amici del
musical Once A Chorus Line The Book of Mormon Sunset Boulevard Patti LuPone Starlight Express ...e tanto altro!
w e b z i n e
07europa|2013
amici del
musical
I tranta anni della Compagnia della Rancia Sugar Gypsy Federico Bellone Gianluca Sticotti Giò Di Tonno Giulia Odi
w e b z i n e
07italia|2013
Ouverture
Luglio, col bene che ti voglio, vedrai non finirà... di Laura Confalonieri Impaginare l’ultima webzine prima delle vacanze estive, in effetti, pur con tutto l’amore possibile per il musical, sembrava un compito destinato a non finire mai: nottate e giornate passate online a discutere di titoli e occhielli, a scegliere copertine e fotografie, ad aggiustare e a "linkare", a rimandare e a decidere - invece di lasciare - di raddoppiare, per dare il giusto spazio ai 30 anni della Rancia e ai 25 di Starlight Express, per festeggiare il ritorno di Patti LuPone a Londra e darvi il benvenuto ai Mormoni in missione canzonatoria, per guardare al passato dal tetto di un palazzo americano o al futuro in un pub irlandese, mentre si spengono le luci sui ragazzi del coro e il sole tramonta su un vecchio cinema austriaco in riva al lago abitato da fantasmi nostalgici. E se i bambini di tutto il mondo cercano di accaparrarsi i biglietti d’oro per visitare la fabbrica del cioccolato di Willy Wonka, dall’altra parte della città molti rimpiangeranno di aver trovato quelli per uno spettacolo che il "per sempre" ce l’ha solo nel titolo, mentre dall’altra parte della Manica giungono gli echi di una barricata che ha resistito all’usura del tempo, alla devastazione di Hollywood e ai flutti dell’alluvione. Anche se per ragioni di tempo e spazio abbiamo deciso di spostare Tarzan e i leoni, i rockettari e i pugili suonati sul sito (www.amicidelmusical.it), quelle che potete leggere sono davvero due webzine eccezionali. Noi ci abbiamo messo tutta la passione che potevamo. Ora tocca a voi... Buona lettura, buone vacanze, e arrivederci in autunno!
Amici del Musical www.amicidelmusical.it sito ideato da Franco Travaglio webzine issuu.com/amicidelmusical ideazione, coordinamento editoriale, progetto grafico e impaginazione Francesco Moretti in redazione Alessandro Caria, Enrico Comar, Laura Confalonieri, Sara Del Sal, Diana Duri, Roberta Mascazzini, Roberto Mazzone, Valeria Rosso, Enza Adriana Russo, Franco Travaglio n. 07Europa|2013 26 luglio 2013 Abbiamo fatto il possibile per reperire foto autorizzate e ufficiali. Per ogni informazione e/o chiarimento scrivete a: francesco.moretti@gmail.com
Facts & Figures
Le recensioni Sunset Boulevard Once A Chorus Line The Book of Mormon Charlie and the Chocolate Factory Patti LuPone & Seth Rudetsky Merrily We Roll Along Viva Forever Starlight Express Les MisĂŠrables Wiener Musical Hits
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Le interviste Susan Rigvava-Dumas Daniel Koek
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amici del
musical
nsioni
da Klagenfurt (A)
Sunset Boulevard A Klagenfurt un allestimento controverso del musical di Webber. Due recensioni per capire il perché. di Laura Confalonieri Klagenfurt è una cittadina idilliaca, luogo di villeggiatura sulle rive di un lago pittoresco, ed ha un bel teatro costruito nel 1910 in stile Impero, i bei mosaici del cui frontone, tuttavia, nulla possono contro l’implacabile morbo del Regietheater: Patrick Schlösser, già assistente dell’enfant prodige Anna Badora (l’ha voluta Strehler), colpisce e affonda Sunset Boulevard, ambientandolo in un vecchio cinema in disuso popolato di fantasmi, alcuni col tradizionale lenzuolo, altri corredati di scarti di magazzino di qualche sartoria teatrale di terz’ordine, puntute corone di latta e polverosi ventaglioni spelacchiati stile "Cleopatra". In quest’ambiente muffito si muovono Norma Desmond, ex diva del muto perennemente in vestaglia e turbante, e Max, il suo vetusto maggiordomo in frac.
Fuori è il 1949, quasi 1950. Un uomo massiccio, acconciatura alla Montalbano, si sveglia davanti alle saracinesche abbassate della Paramount, giusto in tempo per non essere travolto da un gruppo di gente che canta e si agita come in carenza di fenitoina. Racconta la sua storia, di come sia arrivato nel cinema in disuso su un’automobile componibile (composta da ombre nere che, ogni tanto, a quel che si intravede nel buio organizzato da Christian Franzen, lo mollano per strada), scambiato dalla bigliettaia ex diva per un tumulatore di scimpanzè, reclutato dalla stessa come sceneggiatore prima e come amante poi, abbia tentato di scappare per amore dell’amica dell’amico e sia caduto sotto i colpi di pistola della star, che, pur essendo la più grande di tutti, non era neanche riuscita a tornare sul set.
Certo che… Anche lei… Arrivare ai cancelli di Hollywood in groppa a delle ombre nere scomponibili e pretendere di parlare nientepopodimeno che con Cecil B. DeMille… Susan Rigvava-Dumas canta come meglio può una parte che non è sempre nelle sue corde – e, ogni tanto, raspa. David Arnsperger ha una bella voce da tenore, solida e squillante. Chissà come si sarà sentito in quell’abito da sera scollato e tutto balze cucitogli addosso durante The lady’s paying… Bravo anche Jörn Linnenbröker (Artie Green) e profondo il basso di Dirk Smits (Cecil B. DeMille). Elisabeth Hübert, sfuggita a Tarzan e alla giungla amburghese della Stage Entertainment, è una Betty Schaefer acqua e sapone, un’autentica ragazza della porta (dello stu-
dio cinematografico) accanto. Hardy Rudolz è un Max compassato, senza note né alte né basse. Michael Langeneckert è un ballerino e le sue coreografie fanno sudare i poveri coristi, che non possono stare in scena un minuto senza contorcersi in movimenti sincopati (nel senso che, alla fine di ogni numero, sarà loro venuta una sincope). Günter Wallner ha a disposizione l’orchestra sinfonica della Carinzia, e la sfrutta al massimo. Katja Wetzel veste tutta la compagnia in modo moderno, comparse e fantasmi esclusi. La varietà delle scenografie fanno pensare che Jürgen Kirner non si sia spremuto a lungo le meningi. La prossima stagione si ritorna all’opera e all’operetta. Meno male.
di Enrico Comar e Anna Hurkmans Allestimento anomalo e (nei pro e nei contro) decisamente interessante, quello realizzato da Patrick Schlösser per lo Stadttheater di Klagenfurt, efficace più per la solida drammaticità che per la stravagante, a tratti quasi criptica, messinscena che spesso sembra non sapere che strada prendere, impantanandosi in scene danzate invasive e scarsamente utili alla storia, affidate all’onnipresente (e molto abile) corpo di ballo e al complesso lavoro coreografico di Michael Langeneckert, che cerca di rielaborare stili di ballo tipici dell’epoca, ma finisce per proporre sequenze caotiche e spesso inopportune (imperdonabile l’apertura del secondo atto con Joe nel bel mezzo un balletto che pare uscito da West Side Story), alternate a rari colpi di genio
(interessante la sequenza dell’auto di Joe creata dai ballerini). Le scenografie di Jürgen Kirner offrono soluzioni semplici e interessanti (la casa di Norma trasformata in una funerea sala cinematografica) in grado di adattarsi alle esigenze economiche di una piccola produzione, ma a volte non adeguatamente utilizzate da parte del regista e da un light design spesso sottotono. Spiace l’assenza (evidentemente per ragioni economiche) della celebre piscina in cui galleggia il corpo senza vita di Joe, che qui giace invece più prosaicamente sul pavimento (tradendo oltretutto le indicazioni sceniche del libretto). Sotto il profilo drammaturgico invece la regia di Schlösser si rivela assolutamente vincente, in grado di costruire personaggi solidi e autentici e di coinvolgere lo spettatore in
una “tragedia ad orologeria“ magistralmente orchestrata, aiutato in questo da un cast di prim’ordine. Susan Rigvava-Dumas (sostituta dell’ultima ora di Dagmar Koller, costretta a rinunciare al ruolo per questioni di salute) brilla con la sua interpretazione nobile e malinconica scevra da istrionismi o soluzioni a effetto, in grado di allontanarsi dal modello “storico” di Gloria Swanson per creare un personaggio del tutto originale e personale. Accanto a lei, l’ottimo David Arnsperger è un Joe coinvolgente e carismatico, ma privo di quel cinismo che apparterrebbe invece al personaggio; simpatica e piacevolmente “stinta” la Betty di Elisabeth Hübert ed eccezionale, nella sua decadente nobiltà, il Max di Harald Serafin. Il tutto arricchito da una resa musicale di altissimo livello. Grande senso della teatralità da parte del direttore Guenter Wallner (che è subentrato a Mitsugu Hoshino dopo le prime repliche), in grado di sfruttare al meglio e di donare
dinamicità ad una partitura raffinata quanto poco varia, passando abilmente da momenti sontuosi o elegiaci (nei quali da il meglio di sé) a passaggi più drammatici e aggressivi. Precisi ed energici gli archi della Kärntner Sinfonieorchester, che invece mostra qualche occasionale debolezza nella sezione fiati. Dal punto di vista canoro, la Rigvava-Dumas sfoggia una linea vocale impeccabile, in grado di passare
senza sforzo da toni bassi, caldi e potenti ad acuti pieni e luminosi, ma la più gradita sorpresa è Arnsperger: voce portentosa, dal timbro scuro e aggressivo, con una ricchezza armonica quasi operistica, arricchita da una notevole varietà di sfumature e tocchi espressivi. Molto bene anche la Hübert e Serafin (voce sontuosa, anche se a tratti un po’ dura), mentre non tutta di pari livello l’ensemble.
