MUKKI LATTE PER LE DONNE
circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
Quando scopersi un tesoro nascosto - Sì, al posto di abitudini polverose, sempre sotto mano, la più sfrenata passione.
1 marzo 2012 ANNO IV • NUMERO (Jack London)
www.ambasciatateatrale.com
Sc-atto a Maria Cassi
Sintesi esaustiva
by James O’Mara
Editoriale
Togliamo il piede dal freno Il latte e la vita di Milly Mostardini
di Fabio Picchi
N
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ella frase di Jack London tre sono i sostantivi chiave: tesoro, abitudini, passione. Ognuno è appoggiato ad un aggettivo eloquente. Cominciando dal fondo, passione è parola ermetica, ambigua, da interpretare. Che passione é, quale, quando, come? Ogni lettura è possibile, vastissima l’interpretazione (se mettiamo in sordina la Grande Passione Infelice d’Amore, l’unica plausibile per tanta letteratura e cinema, ma anche nodo di capolavori immortali). Con sommesso parere, a me sembra che, dalla conoscenza delle opere e della biografia dello scrittore americano, la passione qui sia intesa con quel che i francesi chiamano une surabondance de vie. Sei sopraffatto da una ruggente voglia di vita? Se così fosse, che sia sfrenata allora, irrefrenabile. Effimera o duratura, irraggiungibile o inossidabile, ognuno conoscerà i prezzi da pagare, quando hai buttato il cuore oltre gli ostacoli, e poi lo hai raccattato oltre quei cespugli spinosi. Se le tentazioni sono irresistibili, le passioni non possono essere che sfrenate. Lo sanno anche i sassi e le Sacre Scritture. E le abitudini? Sono i nostri amati ritmi e stili quotidiani, gli angoli del nostro riposo, la forza di ciò che siamo riusciti a creare. Beate abitudini da tutelare, difendere come muretti nella terra incognita, preziosi nel mondo vasto e terribile. Anche alibi per ripiegamenti, pigrizie, rinunzie inspiegabili. Però l’aggettivo polverose le inchioda, ne accusa il confine, ne rovescia il senso da pieno a vuoto. Polvere allusiva, come crosta castrante. La morte della pianta che ha foglie impolverate. Il tesoro è da subito la misura della posta in gioco: nella vita aspra e combattuta di London (1876-1916 ) divenuta leggendaria, pochi tesori in vista quanto a potere, ricchezze, colpi di fortuna, amori, vita sociale. Un suo tesoro nascosto potrebbe essere l’ostinata passione per la scrittura, per l’avventura, per la politica. Ma nascosto, forse perchè lo portava dentro, duro come il diamante ma ignorato, forse non apprezzato in tempo, non valorizzato quanto sognava. Quanti tra i suoi lettori o non trascurano o fraintendono i tesori nascosti in ognuno di noi ?
Riflessioni
A lezione
Tutta colpa dei miei occhi
Dario Fo prese il pennello
di Salvatore Settis
di Felice Cappa
A
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h saperlo, quando abbiamo scoperto un tesoro nascosto che è diventato passione, che ci nutre ogni giorno, a cui non sapremmo rinunciare! Per esempio, l’opera del Settecento. Da quando ne raccolgo incisioni, ne inseguo esecuzioni, e le ascolto ora religiosamente, libretto in mano anche sul filo delle trame più improbabili, ora invece come lietissimo sottofondo, mentre leggo o scrivo? Non lo so più, e il bello - anzi - è proprio questo: il tesoro ignorato si è connaturato con le abitudini di vita, come non avessi dovuto mai scoprirlo. Un amico non saprebbe fare di meglio: è lì da sempre, per sempre. Eppure lo so, che da ragazzo non ne sapevo niente. Lo so, che le opere di Mozart (peraltro rimaste supreme) mi parevano cime isolate in una pianura dove non c’era quasi nient’altro. Senza pensarci, avevo scambiato la spietata selezione del tempo per una gerarchia di qualità: e se sentivo un’aria di Vivaldi o di Haendel, forse la pensavo tolta da un’operina per il resto un po’ noiosa. Confessare tanta ignoranza mi pesa, meglio Segue a pag. 2 respingerla in un passato remotissimo.
a prima volta che ho incontrato Dario, aveva in mano un pennello. Anzi, una pennellessa. Era alla Palazzina Liberty e stava istruendo un compagno, arrivato lì a dare una mano, su come “porgere la pennellata”. Spiegava che l’esito non dipende dalla mano, non dalla testa che la comanda, ma da tutto il corpo. Prese un pennello, grande e piatto, e cominciò a danzare attorno alla controparete di compensato che era lì, pronta da dipingere. “Vedi? Così devi muoverti, le gambe sono importanti quanto le braccia. E poi devi cantare!”. E mentre il poveretto si schermiva, dicendo che era un operaio, non un artista, e non solo non sapeva pitturare, ma non sapeva né ballare né cantare, Dario continuava a danzare e a “spiegare l’andamento”, interpretando le melodie dei cordari di Siracusa e dei gondolieri di Venezia. Citava Plechanov e le sue teorie, che erano alla base di Ci ragiono e canto, e sgridava il malcapitato perché non capiva la relazione profonda tra arte e lavoro, dicendogli che doveva riappropriarsi della cultura in modo attivo, da protagonista, non da Segue a pag. 2 consumatore.
