circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
1 novembre 2011 ANNO III • NUMERO
www.ambasciatateatrale.com
Sc-atto Maria Cassi by James O’Mara
Ri-cercata
Editoriale
La guerra del Nord Acqua Politica di Clara Ballerini
di Fabio Picchi
U
L’
n nuovo Nord, questo sarà l’Artico: cambia il clima, forse, cambia la temperatura media della Terra, molto probabile, si scioglie il ghiaccio, con certezza. In fatto di clima le regole si rinnovano velocemente e il mare a questa latitudine si scalda con velocità doppia rispetto al resto del pianeta, capire il perché rappresenta una delle tante sfide scientifiche lanciate da questo luogo remoto. Sta nascendo un Nord diverso ancora tutto da esplorare e conoscere ma non solo: per molti è un posto da sfruttare per le risorse improvvisamente accessibili, per le rotte di navigazione più veloci e dunque commercialmente vantaggiose, per tutti è un luogo soprattutto da proteggere. Nel 2007 i russi piantarono qui una bandierina, a ruota seguirono i canadesi trasformando la geologia in geopolitica, in una nuova forma di guerra fredda, almeno sulla carta. Nella realtà scientifica questa guerra costringe gli scienziati a essere più collaborativi che competitivi: per lavorare qui occorrono fortissime collaborazioni internazionali e i risultati delle ricerche sono diffusi con una velocità molto superiore a quella che normalmente si osserva grazie a banche dati immediatamente accessibili. Qui al Nord la conoscenza è in gara diretta con il cambiamento, spesso più veloce di lei.
Occhio di bue
Contraddizioni
Diritti Umani, così l’Italia rischia di fare autogol di Silva Della Monica
L
’Italia, grazie al voto espresso dall’assemblea generale delle Nazioni unite, riveste l’incarico di Stato membro del Consiglio dei diritti umani dal 19 giugno 2011 fino al 2014. Si tratta di un impegno importante per la promozione e protezione dei diritti umani nel mondo, nell’ambito dell’Unione europea e nel nostro Paese. L’Italia può giocare al meglio questo ruolo, a condizione di avere credenziali in tema di diritti umani tali da rendere credibile e propositiva la propria presenza nel Consiglio. Per questo non solo dovrebbe adempiere ad impegni sul piano internazionale, che richiedono la ratifica di
strumenti di diritto internazionale come la Convenzione contro la tortura, la Convenzione per la protezione delle persone dalle sparizioni forzate e il Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, ma dovrebbe mantenere anche in campo nazionale gli impegni assunti accettando la maggior parte delle raccomandazioni poste come condizione all’ingresso nel Consiglio. Tra queste si segnalano quelle in settori importanti come la lotta contro il razzismo e la discriminazione razziale, la situazione dei migranti e richiedenti asilo, il trattamento delle comunità rom e sinti, i diritti
anno sta per finire. E ancora siamo qui a cercare di capire quel che lasceremo nell’andare incontro a quest’inverno che si presenterà freddo, ma non tanto da farci dimenticare la lunga estate passata. Il sole ci ha ubriacato con il suo pesante caldo ma ci ha comunque sospinto verso acque rinfrescanti, mare per chi ha potuto, docce per chi ha dovuto, ma sempre e comunque acque rigeneratrici, capaci di mondarci dai sudori e dagli umori. Acque che ci danno sempre la sensazione di esserci amiche, benevole nel dissetarci, nell’annaffiare i nostri vasi, i nostri orti, e per i nostri campi e mai sono state così preziose come nell’assenza di questa passata stagione dove, ad esempio, i nostri olivi anno patito per la sua mancanza. Acqua benevola dunque quando c’è. Mai maledetta anche quando, abbondante, arriva inondando. Lo sappiamo bene noi fiorentini nati prima del 4 novembre 1966. Chi dunque dovremo maledire, quest’anno come innumerevoli altre volte, per i morti di alluvioni rapide ed assassine nello strappare la vita, questa volta, sulle coste della civile Toscana e della civile Liguria? “Piove, governo ladro!” urlavano ortolani di altri tempi nei mercati mattutini, e noi, ragazzi allora studenti, li ascoltavamo ridendo. Forse sbagliavamo perché il Governo delle Acque è cosa fondamentale. E se il governo è ladro nel non governare ecco che si comincia a capire l’utilità e la necessità della buona politica.
