Ambasciata Teatrale - Aprile 2012 - Anno IV Numero 4

Page 1

Breadburne, Cappa, Montanari e Settembrini a pagina 3

circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

Ovunque tracce, l'uomo con il coltello regala verdure alla città. Il muro sbrecciato senza alcun intonaco sorregge il glicine fiorito. Tutto questo sempre ci sorprenderà. Tutto questo sempre ci sopravviverà.

1 aprile 2012 ANNO IV • NUMERO

www.ambasciatateatrale.com

Mercato

Sintesi

by James O’Mara

Ri-cercata

Senti le campane Ai nostri figli di Milly Mostardini

di Clara Ballerini

L

Q

a tua città, le campane, il fiume. Potresti vivere in una città, dove non ci fossero le campane? Non dico quegli straordinari congegni elettronici, ma le campane vere che suonano le ore dei loro riti, e tu riconosci le voci. Hai fatto caso a come sono diverse le città che hanno un fiume e le altre? Ti è capitato di uscire di casa così, per prendere una boccata d’aria, e scoprire che stai andando verso il tuo fiume? E chi torna da altrove, dove lavora e vive, che per prima cosa va a vedere l’Arno, ci hai fatto caso? C’è un ponte bruttino, umile, simpatico: da lì vedi a est il Pratomagno, e capisci come sarà il tempo domani, a Ovest cogli l’infilata dei ponti, storici, monumentali. Con la mente segui la via d’acqua, terre, città del suo corso, luoghi segreti (mai visto le Gole della Gonfolina?), la Bocca a mare. Fiumi e torrentacci, a me, figurati, sembrano le vene di una terra. Sono andata in Iraq, le terre da dove ha avuto origine il nostro mondo, per vedere il Tigri e l’Eufrate, oggi spremuti dalle troppe dighe costruite in Turchia. Ho toccato le leopardiane steppe dell’Asia centrale, attratta dall’Amu Darija, il leggendario fiume che per millenni ha diviso le terre dei nomadi da quelle della grande civiltà persiana: lo hanno guadato Alessandro il Macedone e le orde Segue a pag. 2 dei Mongoli.

Occhio di bue

Riflessioni

Attenti ai Non Luoghi, dove si perdono il passato e il futuro di Alessandra Mammì I All'inizio furono gli aeroporti. E li battezzammo non luoghi. Poi si definì non luogo ogni posto dove la gente si mescola, passa, transita, mangia, dorme, corre, legge, parla, si bacia, si saluta, piange a volte, si arrabbia, si agita, si preoccupa, attende .Tutte le declinazioni degli umani affanni e dei fisici bisogni accolte in un non luogo. Tutte, tranne una. In un non luogo non si abita. II Un non luogo conosce solo il presente. Non c'è passato non c'è futuro. Dunque non c'è storia. E se

per questo neanche geografia. I non luoghi sono uguali su tutta la superficie del pianeta. III All'inizio erano gli aeroporti. Brian Eno ne scrisse anche la colonna sonora. Note liquide, vibrate trasparenti, leggere, senza corpo. Come i passi senza suono nei corridoi del transito. Come gli uomini nei rendering degli architetti che costruiscono aeroporti. Sagome di creature perfette, nè grasse nè magre, nè alte nè basse. Silhouettes senza volto, che abitano la sur-modernità con le loro misure standard conformi al sedile di un volo di linea e

uando si parla di luoghi dell’uomo la divisione storica fra antropologia, idealmente dedicata a ciò che la gente pensa, e psicologia, dedicata a come lo pensa, non è più possibile. Il contenuto e il processo non sono separabili in modo preciso, millimetrico: le differenze culturali di ciò che la gente pensa diventano differenze anche di come le pensa. Cosa vuol dire? Facciamo un esempio: è stato dimostrato, mettendo a confronto nativi americani e americani di origine europea entrambi residenti in una zona rurale, che avere un concetto diverso dei posti degli uomini ha conseguenze in campo cognitivo in termini di costruzione della conoscenza e della memoria. Una delle domande poste ai due gruppi era circa cosa sia importante insegnare ai propri figli riguardo al mondo naturale, la risposta dei nativi americani era “che ne facciamo parte”, gli altri “che dobbiamo averne cura”. Cerchiamo allora di essere esigenti, perché con buona probabilità il concept proposto che diviene un nostro luogo non resterà asetticamente confinato in se stesso, nel tempo quel preciso luogo antropologico potrà influenzare il nostro modo di pensare.

alla taglia M di una giacca da pret à porter. Non-corpi ritagliati negli spazi vuoti di un progetto fatto di luce, vetro e acciaio e pensato per la luce delle alogene, che sono le stelle fisse dei non luoghi. IV Dunque si comiciò con gli areoporti e i centri commerciali, poi ci si perse. E scoppiò la pandemia. Come il Nulla nella Storia infinita di Michael Ende, il non luogo ha divorato il mondo di Fantasìa, che poi altro non era che i centri delle nostre città fatte di ciabattini e trattorie, cinemini puzzolenti e abbigliamento di tradizione. La pande-

mia li ha trasformati in storici non luoghi. Pantheon di pub irlandesi e wine bar, negozi monomarca di lusso, sushi e internet point. Nessuno si è opposto. Qualche lacrima in cronaca quando la storica profumeria Materozzoli in piazza in Lucina a Roma con tanto di vetrinette molate e boiserie anni venti, più la foto di D'Annunzio che fu cliente (e neanche tra i primi) venne sfrattata nel nome di Tod's. Un Tod's d'origine controllata, identico agli altri sparsi nel mondo, perchè il brand deve essere sempre riconoscibile e perpetuamente fedele a se stesso da Sidney a Tokyo. Segue a pag. 2


■ SEMPER. La tradizione di domani. Mostra fotografica di Galia Eytan. Palagio di Parte Guelfa, Firenze. MOSTRA DAL 14-30 APRILE 2012

Mercato

di James O'Mara

Riflessioni

Segue dalla prima

Attenti ai Non Luoghi, dove il passato e il futuro non esistono di Alessandra Mammì

