Mensile di politica, cultura e informazione ANNO XLVII - n. 3 Marzo 2013
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UMBERTO II RE D’ITALIA
Aldo Fabrizi
A UMBERTO DI SAVOIA (1979) Te lo devo scrive: nun te posso invità e nun te posso dì mettete a sede qua e nun te posso manco domandà perché sei stato condannato a vive lontano da la terra indo’ sei nato senza speranza de potè tornà.
A
Nato al Castello di Racconigi il 15 settembre 1904 da S.M. Vittorio Emanuele III Re d’Italia e dalla Regina Elena, nata Petrovic´ Njegoš, Principessa Reale di Montenegro. Sposò l’8 gennaio 1930 S.A.R. Maria Josè de Saxe Coburgo Gotha, Principessa Reale del Belgio. Ha avuto quattro figli: S.A.R. Maria Pia (Napoli, 24/9/1934), S.A.R. Vittorio Emanuele, Duca di Savoia, Principe di Napoli (Napoli, 12/2/1937), S.A.R. Maria Gabriella (Napoli, 24/2/1940) e S.A.R. Maria Beatrice (Roma, 2/2/1943). Percorse tutti i gradi della carriera militare, fino a quello di Maresciallo d’Italia. In ogni occasione si comportò coraggiosamente: così allorché subì un attentato a Bruxelles e durante la guerra di liberazione, quando fu proposto per un’altissima decorazione al valor militare statunitense. Dimostrò notevoli doti di statista nel periodo in cui coprì la carica di Luogotenente del Regno, e quando divenne Re (9 maggio 1946), mantenendo sempre fede al suo programma: “Autogo v erno di popolo e giustizia sociale”. Dopo aver vinto il referendum istituzionale, benché avesse avuto contro tutti i partiti, fu sconfitto dai brogli elettorali avallati dal governo. Dimostrò la propria magnanimità scegliendo la via dell’esilio, anziché quella della guerra civile. Ricevette in cambio odio e calunnie, ma durante i suoi 37 anni d’esilio, vissuti con dignità ed onore, volle rimanere il Re di tutti gli Italiani, senza mai diventare il capo di una fazione. Morì esule, a Ginevra, il 18 marzo 1983 e fu inumato ad Altacomba. Personaggio carismatico, amatissimo dagli Italiani, ha lasciato di sé un ricordo incancellabile. L’Italia onesta che si contrappone a quella degli arruffoni politici, attende sempre che cessi la vergogna della sepoltura in terra straniera di Re Umberto II, della Consorte Regina Maria Josè e dei Suoi Genitori Re Vittorio Emanuele III e Regina Elena.
Quant’anni so’? Me pare trentatrè, e un sacco d’esiliati so’ rientrati in Italia, meno Te. Così diciamo sta rimpatriata anche si nun cià gnente de Reale né un motivo de data né un compleanno, né un anniversario, famola talequale! Sarà sortanto un pranzo immaginario tra un popolano, sempre popolano, e un Re che poveraccio è ancora Re. Ieri Sua Santità, tra un coro di campane e battimani ha parlato de fede, de bontà, de libertà, de pace. Ma si un cristiano nun se po’ magnà un pezzetto de pane dove je pare e piace mejo che a parlà de Libertà se sonino più piano le campane.
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Oreste Genta, Generale di Squadra Aerea
E siano costoro assieme ai caduti di tutte le guerre, con i martiri dei campi di concentramento ad indicare, in questo nostro disorientamento generale, la via della concordia, il culto della Patria, la strada per raggiungere la pace degli spiriti che ancora non abbiamo.
IL PRINCIPE UMBERTO DURANTE LA GUERRA DI LIBERAZIONE P arlare del Principe Umberto, poi S.M. Umberto II, in relazione al periodo della guerra di liberazione, non è semplice giacchè per quanto si voglia non si possono trascurare due drammatiche vicende: quella dell’8 settembre 1943 e quella del 12 giugno 1946. Giorno infausto questo in cui il governo allora in carica compiva un gesto rivoluzionario assumendo arbitrariamente poteri che non gli spettavano e ponendo S.M. nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza. Questo gentiluomo d’altri tempi, questo Re a cui stava a cuore il bene della Patria, il bene del suo popolo, questo Re della dignità non poteva far gettare altre lacrime, non poteva arrecare altro dolore al suo popolo, lacrime e dolori che erano stati il viatico della nostra gente durante i lunghi tragici anni della guerra. Premetto subito che Umberto ebbe una educazione rigidissima, come un soldato, ma un soldato di 90-100 anni fa. Di qui l’affermazione di alcuni di essere stato troppo, totalmente obbediente al padre soprattutto in momenti cruciali. Con il metro odierno quell’ educazione può apparire forse inconcepibile, ma i Savoia erano così abituati: si preparavano da soldati fin da bambini. Questa obbedienza al suo Re ci aiuterà a comprendere il comportamento di Umberto durante le tristi giornate dell’8 e del 9 settembre 1943 a proposito delle quali dopo quanto si è scritto, ci sarebbe tanto altro da dire ancora, ma una sola considerazione vorrei permettermi di fare. L’espressione “fuga del Re” o “fuga di Pescara” è diventata in gran parte dell’opinione pubblica, purtroppo sinonimo di infamia. Fuga, ma ci vogliamo rendere conto della situazione che si era creata quella sera dell’8 settembre? Al di là della eliminazione fisica - per la quale il Re non ebbe mai a mostrare il benché minimo segno di paura un’eventuale cattura di Vittorio Emanuele, come era previsto nel piano tedesco “Alarigo” (che prevedeva in un primo tempo anche la cattura del Papa), non avrebbe
dato luogo a quanto il Re ebbe a dire al suo Consigliere Militare, il Gen. Puntoni, il timore cioè che lo avrebbero adoperato come una marionetta i cui fili sarebbero stati tirati da Hitler, così come avvenne per il Re Leopoldo III del Belgio e per il Reggente Horty? Il Re in un primo momento non era favorevole alla partenza, ma poi si rese conto che era necessario il suo trasferimento in una località del meridione libera dall’occupazione tedesca e da quella anglo-americana.
In tal modo si poteva attuare la continuità giuridica dello Stato rappresentato dal Re e dal suo governo che egli credeva di portare con sé e che purtroppo, ad eccezione dei ministri della Guerra (Gen. Sorice, che però rimase a Roma), della R. Marina e della R. Aeronautica, nessuno degli altri componenti era stato informato del trasferimento nonostante la precisa assicurazione di Badoglio: “l’ai pensà mi a tut”. Come ebbe a dire anche Domenico Bartoli, la decisione di lasciare Roma fu necessaria e saggia tanto è vero che gli anglo-americani oltre allo stupore manifestarono non poca contrarietà nel trovare a Brindisi una sia pur parvenza di Stato con il suo governo in una precisa posizione giuridica e invitarono subito il Re a trasferirsi a Palermo, cosa che Vittorio Emanuele non fece. Quindi al sud d’Italia c’era una Italia legale e con la continuità delle istituzioni. Gli alleati furono costretti a tenerne conto. Vorrei inoltre far presente che altri capi di Stati, in analoghe circostanze si recarono all’estero, come il Re di Norvegia, la Regina Guglielmina d’Olanda, il Re di Grecia, il Re di Jugoslavia. Il presidente della Repubblica francese Le Brun non lasciò Parigi nel 1940 quando il governo, per consiglio di Weigand, decise di non difendere la capitale e di trasferirsi a Bordeaux? Stalin non lasciò la capitale per recarsi a Nubiscev quando Mosca era minacciata dai tede-
schi? Per costoro nessuno si è mai permesso di parlare di “fuga” mentre lo si è fatto per il nostro Re. Decisione necessaria, anche se il precipitare degli eventi costrinse a prenderla in situazioni drammatiche che non poterono essere, almeno inizialmente, giustamente valutate. Dal suo comando di Anagni l’8 settembre verso le ore 19 il Principe Ereditario in seguito ad ordine telefonico, raggiunse la Capitale. Al Quirinale venne informato dell’avvenuto annuncio dell’armistizio. Cercò, senza riuscirci, di mettersi in contatto telefonico con il suo comando per impartire le adeguate disposizioni. Si recò allora al Ministero della Guerra ove si trovavano già il Re e la Regina, e si rese conto immediatamente della critica situazione che era venuta a crearsi. Tentò anche qui di collegarsi con il suo comando ma i collegamenti erano già tutti sconvolti. Preparò alcune lettere per il suo Stato Maggiore, alle quali ne venne inclusa una per il Gen. Graziani con l’invito a raggiungere il Re, lettere che vennero affidate al Col. Radicati di Primeglio il quale lungo il percorso venne arrestato dai tedeschi e deportato. Riuscì a distruggere le lettere in parte mangiandole. Poiché il Principe, all’atto della partenza da Anagni, era convinto di ritornarvi non portò con sé nulla. Ma di tutte le sue cose nulla andò perduto, neanche una busta con dentro 500 lire lasciata sulla sua scrivania, denaro che doveva inviare ad una vedova di guerra bisognosa. La popolazione di Anagni, capeggiata da Suor Felicita Sansoni, precedendo i tedeschi prese in consegna, non senza rischio, tutte le robe del Principe che gli furono regolarmente restituite nel luglio del 1944. Amore e nobiltà d’animo degli anagnini. Molte inesattezze sono state scritte in merito ai dolorosi avvenimenti dell’8 settembre, ma da tutta la varia letteratura risulta evidente che Umberto desiderava rimanere a Roma perché
riteneva che le conseguenze politiche del trasferimento, che si stava apprestando in quel modo, avrebbero potuto nuocere successivamente; e alla sconsolata madre che lo implorava di partire disse: “la mia presenza nella Capitale è assolutamente necessaria in questo momento”. Slancio generoso, nobile, responsabile, che dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, la eccelsa figura di questo nostro Re. Ma l’età avanzata di Vittorio Emanuele, il logorio dovuto a drammatiche vicende della sua vita e il pensiero dei futuri eventi avrebbero potuto dar luogo ad una eventuale successione. Ed ecco l’ordine di Vittorio Emanuele: “Verrai con noi, è un ordine” ed Umberto con la morte nel cuore obbedisce.
