avversario andando a scovare la palla nell’angolo lontano) il biscotto va meditato come un colpo di biliardo, va scoccato con calibratura millimetrica, terminando il gesto con una veronica contratta e un fermo di movimento, nell’attesa di apprezzarne l’efficacia o constatarne il fallimento. Nel qual caso, vi andrà fatto seguire pugno nel muro, mano fra i capelli, calcio alla sedia o equipollenti manifestazioni di disappunto – e il sipario.
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Quando fare l’editore ti regala qualche anno di vita in più di Monica Capuani
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a sua casa editrice l’ha voluta intitolare Socrates, perché gli piaceva la sua maieutica: il filosofo che aiuta chi vuole a tirar fuori la conoscenza, non la impone. Aveva dei miti nel mondo della cultura e voleva che si raccontassero ai lettori in maniera inedita, imprevedibile. Era un uomo altissimo, con gli occhi azzurri, e un inglese improbabile contaminato dal suo inconfondibile accento livornese. Lavorava come pubblicitario in un’azienda farmaceutica, ma il suo sogno era fare l’editore. Quando gli è stato diagnosticato il cancro, ha deciso che quel desiderio feroce andava realizzato. Nonostante la sua timidezza, ha convinto Wim Wenders a pubblicare il primo libro per Socrates. Si chiamava Una volta, ed è diventato un long seller. Poi sono seguiti Philip Glass, Julian Beck, Keith Jarrett, Hugo Pratt, John Cage, Michele Spera. Dei libri, amava la carta, l’odore dell’inchiostro, la perfezione della resa fotografica, la copertina di tela, il marchio a secco, il design. Fare l’editore gli ha regalato qualche anno di vita in più. E ha messo al mondo una decina di bellissime creature di carta. Si chiamava Fabrizio Pozzilli, è morto a 53 anni. E mi ha insegnato tutto quello che so sui libri.
Staino
Ri-cercata
Gatti
Evviva i batteri: ci insegnano a mangiare
Arnie in riva al suo fiume festeggia il “no” anti-nucleare
di Clara Ballerini
by Kate McBride
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ono veramente tanti, decine di trilioni, e dobbiamo tenerceli cari. Chi? I batteri, i microrganismi che popolano il nostro intestino diventando microbiota, ecosistema complesso formato da tutti quei viventi che sostano nel nostro organismo, moderna rilettura della vecchia microflora. Il modo in cui ci alimentiamo determina questa popolazione microscopica e le sostanze che produrrà e questo è un processo così importante da indurre uno spostamento del concetto di dieta: non più somma di calorie e fabbrica di energia, ma primario strumento di tutela della salute e cura. Infatti coltivarsi il microbiota sbagliato può determinare obesità, può indurre una errata risposta del sistema immunitario, predisposizione all’infiammazione e all’autoimmunità e non solo: può determinare l’eredità di alcuni geni piuttosto che altri e può essere causa di molte delle malattie associate alla malnutrizione. I cambiamenti socio economici e culturali del futuro porteranno a un cambiamento della nostra dieta, cambiamento determinato anche dalla crescita della popolazione mondiale, la previsione è di 9 bilioni nel 2050, tutti presumibilmente affamati: è dunque il momento giusto per comprendere a fondo il valore dei cibi che siamo abituati a mangiare sviluppando, e questa è una sfida difficile, forme di agricoltura sostenibili.