In scena Roberta e la follia dei call center di Tommaso Chimenti

S

ul palco, l’improvvisato, il fortuito, il casuale, è studiato, pensato, scritto. Niente a che vedere certo con l’inganno perché ogni replica è indissolubilmente unica ed irripetibile, ma il canovaccio base rende elastiche le scelte ma il fulcro saldo. La finzione rimane la miglior dote ed il non farsene accorgere un’ottima soluzione. A modo mio, cantavano i Negrita, sicuramente ispirati dall’intramontabile My way di The Voice Frank Sinatra. Ed allora a modo nostro ci addentreremo in E’ stato così (4 e 5 al Teatro Puccini) sia per vedere, e speriamo ri-conoscere, le ambizioni attoriali di Sabrina Impacciatore (che ha sostituito la nuova musa del cinema italiano Alba Rohrwacher), che ha scelto, come ultimamente molti suoi giovani colleghi da grande schermo (Riccardo Scamarcio, Francesca Inaudi, Stefano Accorsi, Elio Germano, Claudio Santamaria, Giuseppe Battiston), il passaggio inverso, dalla celluloide alle tavole scricchiolanti. La storia di Natalia Ginzburg dei patimenti e delle umiliazioni che una donna nel primo dopoguerra subisce dal marito fedifrago fino alle estreme conclusioni. Non ci perderemo I fratelli Karamazov (dall’11 al 22 al Teatro Metastasio di Prato), la visione del regista Guido de Monticelli dell’ultimo romanzo di Dostoevskij, produzione a metà tra lo Stabile della Sardegna e quello della Toscana. La nostra rotta sbilenca come l’andamento di un albatro ci porterà prima al Teatro Manzoni di Calenzano per Mi chiamo Roberta, ho 40 anni (il 21) testo che mostra l’abominio dei call center e del precariato diffuso che toglie speranze e certezze, per poi approdare al Fabbricone per sostenere la visione di Preparatio mortis (28, 29) del regista fiammingo Jan Fabre, già passato a Pontedera, una bellissima donna dentro una teca di falene. Non solo teatro ma anche grandi concerti: ascolteremo volentieri Samuele Bersani (il 12 al Teatro Verdi), l’amore partenopeo cantato in tutte le sue forme con Pino Daniele (il 19 al Verdi), il ritrovato Francesco Baccini che canta il conterraneo Tenco (il 24 al Teatro Puccini), Bobo Rondelli con il nuovo album L’ora dell’ormai (il 28 alla Città del Teatro a Cascina) con il suo cantautorato livornese tra malinconie, amori, depressioni esistenziali. E basta con aprile dolce dormire. Qui c’è da andare, da fare.

V Con il termine gentrificazione (in inglese, gentrification, deriva da "gentry", termine che indica la piccola nobiltà inglese) si indicano i cambiamenti socio-culturali in un'area, risultanti dall'acquisto di beni immobili da parte di una fascia di popolazione benestante in una comunità meno ricca. Questi cambiamenti sono tipici delle periferie urbane ma soprattutto dei centri storici, dei quartieri centrali, nelle zone con un certo degrado da punto di vista edilizio e con costi abitativi bassi. Nel momento in cui queste zone vengono sottoposte a miglioramento urbano, tendono a far affluire su di loro nuovi abitanti ad alto reddito e ad espellere i vecchi abitanti a basso reddito, i quali non possono più permettersi di risiedervi. (wikipedia) VI Mi sono persa in un mall. Il più grande centro commerciale di Roma. Una città di mall. Ho sbagliato parcheggio, sono salita dove non dovevo, sono stata rimproverata. "Se lei

Sintesi esaustiva

H

o visto, così, cosa ha fatto la civiltà tra Otto e Novecento a quella magnifica via d’acqua, che piomba dai ghiacciai del Pamir e alimentava il mare di Aral, oggi morto. La prima cosa da fare, arrivando in un posto mai visto? Andare al mercato, naturalmente. Non è difficile, ti ci portano i piedi, segui il flusso delle persone e scopri cosa mangiano, cosa produce la loro terra, come spendono, contrattano, come si vestono, che utensili e oggetti portano a casa, chi sono. Potresti abituarti a una città, senza i suoi mercati? Quelli dove spii se ci sono ancora i sacchi del civaiolo o il

banco del vecchio contadino degli orti periferici, oggi sostituibili con le luccicanti collanine degli immigrati o magari dai prodotti bio, che arrivano da altri continenti. Due anni fa, l’ultima vecchia contadina esponeva al banco, oltre a modeste verdure, i rametti fioriti del suo calycanthus: il profumo dell’inverno, l’odore più stordente. Quel che manca invece ai mercatini folkloristici, pubblicizzati da agenzie di viaggio, per weekend che furoreggiano, operazioni di marketing, consumo di oggetti che tornato a casa detesterai a lungo. Alla fine non ti sto

Staino

di Alberto Severi

2

Segue dalla prima

di Milly Mostarini

Telefono a gettoni: quando non avevamo tanti trilli per la testa on ce le abbiamo mai avute, in Italia, delle belle cabine telefoniche come quelle inglesi, color rosso acceso, col tetto a cupola, simili a lanterne dei pompieri. Da tutelare, anche una volta esaurita la loro utilità immediata, come reperti d'arredo urbano old fashioned. No. Difficile, da noi, rimpiangere i brutti parallelepipedi Sip, poi Telecom, di vetro e plastica e alluminio anodizzato che deturpavano marciapiedi, giardinetti e aiuole spartitraffico dell'era pre-telefonino cellulare, insieme così prossima e così sideralmente lontana. Rese torride dal sole, soprattutto, risultavano invivibili: autentiche camere di tortura, spesso impregnate del fumo di sigaretta, o dell'afrore (che la calura quasi faceva fermentare) di qualche recente utilizzatore, talvolta ahinoi di urina, istoriate da sciatti pennarelli o da temperini turpiloquenti, inneggianti a parti anatomiche per lo più, ma non esclusivamente femminili, a squadre di calcio, a partiti politici di estrema destra o di estrema sinistra o di estremo centro. Eppure. Eppure anche lì, in quei brutti casotti puzzolenti, qualche volta era bello rintanarsi. Soprattutto magari con la pioggia. E far scivolare i gettoni nella fessura semicircolare che sormontava l'apparecchio telefonico a parete, in un' improvvisa, magica, eccitante intimità con la voce dell'altro. Che, dalla cornetta, anzi lì, nella cornetta, sembrava fisicamente condividere con noi quel minuscolo spazio, quasi ricreando in maniera astrale corporee vicinanze. Ma il vero luogo perduto che andrebbe proustianamente ritrovato era la cabina telefonica ospitata nel retrobottega del bar o nella hall dell'albergo. Grande e strutturata come una piccola edicola. Ovattata e insonorizzata con le sue pareti crivellate di buchi e imbottite di gommapiuma, conservava (assieme agli echi e ai relitti di mille conversazioni, afflati, ansie, lacrime, baci, minacce, recriminazioni)