umani delle donne e dei bambini, la libertà di opinione e di espressione, l’indipendenza del sistema giudiziario e dell’amministrazione della giustizia. Ma questi impegni importanti, allo Stato, sono platealmente elusi dal Governo e dalle sue maggioranze parlamentari, come confermano fatti incontrovertibili avvenuti a partire dal luglio 2011. Ne cito alcuni: Testamento biologico: a luglio 2011 la Camera dei deputati ha approvato norme sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” che espropriano i cittadini del potere di decidere sulle modalità di morire. segue a pagina 2
Estate del ‘52
Staino
Segue dalla prima
Il bacio di Fiorenza
Diritti Umani, l’Italia fa autogol
di Luigi Settembrini
di Silvia Della Monica
L’
I
altro giorno, sfogliando degli appunti remoti, m’è capitata in mano una foto di Fiorenza sorridente, al Forte dei Marmi, estate 1952. Ce la presentò Giuditta, una sera al Supercinema, e fu subito soprannominata S.d.S. (Suscitatrice di Sogni). Aveva un anno più di me e mise in chiaro che lei solito usciva con un gruppo più emancipato (quei famosi cacacazzi che di giorno andavano a vela e di notte alla Capannina, alla Bussola e dove pareva a loro) e quindi era ovvio –non lo disse ma era implicito— che i poppanti come me manco li vedeva. Mi innamorai di colpo, una vera stangata, e quando pensavo a lei, cioè praticamente sempre, sentivo la bocca dello stomaco stringersi come se stessi morendo di fame. E fame l’avevo, fame di quei capelli luminosi che mescolavano il biondo chiaro allo scuro, di quella pelle liscia e abbronzata, dei pelini d’oro che vi ardevano sopra. Inutile sottolineare che ora non contava più neppure giocare al pallone. Perfino il cinema, senza di lei, diventava un boccone amaro. Quando ormai sembrava troppo tardi e il film stava per cominciare, ecco che la vedevo avanzare da lontano, romana, indolente, senza fretta, bellissima, più bella che mai, S.d.S, e il cuore mi andava su come un ascensore e io invece a quel punto cercavo in tutti i modi di sembrare indifferente, disinvolto, spiritosissimo: e soprattutto di capitare seduto accanto a lei. A Fiorenza (e a tutti gli altri) queste manovre erano chiare come il sole ma per grazia di Dio non parevano spiacerle del tutto e così giuravo a me stesso: “la prossima volta ci provo”. Nel momento però che si spegnevano le luci e cielo sopra di noi si riempiva di stelle mi mancava il coraggio. Non ero Julien Sorel, capace di forzare segretamente tra le mie la mano di lei. Ormai mancava una settimana alla sua partenza. Stava per svanire quella era diventata la cosa più importante, più della mamma, degli amici, del calcio. Ma visto che non ne avevo avuto la forza, fu lei che fece precipitare gli eventi. Mentre sulla tolda, nel vento, in mezzo a onde agitate e spruzzi in technicolor Hornblower stringeva a sè Virginia Mayo, il mignolo di Fiorenza sfiorò il mio, lo carezzò, lo trattenne, lo imprigionò: poi come stesse stirandosi o facendo le
n questo modo ogni individuo può perdere quel diritto all’autodeterminazione, che la Corte costituzionale ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona e la dignità nella morte è soppressa per legge. Così l’Italia è a rischio di allontanarsi dall’Europa e dal mondo, spinta dal medesimo furore ideologico che aveva prodotto una legge ingiusta sulla procreazione assistita, bacchettata dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Omofobia: sempre a luglio 2011, mentre la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità del divieto di matrimonio per gli immigrati irregolari, per la violazione di diritti fondamentali, la Camera dei deputati ha posto in essere le condizioni per violarne altri, bloccando la possibilità di approvare una normativa contro l’omofobia. In questo modo, negando che la diversità sia fondamento dell’eguaglianza, Governo e maggioranza hanno dimostrato una regressione culturale e uno scarso rispetto dei diritti umani. E ciò malgrado, l’omofobia costituisce una illegittima discriminazione alla luce del trattato di Maastricht, del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, votati e approvati dal Parlamento italiano. Cultura e istruzione: nelle manovre di luglio e agosto 2011, mentre tutti gli altri Paesi, pur in tempi di crisi economica, hanno mantenuto o aumentato le risorse destinate all’istruzione e alla ricerca, creando capitale sociale di qualità, il Governo italiano ha applicato ulteriori tagli al settore dell’istruzione e più in generale della cultura. E così i diritti culturali, al pari di quelli economici e sociali, che l’Italia si è impegnata a sostenere e promuovere con le Nazioni unite sono stati, invece, conculcati o annullati. fusa, con un unico movimento gattesco, pigro e insieme deciso, reclinò la testa sopra la mia spalla. Ci baciammo. Fu il mio primo bacio vero con la lingua e tutto. Non riuscivo a crederci, ero clamorosamente felice, grato, commosso e chissà che altro ancora, e non importava (anzi! Anzi!) che gli amici intorno vedessero, commentassero e difatti gli “ehi ragazzi guardate che cosi morirete soffocati” e i ”dovreste fare caccia subacquea, non avreste bisogno di bombole” si sprecavano. Mentre la riportavo a casa sulla canna della bicicletta sentivo la carezza dei suoi capelli. Lo sentivo diverso, quel brivido, a seconda di come lentamente, delicatamente, muovevo la testa: a seconda di come, con le mie gote, sfioravo le gote di lei, prima l’una e poi l’altra, poi ancora l’una e poi ancora l’altra, respirando inebriato l’aria della notte e insieme a quell’aria il profumo del sole che sulla sua pelle si guardava bene dal tramontare… Gesù com’è rischioso imbattersi nella propria vita precedente! Soprattutto com’è brutto diventare vecchi!
Lucio Diana
Gesti teatrali Voglia di pedalare nel vuoto di Alberto Severi
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Contraddizioni
o il motorino non ce l’avevo. Nemmeno lo chiedevo, ai miei. Nemmeno lo desideravo. Sapevo che mia madre sarebbe morta d’ansia, a sapermi a giro per il vasto mondo crudele e disseminato di incroci mortali, su uno di quei pericolosi trabiccoli sterminatori di adolescenti. E così l’autocensura, al riguardo, era totale. Ottimo lavoro, mamma. O pessimo, a seconda dei punti di vista. Mi ritrovavo pertanto ad osservare i compagni motorizzati senza invidie né sindromi da volpe e l’uva, anzi con l’olimpica sensazione di superiorità morale, e quel misto di ascesi, cinismo, libertà, atarassia e ironica commiserazione che gratifica i saggi, privi di concupiscenza, a fronte di quanti, irretiti dalle passioni e schiavi delle sirene della mondanità, a quella medesima concupiscenza un po’ comicamente soggiacciono. Le smanie per il motorino mi parevano risibili. Tanto più che spesso l’oscuro oggetto del desiderio, per quei quindicenni di periferia, di famiglia operaia o piccolissimo borghese, si riduceva al minimalismo di un motociclo Piaggio, il Ciao, distante anni luce – a cominciare dal nome di rassicurante giovanilismo – dalle epicità on-the-road del chopper di Easy Rider o dal rombante agonismo della Ducati di Agostini. Era, il Ciao, poco più che una bicicletta col motore. E la sua natura mediana e anfibia, transizionale, risultava particolarmente evidente al momento della messa in moto. Quando il Piragino o il Gambarelli, o magari – fatto altamente spettacolare se la callipigia fanciulla indossava i suoi famosi Levi’s seconda pelle – la Lucia Bardazzi, quando insomma uno dei miei coetanei moto-dotati doveva issare il Ciao sulla forcella, facendo perdere alla ruota motrice il contatto col terreno, e quindi issare a loro volta se stessi sui pedali, e in tale posizione, mentre con una mano tenevano la leva del freno e con l’altra ruotavano il manubrio per dare gas, assestare due, tre, quattro, a volte – se faceva freddo o le candele erano sporche – anche dieci o dodici pedalate per avviare il motore, stando bene attenti a non farlo ingolfare di carburante. Ecco: quelle pedalate a vuoto segnavano, teatralmente, il passaggio fra la muscolare motricità della bicicletta e il motore meccanico. Erano la terra di nessuno dell’adolescenza, l’ultimo limbo di sopravvivenza dell’eterno presente infantile, fra l’infanzia, appunto, e il successivo correre troppo veloci verso la maturità. Un pedalare a vuoto apparentemente privo di scopo, ma propedeutico e necessario, alla messa in moto. Averlo saltato, allora, non mi parve importante, né, tanto meno, nocivo. Oggi, col senno del poi, la penso diversamente. Sipario.