La terra Scoprire l’America in 30 ettari oltre la Greve di Giancarlo Ceccanti
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’è un pezzo di terra americana a due passi da Firenze: sono i circa trenta ettari che l’Italia ha donato allo Stato americano perché potesse dare sepoltura ai caduti dell’ultima Guerra mondiale. Per entrare nel Cimitero dei Falciani si deve passare un piccolo ponte che attraversa la Greve, un torrentaccio che viene giù dal Chianti e sfocia in Arno dalle parti di Scandicci. In questo posto, ci si sente un po’ fuori dal tempo e dallo spazio, anche perchè la qualità della natura è diversa. Per scoprire l’arcano ci si deve affacciare al parapetto e sentirsi presi da una leggera schizofrenia; sembra di essere altrove. Infatti sei in America o in quella che per ognuno di noi, anche per chi non c’è mai stato come me, può essere verosimilmente l’America, per come ci è arrivata dal cinema o dalle fotografie del National Geographic. Il senso di sacralità che si respira in questo posto è così forte anche perché si percepisce lo sforzo che viene profuso per mantenere un simile equilibrio fra ambiente e natura. L’erba che cresce su estensioni così inusuali per noi, perfettamente tagliata e irrigata; centinaia di alberi, di cespugli ben potati ed i roseti che in questo periodo sono traboccanti di fiori, possono essere frutto solo di un lavoro meticoloso e continuo. Di un’attenzione che si traduce in modo immediato, senza bisogno di tante parole ed in maniera non formale, nel segno di vera riconoscenza e rispetto per chi sta sotto terra ormai da più di sessant’anni. Vale la pena di andare a vedere come la Greve americana sia eccezionalmente vitale. Le rive sono pulite e frequentate non a caso, da numerosi uccelli che possono pascolare a piacimento lungo le rive, libere dalla usuale varietà di rifiuti che si trovano lungo i nostri corsi d’acqua frequentemente trasformati in fogne e discariche. Il segno tangibile di una natura tradita, di una umanità che solo in rari casi lascia alternative all’abbandono. In Italia solo di recente e solo a seguito di eventi alluvionali puntuali e devastanti, più per necessità che per convinzione, si è cominciato a pensare di mettere in salvaguardia i fiumi e di impostare un nuovo tipo di governo del territorio: forse si è compresa la necessità di rispettare i nostri fiumi per migliorare gli habitat, la qualità della nostra vita e di chi verrà dopo di noi ma la strada da fare è ancora molto lunga.
In scena Quei festival che anticipano la stagione
rnie celebrates the June 13th vote against nuclear power use in Italy as he wades in the Arno with no fear of radioactive contamination. On the historic day of the vote, Arnie watched as Greenpeace unfurled a huge banner from the Ponte Vecchio. A cheer rose up. Greenpeace began forty years ago in Vancouver, Canada on September 15th, 1971, when members of the then called Don’t Make A Wave Committee set sail for Amchitka, Alaska on an old fishing boat. Their goal was to try and stop the US government from conducting a nuclear weapons test. Joni Mitchell, James Taylor, Phil Oakes and the band Chilliwack held a concert in Vancouver to raise money for the expedition. Ten thousand people turned up. When one of the members of this newly founded organization saw someone flash him a peace sign he said, “let’s make that a green peace!” and the name was born. The founding members of Greenpeace imagined a green and peaceful world as they set sail for Alaska. Their mission was to bear witness, a Quaker form of passive resistance by protestors which requires the simple action of being witness to an objectionable activity. The objectionable activity was underground nuclear testing taking place in one of the earth’s most ear-
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thquake-prone regions. Amchitka is a tiny island and the last place of refuge for endangered sea otters and home to a diverse wildlife population. Their boat, with the name Greenpeace emblazoned across the stern, was intercepted before they reached the island but the interceptors weren’t able to stop the public outcry the journey sparked. Nuclear testing on Amchitka ended and the island became a bird sanctuary.
This began the organization’s forty years of “independent campaigning which uses nonviolent, creative confrontation to expose global environmental problems, and to force the solutions which are essential to a green and peaceful future. Greenpeace’s goal is to ensure the ability of the earth to nurture life in all its diversity”. Thank you Greenpeace! ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Dylan Bob
Il popolo del blues
L’importanza di chiamarsi Ernesto Robert prese la chitarra e sparì di Giulia Nuti
di Marco Poggiolesi
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arnest, ovvero l’onestà. Come quell’intraducibile medaglia a due facce che è il titolo originale della commedia di Oscar Wilde: The importance of being Earnest. L’importanza di essere onesto. O fedele a se stesso, fino in fondo. Era il 5 luglio di alcuni anni fa, 1954, quando Elvis Presley entrava negli studi della Sun Records a Memphis per registrare That’s All Right (Mama). Un singolo che avrebbe impresso nella storia della musica moderna, per sempre, la parola rock ‘n’ roll. Senza possibilità di ritorno. Era la rivincita della creatività pura. Quella senza guru, senza metodi, senza maestri. Si poteva essere camionisti di giorno, pettinarsi col grasso di notte e urlare un testo che era solo ritmo per avere successo. Bastava dire Tutti Frutti. I contenuti, per la prima volta, erano andati oltre i contenuti. Ma perché l’alchimia funzionasse ci volevano intuizione, coraggio, nessuna paura di mettersi in discussione o di essere troppo originali e la forza di essere fedeli fino in fondo alla propria idea, una grande idea. Questo aveva importanza. L’importanza di chiamarsi Ernesto, appunto.