D’altra parte non dissentiva dalla decisione del padre, decisione che riteneva giusta, ma dalle avvilenti condizioni in cui avveniva quel trasferimento. Durante tutto il viaggio sulla via Tiburtina il pensiero di tornare non l’abbandonò un istante, tanto che giunto a Crecchio, nel castello dei Duchi di Bovino, egli andò nel giardino dove si trovava Vittorio Emanuele con Badoglio e disse: “È necessario che io torni subito, oggi stesso: attendo solo l’autorizzazione di S.M.”; rispose Badoglio con una certa collera: “Le de v o ricordare che è un soldato e poiché porta le stellette de v e ubbidire”, mentre il Re tacque. Nonostante questa energica rude rampogna Umberto tentò ancora un’altra manovra per rientrare a Roma. All’aeroporto di Pescara pregò il Principe Ruspoli - Maggiore della R. Aeronautica - di riunire quegli Ufficiali che intendevano tornare a Roma con lui per combattere il tedesco nelle truppe organizzate o nella clandestinità. Il suo aiutante di campo - Gen. Gamerra - gli suggerì anche di decidere da solo ma egli si rifiutò giacchè non poteva, disse, disubbidire a S.M. E poi l’estremo tentativo: raggiungere in volo Guidonia che si supponeva ancora in mani nostre, ma il Re gli ordinò di imbarcarsi sul
“Baionetta”. In base a quanto afferma il Marchesi nel suo libro “Come siamo arrivati a Brindisi” anche qui, non appena giunto rinnovò insistentemente la sua richiesta di tornare a Roma. Il non essere riuscito a disubbidire avrà costituito forse il dramma della sua vita; egli però preso dallo sconforto per la drammatica partenza non considerava che nella lotta dei politici a Vittorio Emanuele, che in seguito vi sarebbe stata, la sua presenza al sud poteva costituire, e costituì un importante elemento per cui lo Stato poteva riorganizzarsi e svolgere quelle attività per cercare di avviarsi verso la normalità. Verso le ore 16 del giorno 10 i Reali sbarcarono a Brindisi. Quella generosa terra di Puglia li accolse con vibrante entusiasmo che è particolare delle genti del Sud. La Bandiera che sventolava sul castello, la folla che in un baleno si era riversata nel porto, il gran pavese con rapidità issato sulle navi, il saluto alla voce degli equipaggi e gli onori presentati dai marinai perfettamente schierati sulla banchina hanno dovuto commuovere i Reali e ridare loro un po’ di gioia, ma soprattutto avranno dato loro la speranza della rinascita della Patria. Intanto in tutta Italia e fuori di essa si sviluppò la reazione alla furente aggressione tedesca. Esempi generosi ed esaltanti ancora oggi degni della nostra più profonda commossa gratitudine, della nostra più sentita venerazione. Il popolo, che dette copioso contributo di sangue; il R. Esercito, con i suoi caduti e per i non pochi atti di eroismo nel disperato tentativo di opporsi a quell’ira teutonica; la R. Marina, con le centinaia e centinaia di marinai che si sacrificarono nell’affondamento delle navi; la R. Aeronautica, con gli equipaggi che s’immolarono nel cielo nell’estremo tentativo di portare al sud i loro aerei. Tutti gli italiani al di là di ogni concezione politica dovrebbero inchinarsi di fronte a tutti costoro che in un momento critico della Patria non vennero meno al giuramento.
Vi erano laggiù a Brindisi tutti gli elementi per poter pensare alla rinascita della Patria e tra questi elementi dobbiamo comprendervi anche gli allievi della R. Accademia Navale e della R. Accademia Aeronautica che, giunti in quel porto, si sostituirono ai Corazzieri per la Guardia d’Onore a S.M. ben compresi dell’alto significato morale. Il mattino del giorno 11 a Brindisi il nuovo Stato iniziava la sua fragile vita. Primo provvedimento fu quello di avere un quadro chiaro delle forze a disposizione. L’Esercito era numericamente considerevole ma con deficienze di ogni genere ed un morale - fattore comune a tutte e tre le FF.AA che risentiva delle conseguenze dell’armistizio. La Marina, nella misura del 65% della flotta per un totale di 2 milioni e mezzo di T., raggiunse le basi previste, la rimanente parte andò perduta in combattimento o autoaffondata. La situazione dell’Aeronautica era veramente triste: tra i velivoli che già esistevano nei reparti del Sud e quelli che vi affluirono se ne potevano contare circa 200 bellicamente efficienti compresi gli idrovolanti; un’efficienza però destinata molto presto a diminuire per l’assoluta mancanza di parti di ricambio. Già il giorno 11 le nostre autorità emanavano disposizioni per cercare di organizzare delle Unità il più possibile efficienti per affiancarle, nella lotta contro i tedeschi, alle forze anglo-americane che risalivano dalla Calabria e da Taranto. Qui ha inizio l’opera di Umberto che con i suoi continui spostamenti fra le truppe, con i suoi contatti diretti, cercava di contribuire al ripristino del morale delle nostre forze. Un’opera sottile, paziente ma che avrebbe dato a breve scadenza i suoi frutti. Il 15 settembre fu costituito il LI Corpo d’Armata di cui alcuni Reparti svolsero delle azioni a nord della linea CoratoPotenza nei giorni 18, 19 e 20. Il giorno 22 però gli
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alleati proibirono alle nostre truppe di continuare i combattimenti. Nel campo civile si procedeva, per quanto possibile, alla ripresa di qualche attività. Iniziava intanto da parte di alcuni ingenui, come Benedetto Croce e di alcuni furbi, come il Conte Sforza, un’astiosa campagna contro il Re e il Principe; i primi che vedevano già la rinascita di una democrazia liberale, i secondi che speravano di realizzare gli ideali mazziniani e radicali. Vi erano anche quelli raccolti nel partito di azione, un partito che, è stato detto, non sapeva cosa voleva ma lo voleva subito. Da parte del Re e del governo si poteva contare su due importanti dati di fatto: la decisione dell’armistizio e la presenza dello Stato; cose queste che evitarono in un certo qual modo di considerare il nostro suolo completa terra di conquista. Nessuno, nell’avversione al Re, era disposto a rilevare questi significati. Iniziò a funzionare la Commissione Militare Alleata per l’applicazione dell’armistizio e per il controllo delle attività dello Stato. Ricordo che a capo di essa vi era il Gen. Mac Farlane - di opinioni laburiste - il quale in non poche circostanze dimostrò ostilità, villania e completa mancanza di riguardo verso S.M. e verso il popolo italiano. Il 13 settembre a Brindisi nel primo incontro con Vittorio Emanuele e con il governo tale Commissione ebbe un colloquio anche con Umberto il quale destò una favorevolissima impressione. Pressoché alla vigilia della riunione a bordo della corazzata “Nelson” per la firma del pesante armistizio lungo (29 settembre) gli alleati autorizzarono l’impiego al loro fianco di una Unità Motorizzata di soli 5.000 uomini; detta unità, che aumentò successivamente a circa 10.000, venne denominata 1° Raggruppamento Motorizzato. Le rimanenti forze vennero impiegate in compiti di retrovia, ausiliari e di manovalanza; compiti umilianti resi ancora più scoraggianti dall’ingiunzione di cedere i nostri automezzi a loro, che, grazie a Dio, ne avevano già così pochi. Si giunse al 13 ottobre, giorno della nostra dichiarazione di guerra alla Germania.