gli anniversari di matrimonio. Lì tutto ha un senso: la piccola piazza quadrata, le sedie grigie, il nome del ristorante: "Grano". Antico e semplice. Come si conviene a un luogo. VIII I luoghi a differenza dei non luoghi sono lì per raccogliere la nostra storia. Hanno odori, spessori, inciampi. Ci accettano anche se siamo grassi o troppo magri. Anche se siamo confusi e non obbediamo ai segnali. Nei luoghi si abita, si lasciano tracce, si raccolgono testimonianze. Nei luoghi vivono persone diverse magari capitate lì per caso e rimaste per un tempo che nessun display è in grado di misurare su un cartellone elettronico. Marc Augè li ha chiamati i luoghi antropologici. Per chi li conosce e li abita sono semplicemente luoghi umani. IX "Una volta l'uomo aveva un' anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano". Stefan Zweig, "Il mondo di ieri", 1941.

Non si può vivere in una città dove non ci sono le campane

Gesti teatrali

N

doveva andare da Ikea perchè ha lasciato la macchina nel parcheggio rosso che è di Auchan? Quello di Ikea è blu scuro, ma non si confonda con Decathlon che invece è azzurro". E adesso? P.S.: Ho scoperto che in un mall nascondono le indicazioni perchè se un consumatore si perde fra la merce forse compra anche cose che non aveva previsto. Geniale. VII Una sera triste ed estiva mi son seduta con mio fratello a un tavolino di un ristorante italiano in una piazza piccola e quadrata del centro di Roma. Abbiamo mangiato cibo che conoscevamo. E parlato fino a tardi. Fino a quando tutti erano scomparsi, tranne il proprietario seduto con un amico in un altro tavolino. Invece di mandarci via ha aperto una bottiglia , ci ha invitato al suo tavolo, ci ha offerto del vino. Siamo restati ancora e da allora per sempre. Siamo diventati amici e il suo ristorante è il mio ristorante. Mi fido di lui e del suo cibo. Lì ho festeggiato i compleanni, la partenza di mia figlia per l'estero,

puzzi e profumi di tanta gente, macerandoli in un'unica fragranza dolciastra di fondo: il famigerato odore di umanità. E sembrava una sorta di uterino e laico confessionale, dotato alla bisogna, premendo un interruttore, di luce soffusa e discreta (ma c'era chi, buongustaio delle emozioni, preferiva restare al buio). Quasi sempre, si era sollevati dall'onere dell'inserimento dei gettoni, e il telefono era a scatti, calcolati da un contatore a parete che il gestore del bar o un inserviente azzeravano e riavviavano ad ogni utilizzo. Ma il non plus ultra si dava se e quando il luogo conservava anche il gesto – teatrale, si capisce – dell'inserimento nel telefono, come in un salvadanaio, del gettone. Marroncino-bronzeo, opaco e scanalato, il gettone monetizzava la conversazione, la ponderava, e istituiva una sorta di economia della parola. Col rumore metallico del suo precipitare nel ventre dell'apparecchio, a scandire il tempo trascorso e quello residuo – allegoria della vita stessa – , assegnava ad ogni frase il suo peso, la sua importanza, quasi a scoraggiarne e contenerne la dissipazione. Quel gesto, in quel luogo (entrambi perduti, spazzati via ormai da alcune generazioni di cellulari e iphone) racconta un'epoca ancora priva di trilli per la testa, di suonerie per-Elisa o besame-mucho a infestare le strade, di irritanti vociferanti imbarazzanti conversazioni inflitte coram populo, con o senza vivavoce o auricolare, di parole prive d'argine e di misura, buttate via a vagoni come se non costassero nulla, solo perché si è contrattato un profilo d'utenza vantaggioso, mentre invece bisognerebbe pur sapere che le parole, tutte le parole, un prezzo ce l'hanno sempre. E se non ci sono, a ricordarcelo di volta in volta, un gesto, un gettone, il teatro, la letteratura, l'arte e la buona politica, si rischia di pagarlo tutto insieme, alla fine. Molto molto salato. Come difatti sta accadendo. Sipario.

parlando di grandi temi, paesaggi da difendere e monumenti da salvare dalle rapine, questo lo fa meritevolmente il FAI, lo fa il combattivo Salvatore Settis. Ti parlo di patrie del cuore, ce ne sono tante, lontanissime o vicine, come la pergola del glicine bianco e lilla del nonno (chissà se c’è ancora). Puoi cercarle, riconoscere i posti. Conservare in te odori, suoni, silenzi, colori di cento luoghi della mente, rievocati anche da un viso, una parola, un canto. È una piccola resistenza quotidiana, in un mondo alieno. È fatta, sei un umile cittadino del mondo.