da Londra
Once La musica nel cuore di Sara Del Sal La semplicità vince con Once. Basta entrare a teatro, al Phoenix Theatre, per immergersi in un’atmosfera da pub irlandese. Il cast è già lì, e suona delle canzoni per intrattenere il pubblico che sorseggia qualcosa nel bar allestito sul palco stesso. Cantano, si muovono, scherzano. E tutt’un tratto non sono più al centro, sono seduti ai bordi, mentre lui con la sua chitarra si lascia trasportare dalla sua musica, in quella Leave che ha scritto per la fidanzata che lo ha lasciato per andare in America e che lui non ha avuto il coraggio di seguire. Proprio come nel film, arriva una ragazza qualsiasi, che lo ascolta con attenzione, e che lo riempie di domande, ma al contempo lo spinge a uscire da quel pseudo letargo nel quale si è chiuso. Lo fa con semplicità e con ironia, non nascondendo le sue origini ceche e la sua passione per la musica. Certi incontri sono magici,
e il loro non fa eccezione, ma come accade nella realtà, bisogna che uno dei due trovi un modo per rivedere l’altro e lei non perde tempo, con la scusa di farsi sistemare l’aspirapolvere che non aspira più, lo raggiunge. Lo porta a scoprire che un’immigrata in un paese straniero con una grande passione, riesce comunque a coltivarla, andando a suonare in un negozio di strumenti per gentile concessione del proprietario, che a teatro si rivela il personaggio comico per eccellenza. Ed ecco che la musica che è in lui si fonde perfettamente con quella che è in lei, trovando le parole giuste e trasformandosi in qualcosa che va dritto al cuore. La strada che percorreranno, per incidere un disco, sarà anche la strada che li vedrà complici, in un rapporto di amicizia che non è proprio bilanciato. Lui, con un fantasma troppo grande da combattere, come la ex che non
riesce a dimenticare; lei, con un matrimonio fallito e una figlia e una madre a carico. Impossibile trattenere le lacrime nel finale, così poco prevedibile, e purtroppo condivisibile. Una bella storia, con una regia attenta, che amplifica i sentimenti e dimostra quanto un lavoro ben fatto non abbia bisogno necessariamente di scenografie incredibili. Tutto si svolge lì, nello stesso posto, eppure sembra di essere stati in mille diverse location. Un cast di livello capitanato da Declan Bennet, intensissimo e Zrinka
Cvitesic, impertinente ma dolcissima, emoziona e si emoziona ogni sera, non nascondendo qualche lacrima. Once ha tutte le carte in regola per essere uno di quei musical che si ricordano a lungo, perché colpisce dritto al cuore. Impossibile non immedesimarsi, almeno per un istante, nella storia di quel ragazzo e di quella ragazza che non hanno nemmeno un nome, con l’inevitabile risultato di ritrovarsi con le lacrime agli occhi in quella Falling Slowly” che si vorrebbe davvero non finisse mai.
da Londra
A chorus line Un provino indimenticabile di Sara Del Sal Chiusura anticipata al 31 agosto. Questa frase, piu' che altro una comunicazione di servizio, racchiude in sé una grande verità. A chorus line non è più il musical più hot del West End. Ma un classico, e forse per questo, meglio pensarlo per un periodo più limitato. Quello che è stato salutato come una delle più brillanti messe in scena degli ultimi mesi, con un cast di altissimo livello, non riesce più a togliere il fiato creando dipendenza. Quando si esce
dal Palladium Theatre una delle frasi più ricorrenti è: bello, ma basta. Si, perchè Chorus è una botta allo stomaco, ma nell'epoca di X factor e dei talent, sa di qualcosa fuori dal tempo. Quei ragazzi straordinari che sputano sangue per un posto di contorno in uno spettacolo non fanno più notizia. Ormai si pensa a quelli che senza grandi doti entrano direttamente da protagonisti, magari dopo una comparsata televisiva. E quello show, emozionante e
istruttivo, scritto da James Kirkwood e Nicholas Dante, con le musiche di Marvin Hamlisch ormai ha fatto il suo tempo. John Partridge è uno Zack duro e al contempo un ballerino perfetto, e Leigh Zimmerman una Sheila che sembra uscita da un film anni '80. Alta, fisicata e con un forte carattere. Non fa lo stesso effetto Scarlett Strallen, una Cassie che ha l’età giusta ma non il giusto carisma. Chi invece sa bene come andare a segno è Victoria Hamilton-Barrit, che come Diana si ritaglia un giusto spazio, e che aveva dimostrato ampiamente di cosa era capace come Alex in Flashdance. Anche Don e' un volto noto,perche' Gary Adam Watson in Italia e' stato Sky in Mamma Mia nell'international tour da tutto esaurito di qualche anno fa. Insomma, in questo show hanno scelto dei ballerini incredibili, che sono dei performer più che completi. Uno spettacolo perfetto, che chiede tantissimo a chi sta sul palco, impegnato per due ore filate senza intervallo, ma anche al pubblico, ingabbiato al suo posto. Troppo, troppo tutto insieme. Uscendo da teatro si è pervasi da sensazioni miste, e, come sempre, si
pensa che non sia giusto che molti di quei ragazzi non siano stati presi. Peggio ancora se si pensa che non saranno nemmeno loro i protagonisti. Storia vera, verissima, che racconta i casting, questo show lascia l'amaro in bocca di tutti quei sogni inseguiti e non realizzati, di tutte quelle realtà che rendono i sogni quasi impossibili, di tutte quelle ore passate ad esercitarsi e alle scelte drastiche che si è costretti a fare per un lavoro di quel tipo. Fa bene rivedere Chorus ogni tanto, perché offre la giusta prospettiva delle cose. Senza sconti. Quante storie personali ci troviamo di fronte ogni volta che vediamo uno show. Beh, da amici del musical si può dire che Chorus sia un titolo imprescindibile, perché è come un faro che illumina il mondo che ci fa emozionare, ma al contempo suona un po’ datato. E quei costumi originali sembrano davvero quelli di un’epoca fa. Solo il finalone riappacifica tutto, con quel colpo d’occhio incredibile e tutto il cast sul palco, amplificato dagli specchi. Non ci sono più vincitori o vinti, ma c’è quella singular sensation che pervade chiunque.
da Londra
The Book of Mormon Hello! di Laura Confalonieri Gli autori sono Trey Parker, Matt Stone e Robert Lopez, autori, fra l’altro, di South Park e Avenue Q. Il coreografo e regista in seconda, Casey Nicholaw, ha curato anche le coreografie di Spamalot (tanto bene da guadagnarsi un Tony e una nomination del Drama Desk and Outer Critics Circle). La costumista, Ann Roth, ha vestito e svestito i protagonisti de Il più bel casino del Texas e Piume di struzzo. L’orchestrazione è stata affidata a Stephen Oremus, che, nonostante il cognome latineggiante in odore di santità, ha arrangiato e orchestrato Wicked, oltre allo "scandaloso" Jerry Springer – The Opera. Da una squadra come questa non ci si poteva certo aspettare timor reverentialis nel trattare un tema delicato quale una religione che conta 14,8 milioni di adepti in tutto il mondo. The Book of Mormon, in trasferta da Broadway, dove ha vinto nove Tony
Awards e scalato in pochi giorni le classifiche di vendita di Billboard e iTunes, già dalle prevendite fa registrare il tutto esaurito al Prince of Wales Theatre; nell’antistante Coventry Street, dietro Piccadilly Circus, la coda per i biglietti si snoda fino a Trafalgar Square. Ogni giorno, poco prima dello spettacolo, si tiene una lotteria per estrarre a sorte i fortunati che si aggiudicheranno i pochissimi biglietti prenotati ma non ritirati al botteghino. Nessuno sembra volersi perdere questa satira feroce sul fanatismo religioso occidentale e il suo miope missionarismo panciapienista nell’Africa martoriata. Lo spartito è una miscela di classici di Broadway, tutti parodiati con maestria: il numero di apertura Hello!, ad esempio, evoca The Telephone Hour in Bye Bye Birdie e Turn It Off richiama I’ll Never Be Jealous Again da The Pajama Game. In altri
brani c’è molto dell’umorismo di Tom Lehrer. Nella ripresa di Orlando echeggia Maria (West Side Story), mentre You And Me (But Mostly Me), usa sequenze molto simili a quelle di The Wizard and I e Defying Gravity (Wicked). Sal Tlay Ka Siti ricorda molto le ballate di Alan Menken, quali Somewhere That's Green e Part of Your World. Hasa Diga Eebowai comincia come parodia di I Just Can't Wait to Be King e, prima di svoltare radicalmente, cita Hakuna Matata. Perfino lo spettacolo che i nativi organizzano per il presidente della missione, Joseph Smith American Moses ricorda la rappresentazione dei siamesi de La capanna dello zio
Tom in onore dell’inviato inglese in The King and I. Il pezzo forte (e sicuramente dal testo più esilarante) di Price, I Believe riassume Climb Ev'ry Mountain e I Have Confidence (Tutti insieme appassionatamente). Le scene di apertura dei due atti fanno il verso allo spettacolo annuale che i mormoni tengono a Hill Cumorah, nella città di Palmyra, Stato di New York. Nick Finlow dirige la sua orchestra di nove elementi a tutto volume. La tromba dell’angelo Moroni richiama tutti al silenzio, mentre la sua statua gira su stessa. Siamo in un campo di addestra-
mento per missionari, dove ai giovani mormoni viene insegnato come suonare alla porta in modo gentile, oltre ad una tiritera a prova di domande per convertire chi apre sui due piedi: Kevin Price (Gavin Creel, che soprattutto quando sorride, somiglia a Jim Carrey), alto, atletico, adamantino e ben pettinato, è il migliore della classe; Arnold Cunningham (Jared Gertner, goffo al punto giusto), un bugiardo cronico, basso, buzzicone, occhialuto e con un folto cespuglio di ricci spettinati, è il peggiore. è il giorno in cui i giovani missionari verranno scelti per andare, a coppie, nel mondo. Price è convinto che, per
essersi attenuto strettamente ai dettami del suo credo, sarà destinato alla missione di Orlando, Florida, ed è sgomento quando scopre di esser stato, invece, scelto per convertire l’Uganda, oltretutto in coppia con Cunningham. Cunningham, da parte sua, è entusiasta: l’Africa è il Paese del Re Leone, e lui ci andrà a vivere per due anni col suo migliore amico, che ha appena conosciuto, e che, secondo la regola del missionario nr. 72, non potrà mai lasciarlo solo se non per andare al bagno. Persino all’aeroporto i genitori di Price organizzano un addio in stile, ingaggiando una vicina, tal Mrs
Brown (esilarante: Sharon Wattis), che "canta" una versione tutta sua di The circle of life, indossando un pareo col disegno di una tigre. Appena arrivati in Africa, i ragazzi vengono minacciati e derubati dai soldati del generale Butt-FuckingNaked (chiara allusione all’ex generale liberiano Joshua Milton Blahyi, detto Butt Naked, criminale di guerra e cannibale, ora convertitosi al cristianesimo e predicatore), uno dei tanti signori della guerra che imperversano nella zona. Giunti al villaggio della loro missione, vengono accolti dal capo Mafala Hatimbi, che frena il loro zelo evangelizzatore dicendo loro chiaro e tondo che i problemi, in una quotidianità fatta di AIDS, fame e guerra, sono ben altri che scoprire chi sia il vero Dio. Anzi, per non pensare a tutti i problemi che l’attanaglia, la tribù balla e canta sulla frase-mantra Hasa Diga Eebowai, nella lingua dei missionari americani Fuck you, God. La figlia del capo, Nabulungi, accompagna i nuovi arrivati alla capannamissione, dove li aspettano altri giovani mormoni arrivati prima di loro, capitanati da McKinley, un omosessuale represso che insegna loro a scacciare i pensieri negativi di delusione e scoramento "spegnendoli, come con un interruttore". Il giorno dopo, mentre Price riprende, nella totale indifferenza dei nativi, la sua opera di evangelizza-