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Il Raggruppamento sormontando difficoltà di ogni genere: da quelle morali a quelle psicologiche causate da una insana propaganda antimonarchica che congiurava per il fallimento di una ricostituzione delle FF.AA. sotto lo stemma Sabaudo, a quelle di ordine materiale per il reperimento delle armi e degli automezzi, il 31 ottobre venne posto alle dipendenze, per l’impiego, del 2° Corpo d’Armata della V Armata del Gen. Clark.
nostre FF.AA. In particolare in battaglia non si voleva che le nostre azioni si spingessero oltre un certo limite per evitare che le accoglienze delle popolazioni fossero riservate ai soldati italiani e non alle truppe alleate. Per migliorare queste condizioni il Principe Umberto cercava di stabilire dei contatti personali più diretti, meno ufficiali. Così ad esempio, come vedremo, fu possibile trasferire
Il Principe Umberto tra i militari del Corpo Italiano di Liberazione, impegnato contro i tedeschi.
per la prima volta vedevano nelle prime linee un generale con tante stelle.
Il Principe Umberto consegna le insegne dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro al Gen. Mark Clark. Lungo il trasferimento dalla Puglia ad Avellino, nonostante le pessime condizioni meteorologiche con piogge torrenziali le nostre truppe furono fatte segno ovunque a dimostrazioni di entusiasmo. Il 6 dicembre alle ore 13,30 i reparti iniziarono la marcia di trasferimento nella zona di impiego nei pressi di Mignano. A soli tre mesi da quel fatidico 8 settembre l’Italia ricompariva sul campo di battaglia. Tre mesi di dolori, sacrifici, ansie ma tutto era stato dominato da una forte volontà di riuscire ed ora quegli uomini erano là pronti a riscattare con il loro entusiasmo e con il loro sacrificio i tragici eventi del settembre scorso. Bisogna dire però che la classe dirigente alleata creava non pochi ostacoli alla nostra partecipazione alla guerra, non prendevano in nessun conto o svuotavano di contenuto gli interventi del governo per cercare di rendere quanto più possibile efficienti le
in continente la Divisione Paracadutisti “Nembo” che conquistò la considerazione degli anglo-americani. Fin dai primissimi giorni del Regno del sud Umberto, abbiamo detto, trascorreva quasi tutto il suo tempo fra le truppe. Con la sua presenza, con la sua affabile e convincente parola rincuorava, calmava, faceva rinascere l’entusiasmo e l’attaccamento al dovere. La sua influenza, è riportato in tutti i diari, era estremamente vantaggiosa alla rinascita delle nostre forze. Era un’opera animatrice alla riconquista del suolo della Patria. E tale influenza non la si riscontrava soltanto sui soldati, ma anche sulle popolazioni e sugli stessi comandi stranieri. Era presente sui campi di battaglia, nei capisaldi più avanzati a contatto con il nemico laddove più intenso era il pericolo destando affascinata meraviglia fra i soldati alleati stessi che
Tutto ciò dava fastidio al comando alleato e si comunicò ad Umberto che non era gradita la sua presenza in divisa fra le truppe. Per tutta risposta egli continuò imperterrito la sua influente attività dicendo: “Purtroppo ho lasciato tutti i miei vestiti a Roma e ad Anagni. Per un abito civile mi hanno chiesto 30.000 lire ed io non le ho”. Era chiaro che eventuali nostri successi militari avrebbero risollevato le sorti e il prestigio della Monarchia e ciò non era gradito in particolare alle varie combutte politiche il cui boicottaggio alla rinascita dello Stato Monarchico era palese ed effettivo. Tutto ciò era noto ad Umberto che, al contrario, non perdeva alcuna occasione per rinsaldare il morale dei soldati e infondere entusiasmo. Così prima della battaglia di M. Lungo, all’una di notte del 7 dicembre, in condizioni meteorologiche decisamente avverse, nei pressi di Capua assistette al passaggio dei battaglioni del 67° Reggimento Fanteria che accompagnò fino alla base di partenza per l’attacco e all’alba era già negli osservatori. Nelle prime ore del mattino dello stesso giorno 7 sorse la necessità di inviare in ricognizione un velivolo perché il Gen. Walker, comandante la divisione alle cui dipendenze operava il nostro Raggruppamento, aveva assoluto bisogno di informazioni sul nemico. Umberto si offerse quale osservatore e andò in volo su un
velivolo tedesco del tipo “Cicogna”, preda bellica con i regolari distintivi americani. Vari resoconti descrivono la meraviglia destata negli stessi comandi alleati dalla decisione entusiasta del Principe. In volo non appena i tedeschi riconobbero il distintivo USA si scatenò un inferno di fuoco tanto più rabbioso per il fatto che si trattava di un loro velivolo catturato. Nonostante le sollecitazioni del pilota di affrettare la missione per la sua pericolosità, il Principe prolungò il volo fino a circa 25 minuti segnalando postazioni di mitragliatrici, caposaldi, sentieri di approccio, presenza di carri armati. Quando l’aeroplano atterrò Umberto fu circondato da una folla entusiasta e applaudente di soldati alleati. Questo episodio dimostra il senso del dovere così profondamente radicato in quest’uomo e il suo coraggio: il coraggio di un Principe Sabaudo. Il fatto e la figura di Umberto dovettero impressionare profondamente l’animo del Gen. Walker se qualche giorno dopo propose al Gen. Clark il conferimento della decorazione Silver Star al nostro Principe con la seguente motivazione: “Il 7 Dicembre 1943, alla vigilia dell’attacco su M. Lungo da parte della 36° Divisione si cercava un volontario delle FF.AA. italiane presenti sul fronte pratico della topografia della zona che si offrisse di volare su un apparecchio da ricognizione per dare informazioni di vitale importanza sui
punti essenziali della zona da attaccare. Il Principe di Piemonte consideratosi il più anziano degli ufficiali presenti ritenne suo dovere offrirsi per la missione tenuto anche conto del pericolo e dell’importanza di essa giacchè questa avrebbe sicuramente risparmiato migliaia di vite italiane e americane soprattutto. In tal modo nonostante ripetuti avvertimenti del Capo di Stato Maggiore della Divisione egli volò più di 20 minuti sulla pericolosa zona di Cassino e in particolare sull’area di M. Lungo tra un nutrito fuoco di artiglieria contraerea”. Dopo un anno Washington fece capire che non si riteneva opportuno, per questioni di carattere politico conferire, benché meritata, la decorazione al figlio di Vittorio Emanuele III.
Silver Star Dalle varie ricerche che ho potuto esperire appare non del tutto improbabile la pressione negativa da parte dei nostri governi allora in carica per non far sembrare tale conferimento come una simpatia (segue a pag. 4)
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IL PRINCIPE UMBERTO DURANTE LA GUERRA DI LIBERAZIONE (da pag. 3)
politica degli alleati per la Monarchia. Il fatto, deve essere stato veramente sensazionale al di là di ogni possibile normalità perché, tenuto conto dello stato di soggezione in cui gli alleati tenevano gli italiani, non avrebbero mai proposto per lo meno in quel periodo - una decorazione ad un nostro soldato.