Lasciate che i bambini

Provocazioni

L’Aquila tre anni dopo: la resurrezione non esiste

E l’Operazione Guggenheim cambiò la vita di Bilbao

di Tomaso Montanari

di Luigi Settembrini

S

N

ono passati tre anni dalla notte del 6 aprile 2009: quella notte in cui all’Aquila morivano in trecento e otto, mentre a Roma gli sciacalli in colletti bianchi sghignazzavano, pregustando la pioggia di cemento e denaro. Quest’anno il 6 aprile è venerdì santo: ed è giusto così, perché all’Aquila è ancora passione, croce, morte. Di una qualsiasi resurrezione, nessun segno. Anche così, tuttavia, l’Aquila può generare vita. Può, ad esempio, farci capire quanto sia decisivo il rapporto che c’è tra la forma dei luoghi in cui viviamo e la nostra identità, la nostra cultura, la nostra felicità, e perfino la nostra salute fisica. All’Aquila, la Protezione Militare di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi ha letteralmente deportato ventimila cittadini del centro storico monumentale in diciannove insediamenti chiamati C.A.S.E: complessi antisismici sostenibili ecocompatibili. Si tratta di non-luoghi senza forma: socialmente insostenibili (non hanno centri di aggregazione, né servizi, né identità) e ambientalmente devastanti. In questo sprawl di cemento (che ha distrutto per sempre una gran quantità di terreno agricolo) bambini di tre anni sanno cos’è una C.A.S.A., ma non sanno cos’è una città: futuri non-cittadini, perfetti per la non-società immaginata da Berlusconi. A qualche chilometro di distanza, l’Aquila ha perso la sua forma. Il centro monumentale – grande e bellissimo – è ancora sventrato, deserto, spettrale. La lenta agonia a cui un’incuria criminale sta condannando la città fatta di chiese, di palazzi, di strade, di piazze e delle più umili case è insieme causa ed immagine dell’agonia della città fatta di persone. E la separazione tra le persone ingabbiate dal cemento e i monumenti abbandonati alla rovina è una sentenza di morte. La Costituzione grida che “la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione”. E non lo fa per amore del passato: ma perché quel patrimonio è il nostro comune progetto per il futuro. La forma delle città è la forma della nostra cittadinanza: è per questo che salvare Il Duomo dell'Aquila scoperchiato dal 6 aprile 2009 l’Aquila è questione di vita o di morte. Per l’Italia, non per l’Aquila.

el 1993 Germano Celant mi invitò a curare una sezione della sua mostra The Italian Metamorphosis 1943-1968 al Guggenheim di New York. Inaugurata nel settembre dell’anno successivo, l’esposizione ebbe un notevole successo di critica e fu visitata da oltre 400mila persone. Durante i mesi che mi impegnarono in quel lavoro ebbi modo di approfondire la conoscenza con Thomas Krens, a quel tempo padre/padrone del celebre museo americano. Spesso la mattina, nel suo studio, prendevamo una di quelle acque calde che gli americani spacciano per caffè. Krens sedeva dietro una scrivania gigantesca, appena giusta per la sua spropositata statura. Molto diretto, Krens difendeva una sorta di timidezza (o riservatezza o scontrosità), dietro gelidi occhi azzurri e una perpetua aleggiante ironia mezzo pungente e mezzo benevola. Mi parlò di un’idea. “Sto pensando a un Guggenheim anche in Europa. E’ assurdo far nascere e morire idee nello stesso posto e non tentare di esportarle, farle girare. Nei caveau ho opere d’arte straordinarie, dirigo un museo che è un grande marchio della cultura internazionale, che ne pensi? E questo Guggenheim europeo dove lo faresti? In che paese? In che città?”. Non ebbi bisogno di riflettere. La città? Ovviamente Firenze. Lo spazio? Ovviamente Palazzo Strozzi, cubo perfetto rinascimentale, in quegli anni sede assai malmessa di eventi casuali. A Krens l’idea piacque. Fui incaricato di portare alla città una proposta che in sintesi prevedeva: 1. Strozzi sarebbe divenuto una sede espositiva internazionale, gestita dal Guggenheim, che vi avrebbe realizzato almeno due mostre l’anno. 2. La joint-venture, interamente a spese del museo americano – comprese quelle necessarie per le numerose ristrutturazioni e modifiche da apportare agli interni espositivi - si sarebbe chiamata Strozzi-Guggenheim e sarebbe durata dieci anni. Al termine di questo periodo il Comune di Firenze avrebbe avuto il potere di decidere, unilateralmente, se rinnovare l’accordo per un altro decennio oppure concluderlo. Il sindaco Giorgio Morales si entusiasmò, entrammo in contatto con la proprietà di Strozzi che apparteneva a una compagnia assicurativa, cominciammo insomma a lavorare. Ma a Firenze c’è sempre un ma. “Non abbiamo alcun bisogno di venderci agli americani” dichiarò Antonio Paolucci, allora potente sovrintendente ai beni culturali di Firenze e Toscana, in seguito ministro dei beni culturali, oggi direttore dei musei Vaticani. La fine della storia – da quel momento sono passati la bellezza di diciotto anni - è nota. Krens trovò un accordo con Bilbao, incaricò Frank Gehry di progettare e costruire una sede espositiva. Inutile aggiungere che la nascita di quel Guggenheim (1987) riuscì a cambiare il destino della città spagnola. Da luogo perfettamente ignoto a importante centro d’arte contemporanea. Ricordo il commento epigrafico di Krens: “Voi fiorentini non ricordate più quanto foste internazionali. Oggi non sapete più a che serve Firenze”.

Dentro il museo

Contraddizioni

Diversità è la chiave per il futuro del nostro pianeta

Profumi e odori, il senso della memoria del futuro

di James Bradburne

di Felice Cappa

B

efore information technology, distance functioned for human awareness much as it does for our knowledge of the stars. The further away the object, the longer its information took to reach us – the light of the stars we see in the night sky can actually be millions of years old. If we could approach a distant star at greater than the speed of light, we could actually go back in time, or at least trace the light back to its origins. In the same way, when information also took time to reach beyond its source, it meant that if one could travel towards the source faster than information itself, one could travel back in time. One way of looking at globalisation is the near elimination of distance as time. In Murray’s Handbook for Japan, first published in 1891 one reads: ‘If by doing Japan be meant hurrying through its chief sights, the globe-trotter can manage this in three or four weeks [...] He who is bent on more serious observation will not find four months too much;’ At the beginning of the 20th century, given the difficulty of travelling more than ten ri (about 30km) in a day by jinrikisha, or slightly further by unreliable and infrequent steam trains or packet steamers, Japan’s map was full of small towns and Shinto temples waiting to be discovered, new sights, sounds and tastes to be experienced. Local cultures varied from province to province, even from town to town – some more Buddhist, other Shinto, still others a unique mix due to long separation by sea or mountains, an isolation exacerbated by Japan’s own retreat from the world since the sakoku (isolation) which began under the Shogunate in 1635. Turning Japan into a cultural Galapagos had the effect of radically increasing the country’s cultural diversity, allowing countless cultural eco-systems to flourish. Seeing Japan in 1907 was like seeing Canada from a bicycle in 1979 – something to be savoured, in the knowledge that hurrying was not going to get you anywhere any faster. It is easy to imagine that we are just witnessing another of the many inevitable changes brought about by new technology and economic growth, and that the current globalisation is as inevitable and as innocuous as the transition to the electric light bulb, the motor car or the airplane. Certainly as recently as even thirty years ago, travel was very different. In Paris the French still spoke French, smoked Gauloises, and the squat toilet was still ubiquitous. To travel meant to confront cultures different than one’s own – sometimes shocking, sometimes exhilarating, but coherent, and above all, different. This has all changed with the compression of the time it takes to travel. Travel is no longer measured in the time it takes for a jinriksha to travel in a day, nor in farsakhs by foot, horse, mule or even Model A Ford. Even China – so far away in the 16th century that it took Matteo Ricci’s letters to his parents

