Ambasciata Teatrale - Dicembre 2012 - Anno IV Numero 10

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Io, l’Universo e l’esperienza di Pietro Grossi

a pagina

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Mio figlio e il calabrone di Pietro Jozzelli

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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

1° dicembre 2012

ANNO IV • NUMERO

www.ambasciatateatrale.com

Editoriale

Confini 1

Esperienze

di Lucio Diana

Il cancello sempre aperto

Attraverso il valico di Erez

di Maria Cassi

di Raffaele Palumbo

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I

io nonno Dante Cassi aveva un podere a San Domenico di Fiesole, in via della Piazzola per l’esattezza. Era voluto venire via da Compiobbi perché pensava che confinare direttamente con la bella, sapiente, e piena di cultura collina di Fiesole avrebbe migliorato lui e tutta la sua famiglia. Quel giorno Dante lavorava con il cancello del podere che restava sempre aperto, dove tutti potevano trovare ricovero in qualsiasi momento della giornata, quando un suo vicino di casa, un signore inglese sempre elegante e di buonissime maniere, chiese a mio nonno cosa stesse facendo. Dante spiegò che era intento nei preparativi di un rifugio dove portare tutta la famiglia quando le bombe avrebbero cominciato a fischiare senza dare il tempo di stare a pensare troppo cosa c’era da fare. Il gentiluomo salutò cortesemente e se ne andò. Ma la sera in cui via di corsa si ritrovarono tutti nel rifugio, se lo videro arrivare con un grande guanciale sotto braccio, chiedendo umilmente il permesso di entrare. Passarono le ore e quando tutto finì, compresa la paura, rientrarono a casa. Ma l’inglese ebbe una brutta sorpresa: la sua era stata rasa al suolo. Il mio babbo Mario mi diceva sempre, raccontandomi questo ricordo: “Vedi Maria, se il nonno Dante avesse tenuto chiuso quel cancello del podere per paura, l’inglese non avrebbe avuto salva la vita”. Il mio nonno aveva una mentalità aperta, sapeva che i confini servono a poco quando il nostro sguardo può e deve andare oltre. Aveva fiducia, amava la sua terra, condivideva quel che aveva con generosità, curiosità e un po’ di sana follia. L’inglese, qualche giorno più tardi, passò a salutare perché tornava in Inghilterra dopo però aver ricompensato Dante con tremila lire. Era il prezzo dell’affitto di un anno del bel podere in via della Piazzola a San Domenico di Fiesole.

l valico di Erez è chiuso. Arrivare da Tel Aviv, fino a qui, al confine con Gaza, è stato un attimo. Dalla fine della Sesta guerra, quella Segue pag.6 con Hezbollah, sono passati poco più di tre mesi.

Da Tel Aviv

Se la guerra è routine di Sefy Hendler

L

a guerra è una cosa orribile. Non meno orribile è il fatto che la guerra in Medio Oriente è diventata ormai una routine. Solo lo scorso mese, di pari passo con la crudele guerra civile in Siria che ha già fatto quarantamila vittime, è stato il turno di un’altra ondata di Segue pag.8 violenza tra Israeliani e Palestinesi.

Il pensiero

Il pensiero

Il dialogo rende tutti più forti

Il mondo dall’alto

del rabbino Joseph Levi

dell’imam Izzedin Elzir

Occhio di bue

I

confini si sa, hanno un valore, delimitano territori e aiutano a definire le identità. Secondo gli psicologi, porre limiti è importante per lo sviluppo psico-mentale. Il fanciullo e l’adolescente imparano a valutare i limiti del proprio corpo e ambiente e a convivere con essi senza illusioni di onnipotenza. I confini ed i limiti aiutano gli adolescenti ad accettare ed imparare le differenze ed i ruoli diversi di un maschio o una femmina e assicurano una crescita psico sessuale tranquilla evitando stati di confusione d’identità sessuale in seguito. I confini aiutano ad accettare i limiti della mia e dell’altra persona, e aiutano a garantire una vita sociale, di famiglia e di coppia tranquilla e sana. Similmente nei rapporti internazionali fra stati e società, i confini riconosciuti e condivisi, sono la base per un rapporto pacifico fra stati e società. Mi chiedo però se questi valori condivisi sono veri e giusti per tutte le circostanze della cultura e della società. Forse in certe situazioni vivere in zone limitrofe fra confini non ben definiti può essere un vantaggio? Per quanto riguarda la letteratura per esempio, i critici letterari concordano che uno dei meriti degli scrittori di origine ebraica è la loro esperienza di vita, di persone che vivono in zone limitrofe fra confini complessi e non sempre ben definiti. Canetti, Kafka, Saba, e tanti altri scrittori di origine ebraica devono la loro ricchezza letteraria ed intellettuale proprio al fatto di aver vissuto Segue pag.2 parallelamente in due o più mondi diversi tra di loro.

N

on ci sono mari che non conducano ad una riva agognata, quand’anche lontana, confusa nelle nebbie, né montagna che non si inclini verso terra e che non apra valichi per facilitare il passaggio degli uomini. Se guardassimo il mondo dall’alto, da un satellite o dalla luna non riusciremmo a vedere molti confini. Solo quelli che catene di monti o grandi fiumi hanno disegnato sulla terra. Che invero neppure sono confini, perché sono pendici dello stesso monte o rive dell’identico fiume. Poi valli, muraglie, quelli sì limiti, voluti invalicabili. Pensati e fatti per contenere, respingere altri uomini. Se ingrandissimo l’immagine potremmo vedere altre frontiere, quella degli Stati. Alcune tendono a sparire come nell’UE. Altrove, come tra il Messico e gli USA diventa sempre più impenetrabile e feroce. Anche quel mare peraltro non è più Segue pag.6 luogo libero.


