L’eterna giovinezza di Milly Mostardini
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Un po’ di curiosità di Maria Cassi
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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
1° novembre 2012
ANNO IV • NUMERO
www.ambasciatateatrale.com
Morto che parla 1
Editoriale
di James O'Mara
Non mi sono mai sentito così vivo di N.N.
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ono morto, e quanto è vero i’ Dio, o chi per Lui, non vi dirò niente su chi fossi io. Niente sul quando è sul come, se ero di sinistra o di sinistra altra parte, se ero alto o basso, se partecipavo o ululavo il mio rancore nei bar sotto casa. Non vi dirò niente su chi fossero o sono i miei figli, mia moglie, nessuna indicazione su amici e tanto meno nemici. No, non vi dirò un bel niente per farmi riconoscere e, di conseguenza, giudicare per quel che ero. Dovrete solo prendere, senza alcun giudizio, quel che dico per quel che è. Morire è “un urlo di gioia” , morire è il nostro gol finale, è l’essere tifosi della propria vita. L’essere morto, tranne rarissimi casi come questo, mi permette di stare in silenzio a dormire, a leggere, sempre senza alcun disturbo. Vi immaginate la bellezza di questa eterna possibilità? Potere ascoltare tutta la musica che non avevo mai ascoltato, guardare tutti i film della Marilyn Monroe che mi ero perso, e fare infinite altre cose, mi è di assoluta soddisfazione. Ogni giorno mangio, senza fame ma con un discreto appetito ed estremo gusto, cose come il coniglio in umido, patate fritte, tortellini in brodo o ri-
Da Tel Aviv
“C’è per caso qualche nuovo libro in Yiddish?” di Sefy Hendler
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l Giudaismo crede che un giorno i morti risorgeranno. Accadrà con l’arrivo del Messia, magari anche domani. Tuttavia, finché quel glorioso giorno non arriverà, ci si dovrebbe preparare mentalmente, ma anche praticamente. Gli ebrei sono persone molto pragmatiche: ad esempio, ci sono quelli che comprano delle belle proprietà dove venire sepolti, che gli serviranno in quel giorno speciale in cui il Messia finalmente entrerà a Gerusalemme. Che significato ha per un morto una buona proprietà? Il capriccio di una sepoltura con vista mare? Niente affatto. Alcuni ebrei, i più accorti, scelgono di essere sepolti sul Monte degli Ulivi, proprio di fronte al cancello dorato di Gerusalemme, attraverso il quale il Messia farà ingresso nella città. Così facendo, sono sicuri che saranno tra i primi a risorgere quando questo giorno Segue a pag.2 finalmente arriverà.
dondanti lasagne alla ferrarese. Senza farmi mai mancare, ovviamente, generose macedonie, zuccotti e Fedore. Quando mi va, prendo una sorta di altalena, c’è sempre qualcuno disposto a darmi una spinta, e se poi non c’é nessuno, porto i piedi prima sotto il seggiolino e poi lancio le gambe decisamente in avanti e con un giovanile balzo atterro sempre in qualche cena, con amici indiani, cinesi, tailandesi o con chi mi pare ma sempre alla scoperta delle altrui meraviglie pensate e ottenute, che si tratti di cucina etiope o di sentimenti, o di poesia o di architettura, non tralasciando isole dai mari cristallini che da queste parti abbondano. I filosofi qua su se la ridono e i fontanieri se ne stanno con le mani in mano senza fare un bel niente di faticoso. Organizzano al massimo tornei di bocce con i dentisti, anche loro qui felicemente disoccupati. Insomma, per farvela breve, il Paradiso esiste, ma senza alcuna angelica retorica e senza alcuna incredibile divisione fra buoni e cattivi. E dove il “chi è senza colpe...” è l’unica verità rivelata. Tutto il resto rimane un mistero. Un bellissimo mistero. Segue a pag.2
Occhio di bue
Morto che parla 2
di James O'Mara
Editoriale
Segue dalla prima
Non mi sono mai sentito così vivo di N.N.
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nsomma io, insieme a tutti quelli che so no qui, tranne quei pochissimi che vengono reincarnati perché è meglio perderne così la memoria, morteggiando dormo e vivo (scusate la contraddizione) maturando coscientemente, nel piacere di cose pensate e fatte da voi, vivi-vivi. Si perché l’unica cosa che ci è negata a noi morti è la creazione. Tutti dobbiamo riposarci e godere di quel che già esiste senza alcuna tristezza, credetemi, ma anzi finalmente coscienti che è nel morire la vera grande lezione di vitalità. Qui ho imparato che è nell’approfondimento il vero intimo godimento creativo. E a proposito di godimento, smettendola così di parlare di cose troppo serie, non temiate, ve ne è per tutti i gusti. Io ad esempio aspetto mia moglie
ormai da anni, ma l’attesa mi è dolce in questo morir d’amore tutti i giorni. Insomma, mai mi son sentito così vivo da quando son morto. E ad essere sincero anche questo parlarvi dal mio oltretomba, mi piace assai. Ora devo andare, qualcuno, e non vi sto a dire chi, mi vuol portare a volare. Son certo che sarà bello essere libero come un uccello senza nessun fardello. Libero come mio fratello sole, libero come mia sorella luna, libero come mio padre, libero come tutti quelli che non ho conosciuto ma che come voi, tempo fa, hanno vissuto. Ah, dimenticavo, volete i numeri? Eccoli qua i cabalistici, quarantotto, ventisette, uno, cinquantuno, dodici, sulla ruota di Firenze, ovviamente.