in Venice seven years to arrive – is now at everyone’s doorstep, a mere ten-hour flight away. When you arrive, however, what is striking is no longer the difference, but the sameness. Twenty years ago I walked down the Nanjing Road to the Peace Hotel – then the tallest building in Shanghai – anxiously deciphering the Chinese characters on the street signs in order not to lose my way. Now, since the 2008 Olympics and the 2010 World’s Fair everything is subtitled in English. The Nanjing road itself is now pedestrianized and looks like Times Square or Piccadilly Circus, write large and (at least partly) in Chinese. It is infested by clusters of young people selling fake Rolex watches, fake Vuitton bags (like the real ones, paradoxically made in China anyway) or in some cases (at least presumably real) themselves: ‘Hi, where you going? Where you from? Too early go home, wanna buy me a beer?’ Even the cuisine is no longer reliably local. Recently, at the suggestion of an English colleague, I booked a table at M on the Bund, an expensive restaurant few blocks from the Peace Hotel, renowned for its view of the nocturnal Shanghai skyline, naïvely expecting the cuisine to be Chinese. To my surprise, the menu was Moroccan – so I ended up contemplating the new Manhattan-like skyscrapers of Pudong, alive with animated neon advertising, whilst eating mezze and an admittedly excellent chicken tajine. Contemporary tourism has been reduced to listlessly browsing the merchandise – whether it be products, people or culture, although the only culture generally accessible to the tourist without knowledge of the language is the museum – more listless browsing objects one cannot even buy. Much as the ubiquity of music of all kinds has rendered us deaf to music, the same has happened to travel – everything blends seamlessly into a homogeneous single experience. This simultaneity of contemporary experience – we listen to the same music, buy the same products, can even speak to anyone anywhere wherever we are – serves to flatten everything. Experience has become tasteless, in every sense of the word, as we converge on the single common denominator of the globalised marketplace, where everything has a price, and everything is for sale, right now, wherever now may be. Globalisation is the enemy of diversity, and punctures the fabric, first of the family, then of the community, finally of our shared culture itself. The key to the future of the planet – and for culture – is the same. Diversity. Only diversity can guarantee sustainability. Let us hope that the reduction in diversity brought about by globalisation does not render humankind dangerously fragile and vulnerable. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

L

a memoria è un luogo sospeso tra presente e passato, ma qual è la memoria del futuro? Il tema della memoria ha assunto una straordinaria importanza soprattutto per la contraddizione che viviamo dall’Ottocento ad oggi. La possibilità tecnica di registrare e riprodurre immagini e suoni – dopo che per secoli si potevano riprodurre solo parole – ha permesso di dilatare all’infinito l’archivio della memoria. Con la nascita della fotografia, prima, e del cinema e della televisione poi, la memoria è disponibile non solo come discorso affidato alla scrittura, o come immagine prodotta dalle arti figurative, ma come riproduzione della realtà (se pur relativa) grazie alla ripresa dal vivo e in diretta. Ma, a questa accumulazione esponenziale di frammenti di memoria, fa da contrappunto la velocità con cui si producono e si consumano le informazioni e le diverse forme di produzione culturale, una velocità che tende a sovrapporre continue stratificazioni, quando non procede per successive rimozioni, dovute, essenzialmente, all’accelerazione del fattore tempo. La possibilità individuale di raccogliere tutto quello che ha interessato la nostra vita, tutto ciò che ha nutrito il nostro immaginario, deve fare i conti con una quantità enorme di informazioni e produzioni impossibili da conservare e gestire in privato. La vita degli uomini del Novecento è stata sempre più sollecitata da una molteplicità di esperienze che hanno forzato i confini della comunità di riferimento, quella fisicamente esplorabile (il quartiere, il paese, la città), per coinvolgere comunità sempre più ampie e virtuali grazie ai circuiti dell’industria culturale e dell’informazione mediatica. La memoria di un uomo del terzo millennio è sempre più in relazione con una comunità globale, i suoi ricordi e le sue esperienze sono fissate sempre più frequentemente e in modo pervasivo in archivi collettivi di cui si riesce a verificare e controllare sempre meno la correttezza dei dati e il loro utilizzo. Non a caso per il web si utilizza la metafora della rete, ognuno di noi è un nodo, in una progressione infinita di maglie che non si sa dove cominciano e dove finiscono. Per ricostruire pezzi della nostra vita, anche del passato prossimo, non solo di quello remoto, siamo sempre più costretti a utilizzare la memoria collettiva, depositata nei giganteschi server che conservano le tessere di un mosaico così grande che spesso ci dà un senso di smarrimento. Difficile cogliere il disegno complessivo, ma è indispensabile farlo, almeno per la parte che immediatamente ci riguarda, per riuscire a collocare il nostro parziale frammento di vita nella contemporaneità. Wikipedia e You tube sono esempi eclatanti a tal proposito e sono diventati archivi di archivi in una serie di rimandi senza soluzione di continuità. Ma se tutto questo vale per immagini, parole e suoni, per i profumi e gli odori, per il gusto e per il tatto non c’è altro che la memoria individuale, intima, personale ed è forse qui che, ancestralmente, ripeschiamo il senso profondo dell’essere che va oltre l’uomo e forse può ancora riconciliarci con la vita nel suo senso più ampio e indefinito, ecco, forse proprio qui, risiede la memoria del futuro.