Confini 2

Scrivendo

di James O'Mara

Io, l’Universo e l’esperienza di Pietro Grossi

S

ono al mio tavolo e mi casca l’occhio su una nota che non ricordavo. È attaccata con una puntina al sughero e mezza coperta da una foto di me su un’auto-scontro. Ovviamente mi domando se questo non nasconda qualche profondo significato. “Confini estremi dell’esperienza umana” titola una mia scritta in stampatello ripassata due o tre volte e preceduta e seguita da due stelline. Buffo: non sono affatto tipo da circondare scritte con disegni o stelline. Sotto, altre due scritte, anch’esse ripassate ma meno a fondo e precedute da trattini: – Non ho arbitraria comprensione della realtà (Principio di indeterminazione e acceleratori) – L’Universo finirà (legge di Hubble e teorie sul destino dell’universo) Devo aver buttato giù questa nota nel periodo in cui passavo buona parte delle mie giornate a leggere complicati testi scientifici di cui capivo poco ma che mi illudevano più di qualunque romanzo o saggio filosofico di arrivare a qualche importante chiarimento sull’interminabile grattacapo della vita. Rileggo questa nota e in effetti penso: scienza alla mano, siamo oggigiorno ragionevolmente sicuri che non arriveremo mai a una risposta esaustiva sull’origine della vita. D’altronde siamo discretamente certi che un giorno il nostro universo si contrarrà o dissolverà o eploderà senza lasciare gran traccia di sé. E che questo accada tra poco o in una ben più probabile caterva di miliardi di anni, non sarà comunque – nei tempi di tutti gli universi possibili – che il breve frammento di uno sbadiglio. Va da sé che, in ogni caso, noi saremo scomparsi da un pezzo. Una voce dentro di me dice che non ci dovrebbe occorrere molto di più per darci meno importanza e rilassarci. Un’altra voce mi ricorda che ho finito gli ansiolitici.

In scena L’opinione

Segue dalla prima

Il dialogo rende tutti più forti del rabbino Joseph Levi

L’

appartenenza a più di un mondo aiuta ad avere una visione più sensibile e limpida della situazione umana e a percepire una situazione da più punti di vista, e a descrivere la realtà con linguaggi diversi interni ed esterni all’osservatore. Valutare le situazioni da più punti di vista aiuta a diventare più flessibile e tollerante come persona e recepire la realtà con una visione pluridimensionale e non unidimensionale. Tali qualità sono importanti non solo per l’attività letteraria ma anche per quella scientifica e psico-sociale. Percepire e vedere se stesso da più punti di vista può essere recepita come un pericolo ma allo stesso tempo come un arricchimento. Percepire tale situazione come un pericolo o come un’occasione d’arricchimento dipende dalla solidità dell’Io e della persona, e la sua capacità di contenere situazioni complesse. Dall’altra parte la solidità e la forza dell’Io dipendono dalla sua crescita e sviluppo in un ambiente protetto da confini ben definiti. Questo modello apparentemente paradossale ci può servire per capire anche argomenti riguardanti l’immigrazione ed il dialogo inter religioso. La nostra capacità di contenere e percepire l’identità altrui come positiva e distinta dalla nostra, di

arricchimento e non di pericolo, dipende dalla forza della nostra identità culturale, chiara e distinta. Nel dialogo inter religioso che teniamo da anni a Firenze, i vari componenti religiosi hanno sempre sostenuto che a seguito del dialogo la loro identità culturale e religiosa si è sempre rafforzate di più e mai indebolita. Ebrei, cristiani e musulmani che tengono un dialogo tra di loro, arricchiscono la loro identità religiosa senza mai indebolirla. Lo stesso è vero analogamente anche nei campi della letteratura e della scienza come abbiamo ricordato. Possiamo quindi concludere dicendo che se la società italiana saprà cogliere l’occasione che presenta l’immigrazione integrando gli immigrati nelle strutture scolastiche professionali ed universitarie del Paese, si apriranno delle vere e proprie occasioni di miglioramento e crescita culturale, scientifica e letteraria, che a loro volta aiuteranno a creare nuovi posti di lavoro e di crescita economica. Il pensiero umanistico ed il neo Umanesimo non sono quindi un mero idealismo culturale ma anche un pensiero pratico più di quanto sembra. È nelle zone limitrofe fra e oltre i confini del nostro passato, che si gioca il futuro dell’Italia e dell’Europa.

di Tommaso Chimenti

I

l confine ha l’utilità intrinseca non di barriera ma di ostacolo da saltare, da spostare. I limiti hanno a che fare con le frontiere, fisiche, reali e metaforiche o culturali. Rocco Papaleo ci conduce, con il suo fare da gattone dinoccolato, timido e affabile, dentro la sua Piccola impresa meridionale (al Teatro delle Arti di Lastra a Signa il 7 dicembre) nel teatro canzone gaberiano che gli si addice sempre meglio, nell’abito da chansonnier che si è cucito addosso meglio di un sarto d’alta scuola. I confini sanno anche di guerre e battaglie per anientarli ed annettere territori. Crash Troades, il progetto Krypton con a capo Giancarlo Cauteruccio, ma con fior di professionisti alle spalle (il 10 al Teatro Studio di Scandicci) ci mostra dieci Troiane, attrici ma anche danzatrici e cantanti liriche, per uno studio che ha toccato, sempre in modi differenti, in estate prima San Gimignano poi la l’acciaieria Lucchini di Piombino, per finire la sua corsa nell’area metropolitana dell’hinterland fiorentino. Di confini, saldi, strutturati, di mura spesse intorno e genio da coltivare e proteggere a memoria futura, parla Dimitri Milopulos nel suo debuttante Firenze (il 20 al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino) dove tra monumenti in miniatura si aggireranno micro telecamere per riportare sul grande schermo alle spalle un viaggio onirico tutto personale dello scenografo di Salonicco. L’eroina che voleva abbattere i confini, territoriali e religiosi, era Giovanna d’Arco, giovinetta francese in guerra contro gli inglesi spinta dalla voce di Dio. Giovanna al rogo (14, 15 e 16 al Fabbricone di Prato) è la trasposizione, della compagnia lucchese Teatro Del Carretto (celebri nelle ultime stagioni per Pinocchio e Amleto), della prigionia della vergine nelle segrete britanniche. Confini e potere con Re Lear (il 21 al Teatro Corsini di Barberino) per la regia di Gianfranco Pedullà: re e figlie a spartirsi morsi di carne di feudo, brandelli di regno. Se non ci fossero i record, i limiti, i confini, l’uomo non potrebbe battersi.