di Tommaso Chimenti uglio, tempo di tormentoni estivi, di spiagge e di bagnini, ma anche di festival teatrali, dove si vedono le novità per la stagione che arriva, si colgono compagnie straniere, altrimenti difficilmente intercettabili, dove fioriscono idee e performance che non avrebbero spazio nella consuetudine di velluti e sipari. Cibo e teatro. Arte antica, panem et circenses. Si mangia e si gode, proprio da statuto, con Utopia del Buongusto (www. guasconeteatro.it) che da giugno fino a settembre inoltrato, per quarantuno serate, nelle province di Pisa, Livorno, Arezzo, propone piccoli ma interessanti piece, sul versante brillante ma non solo, operazione diretta da Andrea Kaemmerle, un po’ clown triste, un po’ un bonario Falstaff meditabondo, certamente poetico. Cibo, vino, naturalmente, piccole aziende locali, panorami fuori dalle rotte degli infradito e della musica a volume intollerabile. Con la Tovaglia a Quadri (www.anghiari.it) invece, ad Anghiari per una decina di repliche a metà agosto, la gente del paese diventa cuoco e attore intrattenendo, in lunghe tavolate per le vie strette del paese dell’aretino, con storie che prendono spunto dalla realtà, storie quotidiane, storie di tutti i giorni, terrene, concrete, tangibili, certamente divertenti: senza aspettarsi Gassman. A Monticchiello il Teatro Povero (www.teatropovero.it) è ormai una bella consuetudine da sessant’anni a questa parte. Il paese del piccolo borgo patrimonio Unesco vicino Pienza, trecento anime, si fa drammaturgo e porta sul palco problematiche legate alla vita contadina, al cambiamento dei tempi, ai valori di una volta. Un must estivo, tra formaggi e vini buoni, quest’anno dal 23 luglio fino a Ferragosto. Ulteriore curiosità: a fine rappresentazione, dopo essersi presi il meritato tributo, gli attori naif, ancora in costume, scendono nella navata della chiesa a fianco e servono ai commensali del ristorante, aperto soltanto i questa occasione, i piatti tipici della zona, primo tra tutti i pici. Ancora applausi.
Photo by James O’Mara. Arnie wading in the Arno
riticato e deriso da tutti per la sua goffaggine nel suonare la chitarra il giovane Robert Johnson decise di sparire per un po’. Qualche mese dopo in quel solito buio locale entrò un uomo, tirò fuori lo strumento dalla custodia e cominciò; nessuno aveva mai sentito niente di simile. E la cosa incredibile è che si trattava proprio di quel ragazzo. La sua voce tuttavia si era trasformata e le sue mani adesso sembravano guidate da una forza misteriosa, da una magia antica. A chi gli chiedeva come fosse possibile, come avesse fatto ad imparare in così poco tempo Bobby rispondeva che era stato al Crossroad, un luogo misterioso da qualche parte lungo la highway 61. Laggiù aveva incontrato qualcuno al quale aveva venduto l’anima in cambio di diventare il più grande chitarrista di tutti i tempi. Registrò 29 canzoni e poi scomparve di nuovo per non tornare mai più. Aveva solo 27 anni. Questa non è una favoletta per bambini, badate bene, ma la storia vera della persona che ha gettato le basi di tutta la musica moderna.