Intercettazioni e informazione: nell’ottobre 2011 la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del disegno di legge sulle intercettazioni in segno di protesta. Con un emendamento presentato dal Governo si vuole rendere, difatti, completo il black-out sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche solo per riassunto e anche se non più coperte da segreto. In questo modo il diritto-dovere di informare della stampa e il diritto dei cittadini di essere informati, costituzionalmente garantiti dall’art.21 e dall’art.101 (la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano) possono restare gravemente compromessi. Per impedire la pubblicazione di parti delle intercettazioni si cerca, infatti, di vietare la pubblicazione di tutti i contenuti delle registrazioni, trasferendo nel campo dei diritti fondamentali l’irragionevole tecnica utilizzata per i tagli lineari operati nel settore economico. E dimenticando che per i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, le cui conversazioni si vogliono oscurare, l’articolo 54 della Costituzione stabilisce che devono comportarsi con “onore e disciplina”. Attribuendo al contempo al popolo sovrano il diritto di essere informato per poter valutare se questa avvenga. La fideiussione antiviolenza: nell’ottobre 2011 la manifestazione degli indignados a Roma è stata stravolta da episodi di violenza posti in essere contro la volontà dei manifestanti pacifici e da condannare senza tentennamenti. Ma la risposta immediata del Governo ha dimostrato che all’utilizzo con fermezza della legalità ordinaria si preferisce il ricorso a leggi eccezionali come facile strada per coprire inefficienze. Far approvare una legge straordinaria da maggioranze parlamentari abituate ad obbedire è facile, mentre più arduo è fronteggiare con strumenti adeguati e ordinari tempi mutati e difficili. I fatti di violenza avvenuti a Roma sono gravi e proprio per questo si sarebbe dovuto reagire con serietà e freddezza. Il Governo, invece, non ha saputo resistere a propagandare la necessità di un ritorno alla legge Reale e, al contempo, al tentativo di comprimere altri diritti fondamentali con misure che francamente denotano ignoranza e grottesco. Proporre un obbligo per gli organizzatori dei cortei di prestare una garanzia economica per risarcire gli eventuali danni arrecati da chi va in piazza non solo si dimostra scarsamente praticabile, ma attenta ad un diritto fondamentale garantito dall’articolo 17 della Costituzione. Certo, le manifestazioni in pubblico devono avvenire pacificamente e senza armi, ma non si può pretendere che il diritto di manifestare possa essere condizionato da “un’adeguata capacità patrimoniale” e possa essere praticato solo da chi può pagarselo. A questi esempi se ne possono aggiungere altri: basta pensare alle violazioni dei diritti umani dei detenuti, che si perpetrano quotidianamente nelle carceri italiane (anche in danno degli operatori penitenziari) e alla consapevolezza di dover accantonare ogni ragionevole speranza per i cittadini di riforme in materia di giustizia e diritti, se solo si considera che da oltre tre anni, altro non si pratica da parte di questo Governo che il tentativo di imporre leggi ad personam e di imbarbarire il sistema giuridico. In ultima analisi, la capacità e la fantasia dimostrate dall’attuale Governo nel disconoscere più che promuovere diritti fondamentali, non lasciano ben sperare che l’Italia possa giocare un ruolo plausibile nel Consiglio delle Nazioni Unite dei diritti umani, per la promozione e tutela dei diritti nel mondo, in Europa e in ambito nazionale. Cosa che non solo amareggia, ma grandemente preoccupa.