ker che espresse il suo più alto elogio. Il successivo 16 dicembre dopo una preparazione delle nostre artiglierie che si rilevò di una meravigliosa precisione, e che destò l’ammirazione degli americani, alle ore 9,15 le nostre truppe mossero di entusiasmante impeto all’attacco dello stesso monte e alle ore 12,30, nonostante la tenace resistenza dei tedeschi, tutti gli obiettivi vennero raggiunti con perdite relativamente contenute. Questo complesso di fatti positivi, il comportamento dei nostri sol-
to durante i tragici eventi dell’8 settembre e se teniamo presente che fu solo per obbedire al Re che egli si imbarcò sul “Baionetta”, possiamo, senza allontanarci molto dalla realtà, supporre che il ricordo del desiderio del suo avo Carlo Alberto, per la cui memoria fin da ragazzo aveva avuto sempre una specie di culto, di cercare la morte sui campi di battaglia, lo abbia fortemente influenzato nel cercare di risolvere “in un certo modo” una gran pena, di risolvere in “un certo modo” quello che egli considerava il dramma della sua
Il Principe Umberto a Montelungo. La notizia del volo si trasmise con la velocità del fulmine e quando il Principe tornò fra i nostri reparti fu accolto da manifestazioni di entusiasmo giacchè si scorgeva in lui veramente il simbolo unitario della Patria per la quale a distanza di poche ore non pochi di quei soldati avrebbero versato il sangue e forse donato anche la vita. Alle ore 6,20 dell’8 dicembre al buio, nella nebbia densa, sotto la pioggia gelata e un intenso fuoco nemico iniziava da parte delle nostre truppe l’attacco al costone orientale di M. Lungo. Se in un primo momento si poteva pensare ad un esito positivo, si risolse in effetti, dopo aspra lotta, in un ripiegamento. Non è questo il luogo per analizzare le cause del fallimento: cause molteplici, tra le quali non ultima la mancanza dell’appoggio americano sulla sinistra della zona attaccata che, benché previsto, non venne neanche tentato e la nostra Unità fu lasciata sola nel momento culminante della battaglia. M. Lungo dissero gli alleati era un obiettivo molto difficile. Lo spirito aggressivo ed il coraggio dimostrato però dai nostri soldati impressionarono profondamente il Gen. Wal-
dati nelle due battaglie, il loro coraggio di fronte al nemico, la loro indiscussa preparazione, il continuo apparire del Principe Ereditario laddove il pericolo era più evidente, il suo continuo interessamento soprattutto presso gli alleati non poteva non destare un senso di ammirazione per cui, sia pure lentamente, i rapporti con gli anglo-americani andarono modificandosi. Il Gen. Clark nel suo libro “La V Armata Americana” scrive: “La cooperazione di Umberto di Savoia fu sempre vivissima. Più di una volta mi attraversò la mente l’idea che, come rappresentante di Casa Savoia, egli fosse pronto a morire in battaglia contro i tedeschi”, ed ancora: “In verità mi parve più volte che Umberto di Savoia fosse travagliato dal sentimento della necessità di riparare al danno recato all’onore dell’Italia e quindi fosse non solo pronto a morire, ma che si esponesse volontariamente alla morte”. Forse questo pensiero avrà attraversato anche la mente di non pochi di noi. Se consideriamo lo stato d’animo di Umber-
vita. In ogni caso il coraggio proverbiale dei Savoia si era trasmesso in lui senza alcuna limitazione. In questa ricerca del pericolo si inquadra anche il desiderio del Principe di essere paracadutato in territorio occupato dai tedeschi per combattere con le forze partigiane, cosa che gli alleati gli proibirono nella maniera più assoluta. Verso l’ottobre del 1943 Umberto affrontò un problema che senza il suo intervento avrebbe forse potuto sfociare in spiacevoli conseguenze per l’unità nazionale; si trattava del cosiddetto separatismo siciliano. Questo fenomeno rappresentava, bene inteso, l’aspirazione di un certo estremismo, aspirazione però che gli alleati cercavano di favoreggiare per attirare dall’una o dall’al-
Col. Charles Poletti
tra parte il separatismo stesso tanto che Churchill ai Comuni aveva accennato “all’oscura sorte dell’isola” ed il governatore civile della Sicilia - l’americano Col. Charles Poletti - con un fare di sapiente bandalzosità, non dubitava della sorte finale. Si assisteva insomma ad una sorda contesa fra americani e inglesi senza tener conto però dei sentimenti di tantissimi siciliani a cui stava a cuore l’unità e si battevano per essa. Ciò impressionò non poco Umberto che era al corrente di tutto quanto accadeva mentre il governo, oppresso dai vari problemi dell’armistizio, non poteva efficacemente occuparsi dell’isola. Non potendo recarsi in Sicilia perché proibitogli dagli alleati escogitò un’azione, che sarebbe troppo lungo spiegare, in seguito alla quale il Col. Poletti - consenziente - fu trasportato, diciamo clandestinamente, a Brindisi. Qui ebbe anche un lungo colloquio con Umberto durante il quale il Principe con le sue serie, precise ed evidenti argomentazioni riuscì a convincere il governatore sulle funeste conseguenze di un eventuale separatismo ed il Poletti, a cui forse le parole di Umberto avevano risvegliato le origini lombarde, ebbe a dire dopo il colloquio ad un suo interlocutore: “ …oggi è una brutta giornata per i separatisti perché il tuo Principe mi ha persuaso. La Sicilia è troppo importante per l’Europa e sarebbe un gra v e errore far nascere una nazione artificiale” e da allora, anche per le risultanze di un’inchiesta di Vito Reale inviata a Washington da parte del governo, almeno da parte alleata, non si parlò più di separatismo sebbene la questione andò avanti fino ai primi governi De Gasperi. Ciò dà la misura dell’ignorato contributo di Umberto ad un importante problema nazionale in base al quale se vi fosse ancora qualcuno che avesse dubbi sulla serietà, preparazione e competenza del Principe Ereditario questo avvenimento costituisce la risposta chiarificatrice. Dopo la bella prova offerta nella seconda battaglia di M. Lungo, il Raggruppamento attraversò un periodo di crisi per vari motivi: di ordine politico (i nostri combattenti venivano accusati dai politicanti, di essere delle compagnie di ventura) e di ordine militare, morale e psicologico. Per quanto riguardava le armi era necessario cercarle dappertutto e quan-
Il Principe Umberto studia il piano operativo del Corpo di Liberazione Italiano (settembre 1943). do si trovavano non sempre e non tutte le si potevano impiegare giacchè gran parte di esse dovevano essere pacadutate ai partigiani di Tito; a quei partigiani che si coprirono d’ignominia per le turpi stragi delle foibe. Fu necessario un lavoro paziente, perseverante, di convinzione ma non privo di un certo vigore e di tanta volontà e a poco alla volta questo nostro Raggruppamento riacquistò fiducia e coscienza nelle proprie capacità combattive. Non vogliamo fare dell’apologia, il che poi non sarebbe di cattivo gusto, se diciamo che l’animatore di questa ripresa fu Umberto di Savoia il quale non si risparmiò in un compito che egli considerava fondamentale per la sua funzione di Principe Ereditario. Tra gli alleati coloro che si erano mostrati i più acerrimi nemici venivano conquistati dalla personalità di quest’uomo; dovettero riconoscere la sua proficua, entusiasmante, generosa opera edificatrice, opera che si opponeva alla indecorosa azione fomentata dai vari partiti politici. I comandanti alleati molto spesso sollecitavano, reclamavano la presenza del Principe al fronte nei momenti in cui le azioni si presentavano di
una certa difficoltà. Il Gen. Keynes ebbe a dire (sono le sue parole): “ … agli effetti morali la sua presenza fra la truppa equivale ad uno squadrone di carri armati”. Con questo Raggruppamento, diciamo così, rigenerato e che era passato alle dipendenze dell’8^ Armata britannica, giungiamo alla battaglia di M. Marrone nel gruppo appenninico delle Mainarde. Alle ore 3,30 del 31 marzo del 1944 iniziò l’attacco che portò il 10 aprile al suo possesso definitivo. Il giornale anglo-americano “Il Corriere Alleato” così scrisse: “… la conquista di M. Marrone fu un modello di preparazione meticolosa, un esempio di come uomini adatti adoperati in uno speciale lavoro e al tempo giusto possono portare ad una brillante riuscita”. Poco dopo la conquista di M. Marrone, con l’aumento dell’organico, la nostra Unità si trasformò in Corpo Italiano di Liberazione. Anche per il trasferimento in continente della Divisione Paracadutisti “Nembo”, che all’8 settembre si trovava in Sardegna, il Principe si rivolse direttamente al Gen. Alexander il quale cono-
T. Col. Alberto Bechi Luserna
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sceva bene il valore di questi soldati ma non si fidava ad impiegarli temendo il loro passaggio al nemico durante il combattimento. Il generale infatti non dimenticava l’uccisione da parte di alcuni paracadutisti del Ten. Col. Bechi Luserna che voleva riportare all’ordine un battaglione della Divisione che all’8 settembre aveva fatto causa comune con i tedeschi. Ebbene il Principe si fece garante di persona presso Alexander sull’impiego della “Nembo” che fu trasportata in continente e superando molte discussioni e difficoltà, il 26 maggio del 1944 venne posta alle dipendenze operative del Corpo Italiano di Liberazione per cui la forza combattente venne portata ad oltre 24.000 uomini. Intanto dal 27 al 30 maggio 1944 si svolsero le operazioni sulle Mainarde ove le nostre truppe raggiunsero tutti gli obiettivi che erano stati loro fissati. Il comandante dell’8^ Armata britannica, Gen. Leese e il Gen. McCreery, comandante del X Corpo, ebbero a congratularsi con il comandante del Corpo Italiano di Liberazione, Gen. Utili, e rivolsero ai nostri combattenti elevate e belle espressioni di elogio. Era questo però un implicito elogio ad Umberto che divideva con i suoi soldati l’intero arco delle settimane non abbandonandoli in particolar modo durante le azioni.