Mercato

di James O'Mara

3



ser vi amo


Olé!

di Pilar Roca

Prospettive

6

Gatti

Una stella a Firenze

Agli Artigianelli non si grida “vergogna”

Arnie and Soot sul Frecciarossa

San Miniato senza scala mobile

di Raffaele Palumbo

by Kate McBride

di Stella Rudolph

T

F

I

iziano Terzani quando passava davanti ad una famosa multinazionale dell'abbigliamento che in via Tornabuoni aveva presto il posto di una storica libreria, apriva la porta di ingresso, ficcava la testa dentro e gridava: “Vergogna!”. Ma quando si parla della battaglia per la difesa dell'antropologia di un luogo, non ci sono solo brutte notizie. Ci sono anche pericoli scampati. Incontro due signori in un posto, un luogo di Firenze che per età e provenienza non conoscevo. Il posto si chiama Istituto Pio X Artigianelli, in via dei Serragli, sorto all’interno dello storico complesso monastico dedicato a Santa Elisabetta e Santa Maria Maddalena e denominato delle convertite. Un posto enorme, nel cuore di San Frediano, a due passi da Porta Romana, da piazza Pitti, Boboli ed altre meraviglie. Un boccone estremamente ghiotto e appetitoso. Una storia su cui qualche furbetto del quartierino aveva già allungato gli occhi e su cui si preparava ad allungare le mani.Ah, dicevo i signori. Si chiamano Giovanni Pallanti - in passato segretario della Dc fiorentina, tra le poche a non essere state toccata da Mani Pulite e poi vice sindaco - e Roberto Izzo, Consigliere degli Artigianelli. Mi raccontano la storia dello scampato pericolo. Il posto era stato fondato nel 1901. Case popolari, la scuola, le botteghe artigiane per produrre e prima ancora per insegnare il mestiere. Una cosa curiosa, per i tempi che corrono: un istituto privato per i poveri, gli orfani, gli indigenti, le persone in difficoltà. Gli anni '50 e '60 sono gli anni di una figura mitica, ovvero monsignor Bruno Panerai. Un punto di riferimento per il quartiere con una funzione sociale fortissima. Poi il declino lento e inesorabile dagli anni '80 in poi. Il complesso degli Artigianelli aveva il destino segnato. Doveva essere interessato da una grande speculazione edilizia, da una ristrutturazione che lo avrebbe reso identico ad altre numerose residenze, doveva far fruttare un bel po' di quattrini. Così non è stato. Soprattutto grazie a quelle persone che - come Giovanni Pallanti - negli Artigianelli ci sono cresciute. Da qualche anno infatti gli Artigianelli stanno risorgendo, con la ristrutturazione di case popolari, e - tra le altre cose - con l'Atelier degli Artigianelli, che ha come finalità principale quella “di diffondere, tramite l’insegnamento e l’incontro con esperti e professionisti, le conoscenze dei mestieri artigianali”. Un posto di cui andare fieri, dove per fortuna - caro Tiziano - nessuno avrà modo di passar davanti e di gridare: “Vergogna!”.

rom all reports, Arnie and Soot left Florence for the time being. We imagine they boarded the high-speed train for Milan to follow their friend Maria Cassi to the Teatro Franco Parenti where she performs her famous show Crepapelle. All along the way, our due gatti peer out the window of the train and watch the countryside fly by. Almost blurry, the images mix up with the reflection of their own faces in the glass. Outside the city of Florence, the chestnut-covered mountains of Mugello loom. Thoughts of chestnut-infused honey, chestnut flour, pasta filled with chestnut paste and roasted chestnuts enter their taste buds. Next, the plains of the Po. Is that a bright red Ferrari or a bright red Ducati or a bright red Maserati or a bright red Lamborghini flashing by in the distance? Now thoughts of aged Parma cheese, aged balsamic, aged ham and aged opera singers enters their minds. Hungry, they find a snack in the bar car of the train before arriving at the central station of Milan. They wait patiently by the exit, surrounded by piles of suitcases and clamoring feet. The moment the door sucks open, the excited pair leap from the train onto the platform and race one another through the city’s streets to the theatre. Just in time, they settle into their velvety red seats as the lights dim, the crowd lets out a cheer and claps wildly in anticipation of Maria entering the stage. ■ Traduzione in francese su ambasciatateatrale.com Photo by James O’Mara

non luoghi (termine coniato da Alain de Botton), come aeroporti o centri commerciali ove passano frotte di gente senza lasciare traccia, si differenziano da quei luoghi talmente vissuti lungo i secoli da recarvi un’impronta che si può definire antropologica per l’apporto dell’urbanistica, opere d’arte e coltivazioni, ecc, che hanno plasmato vita ed immagine di città, borghi e paesaggi. Per esempio qui a Firenze c’è un angolo segreto che ci restituisce pressoché intatto l’antico rapporto intra moenia/extra moenia fra il centro storico e la campagna adiacente: ovvero l’amena passeggiata che si può fare appena usciti dalla porta di San Miniato, costeggiando quel tratto delle mura trecentesche rimaste Oltrarno fino al Forte di Belvedere in cima alla collina che sovrasta, con un’impareggiabile veduta, la città. Un percorso vieppiù memorabile se si devia pure nella nascosta, parallela valle della Carraia ove è subito campagna con ulivi, frutteti e orti coltivati (il tutto in fiore in questa stagione): eppure si tratta di un tessuto fragile, anzi, forse a rischio. Un anno fa l’assessore alla cultura del Comune lanciò la proposta di collocare una scala mobile accanto a quelle mura per invogliare i turisti a salire più comodamente al Forte. Siffatta iniziativa, qualora realizzata, romperebbe definitivamente l’incanto di questo raro nesso tra centro e campagna (ben documentato sin dall’assedio delle truppe di Carlo V nel 1529-30: gli orti dentro e fuori le mura rifocillarono i cittadini come le fortificazioni ivi allestite da Michelangelo li proteggevano), inserendovi un tipico elemento dei non luoghi. Ma è proprio necessario arrivare a tanto per acchiappare un turismo pigro, spesso sbadato, a scapito di un lembo ancora vergine della nostra memoria storica?


Mercato

Da Tel Aviv

di James O'Mara

C’è il bigliettaio come sui vaporetti a Venezia di Sefy Hendler

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Dylan Bob Lato B, seconda traccia: il minuto più bello regalato di Marco Poggiolesi

D

ura un minuto esatto, esattamente dal quarto minuto e venticinque secondi della seconda traccia del lato B. E’ uno dei minuti più belli della musica italiana dove la voce si fa strumento e cresce superando tutto ed è potente e sembra proprio fare l’amo-

Dall’Armenia

re con la musica. Come il clarinetto jazz che conoscevi bene, come la lacrima dell’attore, come la valigia del cantautore e la grazia del ballerino. Potessi esprimere un desiderio vorrei tornare indietro nel tempo, nel 1980, ed assistere alla session durante la quale registrasti

quel minuto finale regalandolo alla storia della canzone. In quell’anno il tuo disco fu il più venduto e contiene molti dei tuoi più grandi successi. Forse non a caso lo hai intitolato proprio con il tuo nome: Dalla. Buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia.