In scena
Lasciate che i bambini
Si ritorna a ridere in Casa Gori
Guarda la Torre di Arnolfo, ci ricorda che siamo tutti uguali
di Tommaso Chimenti
di Tomaso Montanari
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IRENZE – Castagne e vin brulè per la pancia, teatro per la mente. Il teatro non va mai in vacanza, non stacca mai. Un novembre carico questo, come neve sugli abeti. Il ritorno del Benvenuti in casa Gori dell’ex Giancattivo, ma in forma collettiva e collegiale, come nella pellicola, al Teatro di Rifredi nei fine settimana dal 3 al 13, con dieci attori capitanati da Carlo Monni e da Anna Meacci: esilarante. I grandi affabulatori per eccellenza, mai passati di moda e mai schiacciati dal nuovo teatro tutto tecnologie e raggi laser: si parla d’Italia, con ancora negli occhi i festeggiamenti, a volte superficiali ed ipocriti per i 150 anni dell’Unità tricolore: Marco Baliani al Puccini con Terra promessa (5, 6 al Teatro Puccini), e nessun aggancio a Eros Ramazzotti, ci racconta nel suo modo unico ed autentico di Briganti e Migranti, quello che siamo stati, quello che tutt’oggi siamo. Ascanio Celestini con Pro patria (11, 12 sempre al Puccini), invece incentra la propria dialettica fine e retorica dove miscela con sapienza l’alto ed il basso, i documenti con la borgata, su “i morti e gli ergastolani che hanno una cosa in comune, non temono i processi; i morti perché non possono finire in galera, gli ergastolani perché dalla galera non escono più”. Anche qui i fili portano alle storiacce tutte italiane, di misteri e insabbiamenti, di collusioni e rumors di corridoi, di processi e mezze verità brandite come spade. Parole, parole, parole. Mai inutili, mai fini a se stesse. Alessandro Bergonzoni con Urge (il 16 al Nazionale di Quarrata) ancora con i suoi sublimi giochi di parole che donano infinito alle affermazioni banali e compiutezza di senso ai luoghi comuni triti: un piacere per il timpano, una soddisfazione per i neuroni rimasti. Consigli per gli acquisti. La novità di Roberto Bacci, che ancora insiste con piacere e gusto sul filone pirandelliano, tocca Gengè, in prima nazionale dal 22 al 27 novembre e dal primo al 4 dicembre al Teatro Era di Pontedera, ovvero tratto da Uno, nessuno e centomila. Continuando a misurarsi con tutte le possibilità, opzioni, derive lucide, ruoli e personaggi che albergano dentro ognuno di noi.
Dall’Armenia Quel che bolle senza fiamma di Sonya Orfalian
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e maestre dell’asilo hanno spiegato a Filippo che ogni animale ha una casa, una tana, una cuccia, un riparo. Anche gli uomini hanno una casa: anzi, gli hanno detto, gli uomini sono i soli che ne hanno di due tipi. C’è la casa di ogni famiglia, o di ogni individuo. Ma poi c’è una casa di tutti. A Firenze, hanno spiegato, quella casa si chiama Palazzo Vecchio. È più grande e più bella di tutte le altre case e appartiene proprio a tutti: non importa se sono belli o brutti, poveri o ricchi, colti o ignoranti, maschi o femmine, deboli o forti. E non importa nemmeno se sono nati a Firenze. Così, quando Filippo (che ha tre anni) passa per piazza della Signoria, dice: “Babbo, Palazzo Vecchio è così bello perché è di tutti”. E così, grazie alla scuola (che è una scuola pubblica) Filippo e i suoi compagni (metà dei quali viene da molto lontano) non imparano solo la lingua italiana fatta di parole: ma imparano anche che in Italia c’è un’altra lingua. Una lingua fatta di palazzi, chiese, quadri e statue che appartengono a tutti. E imparano che quella lingua non serve a divertire i ricchi, ma serve a farci tutti eguali. E ogni volta che Filippo avrà la tentazione di dimenticarselo, basterà guardare la torre di Arnolfo, e ricordare: se Palazzo Vecchio è di tutti, è proprio vero che siamo tutti eguali.
Photo by James O’Mara
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FLOWER POWER
Una stella a Firenze
La valigia dell’attore
I Magistrati degli Otto e la movida
Dopo la cena della beffa tornai in tempo per gli applausi
di Stella Rudolph
di Alessio Sardelli
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he i residenti del centro storico di Firenze si sentano sotto assedio si evince dalla cronaca riportata nei giornali: dal degrado in via del Palazzuolo alla movida nei quartieri di Santa Croce e d’Oltrarno nonché all’intasamento delle bancarelle che strangola quello di San Lorenzo. Chiaro è che il numero eccedente di turisti al galoppo, studenti stranieri ubriachi e, ora, enclavi etniche, ha esasperato le anime con il dilagare della vendita di paccottiglia e fast food che, dopo gli schiamazzi notturni, lascia intere piazze e strade come pattumiere (anzi, pisciatoi). Di tale emergenza si sta preoccupando la giunta comunale, alla quale forse gioverebbe tener presente le misure draconiane adottate dai temibili Magistrati degli Otto (preposti alle questioni giudiziali e penali del Granducato) – che lungo il ‘600 e ‘700 provvidero ad affiggere delle lapidi, con incise in bei caratteri le loro proibizioni di ogni sorta di disordine civica, sulle facciate delle zone a rischio. Basta una breve passeggiata per capire, a leggere bene codeste minacciose lapidi cautelative, che non v’era scampo per chiunque trasgredisse il dovuto comportamento sul suolo pubblico. Partiamo, ad esempio, dal mercatino di San Pier Maggiore ove i Capitani di Parte vietarono perentoriamente il 20 giugno 1639 “Per ornamento della città e reveren. del culto divino […] che nessuno ortolano o altri possa star a vendere robbe di sorte alcuna su la piazza […] cominciando dal luogo dove sarà affissa la presente proibizione sotto pena d’uno scudo e della cattura e tut.°”. A pochi passi in là, nella piazzettina oggi dedicata al giurista Pietro Calamandrei, gli stessi capitani misero un’altra lapide in data 20 aprile 1733 decretando “Il non poter far brutture in questa piazza sotto pena della cattura et arbitrio rigoros.° del Magistrato loro”. Ma anche su qualche passatempo innocente si pose il divieto: in via dei magazzini i soliti magistrati proibirono “Il gioco di pallotto et ogni altro strepitoso vicino alla Badia a braccia venti” per non disturbare la tranquillità dei monaci benedettini lì dentro. L’obbiettivo era di prevenire il disordine e i disgusti conseguenti: funzionò, a giudicare dalle carceri in quel triangolo urbano (Bargello, Stinche, convento francescano di Santa Croce) ripieni non solo di debitori, assassini e vittime dell’inquisizione, ma anche di chi, magari non avendo pagato la multa, avesse semplicemente disatteso i severi richiami alle regole stabilite per garantire un ordine pubblico assai meno problematico di quello con cui abbiamo a che fare oggi.
