Il racconto di Stefania Ippoliti a pag. 3
Arrivederci grandissima e unica Franca Rame, donna che ha amato le donne, la vita, l’arte, la coscienza politica, attraversando la scena di tutti i teatri del mondo e la scena della vita tutta. Grazie.
circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
UNO... due, tre, quattro, cinque, sei... (indicazione per il lettore: contare fino a 100 e poi si può smettere) non vuol dire nulla, ma è semplicemente passato un po’ di tempo. Pace e Bene!
I giugno 2013 ANNO V • NUMERO
Maria Cassi
parlando di “UNO”
Sintesi esaustiva
Massimo Bucchi
Gesti teatrali
Un uomo un dio
Noi siamo quella razza
di Milly Mostardini
di Alberto Severi
Q
“Z
uesto è un apologo di tipo spirituale o religioso, se preferite, che viene dalle terre del Medio Oriente e racconta di un uomo e di un Dio. L’uomo è un giusto, nel significato biblico del termine, e quando sente che si approssima la sua ultima ora, ha una visione ricorrente: sogna una lunga strada, dove sono tracciate le impronte dei passi di due persone, che camminano affiancate. Il nostro uomo capisce presto che si tratta del cammino della sua stessa vita, e pensa subito che la doppia fila di impronte, accanto alle sue, sia quella dei passi di Dio, che lo ha accompagnato. Tuttavia, scrutando ancora dentro la sua visione, si rende conto che talvolta le orme sono di uno solo, non di due in cammino: e scorrendo analiticamente il tempo, realizza che la sola striscia di orme corrisponde proprio ai periodi, in cui lui era scoraggiato, ammalato, privo della speranza di poter tirare avanti. Ed ora il nostro uomo si chiede: “Perché Dio mi ha abbandonato proprio nei momenti di crisi e mi ha lasciato da solo nel cammino? Se potrò incontrarlo, glielo chiederò”. E così il nostro uno muore, passando all’altro mondo: lì incontra l’altro uno, il Dio suo compagno di cammino, e gli pone subito la sua domanda: “Perché, quando ero smarrito e disperato, non eri al mio fianco?” E Dio, l’uno in assoluto, anche sotto nomi diversi, gli risponde: “In quei periodi neri e dolorosi della tua vita non camminavo accanto a te, infatti non ti eri accorto che allora ti portavo in braccio”. Sono tanti i modi in cui ognuno può leggere, interpretare o commentare questa piccola storia. A me piace raccontarla, perché mi provoca sempre, da non credente, una forte emozione.
Reminiscenze
L’inizio di tutto di Giudo Paoli
P
arlare dell’uno significa aprire capitoli infiniti perché richiama talmente tanti concetti ed idee che si potrebbe scrivere per giorni. Vorrei partire ricordando che è una questione studiata fin dal 500 a.C. circa da parte dei filosofi greci (Pitagora e Parmenide in primis) come il principio che sta alla base della realtà, dell’Essere eterno, immortale, unico. Infatti l’uno è il numero indivisibile ed immutabile, rimane tale se lo si moltiplica e lo si divide per sé stesso; questa proprietà gli conferisce una stabilità unica e straordinaria nel panorama dei numeri. L’uno di qualsiasi cosa è solo quella cosa. È interessante notare come, nella Bibbia, l’uno sottintenda che il concetto del tempo sia conseguente alla nascita dell’universo. Infatti il testo ebraico di Genesi 1,1 (eccone altri due, di uno!): “In principio…”, inizia con la beth, che è una lettera chiusa su tre lati ed aperta nella direzione del testo (equivalente alla nostra c, ma con l’apertura rivolta a sinistra poiché l’ebraico si scrive e si legge da destra a sinistra). Questo vuol dire che prima di quell’inizio l’indagine non è accessibile, e per ribadire il concetto, al momento della creazione del giorno e della notte, che l’autore colloca il primo giorno, la traduzione letterale dall’originale è: “fu sera e fu mattina, giorno uno” (Genesi 1,5), specificando proprio con questo termine che non esisteva un tempo anteriore, che non c’era un prima ed un poi ma solo quel giorno, l’uno, il momento in cui tutto ha inizio; da quell’istante nasce la sequenza dei numeri successivi e, quindi, lo scorrere del tempo (almeno in senso fisico). Il termine primo avrebbe invece indicato una serie già esistente di giorni, e quindi una continuità temporale. L’uno sta alla base dei numeri primi, divisibili solo per lui (ha una sua personalità giuridica) e per sé stessi. Ma uno è anche un’entità a sé stante che esprime una qualità e non solo una quantità: l’unità, l’uno, Dio, l’unico, l’eterno. E qui la storia si apre alla nostra interiorità.