Percorsi
Classika Voglia matta di un quartetto d’archi
Signore e signori: tutti in piedi
di Gregorio Moppi
di Massimo Niccolai
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’ successo pochi giorni fa a Reggio Emilia nell’occasione di una competizione internazionale per quartetto d’archi. Ripeto, quartetto d’archi: la formazione strumentale più sofisticata e apparentemente elitaria; ciò che Goethe definiva “una conversazione tra quattro persone ragionevoli” e il cui ascolto richiede impegno intellettuale, concentrazione, raccoglimento profondi. Eppure, nel teatro di Reggio, a seguire la gara è piombata l’intera città. Quella che, nelle settimane precedenti, si era contesa il privilegio di ospitare a casa propria i giovani musicisti in gara (nessun italiano fra gli iscritti), offrendo loro il salotto per esercitarsi e piattate di tortellini nelle pause. Ecco, nel foyer, i mille spettatori disquisivano con sottigliezze da musicologi scafati sulle interpretazioni. Mentre combriccole di bimbe elettrizzate braccavano i partecipanti per un autografo. E quando, dopo un paio d’ore di camera di consiglio, la giuria ha decretato che nessuno quest’anno meritava la vittoria, il pubblico stava quasi per far la rivoluzione. A dibattere sulla giustezza del responso si è proseguito poi in strada, sulle bici che riportavano tutti a casa.
utti in piedi” è un’esortazione che da una parte mi eccita e dall’altra mi libera. Mi eccita perché mi fa sentire compartecipe con altri di un’appartenenza, mi libera perché esprimo la mia interiorità la faccio partecipe ad altri e nel vedere la loro gioia abbraccio quel prossimo che condivide con me lo stato d’animo comune. E’ una condizione veramente complessa, è come rivedere quel qualcosa che mi apparteneva, rifarlo mio e rinnovarlo. Ma può accadere che ti volti e le persone che ti erano vicine sono scomparse, se ne sono andate e sembra che tutti e tutto non esistano più, senti la mancanza. Quel sostegno che c’è stato fino ad allora non esiste più, sei solo, ti senti sprofondare e proprio in quel momento accade quello che non speravi, ti volti senza pensare perché e ti ritrovi. L’abisso in cui sembravi cadere diventa sospensione e piano, piano riconosci: è come rinascere ancora una volta. E anche se non vedi più, la mancanza si è trasformata in una presenza più forte. L’appartenenza. E allora non c’è da indugiare: signore e signori “Tutti in piedi”.
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acquifera.org
Ricetta
di Fabio Picchi
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Pieni d’Islam Metti una scimitarra sulle carte da gioco di Giovanni Curatola
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Saraceni (genericamente gli arabi musulmani d’Egitto dal medioevo in poi), signori del Cairo, ovvero i Mamelucchi, avevano un particolare amore per l’araldica. I blasoni, chiamati rank (colore, ma facilmente assimilabile a rango), erano inizialmente solo un colore per poi assumere forme diverse. Già Saladino aveva, pare, un’aquila, Barquq un falco e Qalawun un’anatra, il suo soprannome. Le insegne esplicitavano l’ufficio del funzionario (il silahdar, per esempio, era il portatore della scimitarra e soprintendente alle armate, mentre il jawkandar maestro del gioco del polo, era il capo della cavalleria), e non erano ereditarie; insomma come la fascia tricolore dei nostri sindaci. Su oggetti d’arte e sui monumenti spiccavano
Cinema
dunque questi stemmi: lo si osserva anche nella Predica di San Marco ad Alessandria dei Bellini, oggi a Brera. Gli stemmi, quattro di essi, sono all’origine del gioco del Naib: coppa, moneta (arabo dirham, calco della dracma bizantina e poi greca), scimitarra e mazza del polo. “Anno 1379 fu recato in Viterbo el gioco delle carti che viene de Saracinia e chiamasi fra loro Naib”, anche se una provvigione fiorentina del 1376 sembra già accennarvi. I quattro semi delle carte tradizionali italiane (ma anche spagnole: copas, oros, espadas, bastos) vengono da lì, napoletane o bresciane che siano. Certo le mazze del polo non furono capite, ma almeno con i bastoni centrarono il materiale.