a da sé la mia passione per il cibo, col mestiere che mi porto appresso vestito con le giacche d’ordinanza. Io d’altronde temo sempre che l’argomentazione intorno all’essere cuoco diventi unica, pesante e noiosa. Tengo così nascosta la cosa più cara che mi porto fin da quando ho memoria, dove il tempo dedicato allo studio e ai giochi, al fine, mi portava sempre in cucina. E se non aprivo il frigorifero era la dispensa. L’occhio correva rapido a comporre mentalmente le possibili merende e la mano cominciava i primi allenamenti per la precisione dei tagli, anche di semplici fette di pane. Sì, i morsi che seguivano mi davano un’estasi di piacere nell’atto della deglutizione. A quel punto le endorfine già giravano vorticose, placando le giovanili ansie e portandomi in uno stato di estrema felicità. Felicità che mi ha tenuto lontano, negli anni dell’adolescenza, da improbabili droghe. Era sufficiente la speranza della fragranza di un panino al lampredotto. E, nei pomeriggi passati in casa, erano sufficienti quelle fette di pane burro e marmellata, o quelle fette di panettone, o le marie farcite di miele e sovrapposte, o i bucaneve inzuppati, sempre e comunque, in quelle tazze di latte. E se con panettone valeva la sbrodolatura, con i biscotti della Doria valeva una rapida attenzione perché nell’assorbire la bianca liquidità non vi si frantumassero dentro. Fu per quelle endorfine che ho scelto, per sfrenata passione, il mio mestiere misurandolo con mio talento più prezioso, quello di saper mangiare.
Occhio di bue
Dall’Armenia
A lezione
Il re dei serpenti ringraziò il cacciatore
Quando Fo prese il pennello e disse all’imbianchino che doveva danzare
di Sonja Orfalian
di Felice Cappa
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■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
In scena Tesori al teatro di Tommaso Chimenti
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a passione per antonomasia, fatta di tangibilità concreta ed alti sentimenti profusi, si esplica con le parole Amore e carne (il primo marzo al Metastasio di Prato), proprio il titolo dell’incontro tra il drammaturgo e regista Pippo Delbono e il violinista rumeno Alexandre Balanescu. Passione per la propria Nazione svilita in Pro Patria di Ascanio Celestini (il 2 al Teatro Dante di Campi Bisenzio), così come in W l’Italia di Francesco Crestacci (il 9 sempre al Dante), ironico affresco dei malaffari degli abitanti dello Stivale. Politiche anche le passioni riguardanti Muoio come un Paese (24, 25, 31 marzo e 1 aprile al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino), l’angosciante canto-preghiera di uno scrittore greco, ancora più attuale. “La passione fa sovente un pazzo dell’uomo più abile”, diceva la Rochefoucauld. Passione amorosa, nelle sue varie inclinazioni e declinazioni, nel Casanova di Stefano Massini (dall’8 all’11 al Teatro Manzoni di Calenzano) e nel Don Giovanni (30 e 31 al Teatro Studio di Scandic-
ci), musicale a cappella con sei giovani interpreti, ennesima sperimentazione riuscita a cura dei Sacchi di Sabbia. Passione per una donna, fino alle estreme conseguenze, nell’ Otello (dall’8 all’11 al Metastasio) con il viscerale Alessandro Haber, il Nozze di sangue (dal 29 al 31 al Fabbricone di Prato) da Garcia Lorca tra vendette, onore e matrimoni, testo trasportato dalla Spagna del nord alla Barbagia sarda. Stefano Cenci, attore storico di Armando Punzo e della Fortezza di Volterra, si cimenta invece in Ofelia 4:48, miscelando, almeno dai presupposti, l’antieroina shakespeariana toltasi la vita nelle acque per amore di Amleto e le psicosi di Sarah Kane, autrice inglese suicida a fine anni ’90. Disgraziato epilogo anche nel Woyzeck ombre (dal 16 al 18 al Fabbricone) da Buchner, per l’illuminata regia di Claudio Morganti, per la povera Marie che viene uccisa dal protagonista frustrato. Forse, però, l’unico ad aver ragione era Diderot che asseriva che “Esiste solo una passione, la passione per la felicità”.
ivertito, ma anche intimidito da quella situazione, ci misi un po’ a trovare il coraggio e chiedergli se, con Franca, poteva partecipare alle attività che stavamo organizzando durante l’occupazione del Liceo. L’agguerritissimo gruppo femminista delle mie compagne di classe, entusiasta di Parliamo di donne, da poco andato in onda in tv, voleva assolutamente rieducare noi maschi e aveva imposto un corso su Problemi della coppia e sesso paritario. Era il febbraio del 1978. Dario in quei giorni stava recitando Storia della tigre e altre storie. Non mi aveva detto di no, ma rimandò, poi non se ne fece nulla. Qualche settimana dopo fu rapito Moro e furono uccisi Fausto e Iaio, due ragazzi del Centro Sociale Leoncavallo. Cominciò una primavera caldissima e fu tutto un susseguirsi di assemblee, manifestazioni e cortei. Al Liceo, per mesi, non ci furono più neanche le lezioni autogestite. Questo ricordo si è ripresentato improvviso quando ho ripensato a una passione che esplode (e che cercherò di raccontare nella mostra Dario Fo. Lazzi Sberleffi e Dipinti che si aprirà al Palazzo Reale di Milano il 24 marzo). A pensarci bene, non è affatto casuale. Se cerco di ricordare qual è, per me, l’immagine più familiare di Dario, in oltre trent’anni di frequentazione, prima come spettatore, poi come giornalista e, finalmente, come suo allievo e collaboratore, mi viene in mente sempre Dario che disegna. Mi rivedo studente, dietro le quinte o in camerino, che vado a salutar-
Segue dalla prima
di Salvatore Settis
C
erto, si dirà, negli ultimi decenni si sono moltiplicati repêchages, riproposizioni in teatro, incisioni; e io non avrò fatto che seguire la corrente. Ma allora dove lo metterò nei miei ricordi, quel Giulio Cesare di Haendel visto di sfuggita in un teatro francese di provincia negli anni Sessanta? Dove, le operine e i masques visti a Londra o a Barga, in giardino? E le conversazioni di Giovanni Morel-
li alla Giudecca sulle opere di tema greco e romano, di cui andava compilando laboriosi elenchi? Si era ripromesso di indicare almeno un’opera di soggetto classico ogni anno, dal 1600 dell’Euridice di Peri e Rinuccini ai giorni nostri (quella lista finì, anni dopo, in una sterminata nota dei Greci Einaudi). E quando nel 1995 vidi al Covent Garden la prima dell’Arianna di Alexander Goehr, che riusa il
Staino