Di line e di lane Mio figlio, il calabrone e l’atlante di Pietro Jozzelli

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io figlio bamboccione, superlaureato e molto serio (come dicono le madri delle sue amiche), ha difficoltà a trovare un lavoro. Mi ha chiesto com’era quando avevo io la sua età e l’Italia viveva il miracolo economico. Ho parlato a lungo ma dalla sua faccia ho capito che la spiegazione non lo attraeva. Cercava un grimaldello, gli raccontavo una favola. Allora gli ho letto una storiella di Ennio Flaiano. “Il calabrone entra nella stanza illuminata, va a battere velocemente contro la lampada, le pareti, i mobili. Rumore secco delle sue zuccate. Dopo un po’ si acquatta per riprendere forze. Ricomincia contro la lampada, le pareti, i vetri e daccapo la lampada. Infine cade sul tavolo, zampe all’aria, la mattina dopo è secco, leggero, morto. Non ha capito niente, ma non si può dire che non abbia tentato”. Ecco, dice mio figlio, avevo intuito che devo sbattere la testa da tutte le parti, ma non mi basta tentare, una mia vita voglio agguantarla. Poi ha preso l’atlante e ha cominciato a misurare la distanza che ci separa da Parigi, Berlino, Londra.


Confini 3

Gesti teatrali

di James O'Mara

Quel lenzuolo appeso al balcone di Alberto Severi

S

alvatore ci stupì tutti, e ci turbò un poco, raccontandoci che dalla sue parti, in Sicilia, fino a pochi anni prima, e talvolta ancora adesso, la mattina successiva alla prima notte di nozze, si usava esibire, appeso al balcone, il lenzuolo macchiato di sangue per la perduta verginità della sposa. Magari, nell’infausta evenienza che ciò si rendesse necessario per salvare le apparenze, taroccandolo col sangue di qualche povera bestia scannata. “Che schifo!”, disse Sabrina. “Che barbari, voi terroni, però!” chiosò Pietro un po’ a malincuore, perché di solito si piccava di non essere razzista, anzi si spacciava per meridionalista convinto, epperò con quel terroni, sia pure detto in maniera scherzosa, si era tradito. Io tacqui, non osando esternare una certa irrefrenabile e istintiva ammirazione per la teatralità mediterranea, e quasi greco-arcaica, del gesto, al di là delle sue implicazioni morali, sociali e ideologiche. Anzi: doppia teatralità, come gesto e come qualcos’altro, di teatrale: che lì per lì, nei miei ingenui quattordici anni, non riuscivo pienamente a focalizzare, e che oggi, da scafato cinquantenne, mi appare invece in tutta evidenza. Direte: passi la teatralità. Ma cos’ha a che fare, tutto questo, con i confini, tema di questo numero decembrino dell’Ambasciata? Be’, mi pare chiaro. L’imene lacerato è un confine che viene meno, cioè, per la verità è il caso più lampante, in quanto fisico, e archetipico, e cruentemente annientato, di un confine che comunque resta, anche dopo. Il confine fra due corpi, fra due individui: superato il quale, biblicamente, si diviene, volenti e nolenti, “una sola carne”. Un confine che forse è esemplare di qualunque confine, e del modo in cui questo può/non può, deve/non deve, essere superato. Voglio dire: l’organo sessuale maschile può agire come arma, o come ponte: nel primo caso realizza una conquista, e talvolta una prevaricazione, nel secondo caso un’unione. Anzi: una comunione. In entrambi i casi, i confini vengono superati, ma è chiaro che c’è – una differenza. Con una complicazione, forse. Anzi due. La prima è che gli esseri umani sono così strani, e infelici e contorti, da preferire spesso la prevaricazione alla fusione: le tenebre, se si vuole, alla luce (e non solo i prevaricatori, ma anche i prevaricati). E la seconda è che, comunque, la prima volta, il superamento del confine comporta uno spargimento di sangue: fatto che per altro si ripete, sia pure metaforicamente, anche in seguito, per quanto l’unione (e non la prevaricazione) sia desiderata, e gradevole, e anzi meravigliosa. Insomma, quando cade un confine, anche consensualmente e senza violenza, da qualche parte si paga col sangue. Questo c’è, di greco, e di profondamente rituale (e dunque teatrale) in quel gesto barbaro: nell’ostensione del lenzuolo insanguinato che è anche (ed ecco il secondo suaccennato elemento di teatralità) qualcosa che si chiude sulla non più intangibile e non più intatta verginità dell’individuo bambino, e dei suoi egoistici, autistici confini. Qualcosa che si chiude, epperò anche si apre. In altre parole un SIPARIO.

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Gatti Oltre il fermo-immagine by Kate McBride

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he general term culture enjoys a broad definition usually unrelated to legal borders between countries. Cultural Borders include those that are economic and ethnic. They might be based on age, belief, language, sex, education, sexual orientation, clan, class and caste. Are there more? Geographic Borders often create legal borders. Rivers, seas, oceans, mountains, desert and ice are just a few. We are constantly confronted by a false border that allows for deception in an

Staino

Autocritica del numero precedente

effort to tell a biased story. The frame around a still or moving image on television, in newsprint and in advertising focuses your attention on the story the photographer, videographer or art director wants you to see. What’s outside the border of the image very often will change the story completely. Often the framing of images is directed by agents of government and corporations. For the photographic or moving image artist the frame establishes their personal style. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

aro Ortolano, debbo a te avere scoperto che non era la tuia, come credevo, l’orrenda pianta che mi ha intossicata e sfregiata nel luglio scorso: era il taxus bacata. Com’è successo? Semplice, mi trovavo davanti ad un cancello chiuso, con chiave sbagliata. E siccome vivo da sempre un paradigma per cui “cancello chiuso si scavalca”, l’ho scavalcato, precipitando nel Tasso. Potete immaginare una madame Marie Curie, dolcemente sensuale, ma prima e sempre scienziata, e in eterno ri-cercata? Immaginate pure, noi ce l’abbiamo e la predilergiamo. O Alberto, ma come fai a raccontarci i gesti teatrali in modo comunque ironicamente elegante? Puoi raccontare una si-

tuazione scabrosa, o descrivere un cadavere: eccolo la, sempre, impeccabilmente. Mi dà un disagio divertente per le tante male parole, che a me cadono di penna, di tasto, di bocca, se non faccio attenzione. Di fronte al Bucchi, si resta senza parole. Anzi, io mi prostro, e mi riprostro, fulminato da quella vignetta del Renzi, ripreso di schiena e con tanga, che contrasta il Grillo, trasvestito da campione di sumo. Ci sarebbe anche un editorialista che si firma N.N., anonimo. Questo è un fatto di moda. Ma, secondo me, l’editorialista lo fa perché al momento che si rilegge, gli piglia spavento. Caro professor Bradburne, una volta superata la sorpresa dell’arrivo di uno scottish dentro una sussiegosa e monumentale