In scena Comici fatti di sangue e Ticket Tac di Tommaso Chimenti
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una vita che si dice che il teatro è morto. È talmente morto che caracolla come uno zombie, rinasce dalle ceneri come l’Araba Fenice, si trasforma, tramuta, ha fatto di sé un dead man walking. Ma comunque c’è. La spina non è stata staccata. Quale medico ippocratico se ne prenderebbe la responsabilità? Quindi il morto-teatro cammina, come Lazzaro (lazzaroni si dice a Firenze per indicare i furfantelli; Lazaroni, ma con una zeta sola, era anche l’allenatore brasiliano di una Fiorentina anni ’90), è morto, ma risorge e si reincarna. Parla pure. Ballano anche, come le mortisecche messicane tra il sacro e profano, come in No sé sì (2 e 3 al Teatro di Rifredi), spettacolo di teatro-danza catalano (crema e cremare sono termini lontanissimi nel significato ma hanno la stessa radice) con la coreografa barceloneta Marta Carrasco ed il suo danzatore, un orsetto peloso che volteggia nei suoi 130 chilogrammi ma leggiadro come una farfalla. Il teatro giovane barcolla, ma non molla, certamente è vivo, respira con
Da Tel Aviv
Segue dalla prima
“C’è per caso qualche nuovo libro in Yiddish?” di Sefy Hendler
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uttavia, le preoccupazioni dei morti che aspettano di risorgere non sono solo materiali. La persona che meglio di chiunque altro ha spiegato questo fatto è stato probabilmente il romanziere ebreo Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978 per la sua “arte narrativa appassionata” in Yiddish. Nel discorso che tenne al pranzo del Nobel, egli cercò di spiegare come mai insistesse a scrivere nella lingua degli ebrei dell’Europa dell’Est, lingua che molti considerano inutile e senza futuro. “Le persone mi chiedono spesso: come mai scrivi in una lingua morta? Vorrei provare a spiegarlo in poche parole” disse Bashevis Singer. “Prima di tutto, scrivo storie di fantasmi e niente si addice
la maschera ad ossigeno, causa carenza di fondi e prospettive, forse vegeta e basta. La rassegna Zoom (al Teatro di Scandicci dal 6 al 12) ci porta le migliori realtà del settore, da tutta Italia con il furore e la trance agonistica della gioventù ribelle: Macelleria Ettore, Laminarie, Fibre parallele, Fosca. Si parla di morti, tra il serio e la facezia, con Comici fatti di sangue (9 e 10 al Teatro Puccini), la novità di Alessandro Benvenuti, come di cadaveri ne è piena la Trappola per topi (16 e 17 al Teatro Puccini) da Agatha Christie fino ai giorni nostri, un intramontabile brivido lungo la schiena, un noir senza paragoni. Morti sì, ma prima di cedere l’onore delle armi la Resistenza delle medicine e dei farmaci può salvarci, o almeno allungare il brodo: Ticket e tac (dal 20 al 25 al Teatro di Rifredi), con Anna Meacci e Katia Beni, è un viaggio, a loro modo commovente e autobiografico, ma anche tenero e allegro, nelle patologie, nelle corsie, nei camici bianchi. Sarà scontato, ma finché c’è vita c’è speranza.
ad una storia di fantasmi meglio di una lingua morta. Più la lingua è morta e più vivo è il fantasma. I fantasmi amano lo Yiddish e, per quanto ne so, lo parlano tutti”. Mentre tutti i commensali ridevano, il premio Nobel continuò: “In secondo luogo, io credo non solo nei fantasmi, ma anche nella resurrezione. Sono sicuro che milioni di morti che parlano Yiddish si solleveranno dalle loro tombe un giorno e la loro prima domanda sarà: c’è per caso qualche nuovo libro in Yiddish da leggere? Per essi, lo Yiddish non sarà morto”. Il morto che parla e che cerca anche un buon libro da leggere.