anti anni addietro mi trovavo a recitare in uno dei più famosi teatri italiani: il Quirino, ora Gassman, di Roma. Teatro prestigioso, paga buona, ma parte piccola, ma così piccola che in un’ora e mezzo di rappresentazione io apparivo per qualche minuto all’inizio e poi ai saluti finali! Quindi che fare in tutto questo tempo?! Di solito l’attore sta in camerino con l’altoparlante acceso e in campana, pronto per entrare in scena, ma non era il mio caso, quindi cosa fare? Attaccato al teatro, ma direi proprio appiccicato, c’era un ottimo ristorantino, che proponeva dei piatti succulenti e così profumati che si potevano gustare con le narici
sin dal mio camerino, dove mi trovavo in compagnia di una povera mela che mi ero portato da casa. Ebbene, sbirciando dal minuscolo finestrino, vidi che proprio a dieci centimetri dall’uscita riservata agli artisti, c’era un tavolino libero e pronto per me! Il mio costume di scena essendo di fattura umile,un po’ pissero*, mi permise di sedermi tranquillamente, a parte il cerone che mi calcava pesantemente il viso, senza dare troppo nell’occhio. Senza saltare una portata arrivai fino all’amaro, gustandomi con vero piacere quella meravigliosa cena, allorchè fui colpito nientepopodimenochè da un improvviso ritorno al dovere, pagai frettolosamente,
salii come un fulmine le scale di servizio, e per un destino favorevole entrai in scena perfettamente in tempo per i saluti. Applausi calorosi! Al rientro nei camerini un collega notando la mela solitaria e un po’ ammaccata, appoggiata sul mio tavolo, disse con tono ironico: “una mela al giorno leva il medico di torno”. Ciao bello noi andiamo a cena! Vieni?”. Me ne andai sorridente borbottando tra me e me: “No io non vengo grazie, sono a dieta”. * Pissero = dialettale fiorentino, persona o cosa insignificante, perbenino in modo caricaturale.
Prospettive Festeggiare i 150 anni dell’Italia aprendosi al mondo di Monica Capuani
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ono andata a Torino a vedere alcuni spettacoli della rassegna Prospettiva 150. Stranieri in patria, a cura di Fabrizio Arcuri e Mario Martone. Il tema scelto per festeggiare l’anniversario della mai tanto problematica Unità d’Italia mi è sembrato assolutamente appropriato. La rassegna si è aperta con Die Nacht kurz von den Wäldern di Koltes, diretto da Antonio Latella, monologo estenuante per lo straordinario attore tedesco Clemens Schick, che correndo letteralmente in scena per un’ora e mezzo racconta l’angoscia montante e la fatica mortale di uno straniero in una città aliena. La sera dopo, è stata la volta del regista polacco Krystian Lupa, che ha proposto Prezydentki dell’austriaco Werner Schwab, morto a 35 anni nel ‘94.
La discesa in un degrado folle e onirico di tre donne che vivono tra l’eco continua del televisore e il bigottismo religioso, l’umiliazione del presente e il ricordo del passato. Il cortocircuito con l’Italia di oggi è stato impressionante. Infine, il magnifico Susan, di Herbert Achternbusch, diretto dal tedesco Thomas Ostermeier, 42 anni, direttore della Schaubuhne di Berlino dal ‘99, al quale quest’anno la Biennale Teatro di Venezia ha assegnato il Leone d’Oro. Storia di una donna alla ricerca della propria identità, raccontata in quadri che si susseguono in intervalli cadenzati di dieci anni. Festeggiare il compleanno del nostro Paese urlando la necessità di aprirsi al mondo mi è sembrato pieno di senso.
Gatti
Da Tel Aviv Una magnifica estate israeliana
I pescatori, l’acqua nera e la luna piena
di Sefy Hendler
by Kate McBride Fishermen arrive at nightfall set up camp on the beach and prepare their rods for squid they swing the lines expertly in a high arc out past the breakers secure the poles in the sand and sit down to drink from a thermos and watch on each rod, a pin light beacon a mesmerizing movement on the black water glinting from a full moon and the levante wind ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com Polaroid by Kate McBride
Percorsi “Qui una volta era tutta campagna” di Massimo Niccolai
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■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
na volta era tutta campagna”, è un modo di dire tanto per rimembrare i tempi che furono, tanto per dire che il passato era più bello del presente. Ma è proprio così, è proprio vero che il passato è migliore del presente, sicuramente per chi nasce e vive oggi non è altro che quello che sarà il proprio passato. Penso che il vero problema sia il riconoscersi ed essere riconosciuto in un luogo, forse quello che accade è che ad un certo punto non ci riconosciamo e non siamo riconosciuti più in quello che vediamo che sentiamo, che mangiamo, eppure ciò che vediamo e facciamo ci appartiene, è quello che abbiamo fatto nella nostra vita consciamente o inconsciamente e allora perché ad un certo punto ci rendiamo conto che quello che vediamo sentiamo mangiamo non ci appartiene è diventato alieno al nostro mondo, non è più specchio di noi stessi. La domanda è ardua e la risposta non sempre arriva, forse non c’è, forse l’importante è accorgersi che quello che vediamo non è quello che volevamo.