di Millanta

fondazione fiorentina, una sera la scopro tutto tranquillo, adagiato in penombra su una vecchia poltrona, in fondo al Sale: che si gode lo spettacolo e sorseggia con la calma dei saggi un mezzo bicchiere di rosso. Poi succede che invece della musica, come richiesto, lei ci parla del silenzio. Adorabile, e totalmente d’accordo, ma non dia sempre retta a quegli snobbish dell’Ambasciata, una volta o l’altra, perché non scrive in italiano? Don Pietro, questa volta hai azzeccato: ci proponi una visione pasoliniana, non retrò, non di nostalgia fasulla, ma davvero evocando un mondo forse perduto, forse non meritevole di memoria, né di essere resuscitato per una serata. Ma tuttavia, un mondo.

L’erba voglio Lasciate crescere l’ortica, ci difenderà dal ragnetto rosso di Caterina Cardia

N

ella coltivazione biologica ci si è accorti da anni che molte malerbe tanto odiate nelle colture intensive possono essere utilizzate con grande vantaggio come antiparassitari e fertilizzanti naturali. Così se ai confini del nostro orto cresce dell’ortica sarà più utile non strapparla via ma lasciarla crescere insieme al tarassaco, la potentilla, l’achillea e la calendula volgari se abbiamo la fortuna di ritrovarceli nel campo senza averli seminati perchè del loro nettare sono ghiotte le coccinelle che arriveranno nel nostro campo insieme a sirfidi e altri insetti carnivori attratti anch’essi dal polline dell’erba morella (solanum nigrum) dell’artemisia volgare e del timo serpillo e che si mangeranno afidi e lepidotteri che altrimenti mangerebbero volentieri le nostre piante. Ortica, assenzio anche volgare, equiseto piretro e tanaceto possono essere utiliz-

zati in decotti macerati infusi ed estratti con proprietà differenti. Il macerato di ortica si impiega sia per la difesa contro afidi e ragnetto rosso sia come fertilizzante fogliare: si immerge 1 Kg di pianta fresca in 10 litri di acqua e vi si lascia decantare per 10 giorni e quando non produrrà più schiuma e cattivi odori potremo diluirlo con acqua in soluzione 1:10 dove 1 è il macerato e 10 l’acqua per la fertilizzazione delle piante di cui mangeremo le foglie, 1:5 per una fertilizzazione generale avendo cura di distribuirlo al piede della pianta per evitare ustioni alle foglie e 1:1 come miscela da nebulizzare sulla pianta contro attacchi massicci di afidi e ragnetto rosso. Stesse dosi per il macerato di equiseto diluito 1:10 come fertilizzante riminerelizzante di ogni pianta e sistema di difesa preventiva contro peronospera e ruggine che sarà ancora più efficace come diluizione 1:5 contro attacchi consistenti di

parassiti. L’efficacia del macerato o anche del’estratto di tanaceto è sorprendente contro gli attacchi di cavolaia afidi e acari: 1 Kg di pianta fresca lasciata a macerare 3 giorni in 30 litri di acqua da filtrare e utilizzare senza diluizioni. Stessa dose per il decotto di assenzio fatto appunto anche con la specie volgare, lasciato a macerare un giorno e poi riscaldato 30 minuti senza arrivare a bollore e filtrato ma sempre non diluito che risulta sgradevole, almeno quello, alle sempre affamatissime formiche e lumache. Si potrebbe continuare ancora molto, io mi sono accorta che l’estratto di ortica fortifica le piante ma l’odore sgradevole richiama i lepidotteri e altre farfalline malefiche quindi l’ho sostituito con quello di equiseto. La rivincita delle malerbe è iniziata o perlomeno a me piace pensarla così.

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Pieni d’Islam

Lasciate che i bambini

Il pensiero Segue dalla prima

L’incontro fra due mari

Il mondo dall’alto

Gli occhi del quadro o gli occhi del modello?

di Giovanni Curatola

dell’imam Izzedin Elzir

di Tomaso Montanari

V

G

i passano confini altrettanto feroci ma molto più variabili che si confrontano con quello che la guerra, la fame e la dittatura producono: profughi, migranti, uomini e donne, bambini. Il vero confine è quello tra chi ha nel cuore un amore per il creato e chi invece lo sfrutta, lo impoverisce e inganna.

iulio Paolini è un artista vero in tempi in cui l’arte è accampata al suo confine. Qualche anno fa ha esposto quest’opera, che si intitola Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967). È una fotografia in bianco e nero che riproduce a grandezza naturale (30x24 cm) un quadro dipinto all’inizio del Cinquecento dal pittore veneziano Lorenzo Lotto, e oggi agli Uffizi. Chi è il giovane che guarda Lorenzo Lotto? È quello che vediamo: un ragazzo vissuto cinquecento anni fa, e di cui non sapremo mai il nome, che guardava il pittore Lorenzo Lotto che gli faceva il ritratto. È il confine tra l’artista e il suo modello: ma anche tra il passato e il presente. Tra la morte e la vita. Ma quel giovane è anche Paolini, che nel 1967 aveva ventisette anni e che guardava (il quadro di) Lorenzo Lotto. E questo è il confine tra l’artista e la tradizione, e tra l’opera e il suo futuro. Un amico dell’artista, che si chiamava Italo Calvino, ha scritto che “l’osservatore attuale del quadro vede quel vedeva Lotto: no, si sente guardato dagli stessi occhi che vedevano Lotto. Gli occhi del quadro o gli occhi del modello?”. E questo è un altro confine, quello tra lo spazio della nostra mente e lo spazio della realtà. L’arte e la scrittura sono sempre state solo questo: calpestare i confini.