Dall’Armenia
Occhi d’infanzia
Nel menù spunta il “pollo di ripieno di Gerusalemme”
di Juan Pittaluga
di Sonya Orfalian
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e film de Terrence Malick (qui viens de gagner la Palm d’Or) porte cette légèreté profonde de l’enfance. Il a réussi à nous faire voir un film du point de vue des enfants. Le mouvement constant, le jeu qui pousse de l’ennui, les défis en permanence, l’amour entre frère, la clémence et la douceur d’une mère, l’autorité rude d’un père. Peut-être avec Lord of Flies de Peter Brook (base sur le roman de Golding) ou The Night of the Hunter de Laughton, ce film réussit cette nuance proustienne de dérober quelque instant cette chose fabuleuse qui ressemble à la suspension du temps. Il y a une attente joueuse dans l’enfance qui n’est possible que parce qu’elle a été soutiré a un temps qui ne compte qu’avec ce qu’il va se passer juste après ou ce qui viens de se passer. La verticalité de l’instant. Répétons la phrase traduite dans l’air (sans racines) d’Héraclite : Le temps est un enfant qui s’amusent. A l’enfant la royauté. ■T raduzione su ambasciatateatrale.com
l menù era scritto su un’enorme lavagna fissata a una parete del locale, un ristorantino romano di quartiere che propone, con qualche pretesa, cucina mediorientale. L’oste elencava i nomi delle pietanze, alcuni in lingua originale, illustrandone gli ingredienti; altri li traduceva direttamente in italiano per meglio spiegare il contenuto e le modalità di preparazione. Tra i vari piatti spunta il Pollo di Gerusalemme. Ridiamo nel sentire il termine pollo, fa sempre un po’ ridere il termine pollo. Provate a ripeterlo anche voi. Pollo, pollo, pollo. Fa ridere senz’altro per tutto ciò che nella lingua italiana il significato di questa parola si porta dietro. Gerusalemme peraltro ci ricorda quella litania nonsense, la penitenza dei giochi d’infanzia, lungamente ripetuta: “Vengo da Gerusalemme senza ridere e senza piangere”. Quindi ridiamo anche noi e aspettiamo il dettaglio della preparazione del piatto. L’oste dice: “In effetti è una ricetta palestinese: pollo ripieno di riso profumato alla cannella e cotto al forno. Ma dato che non vogliamo avere problemi lo abbiamo chiamato pollo di Gerusalemme”. Resto immobile come un pollo sul trespolo, poi con lo sguardo da pollo osservo ad alta
voce che dato che Israele ha occupato la Palestina, e che Gerusalemme adesso è in Israele, il risultato è che il volatile di Gerusalemme si è in effetti trasformato da palestinese in israeliano. La cosa non gli piace: il fair play che aveva lanciato per giustificare quell’autocensura un po’ ridicola si è infranto come per incantesimo. Ma, ci domandiamo, perché non chiamarlo piuttosto col suo nome? Djej mahshi, cioè letteralmente pollo ripieno? I palestinesi, quando lo preparano, non pensano che sia un pollo palestinese né che sia di Gerusalemme. Forse pensano più semplicemente che senza ridere e senza piangere, come un pollo, si è fatto acchiappare e mettere in teglia. Occorre constatare dunque che per alcuni abitanti della città eterna la parola Palestina è tabù, non si può pronunciare, nemmeno se si parla di cibo: il melting pot in questo caso non accoglie il pollo palestinese, lo risputa fuori con tutte le ossa. Dove è nato Gesù bambino? A Gerusalemme! Sbagliato. È nato a Betlemme. E dov’è Betlemme? In…. in….Terra Santa. Terra Santa? Cioè? Dov’è? Ehm… Vicino ad Amman! E dov’è Amman? In Giordania... (eccetera).
www.ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi
Anno III Numero 7 del 1/7/2011. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
Si ringrazia
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cavare una lunga melanzana a mo’ di piccola canoa, farcendola dopo averla tenuta in un forno medio-alto per una trentina di minuti con un ragù di verdure – un cuore di sedano con le sue foglioline, mezzo peperone giallo, una piccola patata, una piccola carota – tutte ridotte in piccoli cubetti saltati nel soffritto di cipolla tipo Tropea portato a color oro. Il tutto va poi garbatamente stufato, avendo cura di sporcarlo a fine della breve cottura con un unico pomodoro pelato e insaporendolo poi con qualche oliva snocciolata di Gaeta, un cucchiaino di capperi e un cucchiaio da cucina di buon basilico spezzettato. Una micro dose di origano è concessa. Prima della farcitura aggiungerete un filetto di acciuga sempre spezzettato. Unica sola possibile variante, prima di rimetterla in forno per altri dieci minuti, se amata, la provola affumicata. Unitela al trito di verdure in piccoli pezzetti. Da mangiare assolutamente fredda.