L’erba voglio
Il popolo del blues
Classika
Occhio a quei fiori rosa: fanno miracoli
No grazie, preferisco i talenti
Non era un fumetto, era Gainsbourg
di Caterina Cardia
di Gregorio Moppi
di Giulia Nuti
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on sono le star a interessarlo, ma i talenti. Pare sia questo ciò che, a proposito del suo catalogo discografico, ripete di frequente Manfred Eicher, fondatore nel 1969 della Ecm. Etichetta leggendaria anzitutto per il jazz, ma dall’84 pure indirizzata al repertorio colto dell’ultimo secolo. Non che disdegni gli esecutori celebri (il pianista Andras Schiff e il violinista Gidon Kremer sono le punte della collana classica); solo che Eicher, gran fiuto per gli artisti favorito da una solidissima preparazione musicale, è in grado di drizzar gli orecchi anche verso direzioni differenti. Tanto che adesso ha arruolato due nomi italiani poco noti perfino agli addetti ai lavori, per giunta i primi dall’Italia dacché la serie classica della Ecm è nata. Si tratta di Natascia e Raffaella Gazzana, violino e piano. Giovani di gran valore proiettate d’un tratto nell’olimpo del disco: chissà se ora si accorgeranno di loro le nostre società di concerti, di solito attratte solamente dal luccichio dei big.
i sono volte in cui la realtà assomiglia incredibilmente alla finzione, alla fantasia. Lui viveva in una casa tutta nera. Neri il soffitto, il pavimento di marmo, le pareti rivestite di feltro. Neri il divano, il caminetto, il pianoforte. Alle finestre aveva fatto togliere i vetri e al loro posto aveva fatto mettere delle lastre di cristallo colorate. Non amava la luce del sole perché – diceva – non si può organizzare. Non voleva che entrasse in casa sua a modificarne l’equilibrio. In compenso, aveva disposto una serie di luci elettriche moderne con le quali illuminava gli oggetti come se fossero stati i pezzi di un museo. Oggetti, spesso regali ricevuti, che nessuno poteva spostare, neanche di pochi centimetri. Raccontano che fosse maniaco dell’ordine e che dicesse di quella casa che era “il museo delle sue memorie”. Aveva le orecchie a sventola. Beveva e fumava sempre le stesse sigarette, Gitanes. Ma non era un fumetto, né un cartone animato, né il frutto della penna di un narratore fantasioso. Si chiamava Serge Gainsbourg. Abitava a Parigi, al numero 5 di Rue de Verneuil.
Dylan Bob Piero Ciampi, una città e il porto delle illusioni di Marco Poggiolesi
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omincia leggero, quasi timido, quel pianoforte, come se avesse timore dei versi che sta per accompagnare, poi arriva la voce. Calda e triste come la voce di un amico che, durante una sera d’inverno lungo il porto, sta per confidarti un segre-
to tenuto dentro troppo a lungo. Dedicata a chi ha perso la sua ultima e migliore occasione, dedicata a chi piange e non se ne vergogna, dedicata allo zio, dedicata a chi vuole partire e a chi vuole tornare, dedicata a te che mi stai leggendo, dedi-
cata alle strade, le facce, i vicoli e i porti di una città che si è presa un pezzo del mio cuore: Livorno. Piero Ciampi. “Ho trovato una nave che salpava ed ho chiesto dove andava. Nel porto delle illusioni mi disse quel Capitano”.
Fenomeni La lampadina dei pompieri sta accesa da 110 anni di Raffaele Palumbo
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n questa grigia stagione ci sono ancora dei bei fiori che colorano di rosa molti muri e rocce dell’Italia centro settentrionale; se vi capita di vederne alcuni sappiate che state guardando il sedum telephium, conosciuto con i nomi popolari di erba della Madonna o erba da calli. La tradizione popolare, infatti attribuisce a questa pianta grassa, appartenente alla famiglia delle crassulaceae, interessanti proprietà vulnerarie. Le foglie fresche e spellate erano considerate detergenti, disinfiammanti, cicatrizzanti, analgesiche, emollienti e cheratolitiche, in grado cioè di ridurre l’ispessimento eccessivo dello strato esterno della pelle e per questo venivano impiegate, sempre per uso topico, nel trattamento di calli e duroni. Il sedum telephium viene utilizzato ancora oggi e con successo da molti naturopati e se volete provarne l’applicazione dovrete memorizzare adesso che è ancora in fiore (perché è la comparazione del fiore, come per tutte le altre piante, che ne permette l’identificazione precisa) un luogo salubre di raccolta e tornarvi l’anno prossimo a fine luglio, raccoglierne le foglie, lavarle, asciugarle e metterle in un contenitore a chiusura ermetica in congelatore, dove si conserveranno perfettamente per le applicazioni
di un anno intero. Al momento del bisogno si farà scongelare la foglia per 5 minuti a temperatura ambiente, si toglierà la pellicola della parte inferiore e si applicherà sulla zona da trattare fissandola con un cerotto e rinnovando l’applicazione ogni 12/16 ore. Sopra piaghe, ulcere, necrosi cutanee, ne dissolve le parti superficiali portando in superficie e favorendone il trofismo, il tessuto di granulazione sottostante favorisce la formazione degli ascessi e ne calma il dolore. Come ogni pianta grassa il sedum contiene molta acqua che gli permette la sopravvivenza durante le siccità prolungate e per questo motivo in campagna le donne in età da marito che intendevano sposarsi usavano attaccarne in casa un paio di fusti fianco a fianco: se fossero cresciuti in modo uguale la sposa si sarebbe trovata bene con il marito scelto, se invece fossero cresciuti in modo diverso le prospettive sarebbero state tristi, se poi uno fosse appassito, eventualità improba ma probabile, la morte dell’amato sarebbe stata prossima. Non è chiaro come distinguere il fusto che rappresenta lo sposo da quello che rappresenta la sposa. Io sono in età da marito ma non mi azzardo a provare perché non voglio avere nessuno sulla coscienza, tantomeno me.