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quista della Capitale, con loro immenso dispiacere, vennero spostate nel settore adriatico. Il 5 giugno del 1944, il giorno dopo la presa di Roma, in una circostanza quanto mai drammatica, Vittorio Emanuele firmava il decreto di passaggio dei poteri per la Luogotenenza; nello stesso tempo si proibiva al Sovrano di rientrare nella Capitale con la scusa menzognera che la situazione a Roma ne sconsigliava la presenza e che tra l’altro non la si poteva raggiungere né per via ordinaria, né per via aerea. Cadeva d’un tratto l’ambita speranza del vecchio Re di tornare nella sua Capitale. Terminava così il Regno del Sud. Terminava praticamente dopo 44 anni il Regno di Vittorio Emanuele III, del Re Soldato, ma non terminavano le sue tristezze e i suoi dolori. Scompariva praticamente dalla scena quel Re che a Peschiera, 27 anni prima, unico a credere, dopo il tormento di Caporetto, nel cuore dolorante ma sempre generoso del suo popolo, riportò gl’Italiani oltre il Piave nella marcia vittoriosa, anche se fermata troppo presto, di Vittorio Veneto. Ed è doloroso constatare che nelle manifestazioni per l’anniversario della Vittoria non una voce ufficiale si levi per ricordare l’Artefice di quel grandioso avvenimento. Ad Umberto vennero affidate ovviamente tutte le questioni di stato e per-
Il Principe Umberto in zona di guerra con il Gen. Camillo Grossi. Queste nostre truppe che avevano combattuto aspramente, coraggiosamente e il cui desiderio era quello di entrare a Roma a fianco degli alleati, alla vigilia della con-
tanto il giorno 7 a Napoli Badoglio rimise le dimissioni nelle sue mani e il Luogotenente gli riaffidò l’incarico per formare un nuovo governo a Roma con le forze politi-
che uscite dalla clandestinità. Quel giovedì 8 giugno raggiunse Cisterna con un nostro velivolo “S 79” perché all’ultimo momento quello alleato, che gli era stato assicurato, non era - quanta ironia - disponibile. Da Cisterna raggiunse Roma in automobile. Era ansioso di stabilire la continuità costituzionale per evitare che il Comitato di Liberazione Nazionale, in sua assenza, desse luogo ad una eventuale incresciosa designazione autonoma. Tale designazione avrebbe potuto forse causare la illegittimità del potere del Luogotenente mettendo gli alleati di fronte al fatto compiuto salvo a considerare successivamente la reazione di questi. È nota l’eliminazione di Badoglio dalla scena politica e la designazione di Bonomi al quale il Luogotenente dette l’incarico di formare il governo di coalizione dei partiti che si erano raccolti nel Comitato. E l’inizio di quel governo non fu certo di buon presagio se per contrasti con gli alleati, questi in un primo tempo non lo riconobbero non solo, ma lo retrocessero a Salerno, come si disse allora “in quarantena”, fino a quando il Consiglio Consultivo per l’Italia, dopo 34 giorni, non gli consentì di tornare a Roma e di funzionare. La nuova non facile attività di Luogotenente si svolgeva in mezzo a tante difficoltà, in una situazione in cui l’avversione alla Corona aumentava di giorno in giorno. I partiti di sinistra, in particolar modo, approfittavano delle più insignificanti circostanze per accusare il Re ed il Principe dei fatti dell’8 settembre le cui versioni erano ad esclusivo uso dei partiti stessi che con ogni mezzo davano battaglia alla Monarchia e ai suoi esponenti. Si arrivava persino ad attaccare Churchill perché qualche tempo prima ebbe a dire ai Comuni: “Quelli che vogliono la scomparsa di Vittorio Emanuele sono i superstiti relitti dei partiti politici nessuno dei quali possiede il minimo titolo per governare né per elezione, né per diritto” ed ancora: “Il governo di Vittorio Emanuele è quello legittimo all’ordine del quale le truppe, i marinai e gli aviatori stanno combattendo al nostro fianco. Non sono convinto che si potrebbe formare attualmente in Italia un qualsiasi
Il Principe Umberto parla ad un Bersagliere del Corpo Italiano di Liberazione, alla presenza del Gen. Umberto Utili. altro governo capace di ottenere la stessa obbedienza da quelle tre Forze Armate” e ora poi si esprimeva in termini favorevoli nei riguardi del Luogotenente. Umberto infatti dimostrava di essere all’altezza dell’aggrovigliata situazione in mezzo a crisi di governo, a esponenti politici che si arrogavano il diritto di rappresentare la maggioranza degli italiani e di esprimerne il pensiero, a uomini di governo che mancavano di carattere e che si preoccupavano di difendere le loro posizioni personali. Era amareggiato, ciò nonostante svolgeva i suoi compiti con volontà ed alta competenza. Preparazione giuridica e militare di prim’ordine. Qualità che gli vennero riconosciute anche da coloro che non gli avevano risparmiato critiche come Benedetto Croce che nel suo libro “Quando l’Italia era divisa in due” scrive: “… Notai la sempre progredente sua formazione politica, lo ascoltare attento; il domandare serio, la correttezza costituzionale e il sentimento di responsabilità che in lui erano a lungo mancati per l’estraneità nella quale era stato tenuto fino ad allora dalle cose del popolo di cui era chiamato ad essere Re”, e nell’aprile del 1945 disse: “…Bisogna fare del tutto per salvare la Monarchia specialmente adesso che il Luogotenente ha dimostrato doti che non sospettavamo”. E Churchill nella sua opera sul secondo conflitto mondiale a proposito del suo incontro a Roma con il Luogotenente così si esprime: “Incontrai il Principe Ereditario Umberto, che quale Luogotenente del
Regno comandava le forze italiane sul nostro fronte. La sua potente e attraente personalità, la sua padronanza dell’intera situazione militare e politica erano davvero motivo di conforto ed io ne trassi un senso di fiducia più vivo di quello che avevo provato durante i colloqui con gli uomini politici. Certo speravo che avrebbe contribuito a consolidare la Monarchia in una Italia libera, forte e unita”. Il giurista Carlo Scialoia, uno dei consiglieri di Umberto, ebbe a dire: “…ognuno di noi sentiva nettamente quanto ci sovrastasse”. Il giornalista americano Matthewus, legato a esponenti del partito di Azione, dopo un’intervista dichiarò: “Umberto ha come meta una Monarchia liberale democratica come quelle di Inghilterra, Svezia, Norvegia, Danimarca” ed ancora “si ha la chiara impressione di un uomo che ha un programma e sa per cosa combatte, a mio giudizio i repubblicani hanno un avversario più forte di quel che immaginano”. E non ultima, al di là di ogni sospetto, la dichiarazione di Sforza che, a proposito del Principe ebbe a fare all’altro repubblicaneggiante Conte Carandini: “Mi pare proprio a posto, molto meglio di quanto pensassimo”. Cosa gli si può dire di più ad un Principe che si trova improvvisamente a capo di uno Stato immerso in una bufera quali ben poche nella nostra storia possono ricordarsi? Un’Italia percorsa da armate straniere in lotta, un territorio pressocchè devastato a cui si aggiungeva una non meno devastazione morale e spirituale, camaleonti della politica assetati di odio,
di vendetta e avidi di potere; i prodromi insomma di un immane, imminente sconvolgimento. Ma Umberto, nonostante la sua tristezza, aveva fiducia nel gran cuore degli Italiani. Egli infatti non poteva dimenticare il calore con cui veniva accolto dalle doloranti popolazioni non ancora raggiunte dai facinorosi della politica quando con le truppe di avanguardia attraversava tra le macerie, tra le rovine, i paesi liberati. Umili popolazioni che lo salutavano perché vedevano in lui la continuità di questa nostra tanto martoriata Patria. Diciamolo pure francamente, quale altra persona fra tanti mistificatori, tra tanti detrattori, in quelle tremende situazioni poteva suscitare tanto entusiasmo? Ed egli nella solitudine di Cascais non dimenticò quegli entusiasmi, non dimenticò quegli evviva. Nel suo grande generoso cuore conservava la visione delle lacrime di quella gente smunta, lacera, che usciva dalle cantine, che usciva dai rifugi, che scendeva dalle montagne per acclamare il Principino, il simbolo della Patria che risorgeva. Con l’insediamento a Roma il tempo per seguire le nostre truppe che a mano a mano risalivano lungo il settore adriatico diventava ovviamente più avaro a causa degli infiniti problemi che giornalmente si ponevano al suo alto ufficio. Ciò nonostante, approfittando anche delle ore notturne e con ogni mezzo, il Principe continuava a portarsi fra i suoi soldati i quali, superando l’accanita resistenza tedesca, il 9 giugno occupavano Chieti ove la popolazione tributava loro accoglienze entusiastiche. (segue a pag. 6)
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IL PRINCIPE UMBERTO DURANTE LA GUERRA DI LIBERAZIONE
È inaudito falsare la storia anche nei libri scolastici inculcando così nei nostri ragazzi cognizioni errate e dissacranti di una Casa, quella dei Savoia, che ha regnato per un millennio e che ha creato la Patria. Non è ammissibile la circolazione di libri o articoli basati su volgari e disdicevoli pettegolezzi soltanto per essere aderenti all’attuale sistema di vita.