Huesos
Gesti teatrali
di di Pilar Roca
Gigetto chiuse la finestra per la sua Tina di Alberto Severi
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morti, si dirà, parlano solo nei sogni, a suggerire i numeri del lotto. Ma allora, scusate tanto, il 47, o, secondo altri, il 48 – corrispondente per la Smorfia napoletana appunto al morto che parla – dovrebbe uscire sempre... Mah. Comunque sia: nei sogni soltanto, parlano i defunti. O al limite, in televisione: come i soliti noti politici, presunti vivi, ospiti di qualche seduta spiritica porta a porta. Televisione, sogni. Qualche volta, il cinema. Dove i morti che parlano hanno le fattezze meravigliose di Marilyn o di Gary Cooper. Poi stop. Nella realtà, zitti e mosca. Davvero? No. Nella realtà invece pure, dico io. Almeno qualche volta succede. Parlano. E gesticolano (teatralmente). Da bambino passavo l’estate dai nonni, su in montagna, alla Traversa, un minuscolo paese accovacciato fra il passo della Futa e il passo della Raticosa, ai piedi di quella magnifica montagna granitica che era il Sasso di Castro, prima che finisse devastato dalle cave per la variante di valico e l’alta velocità. Raramente, ci andavo a passare anche il ponte di Ognissanti, che ancora nessuno, neanche in casa Veltroni, chiamava Halloween. Era, anzi, il ponte dei Santi, e dei Morti: 1 e 2 novembre, col 3 di ponte e il 4 festa delle forze armate. Quell’anno, sarà stato il ‘67 o il ‘68, anche la Tina, che assieme al marito Gigetto gestiva un bazar come ce n’erano allora nei paesi (vendeva pane, salumi, giornali, articoli di mesticheria, lana, tessuti, ferramenta), anche la vecchia Tina, in extremis, last minute, per così dire, volle partecipare alla grande ricorrenza dei Morti. E morì, all’improvviso, di una sincope, il 31 di ottobre. Io, che avevo sette o otto anni, andai, con la nonna, alla veglia funebre. Perché le veglie funebri mi affascinavano. Non solo e non tanto perché i gesti dei partecipanti, sulle sedie impagliate disposte lungo le pareti, avevano la dimessa solennità di una liturgia. Quanto, soprattutto, per la presenza, in mezzo alla camera, disteso sul catafalco, nella bara scoperchiata fra quattro candele accese, del protagonista. Il morto. O, come in questo caso, la morta. Chi ha detto che, volendoci vedere un lato positivo, morire resta comunque una delle poche cose che si possano fare agevolmente in posizione orizzontale? Ci scommetterei: Woody Allen. Brillante, ma mica vero del tutto. C’è morto e morto. La Tina, per esempio, era una morta molto dotata, naturalmente portata, si sarebbe detto, alla morte, quasi che nella vita vi si fosse preparata a lungo, coscienziosamente. Una morta convincente, insomma. Con attorno al viso, a conferirle l’aspetto grottesco di un uovo di Pasqua, o di un tizio col mal di denti nelle vignette umoristiche, quel fazzoletto annodato sulla testa che si metteva un tempo per impedire che la mandibola, cadente, facesse sì che al morto si aprisse la bocca. E cominciasse a parlare. Il che, per un morto, non sta bene, nella realtà. Solo nei sogni. Pertanto, la Tina era gesto. Gesto immobile, teatrale come pochi. Però taceva, siccome proverbialmente chi muore tace. Il vecchio Gigetto, però, non si dava pace. Gli occhi rossi e porcini, più del solito, ogni tanto si alzava a baciare tremante la mano gonfia della moglie defunta, e, ad un tratto, lo vidi trasalire. Avvicinò l’orecchio alla bocca chiusa del cadavere, annuì, e andò di fretta a chiudere la finestra, spalancata su un pomeriggio d’autunno tiepido come pochi, da estate di san Martino. “Ma Gigetto”, protestarono le donne. “Perché chiude? Fa caldo, e la Tina qui...” E non avevano il coraggio di aggiungere: “comincia a mandare un cattivo odore”. Lui scosse la testa, e indicò la moglie morta come a dire che era lei, che gli aveva detto di chiudere, perché... Chissà perché. Povero Gigetto, cominciava a sragionare. Le donne presero a sgranare il rosario, e io con loro: “Ave Maria... Santa Maria... Ave Maria...”. Ora, mi sembra che fu alla terza o quarta avemmaria che me ne accorsi. E sentii tutto il mio essere scosso dai brividi. Gigetto all’improvviso non piangeva più, anzi quasi sogghignò un sorriso complice, d’intesa, un sorriso che la Tina, per un attimo, pur serrata dal fazzoletto e dal rigor mortis, mi parve addirittura ricambiare, mandandomi il cuore in subbuglio. Di là, fuori della finestra chiusa, il vento aveva preso a scuotere i vetri nell’impannata. Ed era cominciato a nevicare - fitto fitto - in un turbine, gelido, di tramontana. Sipario.
Gatti Un gatto ha sette vite. O forse sono nove? by Kate McBride
A
round the Mediterranean, cats enjoy seven lives. You might also hear, “Ogni vita dovrebbe avere sette gatti”, “Every life should have seven cats”. We and Arnie couldn’t agree more. Across the English channel, Shakespeare increased the number of lives of the common cat by
two when Mercutio made his declaration to Tybalt in Romeo & Juliet. Tybalt: What wouldst thou have with me? Mercutio: Good king of cats, nothing but one of your nine lives. The ancient Egyptian reverence for our feline friends may have caused them to bestow nine extra lives based on the legend of the god Atum-Ra. In the guise of a cat, the Egyptian god traveled to the underworld and, once there, gave birth to eight other major gods. Swift and flexible, cats easily avoid injury and the loss of life from falling. They always land on their feet. The multiple lives of cats helps describe a swift recovery in a financial world. Financiers refer to a market getting back on its’ feet as a Dead Cat Bounce. ■T raduzione su ambasciatateatrale.com
Sintesi esaustiva Noi rintontiti dall’idea fissa dell’eterna giovinezza di Milly Mostardini
E
sce il numero 48: quante dita incrociate, segni di corna, toccamenti sotto e sopra la tavola, su ferro o legno, ogni volta che alla tombola usciva quel numero fatale. Oppure seguiva un silenzio sapiente, oppure dal fondo una serie di battutacce scaramantiche. Il 48 aveva un certo segno linguistico definitivo: come dire la briscola in due, contare quanto il 2 di briscola, l’asso pigliatutto, fare a tresette o poker con il morto. Cose impensabili, contro natura. Nel secolo scorso, la generazione che mi precedeva, pur in una famiglia piuttosto laica, era socia al completo dei Fratelli della Misericordia, quelli che in camice nero e cappuccio con i buchi per gli occhi accompagnavo i defunti nell’ultimo viaggio. Terrore di noi bambini. Poi il cappuccio venne vietato, come tutte le maschere. I grandi dicevano: “In Chiesa non ci vado mai, solo per accompagnare i morti. Quello va fatto”. E’ vincolante che dei morti si debba parlare solo bene. Se si vuol tirare un accidente, sarà meglio scaricarlo sulle generazioni in fasce, sul loro futuro, magari fino alla settima generazione, come suggerisce la Bibbia. Uno soltanto ha parlato di sorella morte, mettendoci un fiore. Ai nostri giorni è l’innominata, non per eleganza, ma perché si fa il possibile per rintontirci con l’idea dell’eterna giovinezza, la sanità totale, la bellezza inossidabile. Invece ho ricordo preciso di una ragazzina, appena più che adolescente, che d’improvviso fu sorpresa dal pensiero della propria morte, scoprendo che c’era già, inevitabile, da qualche parte. Allora pensai che sarebbe stata sempre con me, sarebbe cresciuta insieme a me per tutto un futuro, che mi auguravo lunghissimo e vitalissimo. Una compagna segreta e ignota, che mi auguravo fosse gentile, al dunque. Ora, guardandomi indietro, posso ripetere con il poeta: “Io penso a volte, che vita/che vita sarebbe la mia/se la Signora vestita di nulla/non fosse già per la via”.