Esperienze Segue dalla prima Attraverso il valico di Erez di Raffaele Palumbo

“È

Lui che ha lasciato scorrere liberi i due Mari, questo dolce fresco, quello salmastro amaro, e ha posto fra loro una barriera (barzakh), un insormontabile limite” Corano, XXV, 53; “Lasciò liberi i due mari a che si incontrassero / e v’è una barriera (barzakh) frammezzo che non possono passare” Corano, LV, 19-20. Il limite, schermo, intermondo, confine è chiamato barzakh. Un limite che separa ma allo stesso tempo congiunge. Per chi ha fede, e dunque crede, questo confine è quello fra la vita simulata, terrena, e la vita vera, eterna; il passaggio è la morte con conseguente resurrezione. Ma c’è un mondo intermedio (di confine?) fra i due, cioè fra il mondo dell’intelligenza e quello dell’anima, il prima e il dopo, il passato che si fa futuro nonostante l’assenza del presente. Ma lo stato di transizione o intermondo (l’ostacolo insuperabile) è semplicemente il luogo dove si trovano i corpi fra la morte e la resurrezione. Il grande mistico Rumi scrive: “La nostra morte, è il nostro matrimonio con l’eternità”.

L’atelier Il teatro totale di Gabriel di Francesca Della Monica

L’

atelier di Gabriel Villela è già di per se un’opera di teatro totale la cui drammatugia è un percorso di vita i cui fili più o meno sottili sono i tanti discorsi lasciati in sospeso dalla tradizione. Penso a questo originalissimo artista e al suo anteporre alle prove di uno spettacolo la fabbrica (nel senso rinascimentale del termine) dell’atelier in cui si partoriranno le forme corporee di personaggi e ambienti, come ad un uovo cosmico. Il germe di tutti i fenomeni e dell’intero universo si trova lì e il guscio dell’uovo rappresenta i confini dello spazio mondo, e il germe conchiuso dentro è il simbolo del dinamismo inesauribile della vita in natura. Un atelier di conoscenze raffinate e di sapienti manualità che l’ineffabilità della creazione artistica rende non ripetitive e soggette alla sorpresa. Gabriel, come il figlio del fabbricatore di campane di Andrei Rubliev, è erede di una sapienza antica che si rivela, quasi inaspettata, solo all’ultimo del processo creativo, sempre insidioso, ma inesorabilente coronato dal suono della campana, dal pianto/vagito della poesia e dal risveglio della parola dell’artista dopo il lungo silenzio claustrale che anticipa la nascita di ogni oggetto d’arte.

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O

ra qui, a Gaza, si combatte un’altra guerra. Quella tra Hamas e Al Fatah, quella tra il partito che ha vinto le elezioni di inizio anno e il partito del presidente Abu Mazen, e di Yasser Arafat, che ora sta in un mausoleo a Ramallah. Il valico di Erez è chiuso, ma non per i giornalisti. Una volta passati i controlli, all’andata molto veloci, prende vita nella testa uno stato confusionale. Qui si passa dalla tecnologia scintillante di Tel Aviv alla situazione desolante e terrificante della Striscia di Gaza nel giro di pochi minuti. L’ultimo militare israeliano mi chiede se porto armi. Sono distratto da quello che ho davanti, rispondo di sì, mi correggo, balbetto, passo. Da qui si entra in un tunnel di cemento armato, tutto chiuso blindato, di un chilometro. E per un chilometro si sente solo, avendo le scarpe adatte, il rumore dei propri passi. Io non sento niente. Mi sembra di essere in un film senza il sonoro. Il grigio del cemento armato sembra non finire mai. Un attimo dopo inizia Gaza Strip, pochi minuti e inizia Gaza City. Per le strade si spara, si conquista un crocevia, si assalta una roccaforte del nemico, si marca il territorio con le pallottole. Metà del viaggio, con l’autista-traduttoreguardia del corpo, si svolge con la faccia sul tappetino dell’auto. Le pallottole sono il meno. Quello che fa paura è quando si accosta una macchina con quattro uomini e tre kalashnikov ben in vista e i cenni degli occhi come a dire, ecco il pollo da rapire, oggi è la nostra giornata fortunata. Poi, andiamo al funerale. Hanno appena ucciso i figli di Baha Balousha. Si tratta del responsabile dei Servizi segreti di Al Fatah - fedeli ad Abu Mazen - di stanza a Gaza. L’ufficiale sostiene che Hamas sta attivamente insabbiando le indagini sull’omicidio dell’ufficiale dell’intelligence palestinese Jad Tayah, assassinato pochi mesi fa. Baha Balousha, il padre dei tre bambini uccisi, si stava occupando di quelle indagini. Alcune settimane fa il suo comandante provvisorio Tawfiq Tirawi aveva incassato il rifiuto di Hamas a fornire i nastri delle telecamere di sicurezza installate presso la casa del primo ministro palestinese Ismail Haniyeh, che sembra contengano le immagini dell’assassinio. Stamattina un commando ha aspettato la macchina che porta i bambini di Baha Balousha a scuola e ha crivellato di proiettili Osama (10 anni), Ahmed (6 anni) e Salah (3 anni). A Gaza è la guerra civile, piazza per piazza, strada per strada. Nessuno ricorda che la quarta vittima, poco più che maggiorenne, l’autista, era per Baha Balousha un altro figlio. Contemporaneamente nelle strade di Gaza si spara, la Spada dell’Islam aggredisce ragazze vestite all’occidentale, una dozzina di internet point vengono dati alle fiamme perchè accusati di diffondere pornografia. Al funerale ci sono migliaia di persone. Anziani seduti lungo il perimetro di un grosso tendone, bevono caffè amaro, come da tradizione del lutto. Gli altri, a migliaia, brandiscono i loro mitra gridando vendetta. Baha Balousha, ci identifica tra mille, perchè giornalisti della radio e occidentali. Vuole parlare della sua vendetta. Tutto dimenticherò (quasi, forse), tranne le fiamme che letteralmente uscivano dai suoi occhi. Poi andiamo dal portavoce di Hamas, dice di non saperne niente e di essere costernato; nel frattempo il leader di Hamas Haniyeh sta tornando da Teheran con un regalo di 250 milioni di dollari. In queste ore, si sta scrivendo la storia del Medioriente dei prossimi 10 anni.Andiamo via di notte, a tutta velocità. Nelle strade gli spari sembrano diradarsi. O forse è solo perchè ci stiamo allontanando, verso il confine, attraverso il confine, oltre il confine. Dicembre 2006

Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967.

