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Cina: la difficile professione di avvocato /Estremo Oriente

CINA: LA DIFFICILE PROFESSIONE DI AVVOCATO

di Andrea Pira

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Quando in un lancio su Twitter uno degli organi di stampa ufficiali cinesi ha messo tra virgolette il termine “rule of law”, tra i commenti non è mancata l’ironia. D’altra parte, almeno dal punto di vista dell’osservatore occidentale, quando si ha a che fare con il sistema giudiziario della Repubblica popolare, più che di Stato di diritto, sarebbe meglio parlare di “rule by law”, ossia di un sistema governato secondo le leggi in vigore. E a volte anche queste sono disattese e infrante dalla stessa autorità.

D’altronde, “in un sistema dove anche gli avvocati finiscono per essere torturati dalla polizia, che speranza possono avere gli imputati comuni?”, si chiede Patrick Poon, ricercatore specializzato sulla realtà cinese di Amnesty International. La considerazione è a commento dell’ultimo rapporto dell’organizzazione sulla pratica ancora diffusa in Cina di estorcere confessioni ai sospettati anche attraverso la tortura. No End in Sight, pubblicato a metà novembre, ha messo in evidenza come le riforme della giustizia sbandierate da Pechino non stiano avendo effetto nello sradicare abusi e violenza, nonostante, almeno nelle intenzioni, siano state concepite per fare passi avanti nella tutela degli imputati. Il governo cinese rimarca invece dal canto suo il sostegno dato agli avvocati nello svolgere il proprio dovere “in accordo con la legge”.

Le testimonianze raccolte da Amnesty raccontano però un’ altra storia. Su 37 avvocati intervistati dall’organizzazione, dieci sono stati vittime di torture o violenza. I principali bersagli sono gli esponenti del cosiddetto movimento weiquan (diritto alla difesa). Si tratta degli avvocati impegnati nel difendere i cittadini dall’arbitrarietà del potere o dall’uso improprio della giustizia. Diversi tra gli intervistati hanno spiegato di essere diventati a loro volta vittime per aver cercato di indagare sulle violenze subite dai propri assistiti. L’avvocato pechinese Zhang Keke ha raccontato di aver subito un fermo di 24 ore il 13 maggio del 2013, per aver preso parte a un’indagine assieme ad alcuni colleghi su un centro a Ziyang, nella provincia del Sichuan, dove sarebbero stati rinchiusi diversi membri del Falun Gong e petizionisti, ossia cittadini che, avendo subito un torto magari a livello locale, cercano di portare il loro caso fino a un’autorità di più alto livello e per questo sono spesso fermati o imprigionati senza processo.

Zhang ha denunciato di essere stato picchiato dalla polizia e, una volta portato al commissariato locale, sottoposto a privazione del sonno e interrogato per otto ore consecutive. Sulla stessa linea è la testimonianza di Tang Jitian, ex procuratore e avvocato di Pechino, che spiega di aver trattato diversi casi di confessioni forzate e di essere stato torturato a sua volta tra il 2011, nel periodo della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini in Cina, e il 2014. Uno degli episodi denunciati risale a marzo del 2014, quando fu arrestato e picchiato assieme ad altri colleghi (Jiang Tianyong, Wang Chegn e Zhang Junjie) durante un’inchiesta su una cosiddetta black jail, non vere e proprie prigioni, ma luoghi, spesso scantinati, alberghi, residenze abbandonati, usati per far sparire le persone scomode.

Nella Cina dell’era Xi Jinping si sta assistendo a uno strano cortocircuito. Nel corso degli ultimi anni sono state prese diverse iniziative per avvicinare il Paese allo Stato di diritto o a essere una nazione governata con il diritto. Nel 2013, ad esempio, la Corte suprema ha stabilito che nei processi le confessioni estorte con la tortura non possono essere utilizzate come prova. Allo stesso tempo va avanti il tentativo di affrancare i tribunali dall’ingerenza dei funzionari e dei politici locali. L’intero sistema risente però della mancanza di una separazione tra poteri e, in particolare, dal potere principale: quello del Partito comunista. Tant’è che negli ultimi anni si è sviluppata una profonda discussione attorno al costituzionalismo, ossia sulla necessità che l’autorità rispetti i diritti sanciti dalla Carta fondamentale, spesso disattesi nella pratica.

La Cina si muove inoltre in un nuovo contesto. La Repubblica popolare sembra aver abbandonato la reticenza della passata amministrazione a guida Hu Jintao e Wen Jiabao e sta rivendicando con maggior vigore il proprio ruolo. A questo corrisponde uno rinnovato sforzo riformista, in particolare in campo economico. L’altra priorità della dirigenza insediatasi a novembre del 2012 è la lotta contro la corruzione. La campagna contro il malaffare è in parte dovuta alla necessità di ripulire l’immagine del Partito, per non intaccarne la legittimità. Non di rado si è però anche rivelato uno strumento di lotta politica, come dimostrato dall’epurazione di Zhou Yongkang, ex componente del passato comitato permanente del Pcc, ossia il gotha del potere cinese, e zar della sicurezza interna, attorno al quale si era coagulata una delle fazioni ostili alla dirigenza Xi. Terzo pilastro è la stretta contro il dissenso. L’ondata di arresti, fermi, interrogatori contro gli avvocati impegnati in casi “sensibili” e attivisti per i diritti umani e civili, che ha segnato questa estate, è parte di questa strategia di mantenimento dell’ordine.

Nel cosiddetto “lunedì nero” del 13 luglio, l’ondata repressiva si è abbattuta su centinaia di cittadini. Al momento in cui questo articolo è stato scritto, secondo i dati del China Human Rights Lawyers Concern Group, sono almeno 307 le persone cui è stato vietato l’espatrio o che sono state arrestate, interrogate, convocate dalla polizia, messe agli arresti domiciliari o sotto sorveglianza, oppure sono scomparse. Non si tratta soltanto di attivisti, avvocati o dipendenti di studi legali. Le misure ristrettive hanno infatti toccato anche i loro familiari. Nei giorni immediatamente successivi il Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Pcc, ha motivato fermi e arresti con ipotetici complotti per organizzare proteste che avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico. Molti tra gli avvocati coinvolti, ricordava il Wall Street Journal, erano tra i firmatari di una lettera per chiedere il rilascio di Wang Yu, un loro collega scomparso in quei giorni e ritenuto sotto detenzione.

L’intera vicenda si sovrapponeva ai timori per le conseguenze sul piano politico dell’esplosione della bolla azionaria. Nei mesi precedenti, anche su sollecitazione del governo, i piccoli risparmiatori erano stati il motore della crescita dei listini di Shanghai e Shenzhen, crollati però del 40% tra giugno e luglio. Pechino è pertanto dovuta intervenire per risollevare le borse, dando tuttavia l’impressione di non essere completamente in grado di gestire la situazione e tutelare i propri cittadini.

Risale invece allo scorso novembre l’ennesimo rinvio del processo contro Pu Zhiqiang. Il caso è considerato alla stregua di un simbolo della stretta contro gli attivisti della società civile. Rinomato avvocato, che tra gli altri ha difeso l’artista e dissidente Ai Weiwei, Pu è da maggio del 2014 agli arresti in attesa di processo, dopo aver partecipato a un celebrazione per ricordare i 25 anni dai fatti di piazza Tian’anmen. Le accuse nei suoi confronti, per le quali rischia fino a otto anni di carcere, sono di insulti e incitamento all’odio etnico. Pu, ricorda il South China Moring Post, è infatti critico verso le politiche del governo centrale in Tibet e, soprattutto nello Xinjiang, che considera causa del risentimento della minoranza musulmana e turcofona degli uiguri e che possono aver fomentato l’insorgere della violenza.

L’avvocato non ha, inoltre, mai lesinato stoccate al Partito stesso. “Dal vertice alla base, non può sopravvivere senza bugie”, ha commentato su internet, puntando poi l’attenzione su specifici funzionari: abbastanza perché le autorità lo ritengano un pericolo per l’ordine sociale, da tenere quindi sotto controllo. I continui rinvii sono sembrati quindi un modo per prolungarne la detenzione. Alla fine Pu è andato a processo il 14 dicembre e il 22 è arrivata la condanna a 3 anni con sospensione della pena, più lieve degli 8 anni di detenzione cui l’avvocato sarebbe potuto andare incontro. Ma la “clemenza” dei giudici ha un suo lato oscuro. Come sottolineato in un commento sul sito China File dal professore Hu Yong dell’università di Pechino, la condanna porterà infatti con sé la probabile revoca dell’autorizzazione a esercitare la professione impedendo a Pu di continuare a battersi per la libertà di parola come fatto per un decennio.

Quando non agiscono con il pugno di ferro, le autorità giocano con le regole per limitare gli spazi di agibilità. L’ultima proposta in ordine di tempo illustrata durante un simposio a Guanzhou dal giurista dell’università Renmin di Pechino, Chen Weidong, è di stilare una classifica dei legali, cosicché soltanto quelli di più alto livello possano essere assegnati ai casi più importanti nei tribunali di più alto grado. Per il professor Chen gli avvocati dovrebbero, inoltre, aver specifiche qualifiche per difendere determinati clienti, ad esempio imputati che rischiano la pena di morte. Per i fautori di tali provvedimenti, le novità servirebbero a garantire che a occuparsi dei casi più delicati sino i migliori. Per i critici invece è un modo per escludere i legali non graditi all’autorità.

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