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novembre 2012
...Apnea...
Pieni d’Islam
Emozioni
Totò e i numeri dell’abjad
Sorpresa: invece di scendere l’ascensore sale
di Giovanni Curatola
di Raffaele Palumbo
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n attimo, zac, e sono dall’altra parte. Come è successo, francamente non mi interessa nemmeno più. Quello che ora so è che mi ritrovo davanti a questo ascensore modernissimo, acciaio luccicante e led luminosi, con sopra la scritta inferno. Eh già, questo lo sapevo dall’inizio. Ho passato una vita a mangiare preti e a bestemmiare e a negare l’esistenza di Dio e insieme a maledirlo, per cui, cosa potevo aspettarmi. Però, la prima sorpresa è che - contrariamente a quanto mi ero immaginato - l’ascensore inizia a salire e non a scendere negli inferi. Prima sorpresa, perché dall’apertura delle porte, ne seguiranno molte altre. Tutto è luminoso. L’ambiente è accogliente, la temperatura perfetta. Sento con i piedi scalzi che sto camminando su
un tappeto fatto di prato, di un’erba alta, asciutta, soffice. Anche l’odore che c’è nell’aria è molto gradevole. Sento che tutti i miei sensi sono investiti da percezioni bellissime. La cosa mi fa estremamente piacere, anche perché ho capito che qui dovrò restarci un po’. E poi appare lei, la donna addetta all’accoglienza. Non è bellissima, di più. E’ il mio privatissimo sogno che si fa persona. La sorpresa iniziale diventa incontenibile stupore quando lei, quella della reception dell’inferno, passa a mostrarmi i miei alloggi. Che meraviglia architettonica, che gusto negli arredi interni. Le cose che amo, i quadri, i tappeti, i libri, una enorme cucina attrezzatissima.
Ri-cercata
Percorsi
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anta pazienza! “47 morto che parla!” che c’azzecca con l’Islam? Poco. Certo, in questi casi c’è sempre l’abjad, la scienza della numerologia araba, erede diretta o indiretta della Kabbalà ebraica. Ci si può provare: 4+7=11; 1+1=2, e otteniamo 47112. Poi sostituiamo ad ogni numero la corrispondente lettera fra le 28 dell’alfabeto arabo e otteniamo un termine incomprensibile, ma forse magico, esoterico, spirituale. Basta inventarsi qualcosa. Abjad (Alif, Ba, Jim, Dal) corrisponde all’est, da dove sorge il sole e tutto si origina; ma il numero più bello è il 5995 (che si ottiene dalla somma algebrica dei valori attribuiti a ciascuna lettera), perché al suo centro ha il 99 dei Bei nomi di Dio. Insomma potremo giocare con una smorfia islamica, non tanto per il lotto, quanto per scoprire i nomi e gli attributi degli angeli. Del resto ben prima del sudoku i quadrati magici numerici sono stati nelle civiltà semitiche per secoli, se non millenni, amuleti di indubbio richiamo e forza potente. Superstizioni, ovviamente, ma come diceva un certo Benedetto Croce: “Non è vero, ma prendo le mie precauzioni”.
Lei, perfetta, dopo avermi illustrato tutto e avermi assicurato che tutti sono qui a disposizione per soddisfare ogni mia richiesta, fa per lasciarmi da solo, per iniziare ad acclimatarmi. Che spettacolo! Prima che vada via, ho però un’ultima domanda. Ho notato, non senza un certo senso di angoscia, che le vetrate enormi danno su una sterminata vallata. Qui si dimena, ondeggia, si trascina una folla che sembra un oceano. Disperati martoriati da mille pene e torture, chi urla, chi sanguina, chi si dispera, chi cerca di sfuggire - senza mai riuscirci - ad infinite pene indicibili. “Scusi - faccio io alla signorina - ma quelli, chi sono?” E lei, serafica, con una alzata di spalle: “E sa - mi dice - quelli sono cattolici. Loro, lo hanno voluto così”.