di Alberto Severi uando lo zio Ernesto morì, Irene aveva quattordici anni. E, come tutti i suoi coetanei, ascoltava la musica pop e rock scaricandola sul computer, o con l’Ipod. Fruizione liquida, come ormai si usa dire in avanzata epoca post-vinile e post-compact disc. Lo zio Ernesto (che non si era mai sposato, e negli ultimi anni della malattia aveva vissuto con la famiglia della sorella) in uno scaffale alto della libreria del salotto aveva invece ricoverato alcuni vecchi vinili di quando era giovane: una collezione quantitativamente piuttosto misera, ma di qualità. C’erano i Beatles di Sergent Pepper e Abbey Road, i King Crimson, After the Gold Rush di Neil Young, i Pink Floyd di The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here, Aqualong dei Jethro Tull, Nursery Crime dei Genesis, Cat Stevens, John Barleycorn dei Traffic, roba così. Una quindicina di trentatré giri in tutto. Polverosi, e inutilizzabili, visto che in casa, da anni, non c’erano più giradischi. Irene li prese, e li sistemò nella libreria della sua cameretta: più che altro, per fare scena con gli amici, ma anche per una forma di struggente omaggio postumo allo zio. Non tolse nemme-
no la polvere, per diversi mesi. Le sembrava un elemento essenziale della scenografia vintage che aveva allestito. Poi, un giorno, sua madre le rivelò che in cantina doveva esserci ancora un vecchio giradischi, con tanto di casse hi-fi. Lo andarono a recuperare insieme, tolsero la polvere, videro che il tempo lo aveva messo fuori uso, ma provarono a portarlo a Oliviero, che era un mago, e difatti Oliviero fece la magìa, e riuscì a ripararlo. Anzi: chiese anche alla madre di Irene – inutilmente – se poteva comprarlo lui. Era un vecchio giradischi Grundig, col braccio del pick-up che tirandolo indietro fino ad uno scatto faceva girare il piatto, e che poi andava posizionato manualmente sul solco del vinile, senza graffiare il disco, e azzeccando l’inizio della traccia, trovando con un piccolo scoppio il frusciante silenzio che precedeva, di un giro, la prima nota della prima canzone. Irene si decise a togliere la polvere dai vecchi trentatré giri di suo zio. E, per ascoltarli, imparò quel gesto ormai desueto: l’attenzione, la precisione e la lentezza – cioè la cura, cioè l’amore – che esigeva. Imparò che con quel gesto specifico – non il solito pigiare un tasto,
soluzione di continuità tra pittura e letteratura, tra teatro e canto, tra danza e architettura. Uno spazio dove si mette in atto una pratica. Ovvero un luogo dove non c’è separazione netta tra teoria e produzione, un momento dedicato alla pura ideazione e, poi, uno all’applicazione meccanica di quanto si è inventato. C’è, invece, un agire che continuamente utilizza quanto appreso dai maestri, dallo studio diretto, dall’esperienza di vita vissuta, dall’indagine che viene svolta per avere a disposizione le adeguate conoscenze sul soggetto da trattare e, contemporaneamente, una continua rielaborazione critica che porta, naturalmente, a sperimentare e a creare modi sempre nuovi per potersi esprimere e realizzare prodotti culturali vivi, inseriti nel corpo della società. Le oziose dicotomie tra tradizione e innovazione, tra pensiero e azione, tra avanguardia e classici, non esistono, non appartengono all’orizzonte di questa pratica. E così, come accadde al compagno operaio, ora capita spesso anche a me che Dario mi trasformi in allievo attore e mi costringa a leggere, interpretandolo, il nuovo testo che sta scrivendo o che, peggio ancora, mi metta in mano un pennello per stendere il fondo o per altre operazioni preparatorie delle tavole. Questo, nonostante, anzi, proprio perché mi occupo di drammaturgia e di regia e, secondo le abitudini della bottega, non si può non aver provato a fare anche tutti gli altri lavori che contribuiscono al risultato complessivo del proprio.
Tutta colpa dei miei occhi che purtroppo sono bendati
A marcia indietro dall’Ipod al giradischi: e Irene scopre un’altra musica
Q
lo mentre lui è intento a disegnare dediche bellissime sui manifesti, sulle locandine, sui libri e sui programmi di sala (confesso di aver avuto sempre molta invidia, per i fortunati destinatari, e di aver trovato il coraggio di chiedergliene una per me solo poco tempo fa). Lo rivedo poi, da cronista, che disegna mentre lo intervisto per qualche testata e dopo, ancora, che prende appunti con degli schizzi mentre gli propongo dei progetti o gli chiedo di intervenire per qualche buona causa (a Milano, se accade qualcosa, si va sempre a chiedere aiuto a casa Fo-Rame). E lo vedo, ora, disegnare e dipingere incessantemente, ogni giorno, da oltre 15 anni, da quando lavoro con continuità con lui e Franca. Del resto lei lo dice sempre: “Per le cose di teatro devi parlare con me, sono io la professionista, lui è un dilettante, il suo vero mestiere è la pittura”. Dario annuisce perché sa che dietro questa affermazione c’è un mondo. Anzi due. Quello della famiglia Rame che ha origine nel Seicento, con la Commedia dell’Arte, e che ha fornito alla coppia la struttura e l’organizzazione, la tecnica e l’arte del fare teatro, ma anche quello delle botteghe dei grandi artisti del Rinascimento, di cui Dario è erede diretto. Parlo di bottega, che non è uno studio né un atelier, ma un luogo di lavoro dove, chiunque vi acceda, deve adeguarsi ai ritmi, ai tempi, al clima e alle consuetudini. Che sono sempre, indissolubilmente, etiche ed estetiche. Un ambiente in cui discipline e saperi si contaminano, senza
Riflessioni
Gesti teatrali
2
Segue dalla prima
buono a tutti gli usi – l’ascolto della musica diventava qualcosa di più rituale e più solido, che usciva dalla sua testa e si faceva mondo e vita. “Picture yourself in a boat on a river/There is a town in North Ontario/The rusted chains of Prison Moon are shattered by the sun/We’re just two lost souls swimming in a fish bowl”. Dal solco del vinile, suscitato e come fecondato dalla puntina di lettura e dal fonorivelatore piezoelettrico, le canzoni uscivano non più isolate l’una dall’altra, liquide, inconsistenti: ma collegate fra loro in una serie dotata di senso complessivo, come le scene di un dramma. Una rivelazione. Da allora, Irene cominciò a spendere ogni mese quasi tutto ciò che aveva in tasca per acquistare in un negozietto ovattato del centro storico vecchi trentatré giri su vinile. Passò dal passatempo alla passione vera, per la musica. E ogni volta che faceva il gesto di azionare il braccio del pick-up e posizionare la puntina sul solco, intuiva che senza quel gesto teatralizzato, ritualizzato, forse, la sua passione non sarebbe mai deflagrata. Che forse senza alcun gesto ritualizzato, teatralizzato, nessuna passione deflagrerebbe mai. Sipario.