Riflessioni Confini come luoghi di incontro di James Bradburne

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pon recently re-reading G.H. Hardy’s Mathematician’s Apology, it struck me that given the increasing pressures on contemporary society it might be a good time not to apologise, but to make an Apology. Hardy defines the aim of such an apology as twofold: first, to justify why one has chosen to spend one’s life doing, in his case mathematics, in mine, education; and second, to explain why such activity is worth doing in the first place. According to Hardy, we all choose to pursue our chosen calling, such as it is, for three reasons: curiosity, professional pride, and ambition. What have I spent most of my life doing? My work generally involves helping create environments where learning for its own sake is a pleasure. In creating such places, it is a comfort to believe that one is also creating the kind of world that celebrates the values of mutual respect, diversity and curiosity. Hardy disparages the desire to make the world better as a genuine motivation, and argues that it pales in comparison to the ‘real’ achievement of having discovered even a trivial mathematical truth. He sneers at those who are not ‘makers’ and writes ‘there is no scorn more profound, or on the whole more justifiable, than that of men who make for men who explain. Exposition, criticism, appreciation, is work for second-rate minds.’For Hardy the phrases we use at the Palazzo Strozzi - ‘visible listening’, ‘a piazza not a stadium’, ‘bottom-up not top-down’, ‘users not visitors’would have little lasting value – after all slogans aren’t mathematical formulae. Is making the places ‘where you can discover that the life of the mind is a pleasure’ worth doing? Some would argue this work is subversive at best, even destructive at worst. Critical thinking challenges social, political, religious and academic hierarchies. Inviting others to debate on an equal footing threatens existing power structures. Celebrating differences relativises social practices. Encouraging curiosity leads to questioning authority. In Reggio Emilia my colleagues say that i confini sono i luoghi dell’incontro (boundaries are where we meet each other), and it is precisely because I believe in a world in which differences have a positive value, in which everyone has the right and the ability to challenge authority and to explore new ideas, that I would argue that my time has not been entirely wasted. Surely the world must nurture new explorers if it expects new discoveries? ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com


Il popolo del blues

Confini 4

di James O'Mara

Una fusione chiamata Americana di Giulia Nuti

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l 19 aprile del 2012 se ne andava Levon Helm, batterista di The Band, gruppo storico che Bob Dylan scelse come sua band di supporto nella seconda metà degli anni Sessanta, collaborazione documentata, tra i vari, nell’album The Basement Tapes. Il capitolo più significativo della storia personale della Band è la pubblicazione dell’album Music From Big Pink, del 1968, testimonianza di come il gruppo fosse in grado di fondere folk, blues, country, bluegrass e il meglio della grande tradizione americana per generare qualcosa di assolutamente unico, immortalato in brani come The Weight. Cosa c’entra questo con i confini? C’entra con l’indefinibile momento in cui nasce un nuovo genere musicale. Come accade esattamente nessuno lo sa. Eppure succede che elementi assolutamente noti, a cominciare dalle dodici note, sempre le stesse, si combinino per generare qualcosa di mai sentito prima. Come ci riuscirono? Nelle parole di Larry Campbell, chitarrista di Bob Dylan dal 1997 al 2004, “presero tutti gli ingredienti già a loro disposizione, ma cucinarono una torta che nessuno aveva mai assaggiato prima. All’epoca c’erano già il folk, il rock n’ roll, il country, ma nessuno aveva mai sentito ciò che loro furono in grado di fare”. Oggi il genere ha un nome. Si chiama Americana e ha persino una propria categoria ai Grammy Award. All’epoca, sicuramente, nessuno se lo sarebbe immaginato.

Classika Macché Manzoni, viva gli operisti di Gregorio Moppi

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sulla bocca di tanti anche oltre i confini d’Italia e del Canton Ticino. Rimbalza da Londra a Dubai, da Tokyo a New York, da Mosca a Sidney, da Berlino a Buenos Aires. Ogni giorno l’ascoltano migliaia di persone, magari senza capirla davvero ma comprendendone comunque il senso grazie alle note che la rivestono. La adoperano per esigenze di mestiere decine e decine di persone, e molte di queste la usano pure come passepartout per la comunicazione. Al punto che capita spesso di domandare a qualcuno di loro, russo o francese o orientale o israeliano, con cui si è fissata un’intervista, se è possibile farla in inglese, e la risposta è: “Ma perché non in italiano?”. Infatti, come fin dal Seicento accade, la nostra resta tuttora la lingua franca del teatro lirico e in generale della musica d’arte (poiché non v’è quasi partitura dove non si trovino parole tipo forte, adagio, presto con fuoco, rallentando). Dobbiamo soprattutto ai nostri operisti - che non appartengono al bagaglio di cultura generale del cittadino italiano medio essendo stati troppo sviliti dai programmi scolastici nazionali che mai li hanno giudicati imprescindibili - se la nostra lingua continua ancora ad attrarre l’attenzione del mondo e a venir studiata, conosciuta, praticata da chi italiano non è. Lo dobbiamo a Vivaldi e Donizetti, a Puccini e Monteverdi, a Pergolesi e Bellini, a Mascagni, Rossini e Verdi; come pure a chi, come Händel e Mozart, su versi italiani componeva perché così reclamava l’uso del tempo. Se questa nostra, benedetta, bella lingua risuona ancora oltreconfine, lo dobbiamo a loro più che a Manzoni, che al di là delle Alpi nemmeno sanno chi sia.

Mare nostrum

di di Pilar Roca

Percorsi

Dall’Armenia

Attratti da un panorama lontano

Il portone di Alessandro Magno

di Massimo Niccolai

di Sonya Orfalian

S

ono millenni che ci adattiamo ai confini, la nostra stessa esistenza è basata sui confini, il nostro stesso corpo ha dei limiti, la lingua con cui comunichiamo ci confina in un mondo definito. Fin da piccoli ci sentiamo dire: non fare questo! Stai attento a fare codesto! Chissà cosa potrebbe accaderti se fai quello! E’ un continuo imparare a confinarsi eppure, nello stesso tempo, la nostra storia è piena di uomini e donne che sono andati oltre i confini attraversando mari e monti e non solo. Permettendo a quelli che venivano dopo di conoscere e riconoscere quegli immaginari che ci tormentano fin da sempre e chissà forse sono proprio loro che ci spingono ad andare oltre quel limite così ben segnato, che ci fanno intraprendere percorsi su strade inesplorate senza sapere assolutamente dove ci stanno portando, eppure andiamo. Già, ma partiamo sempre dai nostri confini, anzi molte volte quando non ce li danno ce li procuriamo, ci sentiamo bene nel nostro territorio, nella nostra identità, nella nostra isola. E’ grazie a questa che ci possiamo permettere di guardare quel panorama lontano e pensare di raggiungerlo e quando l’abbiamo raggiunto i nostri confini si dilatano e non possiamo più tornare indietro. Ormai qualcosa è cambiato.