Un verre de vin rouge
di Ugo Federico
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inalmente l’estate. Il caldo e la voglia del mare sono sempre più forti e per fortuna qualche volta torno nella mia adorata Anacapri. Il cielo azzurro e il profumo del mare li ritrovo nelle prelibatezze preparate da mia madre e nei vini di una terra che ha un grande potenziale e una grande tradizione. Così, sul mare, dividendo una fantastica pezzogna pescata la notte precedente e cucinata all’acqua pazza con un caro amico stappiamo un vino frutto della passione di una grande signora. Il Furore Bianco Fiorduva di Marisa Cuomo, prodotto da uve autoctone quasi sconosciute quali Fienile, Ginestra e Ripolo. Vino di incredibile ricchezza data dalla vendemmia quasi tardiva praticata in ottobre su terrazze adagiate sulle colline verso il mare della costiera Amalfitana. Grandi profumi che ricordano le albicocche secche e l’uva passa. Al gusto è morbido e persistente ma sorretto da una buona freschezza. Momento perfetto e indimenticabile. Un piccolo assaggio dell’estate che verrà.
L’orto
di Stefano Pissi
Disegno di Lucio Diana
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lea europea spp è un albero di piccole medie dimensioni appartenente alla famiglia delle oleacee. Il suo areale naturale è il bacino del mediterraneo, la sua diffusione è stata fatta ad opera dell’uomo che lo coltiva da millenni; in Italia è stato introdotto dagli Etruschi e diffuso largamente dalla colonizzazione del popolo Romano. Nel suo nuovo areale, l’olivo, per questo ha dovuto adattarsi a climi più sfavorevoli alla sua natura, più freddi d’inverno principalmente. La nostra pianta, quella dell’olio bono, da condire a crudo per intendersi, non dorme mai, ha sempre le sue foglie verdi tutto l’anno su di se, che rinnova scalarmente, le perde d’estate e le rimette a primavera, senza che ce ne accorgiamo. L’olivo si dice che entra in uno stato di quiescenza, una sorta di dormiveglia che gli permette di vegetare sempre. Si riposa quando le condizioni esterne smettono di essere favorevoli in estate, che gli manca l’acqua alle radici, e in pieno inverno quando sono le temperature a bloccare la sua crescita. Fu quest’aspetto che lo fregò, nell’inverno del 1985, quando la grande gelata lo seccò in pianta, ma non morì perché, sorpresi a primavera, dalle radici protette dentro la madre terra, ritornò a vegetare cespuglioso più forte che mai e allora l’uomo si rifece attento giardiniere per agevolare la sua educazione da incolto a coltivo. I contadini sono molto gelosi della loro maestria nella potatura, che si fa a fine inverno. Non è facile accostarsi a questa pratica, avvicinare forbici o seghetto, ad una pianta con una chioma piena di foglie verdi dove devi operare che ancoral’olivo è sveglio e vegeta. Insomma l’olivo resiste, sta e non scappa, non cede neanche all’incuria dell’uomo, che quando il bosco ritorna padrone di vecchi coltivi lui si ricorda della sua natura selvatica e allora ristabilisce rapporti con lecci e cipressi, il verde glauco che torna amico del verde scuro. Nella storia dell’uomo, che certe volte insegna e mostra una via o che altre tradisce per denaro, l’olivo era presente in un orto, famoso al mondo, dovedinotte Gesù, uomo più che mai, rimase in attesa e anche lui non scappò di fronte alla sua storia e di fronte al gelo del mondo morì solo superficialmente che dalla madre terra germogliò nuovo a Pasqua.