libretto della perduta opera di Monteverdi di egual titolo, non mi sarò illuso di essere dentro una tappa di quella storia lunghissima? O quando con Valerio Valeri a Los Angeles provavamo a ipotizzare quante opere fossero andate in scena nei teatri d’Italia nel Settecento (forse diecimila)? Ma no: è che il tesoro non era affatto nascosto, solo i miei occhi erano bendati. Lo sono, lo so, ancora troppo.
Lasciate che i bambini Brunelleschi e Donatello tornarono da Roma e finalmente riuscirono a sconfiggere le abitudini polverose di Firenze di Tomaso Montanari
F
irenze, 1401: Filippo Brunelleschi (scocciatissimo, perché Lorenzo Ghiberti lo ha battuto nel concorso per la porta del Battistero) se ne va a Roma, in compagnia di Donatello. Arrivato a Roma, Filippo “vedendo la grandezza degli edifizii e la perfezzione de’ corpi de’ tempii, stava astratto: che pareva fuori di sé” (dice Vasari). E “datosi in preda agli studii, non si curava di suo mangiare o dormire, solo l'intento suo era l'architettura”. Spinto da una passione sfrenata egli inseguiva due obiettivi “l’uno era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli ritrovandola, non lasciare manco memoria di sé, che fatto si aveva Cimabue e Giotto; l’altro di trovar modo, se e’ si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza”. È inseguendo questo sogno che Filippo e Donatello ogni volta che vedono affiorare dal terreno di Roma “pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizii”, si buttano a scavarli: “per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le strade, che andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro, credendo i popoli ch'e' fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori”. Ma il tesoro che Pippo e Donato cercavano non era un tesoro d’oro e d’argento: era il sogno visionario di “potere veder nella immaginazione Roma come ella stava quando non era rovinata”. E quel tesoro lo trovarono: essi videro davvero la Roma antica, e con gli occhi della passione più sfrenata che un artista avesse mai concepito. E fu così che, tornato a casa, Brunelleschi trovò il coraggio (che nessuno prima di lui era riuscito ad avere) di voltare la Cupola, quella che “con la sua ombra copre tutti i popoli toscani” (come scriverà Leon Battista Alberti). Grazie al tesoro trovato a Roma, e grazie alla loro passione sfrenata, Brunelleschi e Donatello avevano inventato il Rinascimento: con le abitudini polverose, Firenze aveva chiuso. Photo by James O’Mara
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Adoro
Scusate l’anticipo
Ri-cercata
Jack più di cent’anni fa scriveva pagine da presagio di Occupy Wall Street
Il videogame degli scienziati
by Kate McBride
di Clara Ballerini
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ack London gave us the im- tinue to draw on. George Orwell portant science fiction po- proclaimed the book’s influence litical novel The Iron Heel in on his political work 1984. Leon 1908. Though written over one Trotsky quoted London on his hundred years ago, the story still foresight regarding how fascirings true regarding the struggles st regimes come to power. The between capitalism and sociali- quote from the book that The sm. The book describes the rise Capitalist class has mismanaged of The Oligarthy who bankrup- society might be found in an arted the treasures of the middle ticle describing the efforts of the class and subjected the poor to Occupy Wall Street Movement. a style of feudalism. Out of print At the library, The Iron Heel sits for many years, the book was re- alongside Huxley’s Brave New published in 2006 in time to de- World, Ray Bradbury’s Farenscribe our recent history and of- heit 451 and many others under fer a treasure-chest of ideas that the subject of dystopian literary many great political writers con- works. ■ Traduzione in francese su ambasciatateatrale.com
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ubMed, Web of Science, NASA’s Astrophysics Data System, e altri siti o meglio altre risorse della navigazione internet stanno radicalmente rivoluzionando le nostre abitudini nella lettura di un testo. Intendiamoci, chi si occupa di scienza ha sempre letto in maniera strategica, cercando di filtrare, confrontare, collegare e analizzare simultaneamente diversi frammenti contenuti in più articoli. Adesso però questa pratica ha un forte supporto tecnico in continua evoluzione che la amplifica: da un lato abbiamo un’efficiente indicizzazione elettronica, dall’altro emergono all’interno di discipline diverse le onto-
logie, nel senso informatico di concettualizzazione, di struttura gerarchica in questo caso costruita per rappresentare e collegare i dati scientifici. La narrativa del testo si perde e mentre gli scienziati cercano e sfogliano fanno domande, selezionano l’informazione con molti obiettivi diversi in testa, come in un videogioco un po’ troppo rapido. Chi non ha l’abitudine a questo tipo di ricerca si sente un po’ come un padre che guarda la figlia fare zapping alla televisione e con irritazione le chiede come mai non riesca a decidersi, e lei risponde che non sta cercando di decidersi, semplicemente guarda tutti i canali.