Ri-cercata Quelle cellule senza passaporto di Clara Ballerini

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ual è il confine di una cellula, cosa la identifica in modo inequivocabile? Si potrebbe dire la membrana che la circonda, responsabile di ogni scambio fra esterno e interno, fra ambiente e citoplasma e responsabile dei gradienti di concentrazione a cui consegue una funzione, uno stato di attivazione piuttosto che un altro. Però la membrana è uguale per tutti e né lei né i marcatori presenti in superficie decidono a priori l’identità di una cellula, semmai il suo stato. Avanza sempre più l’idea che il materiale genomico, il Dna con tutte le proteine associate che ne regolano la trascrizione sia il vero confine che a livello embrionale decide cosa sarà una cellula. E anche questo non basta, perché spesso cellule che andranno a fare cose diverse hanno profili epigenetici, cioè di geni e proteine correlate, identici. Accanto a rigorosi confini, come quello spaziale che fa sì che in un embrione se sto di qua sarò cervello se sto di là sarò fegato, le cellule mantengono poi una capacità plastica che non permette previsioni precise secondo rigidi paradigmi, togliendo così di fatto la possibilità di mettere confini alla curiosità a alla ricerca.

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Dylan Bob Dove suonano i silenzi di Marco Poggiolesi

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l rullante ostinato di Ravel, il sax ruvido di Parker, il maestoso corno di Mozart, l’irriverente armonica di Dylan. La nostalgica chitarra di Rodrigo e il sensuale contrabbasso di Mingus. Non imprigionateli nel filo spinato, non arginateli nei confini dei generi musicali. Quelle note volano libere e leggere sopra le strade e le montagne, dentro l’anima e lungo le dita di ogni uomo e donna che si siede di fronte ad una tenue luce, alla sera, in compagnia del suo strumento; alla ricerca di un luogo lontano e meraviglioso dove cielo e mare si confondono e le ombre danzano intrecciate da un medesimo destino. Dove vento e sabbia e silenzi suonano irripetibili melodie, finché Atahualpa o qualche altro Dio non ti dice “descansate niño, che continuo io...”

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TOMBOLONE Teatro del Sale

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Una stella a Firenze Ricetta Un cavolo... nero di prevenzione di Fabio Picchi

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a cucina come prevenzione anti tumorale deve essere una pratica quotidiana capace di sconfinare nei saperi altrui. Frullate mezzo chilo di ricotta con due etti di cavolo nero precedentemente sbollentato, aggiungendo un cucchiaino da tè di polvere di curcuma, una bella macinata di pepe nero, due piccoli spicchi d’aglio, un non niente di pepolino più un non nulla di peperoncino in polvere, un etto di olio extra vergine e quattro uova intere. Frullate il tutto e confinate questo liquido impasto senza timore in una teglia, facendo sì che risulti alto circa due centimetri. Cuocetelo poi, non oltre i cento grandi, per il tempo necessario e assolutamente riconoscibile per la sua improvvisa morbida compattezza. Fatelo raffreddare e aiutandovi con una spatolina metallica sporzionatelo a mattonelline sporcandole, una volta messa sul piatto di servizio, con un ulteriore C d’olio a crudo.

L’orto La natura addomesticata

Un pisano davanti all’uscio

Se la guerra è routine

di Stella Rudolph

di Sefy Hendler

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D

alla fine dell’Impero romano all’Unità d’Italia la storia della nostra penisola si è articolata pur sempre nei termini di confini: tra domini bizantini, longobardi e svevi, signorie e repubbliche, lo Stato della Chiesa (poi ridotto entro il perimetro della Città del Vaticano), regni o vicereami francesi, spagnoli ed austriaci, principati e ducati, giù giù sino ai comuni. Con la recente delibera del governo di quasi dimezzare le attuali 107 provincie, accorpandole intorno a città metropolitane nelle regioni, si sono scatenate un po’ ovunque animose proteste per tutelare l’identità artistica-linguistica-gastronomica, ecc., di ogni fetta o fazzoletto del territorio, tuttora pervasi da antichi rivalità e rancori campanilistici. Quanto alla Toscana, è bastato un vecchio detto livornese – “Meglio un morto in casa che un pisano davanti all’uscio” – per spingere un cittadino pisano ad issare sul confine, qualche settimana fa, lo sconsolato cartello “Pisa – frazione di Livorno”. La supremazia di Firenze come capoluogo si era consolidata colla padronanza su Arezzo (1384), Pisa (1509) e Siena (1559). Tuttavia albergava nel Granducato mediceo e poi lorenese un’enclave che esso stentava ad incamerare: la piccola, tosta e prosperosissima Repubblica di Lucca. Estinta alfine coll’occupazione francese del 1799, risorse come principato retto dalla sorella di Napoleone, Elisa Bonaparte Baciocchi, indi quale ducato sotto Carlo Ludovico di Borbone-Parma in seguito alla Restaurazione. Quella dinastia si concluse nel 1847 e lo stato confluì (dopo una breve annessione al Granducato), coi suoi connotati culturali autoctoni, per l’appunto nell’Italia unita. Sarebbe da chiedersi se casomai il concetto di confine, esplicato in questi contesti così intrisi di limitrofi e sentimenti atavici, vada interpretato come un recinto di chiusura oppure una frontiera/varco di scambio.

di Stefano Pissi

Cinema

I

l primo passo da muovere, necessario alla progettazione di un orto è, tracciarne i confini. Non obbligatoriamente regolari, ortogonali, hanno aiutato l’essere umano a circoscrivere una questione: addomesticare la natura; oltre quei limiti, spontanea, selvaggia. Proseguendo avanti, all’interno, ci saranno aiuole a separare ulteriormente Cetrioli dai cavoli, fagiolini dalle cipolle. In sostanza dentro si avrà il noto, fuori l’ignoto, e il confine? Un luogo non luogo; come stare sulla cresta dell’onda, attenti e svegli di necessità, per non essere risucchiati, nè dal recintato nè dallo sconfinato. Frequentare i confini è a parer mio fondamentale, per avviare una crescita, altrettanto voluta. Con attenzione ci avviciniamo e sfiorandolo percepiamo l’adrenalina: è questo il momento in cui sbirceremo gli spazi sconfinanti e sconosciuti, il famoso al di là. Ecco perché, talvolta, scelgo rosai rampicanti (un esempio la Dorothy Perkins) per delineare i confini di un orto; i suoi fiori portati a mazzi, di colore rosa chiaro e delicatamente profumati attraggono, mentre le spine destinate ti allertano a stare veglianti, sulle medesime. A Dicembre, mese di confine, è il momento migliore per il trapianto di piante: esseri viventi, specialmente di quelle nude e dormienti che, delicatamente, nel sonno, solleviamo e poniamo nella terra, non per un funeral bensì per il matrimonio.

Un verre de vin rouge Dalla bora di Trieste di Ugo Federico

L’

Italia, paese stupendo e vario sia nel territorio, sia nelle culture che convivono all’interno di una penisola interessantissima. Culture e uomini che lavorano da sempre con grande dedizione mantenendo le tradizioni lasciateci dai nostri antenati. Terra di vino e di vitigni autoctoni stupendi come la Vitovska, uva coltivata sull’altopiano del Carso, in Friuli. Terroir unico, con un clima moderatamente continentale e la Bora che soffia ad oltre 120 chilometri all’ora. Zona di confine, situata a pochi chilometri dalla Slovenia dove le culture si incontrano. La V. Vitovska Collection 2006 di Benjamin Zidarich è vino figlio solo delle migliori annate, produzione limitata, frutto di un lavoro di selezione attenta e nel pieno rispetto della natura. Vitigno molto interessante che esprime a pieno le caratteristiche del terreno roccioso-calcareo. Mosto macerato sulle bucce per venti giorni in tini di legno, viene poi affinato per 4 anni in botti di Slavonia, imbottigliato senza alcuna filtratura o stabilizzazione. Color giallo dorato, non perfettamente limpido, con profumi di frutta cotta e salsedine. In bocca sapido e persistente, vino di grande struttura, pur mantenendo una sua eleganza. Frutto di confine, ma senza frontiera alcuna. Bevuto a Trieste, una giornata ventosa.

l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Raffaele Palumbo. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno IV Numero 10 del 1/12/2012. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

Si ringrazia

conti capponi [conticapponi.it] MUKKI [mukki.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP [oliotoscanoigp.it] Questo numero dell’Ambasciata Teatrale è stampato su carta naturale prodotta con il 100% di carte riciclate post consumer

Da Tel Aviv Segue dalla prima

Il ritmo interno di Juan Pittaluga

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armi toute les limites qui façonne le cinéma, le cadre, le mouvement, le in ou le off, le travelling ou le panoramique, la suivie d’un acteur dans l’espace ou son assujettissement, etc, une reste souveraine, c’est le durée. Un film doit faire entre 90 et 120 minutes -en moyenne, non pour des raisons commerciales, sinon culturels. La même durée standard approximative se retrouve dans un concert de musique, une classe d’université, un discours de politique, un diner au restaurant, le temps de conduite conseillé sur la route, les phases du sommeille, etc. Le temps d’attention cognitive est un temps culturel. Ce qui reste surprenant c’est que le rythme interne d’un film, doit évoluer pour ne par refouler l’attention d’un spectateur. Alors comment raconter une histoire en deux heures? Les films d’actions ces derniers années partent de la base qu’il faut larguer l’adrénaline les premier minutes avec de l’action. Cela donne des film ou le suspens restent soumit a l’action et notre attention infantilisée est a la demande permane nte d’effets. Le discours n’a plus de place. Si le Jaws de Spielberg reste le meilleur exemple du grand succès populaire d’histoire bien racontée, c’est parce qu’il respecte le timing d’un récit. Et comme l’ancienne rhétorique, l’art de persuader passe par la bonne manipulation du langage. Comme le disait Francis Bacon, c’est l’art d’appliquer la raison a l’imagination pour mieux mouvoir la volonté. Comment raconter une histoire en deux heures aggiornata a l’anxiété contemporain? Cela reste la plus belle des limites du cinéma. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Confini 4

ove viviamo noi, questa guerra non è soltanto apparsa in tv ma ha anche interrotto le nostre vite quotidiane ogni qual volta delle forti sirene ci avvertivano che un missile era stato sparato dalla Striscia di Gaza verso Tel Aviv. Una forte sirena e dopo 90 secondi il fragore o dell’esplosione del missile sparato verso di noi o del missile di intercettamento sparato dalla batteria, Scudo di ferro dispiegato per proteggerci. Questo sistema geniale ha intercettato il 90% dei missili e tuttavia, quei novanta secondi tra la sirena e l’esplosione, per noi nascosti in un rifugio o dove potevamo in mezzo alla strada, erano tanto snervanti quanto solo un allarme inaspettato può essere. È così che sono le guerre, senza senso e snervanti. Prendete ad esempio il primo missile sparato da Gaza verso Tel Aviv all’inizio delle ostilità a metà Novembre. È caduto molto vicino alla spiagga di Jaffa, a poche centinaia di metri dalla residenza dell’ambasciatore francese in Israele. La residenza francese è una villa magnifica, progettata da un architetto ebreo di famiglia araba che l’ha poi venduta ai francesi all’inizio del Ventesimo secolo. Per di più, mentre per poco il razzo non distruggeva questo meraviglioso luogo, un gruppo di 19 imam dalla Francia veniva accolto dall’ambasciatore francese Christophe Bigot nella sua casa. Ecclesiastici musulmani in viaggio di pace e tolleranza da Israele verso la Palestina. Ed erano proprio quegli Imam, invitati dalla Francia in Terra Santa per mostrare loro che la religione non è solo motivo di separazione ma che può anche unire le persone, erano proprio questi che il cieco missile lanciato da Gaza ha quasi ferito. Fortunatamente è caduto in mare e la sua esplosione ha solo creato molto spavento. Una guerra insensata di missili senza confini. Grazie a Dio, possiamo ancora trovare tra di noi coloro che decidono di rompere i confini anche in nome del buon senso.

di James O'Mara


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