Sedum Telephium . (Illustrazione priva di diritti d’autore)
u accesa il 18 giugno del 1901 nella caserma dei pompieri di Livermore, in California. Centodieci anni dopo, la caserma dei pompieri sta sempre al suo posto, con tutte le nuove, sofisticatissime tecnologie del caso. E anche lei, sta sempre là. Con una telecamera puntata, a monitorarne il miracolo. E’ una lampadina, una semplicissima lampadina elettrica, che è rimasta accesa senza guasti, senza fulminarsi, da centodieci anni. E che non ha nessuna intenzione di smettere di fare luce. Anche se tutto intorno è cambiato, i carri dei pompieri sono diversi, e anche con quella fastidiosa telecamera puntata addosso. Resta accesa, sempre, notte e giorno. E non si guasta mai. Non è mai stata cambiata, buttata via. E’ solo stata spenta per tre volte, per motivi di manutenzione. Ha osservato senza scomporsi undici decenni dove è successo di tutto. Soprattutto dal suo punto di vista, dal punto di vista dell’energia. E adesso, sorniona, aspetta senza un momento di impazienza, il momento della vittoria e della vendetta. Quando la notte dei morti viventi prenderà il sopravvento. Come la prima macchina elettrica, inventata nel 1888 e come quei pannelli solari, immaginati molti decenni fa da uno che di scienze se ne intendeva, un tale Albert Einstein. Poi, il mondo decise di prendere un’altra piega. Carbone, gas, petrolio, uranio. American way of life. E gli americani ci tengono a queste cose. I pompieri l’hanno appesa a quattro metri d’altezza, per non farla toccare da nessuno e la venerano come una reliquia. Venne fabbricata dal concorrente di Edison, tale Shelby, in Ohio, e poi donata da un benefattore ai vigili del fuoco locali: un bulbo di vetro soffiato, con dentro un filamento di carbonio spesso come una matita. Una lampadina da 4 watt, dunque a basso voltaggio, con un bassissimo calore interno. Qui potete vederla, attraverso la webcam che la inquadra, www.centennialbulb.org/cam.htm. In alternativa, potete recarvi al numero 4555 di East Street, a Livermore, in California. Troverete il futuro. Ora che - dal 2004 - abbiamo capito che un’economia che richiede un consumo energetico capace di crescere del 3% annuo non è insostenibile, è semplicemente una follia, la lampadina di Livermore, si ripresenterà alla nostra attenzione e ci farà alcune piccole domande: perché avete scelto la corrente alternata? Perché avete scelto di bruciare materiali preziosi come il petrolio o il gas? Perché avete bandito e messo fuori legge una materia preziosa come la cannabis? Perché avete devastato il pianeta usando carbone e uranio? E - ora che, tra poco - sarete in nove miliardi, come pensate di fare?
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acquifera.org
Ricetta L’universalità del rapino saltato di Fabio Picchi
Pieni d’Islam Quei 300 “bacini” dimenticati a Pisa di Giovanni Curatola
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Cinema Nuove frontiere del cinema
e grandi chiese e basiliche medievali italiane fanno un grande sfoggio interno ed esterno di marmi preziosi, di colori contrastanti e intagli minuziosi. La bicromia, in genere pietra bianca e verde scuro o nera, ci è familiare in Toscana (San Miniato fra tutte), ma pure in Liguria e Sardegna. La ritroviamo anche in Siria e Palestina oltre che in Turchia: è un tratto che possiamo definire mediterraneo. Le chiese più povere non si potevano permettere tali lussi e si arrangiavano come potevano per la decorazione. Spesso inserivano nelle facciate esterne della ceramiche (cosiddetti bacini) importati un po’ da tutti quei paesi d’oltremare che in quell’arte erano maestri. Queste belle conche venivano soprattutto dalla Spagna e dal Nord Africa, regioni che allora erano saldamente in mano ai musulmani i quali, in varie di quelle zone, ci sono rimasti fino a oggi. Questo dei bacini nelle chiese è stato un fenomeno non sporadico e casuale in Italia e con testimonianze diffuse in particolare nelle zone marittime e costiere: soprattutto Pisa, Gaeta, le Marche, ma anche Pomposa, Milano, Pavia, Alessandria e Roma, oltre a un po’ tutto il Sud. Ceramiche come ex voto, molto spesso, e importanti perché ai nostri giorni ci documentano una produzione magrebina (Algeria, Tunisia e Marocco attuali, ma anche qualche opera di Spagna e le imitazioni siciliane), che in quelle terre non s’è conservata se non a livello di coccio negli scavi archeologici. A Pisa – Museo Nazionale di San Matteo – i bacini staccati dalle pareti delle chiese sono più di 300, un patrimonio unico e spesso dimenticato.
di Juan Pittaluga
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n dit souvent que les grands bouleversements dans le cinéma sont le passage au sonore, à la couleur et éventuellement à la 3 d, on parle peu de l’influence de la chaine digitale, qui est surtout visible dans les prises de vues plus longues au tournage. Depuis 10 ans le numérique a pris presque toutes les étapes de la fabrication et projection des films en main. Parmi ces étapes celle qui me semble a une influence silencieuse mais cruciale est l’evolution géniale des logiciels de montage, comme Avide, Final Cut ou Pro tools, on se retrouve à fabriquer un film dans un confort du détails, on travaille les images par 25 photogrammes à la seconde. Combien de choses voient nos yeux par seconde? Mais ce qui m’étonne le plus est la capacité des montages sonores qui accumulents les pistes jusqu’à l’inaudible. Est-ce que le cinéma évolue vers ce lieu fabuleux, ou l’oreille capte beaucoup plus que ce que les yeux voient? On est parfois manipulés, c’est vrai, avec cette addiction au son des grands films, mais en dehors de cela, les possibilités qui se sont ouvertes dans la création du son et un chemin directe vers l’émotion dont le cinéma avait toujours rêvé. Un bon film reste une histoire bien racontée, mais cette peau intime d’un langage aussi accessible a nos instincts, va sans aucun doute changer la relation entre créateur et public. ■T raduzione su ambasciatateatrale.com
Di line e di lane Imprevedibile? Il paravento non regge
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olenta fritta nell’olio nuovo per poi accogliere rapini saltati e tritati anch’essi nell’olio nuovo con spicchi d’aglio portati fino al color dell’oro, e poi peperoncino d’obbligo. Per i golosi carnivori è possibile l’aggiunta di salsiccia sbucciata e sgranata nel caldo olio. Bene anche guanciale, pancetta e prosciutto a listarelle. Se non volete friggere la polenta, lasciatela lenta e condite con il medesimo intingolo. In questo caso un’abbondante porzione o grattugiata del formaggio più puzzolente che riuscite a trovare. In assenza di polenta tutto perfetto per condire dei mezzi maccheroni ricordandosi alla fine di giungere il tutto sempre con un abbondante C d’olio nuovo.