Percorsi L’ignoto come fonte d’energia di Massimo Niccolai
Q Erba voglio C’erano una volta il cestaio, il ramaio e tanti altri che... di Caterina Cardia
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aper riconoscere le forme e i colori della natura, saperla utilizzare come fonte di sussistenza e cura fisica e spirituale rispettandone i tempi e i modi che ci impone è conoscenza preziosa che ci è stata regalata da chi ha iniziato ad amare la nostra terra molto prima che nascessimo noi. Chi un tempo faceva questo mestiere si chiamava semplicista e insieme a lui c’erano il cestaio, il fabbro, il ramaio, il falegname e tanti altri di una lista troppo lunga da elencare per intero. Chi tristemente assiste ma cerca di resistere alla perdita della memoria di un sapere o un mestiere antico che si tramanda
per esperienza e difficilmente si apprende sui libri e all’impoverimento dei significati che questa perdita porta con sé, chi continua a cercare di fare un mestiere che ormai non ha neanche più un nome, sa di possedere un tesoro che vale molto, in un mercato che non lo può pagare altrettanto. Se è facile pensare che possedere un tesoro può rendere felici, dovrebbe essere facile capire che la felicità non esiste se non la si può condividere, che un tesoro non esiste se non se ne può fare sfoggio e che quindi un tesoro nascosto non è un più un tesoro e che l’avidità di qualcuno alla fine rende poveri tutti. Ben-
venuta allora primavera, benvenuta natura generosa. Si va per fiori ed erbe di campo felici di poter condividere tutto questo con chi tutto questo vuole sapere ma ancora non sa. Benvenuto a chi vorrà imparare da me quello che altri mi hanno insegnato; come si riconoscono e come è meglio utilizzare il fiore, la radice, il seme e la foglia di ogni bellissima pianta. Benvenuto a chi sempre più raramente onora la mia passione come un mestiere e benvenuto anche a chi vorrà darmi un qualunque rispettoso lavoro perché anch’io, come troppi ormai, non mi annoio, per carità.
La valigia dell’attore Io ai piedi del grattacielo della radio più importante di Monaco di Alessio Sardelli
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ll’inizio del nuovo secolo, mi ritrovai con il naso all’insù, non avevo mai visto un grattacielo se non il Pirellone a Milano. Era la Bayerischer Rundfunk di Monaco l’emittente radiofonica più importante della Baviera e non di meno seconda a quella pubblica nazionale. Ed io che ci facevo lì? Perché? Ero nientepopodimenochè uno speaker del programma per Auslander che sta per stranieri in terra tedesca e nel caso specifico per immigrati italiani. Raccontavo brevissime storielle con piccoli sketch, il tutto condito e servito in soli tre minuti, sembrano pochi ma credetemi sono un’eternità. Eh, sì, la vita mi era cambiata in un attimo, dalla sorridente
campagna toscana mi ritrovavo catapultato nella ricca metropoli con il cuore, Weltstadt mit herz, come la chiamano i suoi abitanti. La redazione italiana era, scrivo era perché purtroppo la recessione ha spazzato via tutto, agli ultimi piani, e da lì si godeva di uno splendido panorama, la sensazione che provavo era quella di essere tanto grande da poter vedere e toccare tutta la città. Entravo in studio di registrazione con assoluta precisione, guai al minuto di ritardo, e preparavo una decina di interventi che poi venivano mandati regolarmente ogni qualvolta se ne sentiva l’esigenza. E’ sconvolgente: parli dentro un minuscolo apparecchio e ti ascoltano in tutta Europa,
ciò fa sì che i tuoi pensieri corrano così veloci da farti girare la testa. Sapere che tu possa entrare nella più piccola e sperduta abitazione del più piccolo e sperduto paese ti fa sentire talmente forte che non penso ci sia tesoro che ti possa ripagare. Io puntualmente ascoltavo dall’Italia le trasmissioni in compagnia di mio padre che si emozionava e si commuoveva sempre perché gli ricordavo la sua giovinezza, quando suonava in Svizzera a Saint Moritz insieme al maestro Paolo Ormi, divenuto poi un nome nell’emittenza pubblica italiana. In tutto questo turbinio di emozioni non c’è spazio né per la noia né per le pantofole. Magari fra cent’anni se ne riparla.
uando scoprii un tesoro nascosto fu un’emozione incredibile. Non avrei mai pensato di trovare ciò che trovai. Fu un caso, non stavo andando in una direzione precisa, ma soprattutto non stavo cercando, direi che mi ci imbattei in quella cosa o più propriamente ci inciampai. Ed accadde qualcosa che nel momento mi disorientò ma poi la sensazione mutò in stupore e meraviglia per aver trovato quel mio tesoro. Già non so bene se la scossa che mi ha prodotto questo attimo è stata determinata dall’emozione o dal tesoro. Certo è, che quello di cui mi
compiaccio di più da quel momento e che spero non perderò mai è lo stupirmi nel trovare qualcosa che non so che c’è. Non mi piacciono le predizioni. Sapere già ciò che dovrà accadere, direi che mi annoia, oserei dire che mi sento polverosamente opaco. Invece è l’incognita il nucleo centrale della ricerca del tesoro ma cercare e cercare anche questo può alla fine diventare monotono, allora oggi come ieri è l’inciampare sull’inaspettato che mi fa riaffiorare quella antica sensazione della stupore e della meraviglia e che mi riempie d’energia e di nuovo desiderio.