L’importante è sognare
Come terapia salva-vita
di Massimo Niccolai
di Clara Ballerini
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a terra campana ha prodotto una fauna umana bellissima piena di sonorità, coniugata ad una gestualità che definisce un linguaggio che non ha pari in altri luoghi, ma soprattutto direi piena di speranza. Già, perché sono persone che sanno sognare, oltre che sopravvivere nella loro terribile attuale realtà. Sognano qualcosa che potrebbe cambiare la loro esistenza, così tutti gli avvenimenti e le persone nelle loro varie rappresentazione diventano numeri e poi chissà. 48 morto che parla. E cosa dice, cosa ci racconta? Un po’ di quello che speriamo di sentirci dire o forse, qualcosa di diverso. Sognare, questo è importante. E nel sogno sperare di trovare qualcuno che ci ricorda e che ci aiuta, anche se non sempre ci dà i numeri giusti. Quelli che ci fanno vincere una quantità di denaro e quindi vivere come un pascià o forse solo quelli che ti ricordano chi sei e come è importante sentirsi, e godere del momento che viviamo. E forse questo momento è il vero tesoro che conquistiamo, giorno per giorno.
Morto che parla 3
ue molecole si incontrano, si riconoscono e una cellula muore. Come? Fas incontra FasL e il materiale genomico contenuto nel nucleo cellulare si sbriciola grazie all’attivazione di una delle più studiate vie di morte delle nostre cellule. Questo meccanismo si chiama apoptosi, e altro non è che una morte cellulare programmata; ma non siate tristi per il destino della cellula, finché questo meccanismo è ben regolato rappresenta solo una via di buon funzionamento dell’organismo nel suo insieme. Insomma il fatto che le cellule possano decidere attivamente di morire fa parte del gioco. Un gioco che decide, per esempio, che un neurone mal funzionante mette a rischio il sistema nervoso nel suo complesso ed è quindi meglio che muoia. La modulazione corretta di questo meccanismo è cruciale e spesso se alterata genera patologie, per questo lo studio delle vie di morte porta alla descrizione di meccanismi patologici finora sconosciuti, e questa conoscenza sarà immediatamente trasferibile in nuove terapie che poi, ironia della sorte, diventano terapie salva vita.
Riflessioni
by James O’Mara
Tutto sommato non è stato poi tanto difficile di James Bradburne
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n the end, dying was rather easy, and far less stressful and frightening than I had imagined. I had always been afraid of dying, of waking up alone in bed, cramped with chest pain or gasping for breath, perhaps collapsing on the hard tile floor of the bathroom, my head broken open by the white porcelain of the toilet after a vain attempt to find the nitroglycerin. As it happened, I did die at night, in my bed. My breathing was laboured, but it was all over quickly, and in what seemed only a few minutes I was perched on top of the closet, looking down at myself slowly turning grey-blue, struggling for a last breath that didn’t come, my left leg twitching slightly, then stillness. It seemed rather odd to die like that, a death neither expected nor prepared. A non-descript end, with no chance to call out, to explain, or to ask forgiveness. It didn’t take that long before the oddness wore off and I looked around, to find my closet slowly being swallowed, its wooden claws clutching sphinx-like as it drowned in a sea of eddying sand. The bit of desert in which I found myself was far from barren. It was a scraggly sort of purgatory, marked by clumps of dry sticks and bits of windblown brush, which scrawled across the uneven ripples that flowed across the dunes. There were oddly shaped rocks, like dogs’ heads or rusty anvils that gave the fraudulent impression of signposts in a vast ocean of scrub and scrag. Soon a way cleared in the landscape, fat smears of white stone, then converging lines that spoke of the weary tyranny of a life kept in perspective, the point of every horizon vanishing in the futility of unrealised ambitions. Perspective is a special form of magic, where parallel paths appear misleadingly to converge. Mine was, after all, a very ordinary life. A life that seemed to have form and meaning when safely viewed from the in-
side, the way a non-descript landscape acquires unintended charm when seen through a window. But a series of random views is not a life, nor are casual moments of unintended charm a reason for living. If life has a meaning it is in the between-ness of things. A life made of single points has no dimension – life is what happens when we connect the dots. The dots are other minds. Our landscapes fill with others – huddled groups of children, sharing the secret conventions of lines and squares. Passers-by, their shadows more real than their bent backs, slump towards posterity or prayer. Figures divide and multiply on the beach, the bikini-clad more naked than the undressed. Hard faces seem convinced that the prime of life is really death. Vanity. The King of Magic. Death is beginning to wear on me already – a sentence pronounced with no punctuation, the eternal present tense. Reluctantly, with stiff, grey-blue fingers, I unlace my shoes and hold each one up in turn, slowly letting the sand trickle out in soft piles on a featureless floor, where they assume the forms of sleeping elephants, each one’s trunk curled around the other. I wonder what to do next. After all, in the end, dying was rather easy. [written to accompany Lost & Found (Alias 2010) a book of black & white photographs by Stefano Rovai] ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Il popolo del blues
Lasciate che i bambini
Sempre in ascolto di Kerouac
Il vicino di casa del Bernini
di Giulia Nuti
di Tomaso Montanari
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È
t.Petersburg, Florida, 21 ottobre 1969. Ubriaco, depresso, allo sbando, moriva così uno dei poeti della beat generation, Jack Kerouac. Vita intensa, rivoluzione, viaggi, rifiuto delle convenzioni sociali, passione e distruzione. Il suo On the road, Sulla Strada, è considerato il romanzo manifesto della generazione beat. Anticonformista, antimilitarista, per qualcuno anche antipatico. Fatto sta che quando Kerouac se ne è andato, certo la strada dell’influenza che il suo lascito ha avuto su altri artisti e autori non era stata percorsa fino in fondo. L’opera sua e degli altri poeti beat ha segnato una rottura generazionale e un netto distanziarsi dall’etica del sogno americano. E’ stato in qualche modo ispirazione per il movimento hippie, pur morendo appena un paio d’anni dopo la sua nascita. Bob Dylan lo ha tra i suoi riferimenti da sempre. De Gregori lo cita adesso, dopo quarant’anni di carriera, intitolando Sulla Strada sia il suo nuovo singolo che l’album in uscita, ispirati proprio alla lettura del romanzo americano molti anni dopo la sua pubblicazione. Il film On The Road di Walter Salles, trasposizione cinematografica del romanzo, è invece uscito adesso nelle sale. Kerouac se ne andava tra i fumi dell’alcol alla giovane età di 47 anni. Una coincidenza interessante per chi, da morto, ancora parla attraverso ciò che ha lasciato.