Un verre de vin rouge Quei grappoli scesi dalla Val d’Aosta di Ugo Federico
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na sera a cena con amici fra innumerevoli assaggi con grande curiosità si stappa un bottiglia a me molto cara regalatami qualche anno fa da colui che è stato il mio maestro di professione ma anche un amico caro alla quale penso sempre ogni qual volta lavoro e sono felice. Tra grande curiosità si inizia questo viaggio nella storia di questo vino nato e cresciuto in un fazzoletto di terra molto piccolo e molto particolare. Il suo terroir e il clima poco favorevole rendono difficile ogni cosa. La maestria e la passione di questo grandissimo contadino sono commoventi. Con grande attenzione riesce come sempre a far maturare i suoi amati grappoli pronti per una selezione pianta per pianta fra i pendii scoscesi della Val d’Aosta. Il vino Passito di Chambave della famiglia Voyat del 1981 vino da tavola prodotto da uve moscato. Un’esperienza incredibile dove bere un bicchiere significa tanto altro. Ha note di arancia candita piacevolmente mescolate a piccole ossidazioni veramente intriganti. Dolce ma mai eccessivo ha una grande mineralità ed un acidità ancora ben presente. Difficile smettere.
di Pietro Jozzelli
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ante lacrime, sì, ma anche tanta ipocrisia sulla morte del centauro Marco Simoncelli nella gara in Malesia. Volto di bimbo, duro in pista ma gran cuore fuori, immagine di una generazione, che tristezza averlo perso lui amato da tutti e già predestinato a raccogliere la corona di Valentino Rossi. Il consueto florilegio del destino cinico e tragico, del bello troppo presto condannato, dalla sorte o dalla tecnologia, è stato sciorinato come un antidoto all’unica persino ovvia riflessione, chi corre a trecento all’ora su una moto, insieme ad altri che corrono come lui
alla stessa velocità, ha ottime possibilità di non diventare vecchio. Va bene che il senso del limite è scomparso, che tutti più o meno viviamo vite che non possiamo permetterci, ma almeno non schermiamoci dietro il paravento della bella morte, dello scontro imprevedibile, della casualità dell’intreccio di gomme e telai impazziti che schiacciano le vertebre cervicali al bel Sic. Questa fine fa parte del gioco, è perfettamente omogenea all’immagine televisiva delle gare di MotoGP, va talmente messa nel conto che l’unica cosa che desta sorpresa è la sorpresa del mondo.
www.ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi
Anno III Numero 9 del 1/11/2011. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
Si ringrazia
conti capponi [conticapponi.it] Marchesi Mazzei [mazzei.it] PODERE VOLPAIO [poderevolpaio.it] Unicoop Firenze [coopfirenze.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer
L’orto Mai coltivare sotto un abete di Stefano Pissi
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abete bianco, Abies alba mill. È una pianta antica, appartiene al genere abies, parente stretto dei cedri spp. più che dei pini spp. Si dice conifera perché porta i coni, frutti primitivi, di legno. Mi piace il nostro abete appenninico anche perché nel suo nome c’è un progetto continuo e insistente; Abios in greco vuol dire che vive a lungo. L’abete e l’orto proprio no, non vanno d’accordo. L’abete-alto, è prepotenza rispetto all’orto-basso; troppa ombra dai suoi rami, troppa resina dalle sue foglie, gli aghi. Come dicono i contadini qui, l’orto sotto l’abete in vece d’andare avanti torna addietro. Un legame però c’è e l’ho trovato negli eremi dei camaldolesi, nelle abbazie dei vallombrosani, nei monasteri dei francescani. L’orto è natura addomesticata, protetta dalle mura, creato dall’uomo per l’uomo, fonte di cibo e spunto di raccoglimento, nell’orto concluso nascono i pensieri che ti rendono stabile perché ti ricordano che sei umile, da humus vicino alla terra, da lei dipendente; pensieri che ti smontano la superbia. Ma non si vive di solo orto e dalle mura si esce per incontrare il bosco, si lascia il certo per l’incerto, dove l’abete ricorda la natura selvaggia - anche se sempre coltivata - lui sta fuori le mura e per i monaci è estasi, elevazione verso l’alto; collegamento diretto dalla Terra al cielo. Un dialogo continuo quindi ora che ti eleva, ora che ti riporta giù, a ricordare le nostre opposte esigenze. Renè Daumal scriveva: “...spesso, d’altronde, nei momenti difficili, ti sorprenderai a parlare alla montagna, ora lusingandola, ora insultandola, ora promettendo, ora minacciando; e sembrerà che la montagna risponda, se le hai parlato come dovevi, addolcendosi, sottomettendoti. Non disprezzarti per questo, non aver vergogna di comportarti come quegli uomini che i nostri dotti chiamano dei primitivi e degli animisti. Sappi soltanto, ripensando poi a quei momenti, che il tuo dialogo con la natura non era che l’immagine, fuori di te, di un dialogo che si svolgeva all’intero”. Per quanto mi riguarda adesso va bene così; semplicemente perché consapevole di chiudere cerchi, aperti al mattino e conclusi la sera, piccoli tondi dentro un grande O di stupore che finalmente risolverà quando allora sarò beatamente m’orto.