Una stella a Firenze Bosio, un avvocato mancato di Stella Rudolph
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opo il cursus studiorum di lettere e filosofia al Collegio Romano e un dottorato in legge conseguito nel 1594 presso la Sapienza, Antonio Bosio (15751629) pareva destinato alle polverose abitudini di quel mestiere, ma intanto egli aveva sottomano un fascio di copie delle pitture nella catacomba dei Giordani lasciatogli in eredità due anni prima dall’erudito amico Filippo van Winghe. Fu questa la miccia che accese in lui un’autentica passione per le antichità paleocristiane dell’Urbe. Ormai non gli bastava la cultura libresca: aveva bisogno di prendere visione diretta delle vestigia e si rese conto che esse dovevano trovarsi praticamente quasi sotto i propri piedi. Così cominciò la prima sistematica esplorazione dei cimiteri cristiani sotterranei lungo i chilometri delle vie consolari e per oltre un
decennio accompagnato da artisti che ne trassero disegni anno dopo anno egli penetrava i cunicoli, come una pervicace talpa, riscoprendovi decine di catacombe. La preziosa massa di documentazione che accumulò confluì nel suo ancora fondamentale libro Roma sotterranea corredato da centinaia di tavole e piante incise, uscito postumo solo nel 1634. Presto seguirono altre edizioni (Colonia, Parigi, Amsterdam) ad alimentare le ricerche in questo campo fin oltre il ‘700. Casomai nel frattempo si è dimenticato il fascino di questa specie di Indiana Jones del recupero delle tracce paleocristiane, instancabile avventuriero che senza doversi allontanare da Roma scovò tesori nelle ricche miniere anche sotto la sua villa sulla Flaminia in cui aveva divisato di allestire un museo dal titolo Elisii Bosii.
Emozioni
Da Tel Aviv
A spasso nel museo del nostro passato
Il promemoria di Mosè e del suo popolo
di James Bradbourn
di Sefy Hendler
“Then I found a hidden treasure - in place of dusty old habits, always at hand, the most unbridled passion” A recurring figure in childhood memories is the junk-man, the shabby figure with his cart, his assortment of marvellous things, brought like stories of far-off Byzantium by Water Rat in Wind in the Willows. He would appear one summer morning and wend his way down the street, stopping to chat with passers by, sharpening housewives’ knives and rummaging through his collection of oddities to show yet another marvel; the inside of an electric motor, a set of old gears, a battered salt cellar of obviously great antiquity and value. What magic there was in collecting! As time went by, our collecting became more knowing and directed: stamps, baseball cards, lead soldiers, their paint worn and chipped. Collecting was a joyful process; of sniffing and snooping, of sifting through countless objects to find the best one – a nascent connoisseurship, an apprenticeship in acquisition and discernment. Childhood collecting soon gave way to exploring collections, and rummaging in flea markets gave way to museum-going. A life spent in museums, decades spent with objects at hand: chipped plates, gilded plaster and darkened paint. Dusty, old, habits. But also the most unbridled passion, as objects do not exist in a universe of their own, they belong to a world of human actors. But does not the object itself give us some clues, like poetry, to its possible reconstruction? Are not the joys of intellectual exploration those same joys which fuel the desire to create, to collect, to see? The museums of our past were dark, dusty and mysterious. There was a deep psychological participation in the clutter of mysterious objects piled together. We were in the realm of intimate space writ large, and in this space we were masters. The lack of order invited us to create order. The mysterious provenance of the objects was an invitation to speculate, imagine, wonder – to engage fully with the object itself, seeking clues to its mystery. The apparent chaos of objects gave the viewer a panoramic freedom to participate in the life of the object, to wander freely towards the horizons of its ability to enchant, to exhaust its resources, to relive the history of its making. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Da Varsavia
Prospettive
La meravigliosa puntualità dell'aringa
Tutto è infinito, se riusciamo a spalancare le porte
di Tessa Capponi
di Raffaele Palumbo
Pasja = silne wzruszenie duszy, które nie musi być bolesne (Słownik etymologiczny)
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Czy można doznać wzruszenia wobec kromki pełnoziarnistego, żytniego chleba z ziarnem słonecznika lub lnu, i kawałka śledzia w oliwie z górą cebulki i ziarnami czarnego pieprzu oraz listkiem bobkowym? Jedzenie czarnego chleba ze śledziem jest w Polsce starą jak świat tradycją i nikt nie traktuje tego jako odkrycie cennego kulinarnego skarbu. Jakub przygotowuje śledzia z metodyczną dokładnością, maczając je w musztardzie, obsypując siekaną cebulką, zianami pieprzu, goździkami i w końcu zalewając je oliwą z oliwek, Jest niezwykle skoncentrowany, mimo że są to gesty, które powtarza od lat, ale nie należy nawiązywać z nim wówczas rozmowy, a raczej wyjść z kuchni i zostawić go w spokoju. Śledzie powinny dojrzewać w oliwie co najmniej przez tydzień, a dopiero później można zaczynać rozmowy o konsumpcji. To wielka frajda widzieć jak wjeżdżają na stół piękne, tłuste i błyszczące. Pasuje do nich niezbyt cienko krojony chleb i, dla tych którzy chcą, także zamrożona wódka, chociaż ja uważam, że nie jest to konieczne bo same w sobie są poezją, silnym poruszeniem duszy. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
cavando in un vecchio testo di Aldous Huxley del 1954, Jim Morrison trovò un tesoro. Il testo era Le porte della percezione. Nel libro, c’era una frase di William Blake, il poeta inglese vissuto tra Settecento e Ottocento. Blake aveva scritto un secolo e mezzo prima nel suo The Marriage of Heaven and Hell la seguente frase: “If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is, infinite”. Morrison trovò questa frase citata nel libro di Huxley - in parte usata per il titolo del libro. “Se le porte della percezione fossero spalancate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è,
infinito”. Altro che polverose abitudini. Quel tesoro servì a trovare tutti i sistemi possibili per spalancare le porte. The doors. La più sfrenata passione portò Morrison a morire all’età di 28 anni. Nel 1971, a pochi mesi dalla morte di Jimi Hendrix e di Janis Joplin. Più o meno, tutti della stessa età. Anche loro avevano spalancato le porte della percezione, avevano trovato tesori nascosti, abbandonato polverose abitudini e vissuto passioni sfrenate. E anche loro ci hanno fatto vedere che tutto - se lo volessimo - potrebbe apparirci per quello che in effetti è: infinito.