morto, e parla. Dopo trecentocinquant’anni, il medico portoghese Gabriele Fonseca continua a sussurrare qualcosa, nel buio della sua cappella, in una chiesa di Roma. Chi si inginocchia in preghiera accanto a lui, percepisce – a poco a poco, nella penombra appena rischiarata dalle candele – una figura di profilo: è l’immagine di qualcuno che non c’è più, ma al tempo stesso è un corpo che appartiene invece al nostro stesso spazio e al nostro tempo. Un artista-mago, uno scultore sovrumano lo ha ibernato nel marmo: ma vivo, e con le labbra socchiuse. Essere vicino di casa di Bernini è stata la più grande fortuna di Gabriele. Duecento anni prima, qualcuno l’aveva predetto. Era stato Leon Battista Alberti: che aveva scritto che l’arte “ha in sé una forza straordinariamente divina, perché non solo ci rende presenti persone che sono lontane, come fa l’amicizia, ma anche continua a mostrare ai vivi coloro che sono morti da molti secoli, di modo che vengano riconosciuti”. I morti ci parlano ancora, nelle biblioteche e negli archivi: ma grazie all’arte ci parlano anche i loro volti, proprio come in un sogno. Ed è molto meglio un morto che parla, di un vivo che non ha nulla da dire.
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di Marco Poggiolesi Nella Sera dei miracoli, l’Uomo in nero apparve proprio dietro Via del Campo e senza perdere tempo cominciò La canzone della redenzione. Le foglie d’autunno cadevano lente sulla strada e La luna blu dipingeva i marciapiedi. “Immagina, disse cantando, ascolta le mie parole e cogli ogni Strano frutto. Alimenta il Fuoco, segui La forza del destino e Maledici quel sogno fino a quando non lo avrai realizzato. Solo allora Ti ricorderai e tutto apparirà come Acqua azzurra, acqua chiara”. Sparì come sparisce la Nebbia viola al mattino lasciandomi questa Illogica allegria e una manciata di parole scritte in corsivo, parole di uomini del passato mai così presenti; di morti che parlano.
Teatro del Sale
di Pietro Jozzelli
di Gregorio Moppi
Quelle parole sempre presenti
OLONE
La tombola della vecchia Cecì
Suona gratis la meglio gioventù
Dylan Bob
TOMB Di line e di lane
Classika
a nostra meglio gioventù, nella musica, ha tra i 20 e i 30 anni. È quanto avrebbero potuto essere, alla loro età, i trenta-quarantenni di oggi, che però a un certo punto hanno perso il filo di sé e della storia che gli stava attorno ritrovandosi spaesati: anagraficamente troppo adulti per potersi sentire ancora ragazzi, socialmente ancora ragazzi per collocarsi tra gli adulti. Una generazione interrotta e rassegnata, cresciuta tardi, invecchiata prima del tempo, che scruta con un po’ d’invidia, ma pure con benevolenza e molto rispetto la maturità di chi è nato nel decennio successivo. Di coloro che non si nascondono le difficoltà del presente e quelle forse ancora maggiori del futuro, e tuttavia si mostrano ben corazzati per affrontare ogni avversità grazie a una consapevolezza artistica nutritasi di cospicue esperienze internazionali, del confronto costante con maestri e colleghi, soprattutto della passione disinteressata per ciò che fanno e della forza di coinvolgimento emotivo che scaturisce dalle loro interpretazioni - magari acerbe, però mai anodine. Sanno che su di loro, qui in Italia, nessuno ha intenzione di investire. Perciò investono da soli su se stessi. Suonano spesso gratis, addirittura rimettendoci di tasca propria perché soldi per i cachet non ce ne sono, nemmeno per il rimborso di benzina e autostrada figuriamoci per un piatto di spaghetti o per un letto dopo il concerto. Eppure non si lasciano scoraggiare. Con affabile professionalità continuano a somministrare musica. Uno di loro, pianista, l’altro giorno ha lanciato un’idea. Perché non creare un circuito nazionale autogestito di scambi musicali tra colleghi coetanei nei quali ciascuno mette a disposizione degli altri la sua rete di contatti con le associazioni concertistiche del proprio territorio? Si suona gratis, ok, ma almeno ci si garantisce ospitalità reciproca e ci si fa conoscere anche oltre il cancello di casa propria.
18 | 12 | 2012
Gian Lorenzo Bernini, Gabriele Fonseca. Roma, San Lorenzo in Lucina, Cappella Fonseca, tra il 1668 e il 1672.