(da pag. 5)
Con la successiva avanzata fino al raggiungimento della linea Urbino-Urbania veniva a cessare, il 30 agosto, l’attività del Corpo Italiano di Liberazione. Ad esso si sostituiscono i Gruppi di Combattimento. Dalla sventura del settembre ’43 le lacere Bandiere della Patria, a fianco delle armate alleate, poterono essere riportate dalle Mainarde all’Abruzzo, alle Marche fino ai dolci colli di Urbino. Il contributo del Raggruppamento Motorizzato, del Corpo Italiano di Liberazione assieme con la non facile attività della R. Marina e lo slancio generoso della R. Aeronautica, avevano portato alla riscossa spirituale e materiale le nostre FF.AA. Alla lotta dei partiti repubblicani oltranzisti si aggiungeva lo sbandamento profondo dei costumi, delle coscienze, della volontà che non venivano più sorretti da quegli indispensabili fondamenti spirituali e morali. Umberto è al di sopra di tutto questo marasma, egli risponde con il silenzio e con le opere tendenti ad alleviare le pene di coloro che hanno maggiormente bisogno di aiuto: fa trasferire in un padiglione del parco del Quirinale tutti i mutilatini che si trovavano nei pressi di Cassino; apre alcuni locali del Quirinale ai senza tetto che affluivano a Roma; ospita comitati di lavoro per fornire indumenti ai soldati e ai partigiani, ai mutilati, reduci, sinistrati e realizza altre numerose opere umanitarie. Era a questi uomini che combattevano e alle popolazioni che ancora soffrivano perché immerse nella tragedia della guerra in corso che andava la sua costante apprensione. Ed egli corre, come abbiamo detto di notte e di giorno, nelle ore più impensate, in auto, in aereo, sulla linea di combattimento; entra spesso per primo, quasi a contatto delle retroguardie nemiche nelle città, nei paesi facendosi incontro alla gente ancora sgomenta e spaventata dal fragore della battaglia laddove era necessario, indispensabile, un atto di presenza, e la gente capiva, l’accoglieva con affetto.
Non possiamo consentire che qualche storico straniero per rancore o malanimo e con la pretesa di conoscere la storia di casa nostra, ci venga ad illustrare falsi fatti dei Savoia dimostrando in modo tanto evidente completa disinformazione. Febbraio 1945, zona del fronte a nord di Ravenna. Il Principe Umberto, di spalle, si avvia verso un comando partigiano. A Firenze fu il primo soldato italiano, avendo al suo fianco Calamandrei, ad entrare nel pieno del combattimento tra partigiani e retroguardie tedesche. Così a Bologna ove passò, assieme con Dozza, fra il popolo plaudente; a Bergamo, a Brescia, a Verona con Casati e Gasparotto alla testa dei Gruppi di Combattimento che erano entrati in linea dai primi di gennaio del 1945. Nel paese di S. Alberto nel Comacchio fu ospite dei partigiani, dormì sotto una tenda a guardia della quale erano i partigiani stessi e quando il comandante della Brigata chiese di presentargli i suoi uomini il Principe aderì senz’altro ed egli passò tra quei giovani con i volti seri, non lontani da lui per lo stesso amore per la Patria. Nei pressi di Bologna doveva attraversare un paese liberato il giorno precedente e già raggiunto dei facinorosi della politica i quali stavano svolgendo un comizio (comunista naturalmente). Per non disturbare fece chiedere se si poteva passare da un’altra parte. Trascorse qualche istante e il Luogotenente venne riconosciuto e subito la folla, compreso l’oratore che dichiarò di essere comunista ma di voler bene al Principino, gli si fece incontro festeggiandolo e il futuro sindaco gli fece dono di un prosciutto. A Cesena, in una stanzetta arredata con una sola branda ove dormì, ricevette il sindaco comunista che volle ad ogni costo
salutarlo e che chiese ad Umberto una quantità di notizie sulla situazione nell’Italia liberata. Con il battaglione partigiani della zona venne sorpreso dal lancio di alcune granate da parte dei tedeschi. A Piratello, nei pressi di Imola, mentre si trovava con i partigiani, lo sorprese un’imboscata. Nei dintorni di Ravenna i partigiani stessi vollero sminare il tratto diroccato dove il Principe doveva passare. Nei pressi di Ferrara atterrò fortunosamente dopo una nutrita reazione contraerea e corse il rischio di essere fatto prigioniero con tutto l’equipaggio del velivolo. Perché ricordo questi fatti? In primo luogo perché la nostra gente quando non fu ancora investita dalla velenosa propaganda antimonarchica, quando gli istrioni della politica non avevano ancora svolto le loro attività mistificatrici, la nostra gente, dicevo, dimostrava un profondo senso di comprensione, un senso di attaccamento perché vedeva nella figura di Umberto l’unione di tutta la Nazione nel desiderio di rinascita, il punto di incontro di tutto il popolo per tutte le idee e per tutti gli interessi. In secondo luogo perché è ora di smetterla di fare nei riguardi di questo nostro Re insinuazioni false, tendenziose, denigratorie e volgari. Non può essere moralmente consentito emettere giudizi quando non si conoscono i fatti o peggio quando intenzionalmente li si vogliono distorcere.
Abbiamo già accennato ai nostri Gruppi di Combattimento che della forza grosso modo di una divisione ciascuno su due reggimenti, furono impiegati con una certa sollecitudine in conseguenza del passaggio in Francia del Corpo d’Armata Canadese. Questi gruppi erano formati dalla “Cremona”, “Friuli”, “Folgore”, “Legnano”, “Mantova” e “Piceno”. Non si riuscì però a costituirli sotto un unico comando italiano, ma furono inseriti nelle varie unità inglesi e quindi costretti ad adattarsi alla prassi operativa britannica. Non si voleva dare ad essi un’autonomia operativa che avrebbe potuto intendersi come un’alleanza con gli angloamericani. Dopo un rapido indispensabile periodo di addestramento, tra il gennaio e il marzo, i Gruppi “Cremona”, “Friuli”, “Legnano” e “Folgore” entrarono in linea. Il “Mantova” non fu impiegato per il sopraggiunto armistizio, mentre il “Piceno” svolse compiti addestrativi fin dall’inizio.
Febbraio 1945, zona del Po di Primaro. Il Principe Umberto indica al Col. Ferrara, Comandante del 22° Reggimento “Cremona”, le posizioni nemiche. La efficace, entusiasmante attività di questi Gruppi, il generoso contributo dei marinai che continuarono a svolgere silenziosamente le loro azioni sui mari, il coraggio con il quale gli aviatori svolsero in gran numero le difficoltose azioni nei cieli dei balcani, confermarono il valore e la volontà di riscossa dalla lunga guerra perduta, ma, diciamolo senza timore e con orgoglio, onorevolmente combattuta. Il 28 aprile il Luogotenente eseguì il suo ultimo volo di guerra a bordo di un aereo americano in ricognizione che fu fatto segno a violenta reazione contraerea dei tedeschi in ritirata. Il 4 maggio si reca in volo a Milano e durante la serata si verificò un fatto doloroso che io riporto secondo le esatte parole del Ministro Andreotti di cui a pag. 50 del suo libro “Concerto a Sei Voci”: “Il 10 maggio, festa dell’Ascensione, al teatro Brancaccio ha luogo un comizio socialista … Pertini fa un discorso incendiario contro il Luogotenente rivendicando a sé il merito di aver fatto mitragliare la villa dove il Principe era sceso a Milano e ammonendolo - si guardi bene dal tornare a Milano altrimenti finirà in Piazzale Loreto …”. Questo è il clima di intimidazione che si era creato e a renderlo ancora più pesante vi si aggiungeva il disordine e
l’illegalità di prevalente etichetta social-comunista. Il timore che il nenniano vento rosso del nord scendesse per conquistare il potere era negli animi. Mi sembra inutile ricordare le sconvolgenti giornate di quel fine aprile e del maggio successivo conseguenti alla cosiddetta liberazione; mi sembra inutile ricordare quel bagno di sangue con cifre impressionanti di uccisi e scomparsi, bagno di sangue che continuerà per vari mesi e che richiamerà l’attenzione della S. Sede che svolgerà passi presso il governo per placare quell’insana tragedia; mi sembra superfluo ricordare i campi di concentramento in Patria con conseguenti vessazioni ed esecuzioni. Questa era la situazione in cui Umberto di Savoia si trovò a svolgere i doveri della sua alta carica. E dobbiamo dire che senza alcuna pubblicità la sua attività si svolgeva in modo da confluire in risultati concreti; attività che si svolse con acume e senso di responsabilità dimostrando doti che lo stesso Vittorio Emanuele III non immaginava. Alla disapprovazione di alcuni monarchici circa il suo comportamento leale e democratico egli rispondeva di voler attenuare l’asprezza della lotta politica onde essere tutti uniti nella ricostruzione morale e materiale del Paese. ■
Il 24 e 25/2/1945 S.A.R. il Principe di Piemonte, Luogotenente del Regno, decora paracadutisti della Nembo.