zione, il generale arriva al villaggio e ordina la circoncisione di tutte le donne entro la fine della settimana, convinto che altrimenti non ci sarà mai pace per l’Uganda. Uno degli abitanti protesta e il generale gli spara in faccia, spruzzando Price di sangue e mettendolo in fuga. Quando il generale se ne va, Nabulungi, in salvo nella sua capanna, ripensa alle parole di Price sul Paradiso, e sogna di raggiungere la terra promessa che quei ragazzi bianchi chiamano Sal Tlay Ka Siti Uta (Alexia Khadime qui è al meglio; commovente). Alla missione, intanto, McKinley è terrorizzato dalla prospettiva di una visita incombente dall’America: il presidente della missione, infatti, ha chiesto per iscritto un rapporto dettagliato sull’andamento delle
conversioni in Uganda. Inoltre, Price, terrorizzato da quello che ha appena vissuto, vuole chiedere il trasferimento a Orlando, e, dopo un litigio furibondo, ha scaricato il suo compagno di missione Cunningham. La disperata solitudine di Cunningham è alleviata da Nabulungi, che ora si dichiara disposta ad imparare tutto quel che c’è da sapere sul libro di Mormon, e ha convinto tutto il villaggio a fare altrettanto. Cunningham, però, non ha mai letto il libro, e arricchisce le sue prediche con racconti di fantascienza e consigli più o meno sensati per risolvere i piccoli e grandi problemi quotidiani dei suoi uditori. La sua ricetta contro l’AIDS, è, ad esempio, fare sesso con le rane, invece che con le vergini o, ancor peggio, con i bambini. La sua coscienza, nelle sembianze di
suo padre e del profeta Joseph Smith prima, e in quelle degli hobbits, del tenente comandante Uhura, di Darth Vader e di Yoda poi, lo ammonisce, ma lui conclude che, visto che le sue storie aiutano i suoi proseliti a sentirsi meglio, non possono essere del tutto sbagliate. Price, intanto, sogna di trovarsi a Orlando, ma presto il sogno si trasforma in un incubo, popolato da diavoli e dai fantasmi di Genghis Khan, Hitler, Jeffrey Dahmer (il cannibale di Milwaukee) e Johnnie Cochran (l’avvocato difensore di O.J. Simpson), nonchè da tazze di Starbucks® giganti e danzanti (la "Parola di Saggezza" vieta ai mormoni di bere bevande calde). Al suo risveglio decide di continuare la missione in Africa. Nessuno degli altri missionari è sorpreso (hanno fatto tutti lo stesso sogno), ma la vera sorpresa è Cunningham, che entra raggiante, annunciando che tutto il villaggio ha deciso di convertirsi e farsi battezzare. Quando McKinley, però, ribatte che nessuno oserà tanto finchè ci sarà il generale in giro, Price, rinfrancato nella sua fede, si reca da lui a libro spianato. Quando rientrerà al villaggio, dovranno estrarglielo dal retto. Così, mentre Cunningham battezza i nativi e scambia qualche tenerezza con Nabulungi (il cui nome, tuttavia, non ha ancora imparato a pronunciare), e gli altri missionari si lan-
ciano in un inno gospel in cui affermano I am Africa, Price affoga i suoi dispiaceri in innumerevoli tazze di caffè in un bar di Kitguli. Quando Cunningham lo ritrova, gli dice che deve almeno far finta di essere ancora il suo compagno di missione, perchè il presidente e altri anziani stanno arrivando di persona per congratularsi dei successi riportati. Price, ben lungi dall’essere d’accordo, riflette sulle delusioni procurategli dal suo credo, dalla sua famiglia, dai suoi amici e, in generale, dalla vita. Più tardi, durante una cerimonia alla missione, il presidente loda Price e Cunningham come migliori missionari d’Africa. Gli abitanti del villaggio, da parte loro, vogliono contribuire ai festeggiamenti mettendo in scena uno spettacolo su "Joseph Smith, Mosè americano". Naturalmente lo spettacolo contiene gli "adattamenti" applicati da Cunningham alla dottrina, e, naturalmente, il presidente e gli anziani ne sono tanto inorriditi da scomunicare tutti e ordinare ai missionari di rientrare immediatamente in America. Nabulungi capisce che non potrà mai raggiungere il paradiso chiamato Sal Tlay Ka Siti, maledice il nuovo dio con l’usato Hasa Diga Eebowai, poi torna al villaggio e, per risparmiare ai suoi concittadini la delusione di prepararsi ad un viaggio che non avverrà mai, racconta che Cunningham
è stato mangiato dai leoni. Cunningham, dal canto suo, è annientato dagli eventi. Price, al contrario, è illuminato: scopo della religione è aiutare le persone, non citare Scritture a memoria. Il suo compagno di missione aveva ragione fin dall’inizio. Corrono al villaggio, dove, nel frattempo, è arrivato il generale, deciso a fare una strage. I nativi, vedendolo arrivare, gridano al miracolo, e lui approfitta subito della situazione per spaventare il generale, dicendogli che nulla potrà contro un morto vivente, che oltretutto è deciso a trasformarlo in una lesbica, se non lascerà definitivamente in pace il villaggio. Il generale e i suoi soldati fuggono a precipizio. I missionari mormoni sono stati scomunicati, ma a nessuno importa più, perchè ora l’Africa è pronta per essere evangelizzata con un nuovo libro, The Book of Arnold. E stavolta, a girare di capanna in capanna, fra gli anziani c’è anche il convertito Butt-Fucking-Naked.
da Londra
Charlie and the Chocolate Factory è davvero più fortunato chi trova il biglietto??? di Sara Del Sal Every ticket is a golden ticket. Con questa scritto si viene invitati a scegliere Charlie and the Chocolate Factory per passare la serata, e, conoscendo già la storia le aspettative sono altissime arrivando a teatro. Eppure qualcosa non funziona. Si esce da teatro come si esce da un negozio di caramelle d’oltremanica. Il marchio Wonka esiste e ci sono le confezioni da sogno che si sono viste nel film di Tim Burton, ma non c’è modo di trovarvi dentro cioccolata. Solo gelatine. Il musical fa lo stesso effetto. Scenografie da capogiro, ma manca la musica. L’impresa fallimentare di Mark Shaiman e Scott Wittmann, i compositori, non è l’unica. Anche la regia, prestigiosissima, di Sam Mendes non è da meno, arrivando a far sbadigliare copiosamente nel primo atto. Solo il mondo magico di cioccolato riesce a sbalordire, ma anche in quello… purtroppo, ci sono lungaggini. Insomma, lo spettacolo più at-
teso dell’anno rivela molti punti deboli, e il colpo di grazia gli arriva indirettamente dal confronto. Il testo più famoso di Roald Dahl, infatti, arriva in scena dopo Matilda e perde nettamente la sfida teatrale. Laddove in Matilda si è creato un universo di colori, musiche ed emozioni, con dei bambini incredibili, Charlie è un bambino che non sbalordisce, capace di recitare e di abbozzare qualche passo di danza, certo, anche di cantare, ma non lascia senza fiato come la banda scatenata che tutte le sere registra il tutto esaurito qualche via più in là. Charlie conta su un cast di “nonni” strepitosi, ma ha due genitori tanto di buon cuore quanto noiosi, e lo stesso Wonka, Douglas Hodge, manca di carisma e di certo non offre tutti i colori della sua voce, peccato che lo faccia intuire, così diventa ancora più fastidioso ascoltarlo. Tutti i bambini che trovano i biglietti dorati ed hanno quindi accesso alla gita più
magica che esista al sapore di cioccolato sono perfettamente caratterizzati ma la giunonica mamma di Augustus, come l’hanno scelta se non riesce a cantare lo yodel? La bimba che mangia la chewing gum continuamente, quando canta il suo pezzo rap con il padre, si muove benissimo, ma mastica altrettanto veementemente le parole. Dal punto di vista scenografico e degli effetti speciali invece lo spettacolo è una delizia, bello da guardare, con dei cambi continui di scena, che nel secondo atto si fanno sempre più incredibili, con una comunità di scoiattoli simpaticissima e un giardino cioccolatoso da favola.
Il momento più bello? Quello sull’ascensore, dove fa capolino l’unica canzone del primo film, quella Pure immagination che fa venire i brividi, amplificata da un cielo stellato in cui si muovono Wonka e Charlie. Poesia vera. Che però finisce lì. E gli umpa loompa??? Ci sono, ma anche loro riescono a diventare quasi inutili, grazie all’accoppiata regista/compositore musicale. Quelli che avrebbero dovuto essere i veri mattatori della serata restano dei meri aiutanti. Il consiglio? Se siete a Londra e trovate i biglietti a 15£ andate a vederlo, si, vederlo, perché questo è un musical che sarebbe meglio vedere premendo il tasto off sull’audio.
da Londra
Patti LuPone Deconstructing Broadway... di Laura Confalonieri Il Leicester Square Theatre ha solo quattrocento posti chiusi fra due bar, ma ha anche una storia gloriosa: negli anni '70, quando ancora si chiamava Notre Dame Hall, ci suonavano, fra gli altri, i Rolling Stones, i Who e i Sex Pistols. In tempi più recenti vi si sono esibiti Boy George, Roseanne Barr, Cleo Laine, Tony Christie, Joan Rivers e perfino Joan Collins. è diventato la casa del teatro alternativo (o, perlomeno, non convenzionale), quasi invisibile, schiacciato com’è fra un vecchio cinema d’essai e la chiesa cattolica di Notre Dame de France. Sul retro, le porte antincendio si aprono su un vicolo buio del quartiere cinese. E se non meraviglia che Seth Rudetsky, il musicista, attore, autore e conduttore radiofonico più dissacrante di Broadway, abbia scelto questo teatro per portare per la prima volta in Europa il suo nuovo
spettacolo, Deconstructing Broadway appunto, non può non stupire che Patti LuPone, leggenda di quella Broadway che Rudetsky seziona con tanto zelo, abbia scelto una sala con un così esiguo numero di posti per dare i suoi sette concerti londinesi. Rudetsky, in America candidato al Grammy e all’Emmy, oltremanica sconosciuto ai più, comincia la sua missione di smantellamento musicale presentandosi al pubblico londinese con venti minuti di ritardo, in nero e con una maglietta rosa con la scritta "A-Mahzing", e sbracciandosi su un brano di Barbra Streisand. Poi comincia a parlare a raffica e parla subito di acuti: il confronto è fra Janis Paige in The Most Happy Fella, Whitney Houston in I will always love you e Betty Buckley in The Mystery of Edwin Drood. Carly Simon viene nominata per l’assenza di note alte, e l’accosta-
mento si fa ancora più impietoso quando si ascoltano Patti LuPone e Madonna in Evita: sulla frase I’m their saviour in Rainbow High non c’è partita. E dire che, durante una cerimonia dei Tony Awards di ant’anni fa, proprio Patti LuPone ha mancato il braccio di Bob Gunton, che le stava a fianco ma non troppo durante A New Argentina, abbracciando il vuoto. è anche vero che non se ne sarebbe mai accorto nessuno, se Seth Rudetsky non avesse ripetutamente proiettato quel momento al rallentatore su uno schermo gigante, come fa qui, oltretutto marcando il mancato abbraccio con la punta rossa di una penna laser. Da qui la serata è tutta in crescendo: Rudetsky fa notare al pubblico che il modo di cantare di Charmian Carr, la ragazzina che in Tutti insieme appassionatamente era Liesl, la figlia maggiore del capitano Von Trapp, rallenta il ritmo di tutto il film, poi imita Julie Andrews, con tanto di mano sulla testa per portare l’acuto. E, fra una capatina e l’altra al pianoforte, seziona Godspell, Liza Minnelli in Cabaret e in Dancing in the moonlight, Bette Midler in Fiddler on the roof, fa una digressione sulla famiglia Brady e torna al musical analizzando la pronuncia di Barbra Streisand, che ogni tanto fa diventare "d" o addirittura "l" la lettera "t".