La valigia dell’attore
, morto che parla. E perché non 88, gli occhialoni del Gori; 22, le carrozzelle; 77, le gambe delle donne e via enumerando? Dico questo perché ho notato che i numeri a doppia valenza (nel caso del 48 sinonimo di jella e momento imperdibile della tombola) vivono vite dissociate: ora prevale un significato, ora l’altro, mai insieme. Per me la fortuna di questo numero non ha niente a che fare con la tradizione della Smorfia ma deve il suo riconoscimento al tavolo da gioco della vecchia Cecì, dove le serate d’inverno si vestivano di una calda atmosfera al ritmo dei novanta numeri fatati. Ognuno aveva un significato e una definizione, a riprova del fatto che Pitagora aveva visto giusto. Perché il Teatro del Sale non organizza una serata di tombola invitando i suoi soci a ricordare i più svariati abbinamenti tra numeri e parole? Non crediate che sia un nostalgico ritorno al tempo che fu. Banalmente, si tratta di riscoprire l’essenza della vita di comunità, che è di mettere in circolo sentimenti ed emozioni che legano gli uni agli altri. Vi pare poco rispetto a stramazzare di sonno guardando Porta a Porta?
Morto che parla 4
by James O’Mara
Quando usciva quel numero la Cirilla mi guardava e rideva di Alessio Sardelli
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on il sopraggiungere dell’inverno arrivano le giornate uggiose, quelle piene e gonfie di pioggia dove il povero pedone sfugge alle mitragliate d’acqua provocate da rabbiose ruote che senza pietà cercano inesorabilmente una tua risposta di disprezzo mista ad un mezzo vaffa ormai rassegnato di fronte alla totale infradiciata. Condito da questi pensieri me ne stavo tranquillamente camminando e all’improvviso un ricordo, un profumo, un’immagine nitidissima, nientepopodimenochè la Cirilla. Eh sì, lei. La regina della tombola in San Frediano. Un’esile figura costituita pressappoco da una trentina di chili messi insieme in maniera composta e circondata da un’aureola di fumo che l’accompagnava in tutto il suo peregrinare di casa in casa, badate bene, di casa del popolo in casa del popolo. Erano gli anni Sessanta. La tombola imperversava, si giocava dappertutto. La domenica era un classico andare a giocarci ed io da monello ormai navigato (avevo sette anni) entravo in questi saloni invasi da nebbie di nicotina pura e da luci bianche al neon. Ecco, qui ascoltavo una di quelle voci che poi avrei ritrovato nei grandi doppiatori cinematografici del passato, una voce calda, suadente, che con buona dizione scandiva, 77 le gambaccie, 48 morto che parla. Ecco, era qui, in questo teatrino fatto di numeri e di personaggi felliniani, che regnava la Cirilla. Lei che con assoluta discrezione tirava fuori uno di quei portamonete, di quelli con la chiusura a farfalla che emettevano un suono da chiusura di sportello d’auto e deponendo un numero incredibile di piccole monete da 5, 10, 50 lire entrava in una assoluta concentrazione. Io mi ci mettevo accanto, e lei con occhioni sbarrati mi diceva di stare buono e in assoluto silenzio, un silenzio quasi monastico prima del suo “fatta!”, con conseguente chiacchiericcio degli altri: “bucaiola della miseria stavo per uno, oh ummelo tira mai eh, oh Cirilla ma che te lo sei sposato i’crupierre”. E via così fino allo sfumarsi, e di nuovo silenzio, e così all’infinito. Quando usciva il 48 io avevo sempre timore di quella voce che diceva: 48 morto che parla. La Cirilla mi guardava, sorrideva con dolcezza e mi diceva: “unnaveppaura bischerello e sono i numeri che parlano, mica i morti”.
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Emozioni Niente paura, meglio un po’ di curiosità di Maria Cassi
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on é facile parlare di morte, o se ne ha un po’ paura, o siamo un po’ scaramantici, sicuramente è la cosa che più ci fa sentire incerti, insicuri, piccoli, terreni. Ogni tanto di fronte alla tracotanza di certe persone mi chiedo: “Ma non pensa mai che tutto questo prima o poi dovrà finire” e allora perché essere così attaccati
Cinema
alla vita materiale. Ogni tanto il così religioso e drastico: “Ricordati che devi morire” alla fin fine non è del tutto peregrino. Qualche volta è bene ricordarselo, per quanto mi riguarda in senso laico, nutrendo il più profondo amore per la vita, per le cose, ma con la consapevolezza umana della fine, del non “sarà per sempre”. Non
è pessimismo, credo però che valga la pena di sentirsi parte di qualcosa di più grande, di più spirituale, di più intimo, di più silenzioso e meditativo. Provare ad amare il non conosciuto l’ignoto, l’aldilá al quale ogni tanto, soprattutto se si sta bene, é cosa buona pensare senza paura con fiducia e forse anche con un pò di curiosità.