Editoriale
I miei insegnanti di Fabio Picchi
N
ella mia poco autoreferenziale carriera scolastica ho preso di tutto, da un orgogliosissimo zero, seguito da un segno meno ripetuto undici volte, dell’anglo-professoressa Detti, alla quale contestai il senso matematico di quella non unità seguita da quella squadra di calcio di improbabili trattini, al dieci che mi fu assegnato da un entusiasmante supplente. Lui, al di là dei molti errori ortografici, apprezzò quelle giovanilissime osservazioni fatte dalla finestra di camera mia che permetteva di guardare in quegli anni l’arrivo mattutino dei tanti pendolari alla stazione di Campo di Marte che sciamavano per la città con le loro borsette da operai, infagottati nelle fredde e buie mattine invernali. Dieci che fu prontamente trasformato in un quattro dall’odioso maestro Lombardi, che rientrando ristabilì subito le sue priorità. Indimenticabile il primo nove in storia, come l’otto in matematica nell’unico anno romano del mio percorso liceale, dove il Dio degli studenti mi fece incontrare, sulla strada di un esame, il genio fiorentino del professor Fedri che mi illuminò d’immenso, di logaritmi ed altro, facendomeli intendere nella loro più profonda intimità. Indelebili e infiniti i tanti sei salvifici per non aver studiato un accidente ed essersi solo affidato alla personale parlantina. E i tombali tre in chimica, e i due politici per condotta, si diceva in quegli anni rivoluzionari. Il sette mai più ripetuto in inglese, grazie ad un innamoramento per William Blake. Gli innumerevoli 5 che davano speranza di un probabile miglioramento o la certezza di un dolorosissimo rimando a settembre. Insomma avrete già capito che nel mio medagliere manca, per mia fortuna, solamente quell’uno, con quella sua terribile unicità che mi avrebbe tradotto, ne sono sempre stato certo, in un’insanabile tristezza e solitudine. Per questo scrivo qui un unico ma grande grazie a tutti i miei insegnanti, sia quelli buoni che quelli cattivi, che mi hanno fatto evitare quell’unità così disperante, così poco terrena che solo se divina acquista assoluti immisurabili e innominabili, e che, al contrario, ti può far precipitare in un inferno. A tutti costoro, uomini e donne, empatici e non, sia passati che futuri, do in cuor mio un quantistico e risuonante filosofico non punteggio, che dunque non si colloca fra il buono e l’ottimo, ma li assolve da tutte le loro umane insufficienze, sapendo che quasi sempre nella vita come nella scuola, vale, per loro condanna, quel che veniva detto puntualmente ai miei genitori: il ragazzo è intelligente ma non si applica.
iao mama, mi zon contento d’esser arivado uno!”. Così, un tempo, quando i corridori ciclisti si dopavano meno e si acculturavano zero (oggi, si sa, si bumbano di emo-calcestruzzo, scrivono autobiografie sulla falsariga dell’Ulysses di Joyce, e nelle interviste rivolgono appelli per il rispetto dei diritti civili nel Burkina Faso), così – dicevo – era proverbiale parodiare negli sketches televisivi la rituale intervista del dopo-tappa al campioncino della bassa bergamasca o padovana, che era arrivato primo al traguardo. Uno valeva primo, perché si sa, chi arriva primo è, morandianamente, quell’ “uno su mille” che “ce la fa”. Erano tempi in cui la bicicletta non si era ancora caricata di sovrasignificati ideologici, e dunque non veniva inforcata aggredendo contromano le vie del centro storico, o senza rispettare la precedenza, o piantandosi in mezzo alla carreggiata evitando di dare strada alle automobili cattive e inquinanti che premono alle spalle, perché la bici è buona ed ecologica e alternativa e antagonista, e dunque ha sempre ragione lei, tiè! La bici non veniva esibita nei manifesti elettorali dai candidati sindaco o deputato più democratici e informali (“uno di noi”), era solo uno strumento autenticamente proletario, faticoso, muscolare, fruibile a volte anche in due, purché maschile, e dotato di canna. Da cui il gesto, a suo modo teatrale, di invitare l’amico, o l’amica, a montare in canna (ed era nota la barzelletta lubrìca e fallocratica di quello che a metà strada confessava all’avvenente ragazza fatta montare in canna che la bicicletta in oggetto era una bici da donna...). Chi montava in canna doveva accomodarsi in bilico, in maniera pericolosamente intima, fra le braccia di quello che impugnava il manubrio, e pedalava: il quale, soprattutto nei primi metri, faticava non poco a mantenere salda la presa, senza procedere a zig-zag, senza far pendere il mezzo a destra o a sinistra, e conservando sufficientemente libera la visuale, parzialmente impedita dalla presenza del passeggero.Potevano uscirne scene assai comiche, di valenza non solo e non tanto teatrale (difficile far pedalare qualcuno su un palcoscenico), quanto piuttosto cinematografica. E difatti l’abbiamo rivista spesso, in questi giorni tristi, quella buffa sequenza, su una strada di estrema periferia, o di campagna urbanizzata, fra Segue a pag.2 campi e capannoni.
Occhio di bue
Lasciate che i bambini Il gigante che vinse l’invidia ma non il dio mercato di Tomaso Montanari
Uno. Uno solo. E colossale: un gigante. Come quelli che si leggevano nelle storie degli antichi, se erano vere. Ci avevano provato lungo un secolo intero, senza riuscirci. E non in astratto: quel pezzo di marmo era arrivato a Firenze proprio a quello scopo, quarant’anni prima. Ma niente: l’avevano mezzo rovinato, senza riuscire a tirarci fuori nulla. Poi arriva lui: Michelangelo. Avrà sì e no venticinque anni: fallirà come tutti, dicono i fiorentini. Sempre gli stessi. E invece no. Lui ci riesce. E da quel marmo sciancato salta fuori il gigante. L’uno per eccellenza: l’uno unico. La singola figura umana più perfetta che mai fosse stata concepita. La forza, la potenza, la giustizia fatte corpo. Un corpo. Uno solo. Tanto perfetto che si decise di non issarlo sulle guglie del Duomo, ma di metterla in piazza. E lo decisero Botticelli, Perugino, Leonardo: il gigante aveva vinto anche l’invidia. L’unica battaglia che ha perso è stata quella con il tempo. E così nel 1873 il gigante fu fatto prigioniero, e trasportato in un museo. E l’uno subì l’onta di diventare due, anzi tre. Una copia di marmo fu messa in piazza, una di bronzo al piazzale. E lui in gabbia: come al circo, o al luna park. Buono per far pagare i biglietti ai turisti. È così che ha perso la sua forza, quell’unico gigante. Non riesce più a difendere la piazza e il Palazzo Vecchio: sarà per questo che laddove regnava la Florentina Libertas, la libertà di Firenze, oggi si celebra il dominio del dio mercato. E lui sta in gabbia: venghino, signori, venghino.
2
Copia del David di Michelangelo. Piazzale Michelangelo, Firenze
A Carlo Monni
Gesti teatrali
Non ci resta che piangere
Noi siamo quella razza
di Tommaso Chimenti
di Alberto Severi
S
C’
e uno dev’essere che uno sia. Cercare l’uno al di sopra del bene e del male, diceva Battiato. Sono giorni di perdita questi. Un pezzo di Firenze se n’è andato. Frasi fatte, parole scontate, sempre le stesse. Stavolta vere, sentite, piene. Carlo Monni non c’è più. Il sindaco delle Cascine, come veniva chiamato per le sue passeggiate mattutine sul greto dell’Arno che, a detta sua, lo avevano salvato dal diabete. Con i sandali partiva da via dell’Inferno per cercare un po’ di pace tra gli alberi e i fiorentini che lo salutavano, gli sorridevano. Amico di tutti. Un uomo buono. Nel caso di Carlo Monni (per tutti solo e soltanto I’mmonni) generoso, timido, solare, vicino e solidale con tutti. Una parola la scambiava volentieri tra le vie del centro con chi, curiosi di un contatto, avidi di uno scatto, lo fermava un minuto per una battuta, una chiacchiera. Monni era di tutti i fiorentini, al di là di Bozzone o Vitellozzo. Era sempre stato così, divenendo l’icona di se stesso, sublimando la sua figura in un monumento in movimento. Momenti che resteranno come cult, al di là delle generazioni che passano: la biciclettata con Benigni declamando la poesia “Noi semo quella razza”, in “Non ci resta che piangere”: “Se finirò, finirò come i babbo”. Dopo Monicelli un altro colpo per Firenze. Dietro la pancia, la camicia arrotolata sul ventre, la barba arruffata, i capelli scompigliati, le magliette non stirate, i sandali polverosi e le unghie degli alluci neri c’era dolcezza e fragilità, tenerezza, confidenza. Uno che è sempre stato amato dalla gente, dal popolo, per quello che era, né più né meno, vicino agli ultimi perché aveva conosciuto la fame, la povertà, il marciapiede, la strada. Un sorriso che si allargava, la testa china in avanti, quel sottile imbarazzo che era accoglienza, abbraccio. Un giorno gli chiesi: “Perché fai l’attore Carlo?” “Per andare a cena dopo”, rispose candido com’era lui. Ecco, qui c’era tutta la sua filosofia di vita: il cercare la compagnia dell’altro, lo scambio, le parole. Amava la solitudine come amava stare in mezzo alla gente, era schivo e sensibile, irascibile e burbero solo in alcune scene memorabili in pellicola. Nella vita era pane, una scorza ruvida e dentro una mollica morbida.
Segue dalla prima
è un omino magro e segaligno che pedala arrancando, portando in canna un omone baffuto che declama: “Noi siamo quella razza che non sta troppo bene...” Di lì a qualche anno l’omino, fattosi meno segaligno, e smontato di canna l’ingombrante passeggero, pedala pedala sarebbe arrivato uno sulla scena mondiale. Mentre l’omone, invece, sarebbe rimasto a piedi sui suoi sandali birkenstock, “uno di noi”, e tuttavia unico, inimitabile, e, adesso, ahimé, insostituibile. Che dire? Sono spesso i migliori ad andarsene per “uni”: Nico, Ernesto... Carlo. Insomma, vedete voi che salti mortali m’è toccato di fare stavolta per onorare insieme il titolo della rubrica, il tema di questo numero del giornale, e la memoria del caro, caro Carlo Monni – su cui per sempre è calato il SIPARIO.
Dall’Armenia Il gallo canta di Sonya Orfalian
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Percorsi
Staino 2013
Non più solo di Massimo Niccolai
U
no: l’unica immagine che mi evoca questa parola è una estrema solitudine una piccola fortezza circondata da mura invalicabili. Allora vorrei tentare di raccontare la storia di un ragazzino e della sua solitudine immensa che ha fatto di tutto per rompere quelle mura che lo circondavano e lo imprigionavano in un mondo definitivo. L’esperienza non posso altro che definirla come una drammatica inconciliabilità con il mondo. Ebbene, lui è affetto da una grave difficoltà di comunicazione, almeno verbale. Ha cercato continuamente di mettermi in difficoltà tanto che ad un certo punto ho anche pensato di abbandonarlo ma non è mai accaduto. Quello che anche io nella mia estrema solitudine non riuscivo a capire era proprio il suo desiderio di essere compreso, di essere preso in considerazione per quello che era e non per quello che sarebbe dovuto diventare. Mi ha costretto ad uscire dalla mia unicità, a mettermi in gioco, a rompere ogni schema, ogni barriera e confondermi di nuovo con gli altri. Con lui ho trascorso molto tempo senza comprendere, fino a quando finalmente è accaduto qualcosa, un evento semplice ma determinante che ci ha permesso di abbattere una parte dei nostri muri e cominciare a parlarci in un modo che non è possibile definire ortodosso ma comunque efficace. Abbiamo cominciato a comunicare e affidarci l’un l’altro tanto da permettermi di entrare nel suo immenso profondo mondo fatto solo di solitudine abissale. Da allora come per magia è accaduto quello che non avrei mai pensato che sarebbe potuto accadere: non solo lui ha imparato a stare assieme agli altri, ma gli altri hanno imparato a stare assieme a lui. Il mondo si è rovesciato, gli altri hanno imparato ad accettare la diversità o più propriamente la diversità si è dissolta e finalmente è comparso un ragazzino un po’ strano ma soprattutto un ragazzino. Finalmente non si sentiva più solo. Adesso lo osservo correre sorridente in mezzo agli altri, confondersi e molte volte scomparire dal mio sguardo: non è più un uno, si è confuso con gli altri.
Di line e di lane A ognuno la sua anima di Pietro Jozzelli
A
Palazzo Strozzi
Da Tel Aviv
Radice di uno
Da uno a tre
di James Bradburne
di Sefy Hendler
l catechismo, ci hanno insegnato che ognuno ha un’anima. Quella con cui parliamo davanti alla bara di un amico, quella che fa capolino dentro di noi la notte di Natale, subito scacciata dall’attesa del cenone. Ognuno ci ficca dentro qualcosa e ognuno si aspetta un aiuto personale, eppure pensiamo che l’anima sia una, anche se abita milioni di persone. Mi sono chiesto che anima abbia Michael Olumide Adebolajo, l’inglese che ha decapitato in mezzo alla strada di un quartiere di Londra il tamburino dei Fucilieri reali Lee Rigby. Un’anima uguale alla mia? Lui ha deciso di scagliare la sua religione contro quella cosa appannata che è la nostra democrazia, ha gridato “occhio per occhio, dente per dente” ed ha stabilito l’equiparazione tra il suo gesto e la guerra che l’Occidente fa in Afghanistan. Non parlo di politica, ma di anima. C’è in quell’anima un’idea estrema del fanatismo che si fa simbolo e invita ad un programma di morte; c’è nella nostra anima una malinconica predisposizione a credere che niente valga davvero la pena di un sacrificio. Se l’anima è una sola, vivrà di feroci contraddizioni o ci costringerà ad una scelta?
Il racconto
I
n some ways, language is our first patria – our first ‘home and native land’, in the words of the Canadian national anthem. The first languages we hear – long before we become individuals, long before we understand that the world and our will are different – weld together sounds, meanings and the world. The first word magic remains as a powerful memory, and evokes a deep nostalgia. Our words made the world, and the name and the thing shared a deep and powerful magical connection. There was something in the word horse that perfectly captured its essential horseness, something profoundly fiery about the word fire. Much magic – well into the late Renaissance – was word magic, and very serious minds spent a great deal of time trying to discover the names of the angels in order to appropriate their powers. Our words could wound. Our words could shock. Our words could persuade. Our words could console. Our words made the world. Learning a new language is like travel, and opens new horizons, new experiences – and new uncertainties. Just as travel relativises the certainties of our culture and nationality – invisible certainties that like our accent only come into being when they encounter difference – so does the acquisition of a new language deeply challenge our identity – relativising and mitigating the magic of the most powerful words – of love, of hurt, of belonging and of separation. Even more than losing the longing for the land of one’s birth and its ways (a nostalgia in my own case long extinct) the ultimate déracinement is to speak several languages, and, by learning the power of each – to shock, to seduce, to convince – to put an irrevocable distance between oneself and the magical power of one’s first language, learned at one’s mother’s breast at the dawn of one’s own power in the world. There is no way back – it is both the ultimate loss, and the ultimate gain – and the ultimate solitude. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Uno per sopravvivere di Stefania Ippoliti
S
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
ono seduti intorno a un tavolo di legno liscio ma pieno di irregolarità, una luce ne illumina il centro. Le altre lampade sono spente e in casa fa freddo, l’odore di vernice distrae i quattro uomini seduti intorno al tavolo, dandogli quasi alla testa. La tensione riempie la stanza rendendo l’aria densa, così pesante da accorciare il fiato dei presenti. Il loro battito del cuore risuona come una percussione nella stanza. Una casa di marmo e pareti bianche, un luogo asettico, affascinante e spaventoso, in qualche modo emozionante. Il più magro dei quattro ha il viso pallido, le labbra e le occhiaie dello stesso tono freddo di viola. Davanti a lui, dal lato opposto del tavolo un uomo alto più grande degli altri con i capelli rossi e qualche ciocca di un biondo ormai bianco, una goccia di sudore gli percorre senza arrestarsi la tempia destra, fino a scomparire nella sua barba incolta e rada, una brutta barba. Alle altre due estremità del tavolo due gemelli, eterozigoti, uguale solo l’odore dei loro vestiti, penetrante e aspro odore di brace. Probabilmente intrisi dall’odore del camino della loro vecchia casa di campagna. I quattro tentano di mantenere un’espressione facciale impassibile, nessuno di loro deve mai essere stato un grande bluffatore. I loro volti sono consumati dal dolore provocato dall’attesa, sul tavolo non ci sono soldi, la tensione è altissima. Uno dei due gemelli gonfia le guance e butta fuori l’aria come se potesse così liberarsi dell’angoscia che lo attanaglia, che gli attanaglia la bocca dello stomaco senza pietà. Poi ride, di un riso isterico. La risata s’interrompe quasi subito. L’uomo magro, ormai deperito, appoggia la testa tra le mani, il suo fisico non riesce a reggere la prova psicologica alla quale si sta sottoponendo. I battiti del cuore che davano ritmo unisono ai loro pensieri, improvvisamente rallentano, quasi si fermano. L’uomo dai capelli rossi, alza la testa di scatto, ci siamo, tutti alzano la testa in balia di espressioni ormai incontrollate. “Uno!”