Dylan Bob Sul palco insieme con quei quattro eroi in Calabria di Marco Poggiolesi
Classika M’è sfuggita di mano la moglie di Rossini
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a notizia più sensazionale che posso scrivere è che ho visto con i miei occhi la passione che ti salva la vita, l’ho assaporata, mi sono seduto al suo fianco ed ho ascoltato le sue parole. La passione sfrenata per una musica, per una terra, per un mare, per gli amici. Alessan-
dro, Peppe, Giosuè, Daniele, non sono semplici nomi. Sono i tesori nascosti di un luogo magico che ho avuto il privilegio di scoprire durante il mio tour. Giovani musicisti con i quali abbiamo condiviso solo pochi giorni di vita e di palco e che ci hanno aperto le porte della loro meravi-
gliosa Calabria. Eroi di un mondo nel quale si combattono le polverose abitudini. Eroi la cui arma si chiama cultura, accoglienza, sorriso. Comandanti che non abbandonano la nave perché la nave è essa stessa la passione e se si abbandona la passione siamo i primi ad affondare.
di Gregorio Moppi
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inché è esistita, nella botteguccia di libri usati in via della Pergola mi sono sempre fermato volentieri. Volumi a tema musicale se ne trovavano pochi. Spartiti ancora meno, però degni di considerazione. Per giunta a buon mercato, perché probabilmente il libraio non li teneva in gran considerazione. Scartabellavo spesso tra le pagine di musica, benché molte fossero ridotte maluccio, sfascicolate, gli angoli rosicchiati dal tempo. Mi interessavano soprattutto quelle su cui era restata traccia del primo possessore che magari le aveva siglate e datate. Alcune ne ho comprate, pagandole come un paio di pacchetti di sigarette, e le tengo come le cose sante. Le considero infatti preziosissime e forse lo sono davvero anche in valore assoluto. Per esempio la prima edizione dell’Iris di Mascagni, 1898, e dell’opera senza fama I cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, 1925, dono di una certa Elisa, fiorentina, all’amica Cesara. O uno spartito in italiano dell’Oro del Reno di Wagner appartenuto al tenore Amedeo Bassi da Montespertoli che vi ha studiato, evidenziandola con un matitone blu, la parte di Loge, le cronache ci dicono che l’abbia cantata negli anni Venti, tra l’altro alla Scala diretto da Vittorio Gui. Invece sono rimasto con un palmo di naso per un libro che da un giorno all’altro non ho più trovato al suo posto: una miscellanea con il frontespizio firmato Olympe Pélissier, la seducente cortigiana parigina che fu seconda moglie di Rossini. Non fa meraviglia che si trovasse a Firenze, visto che la coppia dimorò in città a metà Ottocento. Come ho potuto lasciarmela sfuggire? Mi mangio ancora le mani per non averla adescata subito io.
Il popolo del blues Contrordine: viva la polverosa sana abitudine del vinile di Giulia Nuti
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era una volta il disco in vinile. Quello grande e nero, che non si comprava su internet, che aveva un odore tutto particolare, che andava maneggiato con cura, che si sceglieva dalla copertina. I nati negli anni Ottanta ne hanno sentito parlare dalle generazioni precedenti, ma quando hanno iniziato a comprare i dischi, c’erano già i cd. Ci hanno raccontato dei graffi e dello scricchiolio della puntina, di come le scalette dei brani si dividessero tra lato A e lato B, di come a metà ci si dovesse alzare dalla sedia per cambiare facciata. Anche i nati negli anni Novanta ne hanno sentito parlare dalle generazioni precedenti, ma quando sono stati grandi abbastanza per comprare i dischi, c’era già il download. Nonostante tutto, qualcosa nella magia di quell’oggetto misterioso ha sfidato il tra-
scorrere del tempo. Forse la mitologia di un simbolo che incarna ancora il valore sociale e culturale della musica, forse l’impossibilità di falsificarlo, forse un suono sensibilmente diverso. Sta di fatto che secondo la Nielsen Company la vendita dei dischi in vinile negli Stati Uniti nel 2011 è passata da 2,8 a 3,9 milioni di album venduti. Dati simili per la Gran Bretagna, dove le statistiche dell’Official Charts Company segnalano un aumento delle vendite attorno al 40%. Qualcuno si è affrettato a dire che è il segno della resurrezione dell’industria discografica e che finalmente, i dischi, si venderanno ancora. Probabilmente, e più realisticamente, è solo il segno di un interesse culturale che, se pur latente, è rimasto: per una volta, il ritorno di una sana e polverosa abitudine.
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acquifera.org
Ricetta
di Fabio Picchi
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atta una lattosa besciamella con un etto di burro fuso dove avrete stemperato 4 cucchiai abbondanti di farina, grattugiato un terzo di noce moscata e un litro di latte caldo che metterete rapidissimamente frullando tutto con una frusta, al suo primo rapprendersi aggiungerete due pugni abbondanti di parmigiano, sale quanto basta e pepe in abbondanza, buttando dentro un chilo di lampredotto precedentemente bollito e tagliuzzato a quadratini di un paio di centimetri e otto carciofi ben puliti e sbollentati e suddivisi in 4. Rovesciate il tutto in una teglia dove la besciamella si distenderà e farà apparire sulla sua superficie i pezzetti di lampredotto e le verdi protuberanze dei carciofi. Gratinate il tutto in un forno precedentemente riscaldato a 140°. Per i fiorentini, e soltanto per i fiorentini, potrete sostituire mezzo litro del latte con mezzo litro del brodo necessario per la cottura del lampredotto. Pane in abbondanza.