Il popolo del blues

Il tavolino dove si fa il pane della festa

Firmato Lester, l’articolo che graffiava quelli del rock

di Sonja Orfalian

di Giulia Nuti

Շատ հին ժամանակ գիւղացիները սովորութիւն ունէին գործածելու ցած սեղան մը՝խմոր շաղելու համար, որ կ'անուանէին խոն: Մեծ պապան այդ սեղաէնէն հատ մը շինած էր եւ լաւ տէր կ'ըլլար: Ան տարին միայն մէկ անգամ պահուած անկիւնէն դուրս կը բերէր խոնը, աիդ ալ Զատիկի առիթով երբ ամեն որտեղ կարող ես լսել Քրիստոս յարեաւ ի մեռելոց Օրհնեալ է Յարութիւնն Քրիստոսի ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Classika

T

rent'anni fa, nell'aprile 1982, moriva - non certo per buona condotta - uno dei giornalisti più oltraggiosi e anticonformisti della storia del rock. Anzi, probabilmente, l'inventore assoluto di un certo tipo di giornalismo rock. Si chiamava Lester Bangs, all'anagrafe Leslie Conway Bangs. Per i cinefili Lester, nella finzione cinematografica, è il robusto giornalista interpretato da Philip Seymour Hoffman a cui il giovane Wiliam Miller, nel film Almost Famous, si rivolge per intraprendere la propria carriera. Bangs, americano,

Mercato

ha scritto per Rolling Stone e per Creem. Cominciò la carriera con la stroncatura di un disco degli MC5: sarebbe stata solo la prima di un interminabile elenco. Non era uno stinco di santo. Era quanto di più fastidioso e irritante si potesse incontrare sul proprio percorso, specialmente per un musicista che si confrontava con le sue parole. E' noto per gli artisti che amava, ma anche, e soprattutto, per quelli che odiava. Il suo rapporto controverso con Lou Reed è motore di numerosi dei suoi scritti. Jim DeRogatis gli ha dedicato una bella bio-

grafia, in italiano si intitola Firmato: Lester Bangs. Minimum Fax ha pubblicato in tre volumi le antologie dei suoi testi. A leggerli oggi, nel mare magnum dei dischi da tre stelle su cinque, sembra incredibile che articoli così venissero pubblicati. Pagine totalmente irresponsabili, si direbbe. Fatto salvo per la più scomoda delle responsabilità: prendere posizione. A trent'anni di distanza sono ancora un bel monito per tutte le volte in cui il giornalismo di opinione scivola verso un giornalismo senza opinioni.

di James O'Mara

Villa Romana, sembra di stare a Oslo di Gregorio Moppi

U

na scheggia d'Europa fuori porta. Dove Firenze è un po' meno Firenze, e quasi quasi sembra già di stare in campagna anche se siamo appena sul san Gaggio. E' lì che, prima di scollinare, sulla destra, si avvista Villa Romana. Ritrosa, lei si mostra malvolentieri; bisogna, noi, andare a cercarla. Tana di giovani artisti tedeschi da più di un secolo, ha sempre occhieggiato la città sottostante, impermeabile però a quanto vi accadeva. Né, d'altra parte, lei si è mai concessa. Ma da una manciata d'anni qualcosa è cambiato. Un giorno ne hanno varcato il cancello due musicisti fiorentini, Emanuele Torquati e Francesco Dillon, trentenni dalle antenne drizzate su ciò che di dinamico e inebriante succede nella musica d'oltralpe, anche perché loro stessi partecipano di questa vitalità. La direttrice lungimirante gli ha prestato orecchio. Una fondazione bavarese ha investito sulla loro idea, con l'intesa che metà dei soldi (10 mila euro: segno che perfino da pochi quattrini, se innaffiati dalla creatività, possono fiorire gemme) venisse impegnata nella commissione di pezzi nuovi. E da allora questa villa ci proietta in un altrove di meraviglia, verso la sperimentazione elettronica ed esecutiva, infrangendo frontiere geografiche e di genere. Mette insieme Sciarrino e il rock-pop, le arti plastiche con l'elettronica più spericolata e meno commerciale, teatranti e quartetti d'archi con esperienze di compositori-performer che lavorano in collettivi. Il pubblico poliglotta, quando lo spazio non basta più, si sdraia sotto il pianoforte o si riversa nel parco. Pare di trovarsi a Berlino, o a Parigi, o a Oslo. In posti dove la curiosità è più forte dell'abitudine.

7


acquifera.org

Ricetta

di Fabio Picchi

D

io entrò nel Supermercato con suo Figlio a cui disse subito: “Cerca di star buono e non moltiplicare un bel niente!”. Linguine lasciate crude e condite con un su-ghetto di Varsavia variante infinita di altri su-ghetti tipo l'americano Harlem anche se l'imbattibile rimane almeno per me il su-ghetto di Roma che copre la nostalgia per lo scomparso su-ghetto di Firenze. Tutte ricette di uomini senza senso pronti a costruire e distruggere città cantando “Gott mit uns”.

Pieni d’Islam Il muratore e la moschea del Venerdì

Un verre de vin rouge

di Giovanni Curatola

di Ugo Federico

U

stad (maestro) Tajmir me lo ricordo bene. L’ho conosciuto a Isfahan, in Persia, la città più bella e importante del Paese, quella che senza esagerare si considera la Firenze d’Oriente. Era un capomastro muratore che lavorava al restauro del monumento più insigne, la locale moschea del Venerdì, fra le prime costruite dai musulmani, una straordinaria enciclopedia di tecniche architettoniche, fantastica soprattutto per le strutture dell’anno Mille. Tajmir era affascinato dalle volte interne delle cupole in mattone (circa 180 diverse soluzioni decorative), e più di una volta mi ha mostrato come farle: solo con mattoni e un’ottima malta a presa rapida, e un grande occhio, il segreto tramandato da generazioni (e, magari, anche il Brunelleschi aveva lo stesso materiale e lo stesso capomastro). Mattoni qualsiasi, la malta, e il tempo della messa in opera: mica semplice il mix fra niente fretta e nessun indugio. La moschea sta in piedi – contro le ferree leggi della statica insegnate da sapienti ingegneri – da più di mille anni. E’ un luogo senza tempo costruito dal tempo. Tajmir lavora ancora e insegna a chi vuole sentirlo la semplice e raffinata arte del mattone. In certi Paesi sarebbe un patrimonio dell’umanità vivente; nel suo piccolo credo che si accontenti di tenere viva la nostra tradizione millenaria, quella del tempo, nel tempo. E meno male.