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giugno 2013
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Uno/1
by James O'Mara
Perle del Sale
☞ giugno 2013 I
l programma del mese di giugno al Teatro del Sale parte martedì 4, con lo spettacolo di Dodi Conti Bevabbé. “È la storia portata a teatro – secondo la cronaca del Corriere della Sera – di una donna che decide di abbandonare la sua vita omosessuale, soddisfacente ma ormai troppo trendy, per provare invece una nuova esistenza eterosessuale. Ne consegue un’originale, divertente e maldestra iniziazione. Una vera e propria educazione sentimentale raccontata però in chiave ironica. Che sul palcoscenico diventa di una comicità irresistibile. Originale e divertente Bevabbé è una piéce collaudata, da una eclettica e battagliera attrice come Dodi Conti. Scritta a quattro mani con Paola Mammini è diretta da Maria Cassi. Da non perdere”. Mercoledì arriva lo showcase di presentazione dell’ultimo lavoro di Mariella Nava Sanremo sì Sanremo no. La grande autrice ed interprete - candidata al Premio Amnesty International 2013 - presenta la sua ultima raccolta con rielaborazioni attuali di tutti i brani presentati al Festival di Sanremo, dall’esordio ad oggi. Il 6 giugno, giovedì, torna Maria Cassi con Crepapelle, in replica fino a sabato. Lo straordinario innamoramento per Parigi e per Firenze, che tanto ha viaggiato e tanto è stato in scena, torna a grande richiesta, come fosse
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all’esordio. Nella seconda settimana del mese va in scena soprattutto la musica. Martedì 11 arriva Jazz in me, progetto in duo con Ugo Bongianni al piano e Max Amazio alla chitarra. Standard jazz, mainstream, latin e rivisitazioni di brani pop. Poi mercoledì il concerto per Arpa celtica e armonica con Stefano Corsi. Uno dei fondatori dei Whisky Trail fa rivivere la magia della tradizione musicale irlandese. Giovedì è in scena Joy de Vito con il progetto ispirato da Bill Frisell Blues Dream. Vecchi blues del delta del mississippi, folk songs americane e ballads western, il tutto con solo una chitarra ed una loop station. Dice Joy de Vito: “parto da questi vecchi traditional per collegarmi a mie composizioni molte delle quali nascono direttamente dal vivo durante il concerto”. Venerdì 14 e sabato 15 giugno è la volta del teatro internazionale di figura, con il grande Claudio Cinelli. Lo spettacolo si chiama OPS?....... Kabarett (Off Puppets Show). Dice Cinelli: “Quando una diva del Teatro di figura, Regina Cavalla, costringe i suoi animatori, un soprano e una pianista in un percorso ad ostacoli... OPS! così la lirica, la musica e il teatro di animazione perdono completamente la loro etica, e divengono loro stessi, immancabilmente, KABARETT delle proprie anime”. Con
Bianca Barsanti (soprano), Claudio Cinelli (animatore), Stefano Giomi (animatore), Alice Ulivi (piano). Il 18 arriva il Sabir Project. Il Sabir era l’antica lingua parlata nei porti del mediterraneo, comunemente usata per mettere in contatto i commercianti di diversi popoli e favorire scambi di merci e di culture. Da questa idea di incontri che un collettivo di giovani musicisti provenienti da diverse estrazioni e esperienze musicali uniti dall’interesse e la curiosità per le culture tradizionali del mediterraneo decide di fondare il Sabir Project proponendo uno spettacolo musicale che parte dalle danze popolari della Grecia, passando per la musica da banda dei Balcani, il klezmer, la musica zingara, fino ad arrivare al Medio Oriente. Il 19 sono in scena la Fascia del Cotone. Conosciuta nell’empolese dal 2009 dove suonava e suona ancora nei bar (a volte con esibizioni a sorpresa con grande stupore dei presenti) nei pub, ristoranti, ma anche per strada e nelle sagre estive, presenta un reperto quasi per intero composto da pezzi originali di loro composizione ispirati in parte dalle Blue Note e in parte dalla tradizione cantautorale, di quella che professa una vita randagia e autonoma. Sabato 22 giugno, arriva The Main Road Band: Satyamo Hernandez, voce solista, chi-
tarra, percussioni - Luca Burgalassi voce, chitarre, armonica, slide guitar, banjo - Franco Ceccanti, voce, chitarre - Max Bonaventura, voce, chitarre. Nato come trio di chitarre acustiche nel 1995 e successivamente arricchito da basso e percussioni, il gruppo svolge un’intensa attività di spettacolo e di ricerca nell’ambito della musica anglo-americana degli anni ‘60 e ‘70, proponendo brani di propria composizione e rielaborazioni delle più significative canzoni della West Coast, del folk e del country. Un repertorio vastissimo e affascinante. Da martedì 25, chiude il mese di giugno al Teatro del Sale Maria Cassi con Pardon. Soffriggo per te. Lo straordinario progetto musicale diventato poi un doppio cd. Nel primo, Sono solo canzioni d’amore, dove Maria Cassi reinterpreta mirabilmente Battisti, Conte, Modugno, Tenco e tanti altro. Il secondo – L’omo nero - si ispira alla grande musica del ‘900 europeo: da Kurt Weil a Bertolt Brecht, da Lionel Bart a Nino Rota. Completano la raccolta quattro inediti scritti a quattro mani dalla stessa Cassi e da Fabio Picchi. Il progetto si avvale della collaborazione di tre grandi maestri della musica, Antonio Siringo al pianoforte, Marco Poggiolesi alla chitarra e Ferdinando Romano al contrabbasso.
Uno/2
by James O'Mara
Il popolo del blues
Dylan Bob
Classika
Unico indimenticabile
Una musica senza sala
Un artista
di Giulia Nuti
di Gregorio Moppi
di Marco Poggiolesi
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E
S
ex Pistols – Never mind the bollocks, Skip Spence – Oar, Quatermass – Quatermass, Willis Alan Ramsey – Willis Alan Ramsey, Jeff Buckley – Grace, Blind Faith – Blind Faith, Derek and the Dominos – Layla and other assorted love songs, The Postal Service – Give up, The La’s – The La’s. La lista potrebbe allungarsi ancora. Che cosa accomuna queste band e artisti? Il fatto, per scelta, per sfortuna o per casualità, di averci provato una volta sola. Un solo disco, sufficiente ad immortalare un’intera carriera. È uno solo l’album di studio dei Sex Pistols, che fu comunque sufficiente a codificare un genere musicale come il punk. È uno solo il disco di studio di Jeff Buckley, Grace, prima che un tragico destino lo portasse ad affogare nelle acque del Wolf river harbor. Uno solo il disco dei La’s, una delle band più interessanti del primissimo brit pop, così come uno solo quello dell’eclettico Skip Spence della band Moby Grape. Si dice in fondo che il secondo disco sia una tappa difficile per ogni artista. Si possono dedicare anni alla scrittura del primo e a selezionarne accuratamente le canzoni, ma decisamente meno al secondo. Specialmente nel caso in cui si sia rivelato un capolavoro. E il caso di Willis Alan Ramsey, i cui fan stanno aspettando da 41 anni il secondo disco, a cui sembra stia finalmente lavorando dopo aver fino ad oggi, ironicamente, risposto: “Perché, c’è qualcosa che non va nel primo?”.
ra una, unica in Italia. Si trovava a Firenze. Adesso non esiste più. Quasi mezzo secolo di vita, però pochi giorni per smantellarla. È svanita così la sala musica della Biblioteca Nazionale, luogo di ricerca frequentato da studiosi di ogni latitudine dove si conservano, per esempio, i lasciti dei compositori Luigi Dalla e Ildebrando Pizzetti, i 30 mila volumi di proprietà del critico Massimo Mila, autografi di Perosi, Casella, Peragallo, una parte del carteggio della moglie di Toscanini, le prima edizioni Ricordi. Al suo posto è stato piazzato il quartier generale del progetto Google Books: si scannerizzano migliaia di volumi della biblioteca per metterli poi in rete a disposizione di chiunque, gratis. Iniziativa splendida. Ma per lasciarle spazio era proprio necessario mortificare la casa della musica? Certo le monografie, le riviste, le partiture che riposavano entro le sue pesanti scaffalature di legno non sono andate perse; sono confluite su altri scaffali, un po’ nella sala accanto, un po’ nei magazzini, un po’ sono perfino rimaste dove erano un tempo, tuttavia sempre poco accessibili al lettore. Che invece prima, da solo, senza bisogno di dover fare alcuna richiesta scritta, poteva prendersele liberamente, consultarle, compararle, impilandone anche decine di fronte a sé, come si trovasse a casa propria. Se aveva necessità di dare un’occhiata a libri che non erano lì, bastava chiederli e subito gli venivano serviti. E in caso di grattacapi nella ricerca, dubbi, curiosità, giungeva il lesto soccorso del personale di sala. Oggi quest’oasi musicologica è un ricordo. Anche se la direttrice della Nazionale, Maria Letizia Sebastiani, promette entro il 2015 la creazione di un centro per le arti dello spettacolo (musica, danza, teatro, cinema) in una ex caserma adiacente alla biblioteca. Solo che per portare a termine l’impresa serviranno 20 milioni di euro: tra finanziatori pubblici e sponsor privati, reperirli sarà davvero possibile?
pesso l’apparenza inganna. Una notte, verso le Una, girovagando mi sono ritrovato in Un teatro; la sala era vuota, non c’era nessUno o meglio c’ero solo io. Uno strumento giaceva abbandonato sul palco e così non persi l’occasione, a dire il vero Unica, di suonare. Non sapendo proprio quale melodia sarebbe stata la più adatta in quella Singolare situazione decisi di iniziare con Una nota Sola e così feci. Subito quel suono si ingigantì e prese a volare e risuonò. Accarezzò il solitario manifesto di Un Monologo dimenticato su quella parete appeso al vecchio, rugginoso Solo chiodo. Soffiò sul vetro dell’antico Monocolo facendo esplodere la polvere. Strisciò attraverso la porta e sussurrò Un ricordo all’orecchio del clochard e quello sorrise alla lacrima che scendeva. Consolò la delusione dell’amante abbandonato. Benedisse il sorriso della ragazza. Strattonò la foglia appesa al ramo, circondò la statua e si perse nel cono di luce del lampione. Quella che percepiamo come una nota sola in realtà è formata da una infinità di armonici, suoni elementari, la maggior parte dei quali sono come invisibili. La loro Unione, il sommarsi di quelle individualità dà vita alla complessa varietà del miracolo di Una semplice, sola nota, di Una semplice, sola sala vuota, di Una notte, di Una città, di Una storia d’amore, di Una vita.
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Pieni d’Islam
Ri-cercata
Cinema
Esso è uno
Sistema autoreplicante
Capolavori
di Giovanni Curatola
di Clara Ballerini
di Juan Pittaluga
S
T
i chiama minimal cell model, MCM, ed è un modello matematico composto da una cellula virtuale e solitaria. Contrariamente a quanto avviene in generale nella ricerca, dove tiene banco il vecchio proverbio tedesco “ein mal ist kein mal”, qui l’unicità premia ed è la base di un modello teorico in grado di prevedere e mimare un organismo biologico, primo passo necessario per la costruzione di un sistema sintetico che possa in un futuro auto replicarsi e svolgere funzioni utili per la ricerca, e non solo. Così, mettendo insieme un numero essenziale di geni e relativi prodotti proteici - circa 241 geni ma possono forse essere ancora meno - si realizza un MCM completo, in grado di crescere e dividersi, come un batterio. Non solo, il MCM risulta capace di simulare il comportamento di una cellula in termini di metabolismo, di reazione a condizioni ambientali più o meno competitive come apporto nutrizionale e di risposta alla diversa espressione genica. I numeri, che sapevamo già in grado di descrivere stelle, macchine e fenomeni fisici diventano in questo caso un unico, irripetibile essere vivente.
Un caffè
N
el nome di Dio, clemente, misericordioso! Dì: “Egli, Dio, è uno, – Dio, l’Eterno. – Non generò né fu generato – e nessuno Gli è pari”, – (Corano, CXII). L’essenza di Dio e l’essere suo sono uno; il suo essere e l’essere dell’universo sono uno; l’essere dell’universo e l’universo sono uno, proprio come la luce, che cambia nome ma non realtà: per la percezione esteriore essa è una, e per l’occhio della percezione interiore è pure una. Così è l’essere dell’universo: in relazione con l’essere di Dio esso è uno, poiché l’universo considerato indipendente non ha esistenza. La sua esistenza esteriore non è che apparenza, e non realtà. Così è dell’immagine nello specchio; benché possegga una forma, non possiede un’esistenza vera. Hamza Fansuri (Mistico indonesiano del XVI secolo)
Grazie di Lucio Diana
L’orto Il ravanello di Stefano Pissi
I
l Ravanello – Raphanus sativus L. – è una pianta erbacea annuale coltivata già dal popolo Egizio. È una crucifera, come la senape e i cavoli, e noi la coltiviamo per utilizzarne la radice, croccante e carnosa. Nell’orto della mia infanzia spettava a mio padre seminarli, in piccole parcelline, con la terra molto, molto, affinata. D’estate invece, quando il mio compito era innaffiare, ne mangiavo sempre qualcuno in diretta, le radici si denominavano in casa. Arrivavano dall’orto, sulla tavola, sempre insieme ad un cespo di lattuga, per condirle e mangiarle insieme. Piccole tradizioni. Dalle dita del babbo, nella semina, gli uno si distribuivano uniformi in terra come il sale grosso. E allora, chiudendo gli occhi per vedere e percepire in maniera raffinata, intuisco la solidarietà; dove ci auguriamo sempre che ogni singolo e distinto uno si senta parte di un sistema, quindi necessari sempre e indispensabili mai. Del resto come gli uno di un branco d’acciughe o di uno sciame d’api, gli uno di un gruppo di ciclisti o di una goccia di seme, gli uno di una raffica di grandine o di un coro d’alpini, gli uno di un popolo in piazza. E come diceva il poeta: “Uno per tutti e tutti per uno”.
Un verre de vin rouge Il vino è una vita di Ugo Federico
A
Greve in Chianti, Sebastiano Cossia Castiglioni uno appassionato d’arte, vegetariano e animalista attivo con la sua Agricola Querciabella, azienda in agricoltura biologica dal 1988, dal 2000 convertita in biodinamica per convinzione, credo e passione. Nasce il suo stupendo Chianti Classico che con l’annata 2010 riparte da uno, il Sangiovese puro, uva autoctona e nobile della terra da lui amata. Figlio di attenzioni uniche con processi biodinamici-vegani, dove la cura in vigna e in cantina è unica. Raccolta manuale dei grappoli, la macerzione aviene in tini di acciaio inox a temperature controllate, affinato in botti di rovere francesi per circa 10 mesi e poi almeno quattro mesi in bottiglia. Vino figlio del territorio, rosso rubino luminoso, con profumi di frutta rossa e spezie. Al palato setoso, elegante, ricco e persistente. Espressione unica nel suo genere dove la filosofia della famiglia Castiglioni prende vita regalando all’appassionato un vino che dà emozioni. Mai banale, anzi sorprendente mi ha fatto compagnia in una sera piena di solitudine rendendola speciale.
Attori L’unico di Alessio Sardelli
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dieci anni o giù di lì rischiai di essere l’interprete principale, il piccolo Andrea, nel film Incompreso, capolavoro di Comencini e da lì il concetto di unicità si fece largo nella mia mente: mi sarò montato la testa, come si usa dire in fiorentino, o sarò unico? Beh, a scuola sono sempre stato una schiappa, ma nello sport, a quattordici anni mi ritrovai nientepopodimenochè campione italiano allievi di ping pong (tennistavolo per i più raffinati), subito dopo juniores, poi assoluto di doppio battendo la straordinaria coppia Bosi-Giontella e infine nella Nazionale italiana in cui vanto una quarantina di presenze tra giovanile e assoluta compreso un campionato Europeo a Rotterdam. Unico? “Nel mezzo del cammin di nostra vita...” mi ritrovo a far teatro in compagnie primarie nazionali e mi tolgo tante soddisfazioni. Unico? No,assolutamente no! Uno si ma, uno dei tanti che vivono e si lasciano vivere da questo breve passaggio terreno. L’unicità sta sì in noi ma che si accartoccia in un insieme di unici da dar vita ad un movimento destinato a far girare il mondo. Siamo tutti unici e siamo tutti insieme (Nella foto: io con l’Oscar. È vero, purtroppo non è mio).
out cinéaste cherche le film, le grand film, le UN, celui de sa carrière, peut être celui de son époque. C’est une ambition complexe: si son désire est de percer dans la culture. Je ne sais pas si cela a toujours été le cas, mais le très beau désordre culturel contemporain donne un défis encore plus difficile à ceux qui veulent faire un deal avec le marché. Fellini cherche ce film à travers Lo Sceicco Bianco, I vitelloni, La strada, Il Bidone, Le Notti di Cabiria, et puis soudainement il va placer son grand film: La Dolce Vita. Alors il sent ce sent libre d’aller plus loin avec Huit et demis. De Sica a fait huit films avant de faire Ladri di biciclette. Orson Wells a fait tout de suite son grand film avec Citizen Kane. Coppola, Scorsese et Woody Allen presque de tout de suite avec Le Parain, Taxi Driver et Annie Hall. Quel est ce film? On peu discuter une nuit entière pleine de vins blancs secs sans tomber d’accord avant de tomber ivre. Pour moi il est avant tout celui qui arrive à poser le travail du réalisateur entre les deux temps qui se débâtent en son imaginaire. C’est quand un cinéaste réussi a porter la syntaxe classique d’une époque vers l’ouverture révolutionnaire de celle qui suit qu’il réalise ce film. Comme s’il avait une double générosité, un double risque, ou une double humilité. Chacun porte son défi face à son désir intime, le plus difficile est de s’écouter. M’inspire donc toujours la phrase de Billy Wilder, Faite confiances à vos instincts, il vaut mieux que les erreurs soient les vôtres plutôt que celles de quelqu’un d’autre. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Gatti Cat brings luck l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Raffaele Palumbo. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno V Numero 5 del 1/6/2013. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
Si ringrazia
conti capponi [conticapponi.it] MARCHESI MAZZEI [mazzei.it] MUKKI [mukki.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP [oliotoscanoigp.it]
by Kate McBride
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Japanese legend speaks about a stray cat who was given food at the door of a temple by a priest. In return for the hospitality, the cat stood at the temple entrance and beckoned passersby to enter. On the insistence of this stray cat, a group of Samauri entered the temple to escape a rainstorm. They gave to the temple in return for the kindness they received. Another story describes an event where a wealthy man, resting under a tree, was called into a temple by a stray cat. Just as he entered, lightning struck the tree where he was resting. To show his gratitude, the wealthy man became a lifelong benefactor of the temple. In the 17th century, the single stray cat, called a Maneki-Neko, became represented in ceramic often wearing a red collar with a large gold coin attached. The left arm raised symbolizes the cat bringing customers to the establishment and the right brings prosperity and good fortune. Sometimes both are raised, satisfying all. This is how the gesture of a single beckoning stray cat became a good luck charm now seen around the world. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com