Trascina sul palco una ragazza che ha avuto la malaugurata idea di rispondere sì alla domanda:"C’è qualche attrice in sala?" e la coinvolge in un numero di West Side Story che finirà con la proiezione sullo schermo gigante di un video di Cher che canta da sola Tonight nei ruoli di Maria, Anita, Riff e Bernardo. Chiusura in bellezza con Björk che canta Don’t rain on my parade. Lo scenario cambia un po’ quando fa da pianista/intervistatore a Patti LuPone: sul pianoforte nero appare un vaso trasparente di rose rosse, e il palcoscenico viene attrezzato come il salotto di un talk-show, con due poltroncine bianche imbottite; fra le poltroncine un tavolino coperto da una tovaglia nera, con due bicchieroni pieni d’acqua e un vaso in ceramica bianca, anch’esso pieno di rose rosse. In mezzo al proscenio c’è un microfono fissato su un’asta. Sempre in nero (anche la maglietta stavolta è nera, con la scritta "Brava!" in bianco, a caratteri cubitali), si presenta dicendo:"Sono l’Elaine Paige americana" – e già partono le risate. Ripropone qualche numero di Deconstructing Broadway, compreso il video di Evita al rallentatore, e aggiunge il video del brano di Carousel "June is bustin’ out all over", cantato da Leslie Uggams (che quella
volta in TV ha dovuto improvvisare, perchè il gobbo era caduto con tutti i testi e non si era più rialzato), ora sottotitolato in modo surreale da chissà chi su Youtube (alla fine del video, la parola "June" diventa addirittura "Joan"). Dopo mezz’ora di risate e dieci minuti di pausa, arriva la diva, vestita di nero, con le unghie luccicanti di azzurro e una scollatura che mette in evidenza l’annata 1949. Applausi frenetici. Dopo un elogio della gastronomia londinese (fish & chips & mashed peas), si parte subito dagli acuti (Everything’s coming up roses), si passa agli aneddoti su Working, poi agli occhiali, perchè il prossimo brano lo deve leggere:"There’s nothing up…" Quando si lancia in Being Alive viene giù il teatro. Per sdrammatizzare un po’, canta I'm just a girl who can't say no da Oklahoma! e ricomincia a raccontare aneddoti: Joe Mantegna, suo vicino di casa, si è preso cura del suo gatto quattordicenne, che l’aspettava a casa men-
tre lei era impegnata a Londra a fare Fantine. Il suo fidanzato, però, non l’ha aspettata. è stato allora che Michael Ball (a Londra abitavano muro a muro) per consolarla l’ha fatta bere per la prima volta "da una botti-
glia quadrata":"Non sapevo cosa fosse. Non avevo mai visto una bottiglia quadrata." Ogni volta che la sentiva piangere per il perduto amore, le portava la bottiglia quadrata, bevevano e poi uscivano a passeggiare nel parco. "Alla fine della stagione ero ubriaca fradicia. Non riuscivo più a camminare." A peggiorare le cose era arrivata una laringite, che, tuttavia, la esimeva dal cantare nel coro sulle barricate, come dovevano fare tutti quelli che in Les Misérables avevano un ruolo non troppo impegnativo. Canta I dreamed a dream e sulle ultime note si commuove. Gli applausi scacciano le lacrime e rinverdiscono i ricordi:"All’epoca, al Barbican Centre con la Royal Shakespeare Company ho fatto l’esperienza teatrale perfetta." Rientrata dalla malattia avrebbe anche potuto continuare a defilarsi dal coro, se non fosse stato per "that bitch Sally Mates, who saw me backstage and shouted:'Patti is back!'" Sull’onda dei ricordi racconta anche delle partite a gin rummy con i macchinisti dietro le quinte di Anything Goes. Sunset Boulevard riporta alla mente il trauma dell’operazione alle corde vocali:"Avevo otto noduli che sarebbero potuti scoppiare in ogni momento. Dopo l’operazione ho dovuto imparare di nuovo a parlare."
Un consiglio a chi studia canto:"Imparate l’impostazione, la tecnica vocale. Io ho sempre cantato senza nessuna impostazione. Però è vero quello che dicono gli insegnanti: i primi vent’anni puoi anche cantare solo grazie alla voce, ma gli altri venti puoi cantare solo grazie alla tecnica." Per dimostrare che adesso padroneggia la tecnica, canta My Way. Parla di Evita ("l’esperienza più brutale della mia vita") e duetta con Nic Gibney, che attualmente è in tour con lo spettacolo nel ruolo di Magaldi e che ha chiesto a Seth Rudetsky via facebook di poter duettare con lei. La medley comprende, oltre a Eva and Magaldi, High flying, adored e Rainbow high. As long as he needs me, pur nella sua drammaticità, dà l’occasione per raccontare un ultimo episodio divertente: Peter Coe, nel 1984 regista di Oliver! a Broadway, voleva che Patti uscisse di scena durante l’acuto finale. Lei, ogni sera, verso la fine del brano si avviava verso le quinte, ma fino ad acuto concluso rimaneva in scena, e usciva appena sentiva scemare gli applausi. Siccome qui gli applausi non accennano a scemare, i bis sono d’obbligo: Buenos Aires e With One Look. Di più non si può, per ragioni di tempo: fra tre quarti d’ora comincia il concerto serale.
da Londra
Merrily we roll along Stephen Sondheim all’ennesima potenza di Sara Del Sal
Un gioiello. Perfetto. Eppure quando debuttò, nel 1981 a Broadway, chiuse dopo appena 16 repliche. Merrily we roll along è il classico spettacolo che ha così tanto da dare e da dire, che si potrebbe vederlo mille volte, soffrendo ogni volta. Certo, è Stephen Sondheim all'ennesima potenza, e si sente dalla prima nota, mai banale. Ma il libretto di George Furth basato sulla storia di George S. Kaufman fa la sua parte. Come la regia, firmata da Maria Friedman, semplice ma capace di spiegare senza errori una vicenda complicata e narrata al contrario. Si, perché dall'epilogo si arriva al prologo, dopo due ore e mezzo intensissime. Una sfida vinta senza fatica da Mark Umbers, che interpreta Franklin Shepard, e che aveva già dimostrato di cosa era capace in Sweet Charity interpretando tutti gli uomini di Charity. In questo caso però ha una dose tripla di carisma, che lo fa risultare piacevole nonostante sia davvero un arrivista, capace di tutto per arrivare al successo. Quanti peccati ha commesso? Quante persone ha tradito? Non importa. Quando riguarda indietro, ammettendo di non avere ottenuto quello che davvero sperava e di non essere più in grado di essere veramente felice si prova comunque pena per lui. Così come ci si lascia facilmente trascinare dal suo temperamento
nella corsa al successo. Con lui Damian Humbley, un Charley Kringas toccante, simpatico, goffo e con una voce davvero strepitosa, e una incredibile Jenna Russel, che interpreta Mary Flynn. Tre amici inseparabili, due che compongono insieme da quando hanno finito gli studi e una che li segue con affetto, scrivendo un libro e lavorando per alcuni giornali, ma eternamente innamorata di Franklin. Un equilibrio a tre che l'avidità di Franklin frantuma passo dopo passo, come fa con la sua famiglia e con tutto il resto. Uno show con tantissimi pezzi corali e con melodie che restano in testa, come la canzone del titolo, ma anche Old Friends, Not a day goes By, Good thing going o Our time tanto per citarne alcune. Tagliente, toccante, vincente. Merrily sbaraglia tutto e tutti. E fa malissimo per la sua tripla dose di realismo. Tanto piacevole e interessante da vedere, quanto ingombramte da portare a casa. Ha indubbiamente dei punti in comune con Once, ma è senza dubbio più forte. Non fa sconti, e ogni singola amicizia spezzata, per l'ascesa del più brillante dei tre, ha un peso molto forte. Come tutti i lavori di Sondheim, anche questo è densissimo di significati, e in questo allestimento in scena in West End, all'Harold Pinter Theatre, si possono assaporarne tutte le sfumature. Da vedere.
da Londra
Viva Forever Un flop annunciato di Sara Del Sal Dopo avere visto Flashdance a Londra e non capendo perché abbia chiuso dopo 3 mesi pur essendo da brivido, dopo la chiusura repentina di Love Never Dies, può venir voglia di capire cosa sia che determini un flop oltremanica e con questa curiosità scegliere di vedere Viva Forever.
Bastano i primi 5 minuti dello spettacolo a chiarire tutto. Questo si che è un flop. Un tonfo sonoro. Quella che Jennifer Saunders firma come storia, è in realtà una serie di spunti buttati al vento senza mai una conclusione. C'è quindi Viva che dovrebbe parte-
cipare a un talent con le sue amiche ma che senza pensarci accetta di procedere da sola, arrivando alla fine a trovare anche un fidanzato. C'è la giuria del talent che è assolutamente disinteressata ai concorrenti ma interessatissima al proprio ritorno d'immagine. E c’è la mamma, un po’ stile Donna di Mamma Mia, che ha un’amica di una volgarità inaudita, e che alla fine, con la figlia sistemata, si fidanza anche lei con uno che conosceva già da prima. Tutto prevedibile? No, perché come si potrebbe prevedere che le due amiche abbandonate a un certo punto si dimentichino di essere state tradite e fingano che nulla sia successo?
Come prevedere che l’amica della madre si muova in un modo indecente, con tanga ben alto fuori dai pantaloni e dica una serie di battute da fare vergognare le donne in sala? E poi una bella citazione di Sex and the city! Ecco, ma non ci si deve illudere che si parli di glamour o di rapporti con l’altro sesso. Hanno citato la parte sulla depilazione inguinale. Insomma, dopo pochi istanti sale la voglia di dormire, telefonare, o fare qualsiasi cosa che non implichi la permanenza dell’attenzione sul nulla che si vive sul palco. Coreografie banali, scenografie altrettanto, costumi proprio brutti... e le canzoni delle Spice Girls? Meglio se se le cantano
da sole. E i performer? Hannah John-Kamen, che interpreta Viva, è una consolazione. La dimostrazione vivente che anche in Inghilterra ci sono performer non dotati, con voci senza colori e non in grado di muoversi... dimostrando poco carisma e una recitazione debole. Ecco, un record non proprio di cui vantarsi, ma almeno un punto a favore. Questo show ha occupato il Piccadilly Theatre per sei mesi. Ora però ha chiuso i battenti, e con buona pace delle Spice vere e proprie, c’è da augurarsi che finisca nel dimenticatoio, prima di venire considerato una hit da qualche compagnia tedesca in vena di strazianti nostalgie.
da Bochum (D)
Starlight Express Brilla da 25 anni la stella del musical sui pattini pi첫 stravagante al mondo di Roberta Mascazzini
Chi lo avrebbe mai detto quel 12 giugno 1988 che Starlight Express a Bochum avrebbe spento 25 candeline? Il musical di Andrew Lloyd Webber era ancora giovane, avendo debuttato solo nel 1984 a Londra e nel 1987 a Broadway. Era perciò un rischio investire grosse cifre di denaro, all’epoca ben 32 milioni di marchi, per la sola costruzione di un apposito teatro. Erano tempi in cui le società di produzione avevano evidentemente soldi e coraggio in abbondanza. Già la scelta del luogo, Bochum, città industriale della Ruhr, nota ai più solo per le officine Opel, era piuttosto azzardata. Costruire un teatro ap-
posito per un musical nuovo e un po’ particolare, in un luogo dove i turisti non arriveranno mai? Bisognava esser pazzi o sognatori. O entrambe le cose. Se è vero che la prima fu un vero trionfo, svanito l’entusiasmo dei tempi iniziali, il pubblico andò via via disertando il teatro, fino a far pensare di chiudere lo show e recuperare la struttura convertendola ad altre funzioni. Poi, una azzeccata campagna di marketing e biglietti quasi regalati richiamarono di nuovo l’attenzione su Starlight Express e il passaparola fece il resto, anche quando ormai i prezzi erano rientrati nella media delle altre rappresentazioni teatrali.
Oggi la città, centro industriale in declino da anni, è più che orgogliosa del “suo” musical del quale, d’altra parte, beneficia economicamente grazie all’indotto, visto che gli spettatori arrivano anche e soprattutto da lontano. D’altro canto non potrebbe essere altrimenti, dato che nel 2010 lo show entra a far parte del Guinness dei primati: la Starlight Halle è il primo teatro al mondo a staccare 13 milioni di biglietti con lo stesso spettacolo. Son passati altri tre anni, l’opera webberiana ha celebrato nel 2013 il 25° anno di rappresentazioni in Germania ed il numero degli spettatori ha nel frattempo superato i 14 milioni.
Eppure, Starlight Express è, dal punto di vista musicale, la composizione meno riuscita di Andrew Lloyd Webber, così come la trama è una delle meno affascinanti tra i musicals in circolazione. Ma allora cosa avrà mai di speciale? Intanto il fatto di mettere in scena 24 performers sui pattini a rotelle e, con i rimaneggiamenti degli ultimi anni, anche due interpreti-acrobati sugli inliners. Lo spettatore si accorge subito, appena mette piede in teatro, di essere arrivato in un altro mondo: il foyer pieno di bar, come se fosse una stazione ferroviaria, e la sala, un vero spettacolo anche a palcosce-
nico vuoto. Ha la forma di anfiteatro, con le poltrone per gli spettatori disposte su tre livelli oltre alla platea. Ogni livello è separato dall’altro da una pista di pattinaggio a forma di semicerchio che collega i lati destro e sinistro del palcoscenico. Nel 2008 fu aggiunta un’ulteriore pista di pattinaggio a forma di Y rovesciata che s’interseca con il semicerchio più in basso, a livello della platea, così da creare una ristrettissima zona di posti a sedere, probabilmente non più di una trentina, completamente circondati dalle piste. I posti della platea sono stati modificati nel 2002 e sostituiti con poltrone parzialmente girevoli, per dare modo a chi si trova nel livello più basso, rispetto alle altre piste di pattinaggio, di girarsi senza sforzo e seguire comodamente le evoluzioni dei performers. Per sicurezza degli spettatori e dei pattinatori, durante la rappresentazione vengono alzate delle ringhiere alte circa un metro in modo da evitare che qualcuno si ferisca in caso che qualche performer cada. Anche l’impianto luci lascia lo spettatore a bocca aperta ancor prima che inizi lo spettacolo: quello sovrastante il palcoscenico e le teste del pubblico, di nuovo a forma di cerchio, è impressionante. è grazie a questo avveniristico impianto, modificato di recente, che il musical inizia, nella più recente versione, con
uno show di luci led dai colori vivacissimi, che - in occasione del giubileo - culmina proprio con la scritta celebrativa 25 Jahre Starlight Express. Da questo magico momento comincia il vero musical: si tratta della storia di un bambino di nome Control, di cui si udirà solo la voce, che addormentandosi dopo aver giocato con i suoi amati trenini, sogna di una gara internazionale tra i vecchi treni a vapore ed i moderni treni elettrici. I treni assumono, nella fantasia del bambino, delle fattezze umane. La sfida tra treni viene lanciata dal treno moderno Greaseball, rappresentato come una sorta di Elvis Presley, con canzoni in stile adeguato e movenze tipiche del re del rock. Rusty, il giovane treno a vapore, messo in disparte da tutti a causa dell’avvento della locomozione elettrica, vorrebbe dimostrare quanto valgano (ancora) i treni a vapore, ma si trova in difficoltà nel trovare le carrozze che vogliano fargli da partner nella sfida con la modernità. Lo abbandonerà Pearl, di cui lui è innamorato e che parteciperà alla gara con Electra, un luccicante locomotore moderno. Dubiteranno tutti di lui, delle sue capacità, finche lui perderà man mano la speranza, la voglia di gareggiare e la fiducia in sé stesso. Saranno le parole e l’esempio del padre e, soprattutto la visione del leggendario Starlight Express, il treno di mezzanotte che
aiuta i locomotori in difficoltà (e che rappresenta una sorta di divinità), a ridargli coraggio e fiducia, fino all’immancabile lieto fine dove Rusty troverà la forza di vincere la sfida e, soprattutto, farà breccia nel cuore dell’amata Pearl. Nella storia della gara s’inseriscono molti treni di svariate nazionalità: Espresso dall’Italia, Bobo dalla Francia, Turnov dalla Russia, Hashamoto
dal Giappone. Il treno tedesco si chiama Weltschaft nella versione originale inglese, ma nella produzione di Bochum viene ribattezzato Ruhrgold, ovvero “oro della Ruhr”, la regione nella quale si trova la città e che prende il nome da un importante fiume. Anche la trama viene leggermente modificata per campanilismo: sarà il locomotore tedesco ad arrivare in finale al posto del francese Bobo. Altri cambiamenti della produzione tedesca riguardano maggiormente l’aspetto musicale: l’ouverture è stata accorciata, la sequenza di alcune canzoni modificata, alcune can-
zoni sostituite (per esempio Engine of Love è stata eliminata) ed altre sono state tolte e rimesse più volte col passare degli anni. Le novità degli ultimi tempi sono sicuramente il megamix finale con tutto il cast insieme sul palco e sulle piste, l’introduzione degli Hip Hoppers al posto dei Rockies e la bella canzone I do (Für immer) composta da Alastair Lloyd Webber, figlio di Andrew. Starlight Express è uno spettacolo in continua evoluzione: ogni 3-4 anni si rinnova per rimanere sempre al passo coi tempi e, forse, per quella consapevolezza che non si tratti del più grande capolavoro del compositore inglese. Una nota di riguardo meritano gli interpreti, poiché non si tratta di
pattinatori professionisti, ma di performers che per interpretare i ruoli subiscono tre mesi di allenamento intensivo speciale. Un allenamento che non consta nel solo imparare a ballare e cantare mentre si pattina, anche ad alta velocità, ma nel sopportare il peso dei costumi che arrivano fino a 18 chilogrammi per Rusty. I costumi sono talmente speciali (devono riprodurre l’aspetto dei treni, ma anche proteggere da possibili incidenti) che ognuno richiede sei mesi di lavorazione; ogni attore ne ha a disposizione ben due. Pur non essendo il musical più noto di Webber e pur essendo molto faticoso, Starlight Express attira sem-
pre un sacco di attori: ogni anno la produzione riceve una media di 500 candidature. Si pensi per esempio, per citare due nomi conosciuti, che l’ormai affermata musical star Uwe Kröger interpretò agli inizi della sua carriera sia il ruolo di Rusty che quello di Flattop e che la Spice Girl Melanie Brown provò, senza successo, a fare le audizioni per questo musical. Ma in tempi moderni, i cast si decidono anche in altri modi: l’attuale interprete del ruolo di Rusty, Marcel Brauneis, fu scelto con la trasmissione Musicalshowstar 2008 della rete televisiva ZDF. La differenza tra lui ed i vincitori di tanti
talent show consiste però nel fatto che il ragazzo avesse già alle spalle anni di studio nel campo del teatro musicale e delle partecipazioni a produzioni minori. Sul palcoscenico infatti è molto disinvolto, canta bene, nonostante il peso del costume e porta sulla scena un Rusty alquanto dolce, che esprime bene l’idea del giovane un po’ messo da parte, insicuro e che alla fine ritrova se stesso. Le ragazze, Georgina Hagen / Pearl, Abigail Dever / Dinah, Carla Pullen / Buffy e Emma Jenkinson / Ashley, nonostante i costumi “ferroviari” sembrano delle pinup e funzionano veramente bene
come girls di contorno per Andreas Wolfram / Greaseball, la “locomotiva Elvis” che è il personaggio più applaudito della serata. Sarà perché ricorda il re del rock, sarà per la voce veramente bella e ritmata o sarà per le coreografie sensuali, ma è l’unico personaggio che fa davvero centro. Gli applausi del pubblico deve però dividerli con David E.Moore nel ruolo di Papa, il padre di Rusty, vecchio e malato che incanta tutti con la sua voce “nera”. La serata si sarebbe potuta concludere nel modo più classico, col megamix finale ed i tradizionali ringraziamenti del cast con dei bis,
non foss’altro che si trattasse del periodo delle celebrazioni per i 25 anni. Ed ecco comparire sul palcoscenico il production manager a presentare tre attori che in passato avevano, a loro volta interpretato il ruolo di Rusty (Bernie Blanks, Kevin Köhler e Steven Skeels) per poi cantare di nuovo la title song insieme a Marcel Brauneis, l’attuale inteprete. Lo show è stato seguito da una cena-buffet insieme al cast, disponibile per foto ed autografi, in un enorme tendone montato appositamente sul piazzale antistante il teatro. Starlight Express a Bochum è veramente un musical che vale la pena
di vedere una volta nella vita, perché è qualcosa in più dell’insieme di ballo, canto e recitazione e solo quando si mette il piede in quella sala speciale si può veramente comprenderne la magia. Probabilmente si sarà stupito e si sarà emozionato anche Andrew Lloyd Webber, presente il 12 giugno 2013, nel vedere quanto è stato realizzato per il suo musical in una città che non è Londra, non è New York e non ha nemmeno una storia di teatro musicale alle spalle. Ma forse è anche questa la magia di Starlight Express: i produttori, come Rusty, hanno trovato la forza di realizzare i propri sogni.
da Magdeburg (D)
Les MisĂŠrables open air Una sfida contro il maltempo di Roberta Mascazzini
Erano quindici anni che il musical Les Miserables non veniva rappresentato in Germania: l'ultima produzione fu quella di Duisburg nel ‘98. Come mai un teatro abbia deciso di rischiare e mettere in scena una opera che qui non godette di molta fortuna è un mistero ignoto. Di certo non speranzosi per una sorta di traino pubblicitario o per qualche effetto sul pubblico in seguito all'uscita, questo stesso anno in febbraio (gennaio in Italia), dell’omonimo film. Pare infatti che i responsabili dell’istituzione cittadina stessero discutendo di questo musical fin dal lontano 2002. Fatto sta che il Theater Magdeburg decide non solo di cimentarsi con un musical che in Germania ebbe precedenti bilanci in rosso, ma decide di farlo addirittura all'aperto, nell’ambito di un festival teatrale estivo che si svolge annualmente in Piazza del Duomo a Magdeburgo, a cavallo tra i mesi di giugno e luglio. Evidentemente, come se le sfide non fossero già sufficienti, quest’anno ci si è messo anche il maltempo: la città è stata una delle più colpite durante le piogge e le conseguenti alluvioni che hanno caratterizzato buona parte della nazione tra maggio e giugno. Fino all’ultimo momento i musical fans sono rimasti col fiato sospeso, teatro e città hanno lavorato sodo per rendere possibile l'impossibile.
Uno degli impegni più grossi, che ha richiesto un anno di progettazione e ben un mese di montaggio in loco, è stato il palcoscenico con la scenografia a forma di anfiteatro, disposta su tre livelli e scorrevole su rotaia circolare. I laboratori scenografici del teatro hanno dovuto cercare una soluzione che si adattasse alla trama, ma anche alle condizioni atmosferiche che in Germania cambiano repentinamente; la presenza di un impianto scorrevole dà la possibilità di ricreare differenti luoghi sopperendo alla mancanza di un vero palcoscenico con macchine di scena. Il materiale scelto è tra l’altro un legno particolare, che resiste alle intemperie, in particolar modo pioggia e vento, tenuto insieme da tonnellate di acciaio; il legno non deve infradiciarsi troppo o marcire e deve reggere senza problemi anche in condizioni di vento forte. La scenografia è infatti molto alta, ben 10 metri, e se fosse troppo leggera rischierebbe di ribaltarsi. Cosa si poteva aggiungere ancora alla grandiosità del progetto? Una ciliegina sulla torta, il ritorno di Thomas Borchert nel ruolo di Jean Valjean. Il famoso performer tedesco ricoprì la parte nella citata produzione di Duisburg a trent’anni – una vera sfida per quell’età – ed ora torna a vestire i panni del protagonista de
Les Miserables a 47 anni, proprio come il protagonista Jean Valjean (e che compirà proprio il giorno dell’ultima rappresentazione!) In realtà, Borchert non ha mai abbandonato la figura del personaggio di Hugo, dato che in ogni suo concerto delizia il pubblico con la commovente Bring ihn heim, cantata con una educatissima voce di testa e con un pathos che fa commuovere fino alle lacrime. Lui stesso definì in un’intervista Jean Valjean come il ruolo di una vita. Ed è sicuramente quello a cui si sente maggiormente legato. La cosa traspare naturalmente sul palcoscenico, poiché è evidente che vive intensamente la
parte, esprime le sofferenze interiori ed esteriori del ladro redento. La voce è, come sempre, intonatissima e perfetta in ogni canzone ed in ogni dialogo e lo spettatore segue con il fiato sospeso e le lacrime negli occhi il destino di quest’uomo sempre in fuga da Javert, ma anche da se stesso. La commozione è proprio il sentimento che domina tutta la rappresentazione, grazie ad un cast di attori del Theater Magdeburg che sanno dare vera vita a questi personaggi di finzione. Su tutto il cast risplendono soprattutto le stelle dei personaggi femminili: Fantine, la prima che
incontriamo, è interpretata da Bettina Mönch. Un pochino incerta all’inizio, con una stonatura nei primi versi di Ich hab geträumt vor langer Zeit (I dreamed a dream), poi via via più sicura di sé nel canto e commovente fino alle lacrime nell’epilogo. Cosette interpretata da Teresa Sedlmair è dolce, romantica, piena di amore per il padre e per quel giovane studente, Marius, alias Oliver Arno, che per la prima volta le fa palpitare il cuore, facendo realizzare a Valjean che ormai è cresciuta, è diventata donna e potrebbe perderla, lei che era diventata lo scopo della sua vita, la sua “espiazione”.
La voce è sottile, melodiosa, di colore limpido, quasi da operetta e priva di imperfezioni d’intonazione. Altrettanta bravura ed una grinta interpretativa eccezionale dimostra anche Christina Patten nei panni della sfortunata e sola Eponine. Un ruolo difficile, quello della donna che ama non riamata e vuole comunque dimostrare amicizia fedele all’uomo che tanto vorrebbe stringere tra le braccia, persino aiutandolo a conoscere meglio e conquistare la “rivale” Cosette. La sua interpretazione di Nur für mich (On my own)non fa affatto rimpiangere Lea Salonga o Samantha Barks, alla quale l’attrice tedesca sembrebbe
essersi persino ispirata per la sua interpretazione. La novità di questa produzione è che anche la parte di Gavroche è impersonata da una donna e non da un ragazzo, molto probabilmente per l’orario molto tardo in cui si va in scena. Sandra Pangl riesce a caratterizzare bene il personaggio, a renderlo così come siamo abituati a vederlo nelle classiche rappresentazioni in cui sul palcoscenico sale un
ragazzo. Anzi, forse proprio perchè una donna interpreta quel ruolo, colpiscono comunque l’agilità, vitalità e l’esuberanza da “maschiaccio”. Molto bravi, ma non altrettanto incisivi sono gli interpreti maschili.
Markus Liske è un discreto Javert, ma nel duetto con Valjean potrebbe anche dare di meglio, metterci più grinta, più cattiveria, più interpretazione. Il problema di questo Javert è proprio di non essere abbastanza
cattivo, di non odiare abbastanza il suo ex-carcerato 24601. Marius, come scrivevamo, è interpretato da Oliver Arno, il secondo attore più noto del cast dopo Thomas Borchert. Certo, rivedere Felix Martin vestire quei panni sarebbe stato meglio, ma anche Arno se la cava egregiamente e dà il meglio di sé nelle canzoni più soft, come Schon so lang (In my life), la sempre emozionante Dunkles Schweigen an den Tischen (Empty Chairs at empty tables), mentre non raggiunge
la giusta potenza di voce nella scena all’ABC Cafè quando si canta Rot und Schwarz (Red and black). Il ragazzo ha bisogno in sostanza del primo atto per scaldare la voce e rendere al meglio. Marc Lamberty è un Enjolras altrettanto privo di quello smalto necessario per lasciare il segno. Non ci si aspettava di certo un nuovo Ramin Karimloo, ma un po’ più di veemenza nell’interpretazione di questo ruolo darebbe una forza maggiore alle scene di ensemble degli studenti e delle barricate. Infine i coniugi Thernadier, i personaggi più amati e più odiati dai fans di questo musical di Schönberg e
Boublil. Chi li ama, apprezza la leggerezza delle loro scene e l’ironia dei personaggi; chi li disprezza, trova proprio queste stesse caratteristiche portate all’eccesso fino a stridere con il mood dell’intero musical. Probabilmente la verità sta nel mezzo: se gli interpreti sono eccezionali, le scene sdrammatizzano l’atmosfera tragica e la tensione che si crea già nel primo atto con la morte di Fantine; se gli interpreti sono nella norma o, peggio ancora, mediocri, i loro momenti rischiano di scadere quasi nel ridicolo e nello stridere con tutta l’impalcatura drammaturgica. Nel caso di Magdeburgo, con Peter
Wittig / Monsieur Thernadier e Gabriele Stoppel-Bachmann / Madame Thernadier, si è rischiato proprio il secondo caso. Posto che sia difficile, se non impossibile almeno avvicinarsi alla qualità del dream team composto da Alun Armstrong e Susan Jane Tanner, quello tedesco è un duo che non sa imporre tutta l’allegria richiesta; per esempio da Ich bin Herr im Haus (Master of the house) e, soprattutto, ha costumi così kitsch da scadere troppo nel ridicolo, rovinando uno dei momenti più famosi anche tra i non appassionati di musical. Certo, cercare aspetti negativi in questa riuscitissima produzione è
quasi come cercare il pelo nell’uovo, visto che il risultato finale può considerarsi un successo su tutti i fronti: un cast di buon livello, una musical star tra le più belle voci nel panorama del teatro musicale tedesco nel ruolo principale, una scenografia funzionale, ma imponente, un’orchestra dal vivo, posta sul lato destro del palcoscenico che suona egregiamente sotto la direzione di Pavel Poplawski ed un parterre tutto esaurito ogni sera, anche se per un solo mese. Non solo: Les Miserables è riuscito, per la prima volta nella storia del Domplatz Open Air, anche a far partecipare la cattedrale cittadina
alla rappresentazione stessa. Alle spalle del palcoscenico, infatti, si trova l’altissimo ed austero duomo, la più antica cattedrale della Germania, costruita in stile gotico nel 962. La location sarebbe già di per sè suggestiva: vedere all’imbrunire le luci del palco con la cattedrale sullo sfondo e le note di Schönberg è una delle cose più emozionanti che si possano immaginare. Lo spettatore è portato automaticamente ad associare il duomo della cittadina tedesca con la cattedrale di Notre-Dame ed a sentirsi trasportato davvero a Parigi nell’epoca in cui svolge la trama.
L’evento eccezionale è però un altro. Proprio per accentuare questa sensazione, le luci interne del duomo vengono tenute eccezionalmente accese durante tutta la rappresentazione (mentre di sera sono solitamente spente), così da rendere l’atmosfera ancora più suggestiva. La collaborazione è stata siglata proprio perché il musical francese ha una trama incentrata sulla redenzione, un tema caro anche alla Chiesa. Di certo la cosa non si potrà ripetere il prossimo anno, quando nell’ambito della stessa rassegna verrà portato in scena il “blasfemo” The Rocky Horror Show. Le luci provenienti dall’edificio go-
tico giocano un ruolo particolarmente importante durante la scena Morgen schon (One day more), in cui il cast è posizionato su tutti e tre i livelli dell’impalcatura scenografica e sulle note finali viene lanciata dall’alto una lunghissima bandiera francese, ben 10 metri, e vengono spente le luci del palcoscenico, lasciando solo le luci dietro lo stendardo tricolore e quelle della cattedrale sullo sfondo ad illuminare la scena. Citiamo anche il resto del creative team: i costumi, non proprio eccezionali di Dagmar Morell,le coreografie di Kati Farkas, l’allestimento di Gil Mehmert,
l’adattamento in tedesco di Herbert Kretzmer e Heinz Rudolf Kunze. Il ciclo di rappresentazioni si è purtroppo chiuso il 21 luglio e, probabilmente, passeranno ancora molti anni prima che un altro teatro rischi nell’allestire Les Miserables. Il Theater Magdeburg ha però dimostrato quest’anno, come nei precedenti, di saper portare in scena produzioni di qualità con gli attori che compongono lo stabile e perciò potremmo aspettarci belle sorprese anche per il Domplatz Open Air dal 21 giugno al 13 luglio 2014 con The Rocky Horror Show.
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stay tuned!
da Vienna
Wiener Musical Hits Il grande musical fa beneficenza di Enrico Comar Anche quest’anno la primavera teatrale viennese è stata segnata dall’atteso appuntamento con l’ormai consueto concerto di beneficenza in favore della J/P Haitian Relief Organization (organizzazione internazionale impegnata in opere di ricostruzione e aiuti umanitari verso del popolo di Haiti, in seguito al disastroso terremoto del 2010), organizzato da Marjan Shaki e Lukas Perman e giunto ormai alla terza edizione. I due organizzatori mantengono un basso profilo, concedendosi solo un paio di duetti e lasciando così spazio alle altre star della serata (alla parata interminabile di nomi più o meno celebri delle precedenti edizioni, si è sostituito un gruppo relativamente piccolo di star di alto livello, dando modo ad ognuno di esibirsi in almeno un paio di assoli e altrettanti duetti.) Il ruolo di leading man della serata
è affidato alla star del musical viennese Alexander Goebel, che, smessi i panni del cantante a favore di quelli del presentatore, domina la scena e conquista il pubblico con la sua verve e la sua esuberanza (sfortunatamente il mio tedesco mi permette di capire solo una piccola parte delle sue parole, ma le risate continue e gli applausi del pubblico viennese non lasciano dubbi sulla loro efficacia). In platea anche un paio di facce note del musical austro-tedesco, incluso un ritardatario Sylvester Levay (vera e propria star silenziosa della serata, autore di buona parte dei brani del concerto) il cui ingresso in platea a concerto iniziato (con tanto di posto riservato occupato nel frattempo da qualche spettatore disinvolto e piccolo esercito di maschere che cerca di risolvere la situazione) gli costerà alcune divertenti frecciate da parte di Goebel.
Dopo l’overture (da Tanz der Vampire), si comincia “giocando in casa” con Barbara Obermeier alle prese con So viel besser ,da Natürlich Blond (in scena proprio in questo periodo al Ronacher), che scalda al punto giusto il pubblico per Jekyll & Hyde, con Thomas Borchert (accolto con un’ovazione prima ancora di emettere una nota) e la sua appassioDies ist die Stunde, seguito da Carin Filipcic e Maya Hakvoort, in una Mädchen der Nacht da brividi e dalla più leggera So viel mehr (da Rudolf) cantata da Wietske Van Tongeren e Mark Seibert. Ben tre brani dedicati a Mozart!. Una Annemieke Van Dam energica ma un po’ dura nel registro acuto e nelle agilità si cimenta in Irgendwo wird immer getanzt; più a loro agio la Obermeier e Andreas Bieber (quest’ultimo particolarmente amato dal pubblico viennese e calorosamente accolto al suo ingresso) in Dich kennen heisst dich lieben e soprattutto Maya Hakvoort con l‘ormai “suo” Gold von den Sternen. Ancora pioggia di applausi preven-
tivi per il vampiresco Borchert di Einlandung zum Ball e Totale Finsternis (in duetto con una splendida Marjan Shaki), che non tradiscono le aspettative rivelandosi due tra i pezzi più appassionanti della serata. Deciso cambio di registro con il successivo Ich wär so gern ein Producer di Andreas Bieber, che gua-
dagna ulteriormente i favori del pubblico portando in scena il personaggio con tanto di costumi e apparato scenografico. Sempre d’effetto l’immancabile Erinnerung (Memory) da Cats (affidata a Carin Filipcic). La prima parte si chiude, come pre-
vedibile, con il più viennese tra tutti i musical. Le prime note orchestrali di Der letzte Tanz, da Elisabeth, accompagnano l’ingresso di Seine Majestät Uwe Kröger che, senza nemmeno bisogno di cantare, è tutt’uno con il personaggio anche semplicemente mentre cammina lentamente verso
il centro del palco (lo sguardo con cui, tra serietà e ironia, la sua Morte fulmina la platea zittendo gli applausi varrebbe da solo il prezzo del biglietto). Il cantante sembra aver, se non risolto, quantomeno aggirato i problemi vocali degli ultimi anni,
apparendo in condizioni decisamente migliori rispetto a quelle di un paio di anni fa.Voce controllata e prudente, che cattura con passaggi sussurrati e quasi parlati per poi esplodere in virtuosismi insospettabili. Superbo il duetto/sfida tra i due Tod (durante il quale il collega-rivale Mark Seibert, sebbene dotato di uno strumento di gran lunga più efficiente e un indubbio fascino scenico, deve infine cedere il passo). Un po’ caotica invece la successiva Die Schatten werden länger a quattro voci, più interessante per il confronto tra gli interpreti (Kröger, Seibert, Bieber e Perman) che per il risultato complessivo. Emozionante conclusione del primo atto sulle note di Ich gehör nur mir, cantato da Maya Hakvoort e Annemieke Van Dam, che strappano l’applauso più caloroso e sentito della serata. Durante la pausa riesco ad accaparrarmi Sylvester Levay, che sembra
però più interessato a raccontarmi delle sue vacanze in Croazia e a tessere le lodi di Trieste, piuttosto che a discutere dello spettacolo. Resta comunque un po’ di tempo per qualche commento sulla sequenza dedicata ad Elisabeth, una lode alla voce di Maya Hakvoort e qualche osservazione sul duetto tra le due imperatrici e su come la diversità della loro interpretazione sia indicativa della complessità del personaggio. Rivela anche una certa attesa e curiosità verso i brani di Rebecca previsti nel secondo atto, che vedranno i due primi interpreti riuniti ad otto anni di distanza. Entr’acte in grande stile con Der Ball da Romeo & Julia, cui segue, dallo stesso show, il Liebesglück della coppia Shaki-Perman. Barbara Obermeier incanta con una sentita Nur für mich, mentre la successiva Sterne (entrambe da Les Misérables) è forse, spiace dirlo, l’unico momento debole della serata. Se nei brani di Elisabeth Kröger aveva saputo destreggiarsi con notevole abilità, qui, è il caso di dirlo,Der Schleier fällt. Tolti tutti gli espedienti vocali e i rifugi nelle colorature, appaiono evidenti tutti i limiti di uno strumento
ormai alquanto compromesso. L’affaticamento si sente sin dal registro centrale, con suoni duri e ingolati, ed evidenti difficoltà nel fraseggio, che sfociano in note urlate nel registro superiore. Segue l’assolo di Borchert, che, forse per compassione, spoggia visibilmente il primo acuto, salvo farsi subito perdonare con una Bring ihn Heim di rara bellezza e intensità (piccolo assaggio del Valjean che i più fortunati hanno potuto poi vedere a Magdeburgo). Il disneyano Die schöne und das Biest della coppia Filipcic-Seibert rinfresca l’atmosfera preparandola per il secondo, apprezzatissimo, assolo di Bieber, ancora una volta immerso nel personaggio, con tanto di dreamcoat scenica addosso, nei classici Close every door e Any dream will do. Atmosfera che si riscalda invece non poco con l’ingresso di una fatale (e adeguatamente svestita) Annemieke van Dam impegnata in una sensualissima All that Jazz. L’ampio capitolo dedicato a Rebecca segna invece il trionfo di Wietske Von Tongeren, l’interprete originale del personaggio che, a distanza di sette anni, ritroviamo, maturata
WIENER MU
nella voce e nell’interpretazione, con Ich hab geträumt von Manderley. Segue immediatamente, interrompendo gli applausi scroscianti, la title-song da parte di una intensa Maya Hakvoort, accompagnata nel finale dall’ensemble e dalla Van Tongeren (a cui Maya lascia prudentemente il compito di emettere l‘acuto conclusivo) in uno dei momenti più alti della serata. Non sfigura affatto la successiva Jenseits der Nacht, che vede riunirsi i due interpreti originari e in cui si assiste ad un nuovo miracolo di Kröger (o dei fonici), che ritrova una voce solida e brillante, lanciandosi con sicurezza in un canto generoso e appassionato sin nelle tessiture più ardue. I brani successivi conducono rapidamente verso il finale. Il frizzante You’re the one that I want da parte di Bieber e una sempre più energica Van Dam, il drammatico e intenso Du bist allein della Filipcic e l’impeccabile ma poco sentita Gethsemane di Seibert. Dopo l’epilogo orchestrale, anch’esso da Jesus (un John 19:41 magnifico), giunge il momento delle “cose serie”, con la consegna in
grande stile dell’assegno da destinare ad Haiti e un lungo discorso (in tedesco, naturalmente, quindi comprensibile dal sottoscritto solo a grandi linee) sulla situazione dell’isola (con tanto di video di ringraziamenti da parte di Sean Penn, creatore della fondazione) e sull’importanza di questa serata, non solo per la cifra raccolta, ma anche per l’aver dato visibilità e aver dimostrato interesse per una realtà troppo presto dimenticata dai media ma ancora problematica e che necessita di tutto il sostegno possibile. Il gran finale è affidato nuovamente alla Van Tongeren, con un’ottima What I did for love, cui segue, come bis, il corale Heute beginnt der Rest deines Lebens da Ich war noch niemals in New York. Da menzionare anche i brevi ma splendidi interventi del corpo di ballo (non posso non citare l’affascinante Emma Hunter già vista al concerto d’anniversario del Phantom), su coreografie di Jerôme Knols, e la consueta maestria dell’orchestra dei Vereinigten Bühnen, guidati dall’abile mano di Koen Schoots.
SICAL HITS
le
inter
amici del
musical
rviste
Susan Rigvava-Dumas La protagonista di Rebecca e del recente Sunset Blvd austriaco si racconta alla nostra webzine di Anna Hurkmans Ho conosciuto Susan circa cinque anni fa dopo una rappresentazione di Rebecca a Vienna. Dopo le lunghe ovazioni alla fine del musical, con lanci di fiori alle sue uscite, era chiaro chi fosse la star della serata. L’ho attesa all’uscita artisti per complimentarmi con lei e anche per portarle un regalino perché era il 5 dicembre, festa di S. Nicola, che per gli olandesi è il loro babbo Natale. Abbiamo un po’ chiacchierato in olandese e le chiesi se fosse disposta a registrare qualche song del musical mio e di Raffaele Paglione Don’t cry Butterfly su una storia d’amore tra Puccini e Mata Hari. Cosa che accettò volentieri. Poi si mise un cappuccio di lana (era dicembre e faceva freddo) e se ne andò a casa pedalando sulla sua bici da vera olandese, senza arie da diva! In estate ci siamo visti con Raffaele a Vienna e ci ha cantato in modo superbo tre brani, due in inglese e
uno in tedesco (si possono ascoltare sul nostro sito www.inmusical.net). Da quel momento siamo rimaste in contatto e lei stava proprio per venire a Roma dove l’avrei ospitata con marito e due figli quando le arrivò un’offerta da sogno: sostituire l’attrice Dagmar Koller, ammalatasi, nel ruolo di Norma Desmond a Klagenfurt. Non potevo ovviamente mancare e ho fatto volentieri le quattordici ore di viaggio per vedere Sunset e in seguito intervistarla per AdM. L’intervista è cominciato nel suo camerino e proseguita la mattina dopo, con un cappuccino, sulla Piazza del Lindwurm, il drago simbolo di Klagenfurt. Susan, abbiamo una cosa in comune: siamo tutte e due olandesi che vivono ormai da tanto in paesi dove si parlano altre lingue.Tu in Austria, io in Italia. Ma so che la tua situazione linguistica è ancora più complessa…
Sì, sono nata e cresciuta in Olanda, ma mio padre è francese, come si vede dal mio cognome Dumas. Ho fatto studi musicali in Germania e Austria, dove ora vivo a Vienna, ma mio marito Gia Rigvava è russo o meglio, georgiano, e dato che io non sapevo il russo e lui né il tedesco né l’olandese abbiamo sempre parlato in inglese. Con i miei figli, (Serge quasi 15 anni e Sophie 10) parlo tedesco. Cantando anche lirica un po’ d’italiano lo capisco. Ho anche imparato un po’ di russo, perché frequento anche quel paese. (La nostra intervista si svolge un po’ in olandese e un po’ in tedesco, con qua e là qualche espressione inglese) Susan, so che non canti solo musical ma anche lirica, liederistica, e persino jazz. Come riesci a fare tutto ciò? Non solo quello, ma persino rock. Ho fatto la Killer Queen in We will rock you. Ai tempi della scuola superiore ho cominciato a cantare musica rock nel complessino di mio fratello. E anche se dovevo ovviamente nasconderlo ai miei insegnanti, ho continuato anche durante i miei studi al conservatorio, dove ho studiato canto classico e lirico. Prima a Enschedé, la mia città, e poi a Monaco di Baviera dove mi sono diplomata. Ho fatto anche dei corsi al Mozarteum di Salisburgo e solo
più tardi ho scoperto il mondo del musical. Il mio primo ruolo fu Mme Giry nel Fantasma dell’Opera. Poi sono arrivati i ruoli dell’Arciduchessa Sophie, la suocera di Sissi in Elisabeth, il famoso musical di Kunze & Levay, e Mrs. Danvers, la governante in Rebecca, per ben 3 anni. Nel frattempo ho sempre continuato a fare concerti jazz e a cantare musica classica: Mozart, Haydn... Ultimamente ho fatto anche una parte nel Rigoletto di Verdi. Quando facevo Sophie in Elisabeth sono nati i miei figli. Da quel momento la famiglia è diventata numero uno nella mia vita, ho voluto sempre stare vicina ai miei figli e a
mio marito. Perciò quando mi hanno chiamata per Rebecca, di cui si sapeva che sarebbe durato a lungo, mi sono trasferita con tutta la famiglia a Vienna. Solo oggi, dove i bambini sono già più grandi, ho accettato un impegno un po’ più lontano da casa (Klagenfurt è a 4 ore di treno da Vienna). Qualche volta mi fermo in albergo, ma spesso sono anche tornata a casa e questo weekend i miei vengono qui a Klagenfurt. Per fortuna mio marito, che è un artista figurativo, mi aiuta molto e mi sostiene anche moralmente nei momenti difficili, anche cucinandomi manicaretti!
Come hai reagito quando ti hanno offerto il ruolo di Norma cosi poco prima della premiere? E come l’hai affrontata? Ero naturalmente sorpresa, ma anche molto felice. Era una vera sfida preparare il ruolo in sole tre settimane, dove gli altri provavano già da tre settimane. Ma ero convinta di potercela fare. è stato un periodo intensissimo di studio e di prove; lavoravo dalle 8 di mattina alle 10, 11 di sera. Mentre ancora dovevo memorizzare songs e dialoghi facevo già le prove col regista, aiutata da un suggeritore. Giravo per la città con 2 grossi volumi, sotto un braccio gli spartiti, sotto l’altro il libretto. In ogni momento libero, persino durante colazione e pranzo, imparavo un’altra parte. Per fortuna mi sono trovata in sintonia col regista Schloesser e con il protagonista David Arnsperger. Il regista mi ha lasciata molto libera e mi ha invitata a trovare una mia visione del personaggio. Non ho appositamente voluto vedere o sentire altre interpretazioni di Norma per non farmi influenzare.Volevo soprattutto evitare di fare di Norma un personaggio isterico e ho voluto piuttosto sottolineare i suoi aspetti di fragilità, di solitudine, di bisogno
d’affetto. Ma anche il suo grande amore per la sua arte, espresso in canzoni come With one look e As if we never said goodbye. Quella è la sua vera dimensione, non è un’illusione ma un sentimento vero. Che altri ruoli ti piacerebbe adesso interpretare? A questa mia età mi sento veramente matura per interpretare i ruoli migliori, e ce ne sono molti che mi piacerebbe affrontare se ho tempo: Donna in Mamma mia, Mrs. Lovett in Sweeney Todd, Rose in Aspects of Love, Diana in Next to Normal. Ma ciò che mi piacerebbe veramente sarebbe tornare all’opera: la mia voce sarebbe molto adatta per fare Senta nell’Olandese Volante di Wagner, Isolde nel Tristano dello stesso compositore o in opere di Puccini come Tosca. Mi piacerebbe anche cantare qualche opera di Benjamin Britten o Samuel Barber. Sarebbe bello anche venire a cantare in Italia, se m’invitasse un’importante compagnia. Un bel ruolo è anche Mata Hari nel vostro musical Don’t cry Butterfly, dove potrei anche danzare come ho fatto nella scena di Salomè in Sunset Boulevard, se si facesse una grossa produzione!
Daniel titolo Koek Da Chess a South Pacific, il performer australiano è ora il nuovo Valjean del Wes End di Sara Del Sal In Italia chiunque abbia visto Chess al Rossetti di Trieste lo ricorda senza ombra di dubbio. Daniel Koek, il performer australiano che interpretava Anatoly, ha lasciato un segno bello marcato grazie anche alla sua grande voce. Non si poteva quasi respirare durante Anthem per l’intensità e la forza che ci metteva, ma al contempo non si poteva che invidiare la sua partner in scena, perché quando recitavano sembrava così innamorato e vero. Dopo Chess per lui è arrivata la chiamata da South Pacific che lo ha visto in scena come Lt Cable prima al Barbican, a Londra, poi in giro per l’Inghilterra e a seguire in Australia. “Ricordo che quando mi hanno chiamato per fare l’audizione per South Pacific stavo facendo Chess. Il giorno successivo aspettavamo Tim Rice a vedere lo spettacolo e l’audizione era fissata per lo stesso
giorno. Ho scelto di restare in scena, e due settimane dopo mi hanno chiamato dicendomi che volevano vedermi per l’audizione. Ci sono andato e solo quando stavo partendo per Trieste con Chess ho saputo che avevo ottenuto il ruolo. Quello che ai tempi non mi sarei aspettato era di andare anche in Australia, e di esibirmi nella prestigiosa e bellissima Opera House di Sidney oltre che in altri teatri. Per me è stato un ennesimo sogno avverato.” Come hai iniziato la tua carriera? “Anche da piccolo i miei genitori mi portavano a vedere concerti, spettacoli e musical. A nove anni ho visto ad Adelaide il Fantasma dell’Opera e ricordo di essere stato affascinato fin dal primo istante da tutto quello che accadeva sul palco. Allora ho detto: questo è ciò che voglio fare! E da lì è iniziato un periodo fatto di recite scolastiche e di
spettacoli che dura ancora oggi. Ho frequentato una scuola superiore che prevedeva l’allestimento di un musical ogni due anni e quindi ho partecipato a The Mikado di Gilbert e Sullivan e a My Fair Lady dove interpretavo il professor Higgins. Prima di entrare all’università ho iniziato a prendere lezioni di canto da un’insegnante che viveva ad Adelaide e mia madre mi accompagnava. Si è fatta un bel po’ di chilometri per me. Ma ne è valsa la pena perché con quegli insegnamenti ho imparato a usare la voce senza sforzarla per ottenere delle note che sarebbero state più naturali con la crescita. Quando ho finito gli studi volevo
vedere il mondo, incontrare i parenti di mio padre in Olanda e sono andato da mia zia, che faceva la costumista. è stata lei a spingermi a fare un’audizione per entrare nel coro della compagnia con la quale stava lavorando e quindi a 21 anni avevo un ingaggio con loro. Mia zia oltre che fare la costumista ha tre figli: Jerome che fa lo chef, Raoul che è un ballerino e Susan che lavora nel musical (che in molti conosciamo con il suo
nome intero ovvero: Susan Rigvava Dumas che con Rebecca ha lasciato senza parole il pubblico austriaco ed è fresca interprete di Norma Desmond in Sunset Blvd) direi che è una famiglia piena di talento la sua. Una volta tornato in Australia, senza più soldi, un’amica mi ha chiamato dicendomi di raggiungerla a Londra per tentare di entrare alla Mountview Academy of Theatre Arts. Non potevo andarci, e quindi preparai un video che inviai alla scuola tanto per provare. Mi chiamarono e sei settimane dopo ero a Londra, pronto per iniziare il Master. E da allora vivo qui a Londra.”
Sei un attore molto intenso e credibile. Hai un modo molto bello di rapportarti con i tuoi partner in scena. Qual è il tuo segreto? “Credo che lavorando con tanti altri attori si impari tantissimo. Ricordo che mi dissero che “acting is about reacting” e questo per me funziona ancora. Non devo focalizzarmi solo sulle mie battute, devo ascoltare gli altri e reagire.” In questo momento cosa stai facendo? “Ho fatto un’audizione importante per un titolo molto famoso in West End e al contempo sto preparando il mio concerto, che é più che altro un show, perché prevede otto ballerini e otto coristi oltre ai musicisti. Sto definendo la scaletta, che racconterà comunque il mio percorso, toccando quindi brani dai musical che ho interpretato come West Side Story o Chess, ma per arrivare a canzoni molto diverse, di cui alcune anche in italiano.” Dove ti esibirai? “Al momento ho delle date in Australia e qui in Gran Bretagna, ma vorrei davvero che questo progetto girasse per l’Europa, magari coinvolgendo artisti dei diversi paesi, come Susan, mia cugina, e, non nascondo che mi piacerebbe poterlo portare anche al Rossetti, un teatro che mi é rimasto nel cuore.”
Aspettando di capire se avremo modo di rivederlo su un palco italiano… dita incrociate per lui per il suo futuro, perché Daniel oltre ad essere altissimo é anche giovane e ha tutte le carte in regola per mettere a segno dei traguardi importanti!!! Una volta chiusa l'intervista ecco la notizia bomba: la risposta relativa all'audizione di cui parlava é arrivata e Daniel sta rivedendo i suoi piani per l'immediato futuro. Ha infatti debuttato a giugno per una volta a settimana nel West end nell'ambitissimo ruolo di Jean Valjean nei Miserabili. “Sono felicissimo di avere ottenuto il mio primo ingaggio in una produzione così importante e di lavorare con Cameron Mackintosh", ha affermato appena ottenuta la notizia. “Ovviamente mi rendo conto che sarà un lavoro molto impegnativo anche perché dovrò interpretare un personaggio che é più grande di me, ma sarà una bella sfida. Non mi resta quindi che invitarvi a venire a trovarmi in West End nei prossimi mesi, perché con questo lavoro i miei concerti dovranno essere posticipati” Dita incrociate per Daniel quindi, e... un nuovo ottimo motivo per una gitarella londinese!
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