Pieni d’Islam Funziona meglio l’occhio di un bambino per cogliere l’essenza di un’opera di Giovanni Curatola
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ecisamente molte abitudini possono diventare polverose e queste ritualità ripetute spesso dettano il ritmo dell’esistenza. Sono un comodo rifugio, confortevole e non sempre banale. Aiutano. Certo, mancano della scintilla del genio (vogliamo dire che questo, il genio, è il superamento dell’intelligenza nella stessa direzione?), ma quel ripetere lo stesso gesto è anche prova di saggezza, di consapevolezza. Guardare un’opera (o una persona) senza realmente vederla è più che un’abitudine, il limite di molti, della stragrande maggioranza (che poi si qualifica silenziosa perché non ha niente da dire). L’anima appassionata (quella dei mistici sufi d’Oriente), scruta più in profondità, cerca e trova i particolari (se volete chiamateli pure tesori) dei quali c’è abbondanza sempre, per chi sa vedere guardando. I tesori non sono nascosti, mai. Sono sempre ben evidenti, come in una miniatura ben dipinta dove solo l’occhio di un bambino (o di un povero di spirito) coglie l’essenza e la rivela. Dopo, solo dopo, quasi tutti capiscono.
Un verre de vin rouge
di Ugo Federico
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Di line e di lane
Cinema
Quella lapide mi dà una sferzata
Manipolare con il bianco e nero
di Pietro Jozzelli
di Juan Pittaluga
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anti anni fa, correndo sulla stradina che da Cantagrillo porta a Vinacciano, in quel di Pistoia, fui attratto da una lapide traballante collocata sul ciglio della strada, con un sasso incastrato sotto per impedirle di cadere nel fosso. Era il cippo funebre dedicato a Silvano Fedi e Giuseppe Giulietti uccisi in quel posto da una banda nazifascista alla fine di luglio del 1944. Silvano e Giuseppe erano due giovani ventenni che avevano scelto di combattere per una vita migliore. Su quella strada si corre anche la maratona del partigiano, per dire qual è l’atmosfera politica del luogo. Rimasi stupito di quell’abbandono: chiamai il sindaco di Serravalle e protestai. Ora la lapide è meglio fissata. Davanti a lei, a pochi metri, c’è un monumento d’acciaio che ricorda il fatto. Ci vado spessissimo, la considero il mio tesoro privato: come tutti, passo la vita tra riti e abitudini, ma quella lapide mi dà ogni volta una sferzata, ricorda a chi dobbiamo il nostro mondo e la nostra vita. Ho ritrovato la tomba di Silvano nel cimitero della Vergine: la foto mostra un giovane sorridente che mi dice: dai, non dimenticare, il mondo può essere bello.
e scale in penombra della cantina dei miei suoceri a Coise, piccolo villaggio francese nella fredda Savoia. Fra conserve e sott’oli gelosamente custoditi, si trova il piccolo tesoro di mio suocero. Fra etichette blasonate per lo più di grandi Châteaux di Bordeaux la mia ricerca ha inizio. Il mio amore, ormai maturo per la Grenache, vitigno unico meno rinomato del Syrah nella AOC delle Côtes du Rhône. La visione dello Châteauneuf-du-pape Château Rayas del 2001, il calore della bottiglia maneggiata con cura, l’attenzione quasi maniacale nella decantazione purtroppo necessaria. Un piacere condiviso per festeggiare l’incontro annuale con la famiglia della mia amata compagna. Nel bicchiere impressionava il suo colore rosso granato profondo. Il suo profumo di spezie si mischiava piacevolmente al profumo del legno di faggio appena sistemato nel camino del soggiorno. Il suo gusto un po’ spavaldo accompagnava piacevolmente un grandissimo Castelmagno d’alpeggio rubato ad un caro amico appassionato. Vino incredibilmente persistente, con sentori di tabacco da pipa e fave di cacao appena tostate. Emozionante, ma allo stesso tempo schietto e sincero.
L’orto
i comme le disait Robert Bresson le cinéma sonore a inventé le silence, que veux dire revenir au film muet ? C’est comme le retour vers le noir et blanc, cela donne une fausse légitimité à un film, une aura qui manipule notre mémoire visuel. C’est du faux vieux et comme certain restaurant à Paris, c’est un attrape-nigaud pour touriste. C’est un peu comme faire un gros plan sur un Cézanne, cela sera toujours beau. La force d’un film ne peu venir que de la puissance avec laquelle il affronte son époque. Le Néoréalisme en sortant le tournage des studios ou le cinéma indépendant américain, se distanciant du jeu théâtral, ont conquis des espaces de liberté. Le vrai enjeu reste entier, comment faire un film qui pousse plus loin notre imaginaire sans s’installer dans le confort du déjà acquis. ■T raduzione su ambasciatateatrale.com
www.ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi Anno IV Numero 1 del 1/3/2012. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
Si ringrazia
conti capponi [conticapponi.it] Marchesi Mazzei [mazzei.it] PODERE VOLPAIO [poderevolpaio.it] Unicoop Firenze [coopfirenze.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer
di Stefano Pissi
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Marzo la primavera è futuro prossimo, ma la stagione talvolta può convincerci del contrario e sviarci dal crederlo. Talvolta, infatti, taluni percorsi sono brevi, siamo noi che per esigenza di conoscenza li allunghiamo; e passiamo per boschi, saliamo montagne, solchiamo mari tempestosi. Ma alla fine decidiamo di restare piuttosto che fuggire e allora impiantiamo un orto, ci facciamo coltivatori stanziali, anziché nomadi irrequieti. Per quest’anno di transizione ho deciso di mettere giù patate, su tutta la superficie del mio orto. Si tracciano dei solchi eleganti e paralleli fra loro, vicini ma non invadenti. Le patate si mettono sul fondo anch’esse distanti ma vicine, insomma investiamo in questo gesto. Poi sereni dimentichiamo e ci dedichiamo ad altro. Passano i mesi, e la natura che si sveglia ci distrae e ci rallegra, la primavera era cosa vera, uomo di poca fede! Poi d’estate, il tesoro. Il tesoro lo consideriamo tale perché non è un’invenzione ragionata, ma una scoperta: prima nascosto e poi dimenticato ce lo ritroviamo con sorpresa davanti a noi che lo abbiamo tanto cercato. Ed ecco le patate a giugno, un tesoro dolce, più che d’oro, vitale, più che prezioso. Disegno di Lucio Diana