L

a giornata sarà molto lunga, e sono certo che ad un certo punto avremo bisogno di una piccola pausa. Sono le due, la stanchezza si fa sentire quindi decidiamo che è arrivato il momento di sedersi un po', magari con un produttore che ci racconti la sua storia. Ed è così che abbiamo conosciuto Stella di Campalto, madre dell'omonimo Rosso di Montalcino e del suo fratellone Brunello. La famiglia ha acquistato il podere di San Giuseppe, fazzoletto di terra di 15 ettari (6 di vigneto), a Montalcino negli anni Novanta dove è iniziato un percorso lungo e difficile ma pieno di soddisfazioni. Da sempre in agricoltura biologica, dal 2002 in biodinamica i suoi vini hanno il carattere e l'eleganza di una donna che con passione e dedizione ha trasformato il suo sogno in realtà. Nel calice un rosso rubino luminosissimo, con profumi di fiori secchi, frutta sotto spirito e liquirizia. In bocca, fine e persistente, con tannini morbidi perfettamente integrati. Il suo Brunello 2006 può essere definito unico, per me emozionante. Bevuto a Verona in compagnia di Stella.

L’orto

Di line e di lane

Cinema

Quel grimaldello spuntato

La Madre di tutte le fontane

di Pietro Jozzelli

di Juan Pittaluga

F

L

orse il segno più evidente della crisi del nostro modello di vita associata è la grande difficoltà, per non dire l’impossibilità, di dare allo spazio pubblico la flessibilità che l’evoluzione della nostra psicologia pretenderebbe. Vorremmo modificare la geografia e l’anima dei luoghi facendole diventare la proiezione dei cambiamenti che intervengono dentro di noi; ma lo spazio fisico resiste e anche quel gran grimaldello che per due secoli ha funzionato a dovere come strumento di cambiamento, cioè la democrazia, sembra oggi un’arma spuntata, corrotta. Resta, a portata di mano, lo spazio privato, le dimensioni personali che diamo alle stanze che abitiamo, ai luoghi dove scegliamo di vivere. Ma è una soddisfazione a metà: se lo spazio pubblico è dominato, ad esempio, da un Ceausescu (o da qualcuno troppo demagogico e autoreferenziale che considera lo spazio pubblico solo come un’estensione di quello suo privato) quale mai soddisfazione possiamo ricavare dal chiuderci nelle nostre stanze? La via d’uscita resta sempre la stessa: dare forza comunitaria alle nostre pulsioni politiche e culturali. Ma per adesso, sembra soltanto una motivazione razionale, poco più che una illusione.

a première fois que j'au vu la Fontana di Trevi en 1980 je l’ai trouvé trop baroque et pas très jolie. Six mois plus tard j’ai vu la Dolce Vita où Fellini met Anita Ekberg et Mastroianni dans l’eau de cette Fontaine. Et ce lieu est devenu magique pour moi. Cela avait été tourné vingt ans plus tôt au même moment où je venais au monde. Puis j’ai vu C’eravamo tanto amati de Scola, où Mastroianni et Fellini jouent leur propre rôle dans le tournage de la Dolce Vita face à la Fontaine. Nous sommes en 1974, 14 ans après la sortie du film, et la magie de cette séquence commençait à s’auréoler du mythe. Puis est sortie Intervista de Fellini en 1987 où lui même met ses propres acteur 27 ans plus tard devant les images de la Fontana di Trevi. Mastroianni et Ekberg se regardent émus dans la scène où ils sont jeune est beau. Et cette Fontaine est devenu tout, c’est-à-dire le temps. Et aujourd’hui quand je passe devant, je m’arrête à vivre toutes ces étapes de ma vie ou de la vie de la Dolce Vita ou de celle du cinéma, et j’aime profondément cette capacité subjective qu’a eu ce film de transformer un lieu. Elle est belle la Mère de toutes les fontaines. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

L

ibero. Finalmente Libero, nel mio nuovo orto. Un pezzo di terra in piano tutto da progettare, a mia immagine e somiglianza. Il primo passo è stato quello di toglierlo alla natura, quella primaria, spontanea, nella quale difficilmente riusciamo a trovarci un ordine e per questo facciamo tabula rasa di tutto per arrivare ad un punto zero, un ordine che ci dà pace. Un apparente disordine di arbusti e fiori, erbe spontanee e siepi naturali, da eliminare a brutto muso. Da li ripartiamo per riorganizzare il tutto, il nostro nuovo ordine da esibire. In pieno inverno allora tiro i solchi, dritti, linee di terra marroni annerite dalle strisciate di letame maturo, infine il rosario dei piselli messi in fila. In primavera le linee verzicano per lo

di Stefano Pissi spuntare delle foglioline, allora è il momento di rincalzarle terra, di eliminare le erbe indesiderate attorno, di sistemare le reti per farli rampicare e via e via fino ai frutti desiderati. E penso che, quando la mia natura di uomo che controlla cesserà di essere, ricomparirà subito la natura del disordine, ben organizzato, nonostante il nostro sforzo benevolo. A rinforzo cito il poeta, Giorgio Bàrberi Squarotti: E marciranno i pali delle viti sotto il peso dei soli e delle piogge, fioriranno le ortiche in mezzo ai peschi trafitti dagli aghi delle vespe, senza filo di verde perirà il grano dentro il tufo... Da una morte apparente, la vita. Sempre. Buona Pasqua.

www.ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi Anno IV Numero 4 del 1/4/2012. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

Si ringrazia

conti capponi [conticapponi.it] Marchesi Mazzei [mazzei.it] PODERE VOLPAIO [poderevolpaio.it] Unicoop Firenze [coopfirenze.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer

Disegno di Lucio Diana


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.