Staino
Avari e tesori di Juan Pittaluga
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chille, Jésus, Giordano Bruno, Gandhi, le Che, sont certains des héros altruistes que notre modernité célébre. Puis nous leur avons inventé des condisciples plus fragiles, plein des failles humaines, comme le Quijote de Cervantes, la Bovary de Flaubert, le Bartleby de Melville, le Raskolnicov de Dostoïevski, ou le Geoffrey Firmmin de Lowry. Mais comment cataloguer des personnages comme le barone Peletti de Bragaglia e Pertolini? Un homme qui s’acharne tellement dans sa mesquinerie qu’il finit, comme Œdipe, par rentrer dans un destin qu’il voulait éviter? Ce qu’il y a de troublant chez cet avare, c’est qu’il nous ressemble. Nous aussi, nous avons oublié ou nous avons caché nos trésors, qui ne sont rien d’autre que notre obligations de changer le monde. En attendant n’importe quel petit détenteur de bons du trésor de la dette Grec, Espagnol ou Italien, est secrètement un barone Peletti. La construction des écoles pour les enfants ou la baisse du chômage des jeunes, peut toujours attendre. Peutêtre que la noblesse oblige du destin sera un jour agenouillée la puissance spéculative de la finance. Comme disait Hobbes, le privilège de l’absurdité est réservé a la seule créature humaine. ■T raduzione su ambasciatateatrale.com
Un verre de vin rouge Un sorso di Giulio zittisce i francesi di Federico Ugo
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ra il 1902 quando un enologo estroso e capace decise per orgoglio di produrre un vino spumantizzato in italia che non avesse nulla da invidiare ai grandi Champagne francesi. Così inizia il sogno di Giulio Ferrari, che ormai centodieci anni orsono produceva pochissime bottiglie ad un costo veramente proibitivo. Nel 1952 l’azienda verrà rilevata da Bruno Lunelli, personaggio incredibile che porterà poi Ferrari ad essere il punto di riferimento per gli spumanti italiani. Nel 1972 uno dei suoi figli, Mauro all’insaputa dei fratelli ideò quello che poi diverrà la punta di diamante dell’azienda di famiglia. Dopo 8 anni sui lieviti viene per la prima volta stappato il Giulio Ferrari riserva del fondatore, prodotto da uve chardonnay in purezza. Vino dedicato al fondatore appunto, uomo di poche parole che ancora adesso a decenni di distanza dalla sua scomparsa fa parlare di sé in tutto il mondo. Stappare una delle sue riserve come quella del 1989 bevuta per sfidare i miei suoceri francesi fa capire quanto di bello ci sia in qualcosa di raro. Parla il vino per una persona che non c’è più.
L’orto Meglio coltivare lontano dal tasso di Stefano Pissi
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l tasso (Taxsus Baccata L.) è una gymnosperma, come pini e abeti, ma di mole minore rispetto ad essi. Agrifoglio, pungitopo e tasso nell’era del Cenozoico, costituivano il soprassuolo arboreo dominante, al posto degli odierni pini e abeti, e per questo motivo erano di dimensioni molto maggiori. Nel Quaternario, in seguito alle glaciazioni, il tasso e compagnia hanno dovuto adattarsi ad un clima più rigido e per questo si sono ritirati a vivere sotto la protezione dell’attuale copertura delle nostre foreste. La pianta è velenosa, tutta: il legno - apprezzato nel medioevo per la fabbricazione di archi e frecce, le foglie – verde scuro e aghiformi, le radici – sepolte – e il seme mortale - vita potenziale. Fa eccezione l’arillo, una coppa carnosa dal ripieno mieloso (dolce, l’ho assaggiato!) che fa da involucro al seme costituendo la ricompensa edule che il tasso offre a gli uccelli, vettore della specie. Per questi motivi il tasso è denominato, albero della morte: pianta che predilige l’ombra, velenosa e, secondo Ovidio, costituente l’alberatura che insegna la strada per gli inferi. Nelle mie idee, lo tengo lontano, il tasso dall’orto, luogo della vita che nasce, cresce e per un attimo morta si ritrasforma in vita ancora. Si sente dire che l’orto vuol l’omo morto ma, penso io, non inanimato, bensì esaurito dalla benefica fatica e impegno necessari alla coltivazione. Per questo mi impegnerei a non oltrepassare il limite, per risultare sì, alla fine stanchi morti, ma parlanti almeno.
Una stella a Firenze Guercino svelò il segreto dell’Arcadia di Stella Rudolph
Il Guercino (Giovanni Francesco Barbieri 1591-1666), Et in Arcadia Ego, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini
l mito dell’Arcadia è un punto fisso nella letteratura sin dai tempi di Teocrito e Virgilio, passando attraverso il ‘500 con Sannazzaro e Tasso per sfociare nella creazione dell’omonima accademia romana, su iniziativa della regina Cristina di Svezia nel 1690, volta al rinnovamento della poetica in senso classicistico. Quella regione peloponnesiaca dell’antica Grecia era infatti diventata sinonimo della vita pastorale, una specie di idillico paradiso agreste riparato dalle traversie quotidiane della gente comune. Ma ecco che un artista si appropriò del soggetto, introducendovi un episodio atto a minare la serenità di quel luogo ideale. Un capolavoro giovanile del Guercino, dipinto verso il 1618-22 ed intitolato Et in Arcadia Ego, raffigura due pastorelli che scoprono ivi un teschio quasi parlante (guarnito dagli emblemi della morte, ovvero un moscone e un verme) poggiato su una tomba a mattoni con sotto quella iscrizione latina che si traduce in Anch’io sono in Arcadia. Quindi perfino colà la morte si è annidata! E’ un memento mori recepito dai pastori con un misto di sgomento, tenerezza, cruccio e costernazione. Dentro questo paesaggio così vellutato il Guercino fissò, con l’orripilante cranio in primo piano, un messaggio insieme sconcertante e struggente trasponendo il tòpos dalla poesia per inverarlo nella pittura.
Lucio Diana
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l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Sergio Passaro. Segreteria: Giuditta Picchi,
Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno IV Numero 9 del 1/11/2012. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
Si ringrazia
conti capponi [conticapponi.it] MUKKI [mukki.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP [oliotoscanoigp.it] Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer