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Diritti umani e diseguaglianze economiche /Diritti Economici e Sociali

DIRITTI UMANI E DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE

di Vincenzo Fazio

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La connessione tra la concreta possibilità di esercitare i fondamentali diritti umani e l’esistenza di diseguaglianze economiche all’interno di una società non è del tutto pacifica.

Occorre riconoscere con realismo che forme di diseguaglianze nella ricchezza e nella produzione del reddito sono non soltanto ineliminabili ed in certo qual modo naturali, essendo la ineliminabile conseguenza della diversa capacità degli esseri umani, della diversa fortuna, delle differenti opportunità contingenti, ma sono in qualche misura funzionali allo sviluppo stesso della società, favorendo i processi di accumulazione che possono agevolare la realizzazione di investimenti per lo sviluppo futuro.

Tuttavia vi è un limite oltre il quale le diseguaglianze economiche divengono il contrario di tutto questo e causano un reale ostacolo alla concreta possibilità di esercitare i diritti umani costringendo una parte della società - la più povera - a divenire schiava del bisogno e l’altra parte - la più ricca - ad essere non proprio felice non soltanto perché la ricchezza non dà la felicità, ma perché diviene oggetto di invidia, quando non si scatenano contro di essa odio e violenza.

Questo limite dipende dalla entità delle diseguaglianze e dalla conoscenza che se ne diffonde da parte dei mezzi di informazione, nonché dalla loro correttezza.

Nel mondo occidentale, gli squilibri nella distribuzione della ricchezza si sono accresciuti enormemente nel corso degli ultimi decenni, causando un reale diffuso impoverimento del cosiddetto ceto medio.

Le ricadute sulla concreta fruizione di diritti fondamentali quali la tutela della salute, la prosecuzione dell’istruzione, le speranze di mantenere il proprio lavoro e la carenza di prospettive di occupazione per i propri figli, ecc.. Quindi le gravi lesioni della dignità della persona, fanno parte ormai non soltanto della esperienza comune, ma anche delle statistiche ufficiali italiane e del mondo occidentale più in generale.

Nei paesi emergenti, invece, gli squilibri nella distribuzione dei redditi sono pure in grande espansione, anche se si accompagnano ad una sostanziale riduzione della povertà.

Le analisi di economisti e di sociologi, non sempre prive di substrati ideologici, si susseguono con apporti sempre più interessanti, come pure non mancano i suggerimenti che cercano di dare una risposta concreta al problema.

Recentemente hanno attratto l’attenzione dell’opinione pubblica italiana più informata due pubblicazioni molto interessanti e di grande suggestione per profondità di analisi e ricchezza di argomentazioni a favore delle tesi sostenute:

• il volume di T. Piketty “ Il capitale nel XXI secolo” (ed. Bompiani, 2014);

• il volume di A. Deaton (premio nobel per l’economia 2015) “La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” (ed. Il Mulino, 2015).

Le due pubblicazioni, invero, sono comparse in edizioni originali già nel 2013.

Entrambi gli autori, nell’affrontare il tema delle disuguaglianze economiche conducono un’ analisi che si estende anche ai secoli passati e investe la quasi totalità dei paesi, dandoci delle ricostruzioni pregevoli per l’organicità e l’accuratezza delle informazioni su di un tema di scottante attualità. Diversi sono invece i dati utilizzati. Piketty usa grandezze economiche aggregate (redditi di capitale e redditi di lavoro); Deaton invece fa riferimento a valori medi individuali (reddito pro-capite).

Entrambi concordano nel rilevare le gravi disuguaglianze venutesi a creare sopratutto nel recente passato Differenti però sono la spiegazione delle cause e le soluzioni proposte.

Piketty rileva la diversa maggiore redditività del capitale investito nel corso del tempo rispetto all’andamento dei redditi da lavoro, suggerendo un riequilibrio basato sulla manovra fiscale.

Deaton attribuisce le diseguaglianze alla diversa capacità individuale, all’impegno e alla fortuna riscontrata nell’ uscir fuori dalle situazioni di marginalità in cui ci si trova dalla nascita. La storia dell’uomo sarebbe dunque una specie di “gara della vita” in cui alcuni riescono a fuggire e raggiungere la vittoria, mentre altri non ce la fanno o per sfortuna o per incapacità.

Pur nei dubbi e nelle incertezze del presente, guardando indietro nella storia, Deaton è però ottimista per il futuro: “la scienza indubbiamente funziona”, il futuro proseguirà per il meglio.

Indubbiamente, chi ottimista non è, potrebbe obiettare subito che non è scientificamente dimostrabile che ciò che è stato vero per il passato sarà vero anche per il futuro.

Dubbi certamente giustificati potrebbero esprimersi anche in ordine al fatto che gli squilibri formatesi nel corso della storia siano il frutto soltanto della fortuna o della capacità e del coraggio di chi è riuscito ad impegnarsi nella “fuga per la vittoria”.

Ritornando al discorso di Piketty ci si potrebbe ad esempio chiedere se la maggiore redditività del capitale investito rispetto al lavoro sia il frutto della fortuna, della capacità e dell’impegno. Ma il discorso a questo punto si farebbe molto complesso e soprattutto non ci darebbe molto aiuto a guardare il futuro per trovare le ragioni della speranza.

Oggi sono in molti a pensare che bisogna puntare sull’innovazione e sulla conoscenza, fattori che incorporano quel “progresso” che può salvare il futuro dell’umanità.

Negare che tutto ciò è profondamente vero significherebbe dire che si debba vivere nell’ignoranza e nella stagnazione.

Contemporaneamente non si può negare che innovazione e conoscenza sono fattori cumulativi, cioè sono più a portata di mano di chi ce l’ha già e quindi la loro evoluzione naturale non può da sola ridurre gli squilibri, ma più probabilmente li accentua.

Allora cosa fare?

Occorre certamente puntare su questi due fattori, ma porre nel contempo la premessa per la loro diffusione anche a favore di coloro che sono rimasti indietro nella “fuga per la vittoria”, cioè di coloro che sono prigionieri della miseria, della guerra disumana, di una criminalità che si ammanta di valori religiosi per ripetere atrocità che distruggono la stessa fiducia nel futuro.

Ciò significa, in altri termini, pensare innanzi tutto alla sopravvivenza dei poveri e degli emarginati, come premessa necessaria per dare successivamente all’innovazione e alla conoscenza una base più ampia di quella che, allo stato attuale, si trova a disposizione di una cerchia sempre più stretta di soggetti, quindi in un contesto che va ampliando il divario tra ricchi e poveri.

Ciò peraltro è imposto dai tempi lunghi che occorrono per mettere a frutto innovazioni e conoscenza e dall’impellenza di evitare l’aggravarsi degli squilibri sociali.

Occorre però un chiarimento di fondo e pensare ad una strategia.

Il chiarimento di fondo consiste nel dimostrare che la riduzione degli squilibri, specialmente nella forma che hanno raggiunto recentemente, non è solo un problema di carità o di solidarietà morale, ma è una questione imposta dalla razionalità.

Se non si riesce ad ampliare la dimensione del mercato creando occupazione per la forza lavoro inutilizzata, difficilmente lo sviluppo creato con l’innovazione e la conoscenza può reggersi solo sui consumi della parte più ricca, ma sempre meno numerosa, della società. Lo sviluppo accompagnato da crescenti squilibri, come si riscontra nelle tendenze attuali, diviene insostenibile, quindi è irrazionale non affrontare con una visione globale il problema.

La strategia consiste quindi nel predisporre e avviare da subito, nei luoghi ove è possibile, gli interventi che progressivamente consentano di mettere a frutto la forza lavoro che si trova nei paesi poveri: innanzi tutto l’acqua, la sanità, l’istruzione e i trasporti.

Grandi investimenti, quindi, dei paesi ricchi che troveranno in tal modo anche la possibilità di impiegare le accumulazioni pregresse, anziché in attività speculative che causano nuovi squilibri e nuove forme di povertà, in investimenti certamente di lunga e bassa redditività ma che creano sviluppo vero e anche a loro vantaggio.

Risulterebbe in tal modo possibile anche impiegare la disoccupazione intellettuale esistente nei paesi sviluppati dando dignità e futuro alle nuove generazioni e creare una base più ampia alla diffusione delle tecnologie e delle innovazioni, cioè sviluppo vero.

Così la solidarietà diventa razionalità!

La storia passata non ci autorizza, come dice Deaton, ad essere pessimisti; ma i processi di globalizzazione in atto senza una visione globale non lasciano molti spazi ad una speranza priva di angosce.

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