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Re Umberto II Racconigi, 15 Settembre 1904 Ginevra, 18 Marzo 1983
Il Principe Umberto con il Padre. (Foto scattata dalla Regina Elena).
In uniforme di Giovane Esploratore.
Il Principe Umberto con le sorelle Principesse Mafalda, Iolanda che tiene in braccio Maria, e Giovanna. Con la sorella Principessa Maria.
Il Principe Umberto con, dav anti, le sorelle Principesse Iolanda, Maria, Mafalda e Giovanna.
Re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena circordati dai cinque figli e da nipoti.
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Sopra: al campo. A sinistra: Torino, 1929. Il Principe Umberto, Comandante del 92ยบ Reggimento Fanteria.
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Il Principe Umberto in momenti diversi della vita militare.
Sopra: Torino 1929, con la Banda del 92째 Reggimento Fanteria. A destra: al confine con la Francia.
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Principe e poi Re, con la Famiglia
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O.G.
la totale liberazione dell’Italia. Per ripicca di Churchill alla mancata designazione di Badoglio, la Commissione Alleata sospese il riconoscimento del governo che fu retrocesso a Salerno, come si disse allora “in quarantena”, fino a quando, dopo 34 giorni, non gli fu consentito di tornare a Roma e di funzionare. Il pensiero assillante di Umberto era quello di ripristinare un’accettabile legalità dello Stato anche nei riguardi del Comitato di Liberazione, che aveva manifestato una certa manovra usurpatrice. Intanto tutte le ire e tutte le invettive ora si riversavano sul Luogotenente, il quale svolgeva il suo alto incarico in mezzo a tante difficoltà, in una situazione in cui l’avversione alla Monarchia aumentava di giorno in giorno. Benché amareggiato, non perse mai la fiducia. Dimostrando doti che fino ad allora nessuno gli aveva riconosciuto, autonomamente e senza alcuna pubblicità, svolgeva un’efficace azione tendente alla ricostruzione di una unità morale, politica ed economica del Paese.
S.M. UMBERTO II NEI DUE ANNI DI REGNO alla firma del decreto per la Luogotenenza - il 5 Giugno del 1944 - il Principe Umberto iniziò a svolgere completamente, e quanto bene lo vedremo, tutte le funzioni di Re. Per questo motivo non sono d’accordo e mi ribello a quanti ancora, poco dignitosamente, usano quel crudele appellativo: “Re di Maggio”. 5 Giugno 1944, data triste che segna praticamente la fine del Regno di S.M. Vittorio Emanuele III, di questo Re il cui nome per gli Italiani sembra passato nel cassetto dimenticatoio, che per 44 anni ha rappresentato il simbolo della Patria, che a Peschiera, unico a credere - dopo l’ora triste, dopo il tormento di Caporetto - nel cuore dolorante, ma sempre generoso del suo popolo, riportò gli Italiani oltre il Piave nella marcia vittoriosa, anche se fermata troppo presto, di Vittorio Veneto. Ed è una vergogna che nelle celebrazioni della Vittoria non una voce ufficiale si levi per ricordare l’artefice di quel grandioso avvenimento. È come se quei 600.000 Caduti sul San Michele, sul Sabotino alla Bainsizza, sulle pietraie del Carso, sul Piave, nei mari e nei cieli non fossero andati incontro al supremo olocausto al grido di “Savoia, Viva il Re”. Si parla di questo nostro Re fuggiasco, ma non si parla del Re di Norvegia fuggiasco, della Regina Guglielmina d’Olanda fuggiasca, del presidente francese Le Brum fuggiasco, dello stesso Stalin fuggiasco, quando poi il trasferimento al sud è stato considerato dai maggiori studiosi necessario e saggio. Perfino il comunista Antonello Trombadori ha respinto il giudizio che ha bollato come fuga quella del Re. “Se non l’avesse fatto”, ha detto, “l’Italia avrebbe subito un trattamento non dissimile a quello patito dalla Germania da parte delle potenze vincitrici”. La cosiddetta fuga corrispondeva ad una necessità indiscutibile se si voleva contrapporre un’Italia legale impersonata dal Capo dello Stato e dal suo governo ad un’Italia destinata a cadere sotto i Tedeschi.
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Fu proprio in virtù di quel trasferimento che si ebbe la continuità dello Stato con il suo governo in una precisa posizione giuridica. E proprio in quel legittimo governo gli alleati riposero la loro fiducia. Dirò di più: gli AngloAmericani non avrebbero disdegnato le forze politiche purchè disposte ad unirsi al governo del Re. È proprio questo che i faziosi politici non vollero, come decisero nel vergognoso congresso di Bari del Gennaio del 1944, nel quale deliberarono l’immediata abdicazione del Re. E dalla bocca del più crudele e velenoso avversario del Sovrano - il conte Sforza - uscì quella dolorosa, insensata per quanto mendace frase nei riguardi di S.M.: “ …non ama v a l’Italia come nessun dinasta ama il proprio paese; credette di aver trovato in Mussolini il rimedio meraviglioso per tenere bassi gli Italiani, per beffarli, per disprezzarli …”. Egli però non disse per quale recondito motivo il Re dovesse avere questo sadico desiderio. Parlava questo grande uomo il quale, pur disprezzando il Collare dell’Annunziata, se lo era tenuto ben stretto. Ma in nome di chi parlavano questi congressisti di Bari? In nome del popolo? E no; il popolo, o diciamo pure la maggior parte del popolo non la pensava come loro, tanto è vero che S.M. Vittorio Emanuele III rice-
veva dimostrazioni di entusiasmo e di affetto dalla popolazione nelle città e nei paesi, nonché dalle truppe nella zona di combattimento ove si recava. Abdicazione! Ma nell’esilio di Cascais Umberto II disse: “All’arrivo degli Anglo-Americani a Brindisi mio padre fece sapere di essere disposto ad abdicare. Il corso degli eventi e le preoccupazioni belliche degli occupanti rimandarono la decisione sine die …”. Gli alleati si guardarono bene dall’accettare questa proposta perché, tra l’altro, Vittorio Emanuele e il suo governo erano gli unici garanti dell’armistizio. Il fatto è che si sarebbe voluto anticipare la proclamazione della repubblica o reggere in proprio, con l’esito che possiamo bene immaginare, le sorti della Corona, giacchè si parlava di abdicazione in favore del piccolo Vittorio Emanuele. Ci voleva proprio un comunista - Palmiro Togliatti - il quale, sotto il nome di Ercole Ercoli, rientrato in Italia dopo una lunga permanenza in Unione Sovietica, illustrò, il 31 Marzo 1944, al consiglio nazionale del suo partito, le istruzioni di Mosca per cui venne subito deciso di entrare nel governo del Re. Immediatamente gli altri partiti, che avevano astiosamente avversato il Sovrano chiedendone l’abdica-
zione, pedissequamente si unirono al compagno e si formò il cosiddetto “gabinetto di guerra”. Paradossalmente si ebbe il partito comunista alleato del Re. Abbiamo detto data triste quella del 5 Giugno, in cui Vittorio Emanuele firmava il decreto di passaggio dei poteri per la luogotenenza al Principe Umberto. In effetti il proclama di questo passaggio era stato già annunciato da S.M. come definitivo e irrevocabile il 10 Aprile 1944 alle ore 18 in una circostanza quanto mai drammatica in cui il vecchio Re senza forza e con un Regno senza alcuna potenza, ascoltando le norme del costume che fin da bambino gli erano state impresse e percependo che nella sua persona si condensava simbolicamente la libera sovranità dello Stato italiano, con indicibile imponenza e solennità mise alla porta i componenti la Commissione Alleata di Controllo, che con violenta asprezza gli avevano chiesto di firmare quello stesso giorno l’atto di nomina che invece egli avrebbe voluto firmare a Roma liberata o, se non fosse stato possibile, al fronte fra i soldati del Corpo di Liberazione. Il giorno dopo la presa di Roma però - il 5 Giugno 1944 - il Capo della Commissione - il Generale Mc Farlane - si presentò al Sovrano per ritirare il decreto di passaggio dei poteri per la Luogotenenza. Alla richiesta di Vittorio Emanuele di volerlo firmare nella Capitale il Generale, mentendo, obiettò che la situazione a Roma ne sconsigliava la presenza e che per altro non la si poteva raggiungere né per via ordinaria né per via aerea. Stupida ed inutile crudeltà. Non aggiungeva però che proprio i ministri del Sovrano si erano opposti al suo ritorno a Roma riprendendo la solita storia del Re fuggiasco; proprio loro che erano componenti del governo solo in conseguenza di quella cosiddetta fuga. Terminava praticamente dopo 44 anni il Regno di Vittorio Emanuele III, del Re Soldato, di colui che aveva portato a conclusione il Risorgimento; di questo Re che
ebbe un elevato concetto della regalità, che fu sempre rispettoso delle prerogative sovrane e, non dimentichiamolo, di quelle del parlamento e del governo. Di questo Re che, tra tante tristezze, conobbe anche quelle familiari: il martirio della sua adorata Mafalda. Iniziano così gli ultimi due anni della storia del Regno d’Italia durante i quali Umberto, dimostrando doti che gli vengono riconosciute perfino dai suoi detrattori, tenta non solo di ricostruire la legalità democratica, ma di riportare un po’ d’ordine nella vita materiale del Paese sconvolto dagli orrori conseguenti alla guerra e all’occupazione tedesca. Dobbiamo dire però che già all’inizio della Luogotenenza il Principe incontrò subito un ostacolo, allorquando tentarono di impedire o ritardare il suo arrivo a Roma liberata. Nonostante gli accordi presi, la Commissione Alleata all’ultimo momento non gli concesse l’aereo che gli era stato promesso, ma dovette servirsi del suo velivolo S.79, che in quei giorni non era in perfetta efficienza. Era ansioso di raggiungere la Capitale per stabilire la continuità istituzionale ed evitare il grave pericolo rivoluzionario che le forze politiche, uscite dalla clandestinità e raccolte nel Comitato di Liberazione Nazionale, affermassero la loro sovranità e procedessero alla designazione autonoma di un loro candidato. Sarebbe stato un tentativo di mettere gli alleati di fronte al fatto compiuto. L’8 Giugno Umberto raggiunse la Capitale. Con l’eliminazione di Badoglio dalla scena politica, l’incarico di formare il governo venne affidato al Capo del Comitato di Liberazione - Bonomi che lo definì subito e che fu approvato la sera stessa dell’8 dal Luogotenente, al quale venne posta la condizione, accettata da Umberto, di impegnarsi a rimettere al Paese unificato la scelta istituzionale. Vi erano però alcune imposizioni che gli alleati posero al governo, tra le quali quella di non sollevare alcuna questione istituzionale prima del-
Il suo costante pensiero però era per le nostre Forze Armate che, accanto alle Forze alleate, combattevano la guerra di liberazione. Nonostante i gravi e non facili problemi che ogni giorno doveva affrontare, partendo ad ore impossibili di giorno e di notte, viaggiando pericolosamente e mettendo a repentaglio non poche volte la sua vita e quella dell’equipaggio del velivolo, si portava fra i suoi soldati a immediato contatto del nemico; e dobbiamo dire che ogni volta portava una carica di entusiasmo, giacchè quegli uomini vedevano in lui veramente il simbolo della Patria che a poco a poco risorgeva e capivano la necessità, l’importanza di combattere ancora. Era chiaro che qualsiasi successo militare risollevava il prestigio e le sorti della Monarchia e ciò era in contrasto con i disegni delle varie combutte politiche, le quali approfittavano di ogni occasione per insultare, vilipendere e boicottare ogni ripresa dello Stato Monarchico. Si voleva in tutti i modi calunniare i nostri soldati quando, non solo
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durante la guerra di liberazione, ma anche e soprattutto nel conflitto 1940-43 essi combatterono in terra, nel mare e nel cielo dando prova di fedeltà e virtù che la disfatta non consentì di vedere pienamente esaltate ed onorate. Ma il suo interessamento era rivolto anche alle popolazioni, in particolare a quelle che erano immerse nella tragedia della guerra. Gli abitanti delle città, dei paesi, dei borghi appena liberati e ancora sconvolti dal fragore delle battaglie rimanevano attoniti nel vedere la sua figura e gli si facevano incontro con le lacrime agli occhi, lo stringevano, gli baciavano le mani, come racconta l’Artieri. Ciò dimostra il senso di comprensione, il profondo attaccamento della nostra gente. Nelle località ove notoriamente più intensa era la passione politica rossa, Umberto veniva applaudito con lo stesso fervore e con lo stesso entusiasmo. “Siamo comunisti” dicevano “ma vogliamo bene al Principino”. Rimase più volte anche con i partigiani e proprio con essi, nei pressi di Imola, lo sorprese un’imboscata con il lancio di granate tedesche. Quanto fugacemente ho accennato può essere sufficiente a sgombrare il campo da tutte quelle falsificazioni della realtà che hanno dato luogo a insinuazioni denigratorie e volgari, a tutte quelle menzogne che vengono raccontate infamando il valore storico di questo nostro Re. Nonostante l’impegno sulla tregua istituzionale, votato dal governo, ogni giorno si assisteva a manifestazioni contro la Monarchia, deprimendo e terrorizzando l’opinione pubblica. Si prendeva spunto da ogni circostanza per rendere vana l’azione del Luogotenente. Lo stesso presidente del consiglio Bonomi, che aveva lavorato con Umberto per una certa rivalutazione delle nostre Forze Armate e che si adoperava tra l’altro, bisogna dirlo, per far rispettare la tregua istituzionale, veniva guardato con diffidenza dagli antimonarchici del Comitato di Liberazione e tacciato di “residuo dell’autoritarismo giolittiano”. Tutto questo disordine, tutta questa illegalità, tutta questa situazione, a dir poco rivoluzionaria, aumentava e si ingigantiva a mano a mano che
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l’Italia veniva liberata, tanto che il Generale Alexander fu sul punto di far interrompere l’attività dei combattenti partigiani e sospendere il rifornimento di armi, viveri e denaro; era seriamente preoccupato per questo stato di cose che, andando oltre il limite di cacciare il tedesco, sfociasse in un colpo rivoluzionario per prendere il potere. Generale Harold Alexander Con l’avvicinarsi del 25 Aprile 1945 la situazione raggiunse aspetti veramente drammatici. Fu richiesto niente di meno che di abolire i carabinieri e sostituirli con una guardia nazionale repubblicana; un’armata di centomila uomini, di prevalente etichetta social-comunista, preoccupava persino le personalità del Comitato di Liberazione Alta Italia. E questo stato di cose durò molto tempo dopo il 25 Aprile. Giornate sconvolgenti delle quali il solo ricordo fa raccapricciare. Impressionanti cifre di uccisi e scomparsi; grida di dolore dai campi di concentramento di Padula, Coltano e Fòssoli. Si uccideva con facilità e indifferenza per rancore, rappresaglia e vendetta, badando più alla classe di appartenenza che a colpe vere e proprie. Chi di noi meno giovane non ricorda lo spirare con violenza del nenniano “vento rosso del nord”? Il 10 Maggio in un comizio al teatro Brancaccio di Roma Pertini rivendica a sé il merito di aver fatto mitragliare la villa dove il Luogotenente era sceso a Milano e di averlo ammonito: “Si guardi bene dal tornare, altrimenti finirà in piazzale Loreto” (cfr. Giulio Andreotti: Concerto a Sei Voci). Nell’assalto alla Monarchia Umberto rispondeva con la legalità, attenendosi rigidamente all’impegno sulla tregua istituzionale, e a quei monarchici ai quali il contegno costituzionale del Luogotenente appariva un assurdo, faceva osservare che era necessario attenuare l’asprezza della lotta politica, onde essere tutti uniti nella ricostruzione morale e materiale del Paese. In funzione della sua concreta attività, del suo senso di responsabilità e della consapevolezza della sua regalità, si determinarono degli avvenimenti che dettero un bagliore di speranza alla causa
monarchica: così come l’applauso entusiasmante e fragoroso della folla quando Umberto entrò in S. Pietro in occasione del Concistoro del Febbraio 1946: la breve molto significativa sosta di Pio XII nella sedia gestatoria davanti al Principe e la chiara solenne benedizione che gl’impartì. Le manifestazioni nel meridione contro il governo, contro il settentrione e le grida di “Viva il Re, Viva Umberto”. L’esaltante discorso di Nitti al S. Carlo di Napoli, nel mettere in luce la funzione stabilizzatrice e moderatrice della Monarchia. Intanto riconoscimenti alle manifeste doti di Umberto e alla intensa, difficile attività non mancarono. Benedetto Croce, che nel passato non gli aveva risparmiato critiche, scrisse tra l’altro: “ … bisogna fare del tutto per salvare la Monarchia specialmente ora che il Luogotenente dimostra doti che non sospettavamo …”, e aggiunse la sua convinzione che Umberto sarebbe stato un ottimo Re costituzionale. Churchill nel colloquio avuto a Roma ne trasse “un senso di fiducia più v iv o di quello che av ev a av uto durante i colloqui con gli uomini politici …”. Il giornalista Schiff del Daily Herald scrisse: “Pieno di tatto, imparziale. Come Luogotenente si conciliò perfino alcune simpatie delle sinistre”. L’incaricato di affari americano a Roma - David Kay - dopo un colloquio con il Principe disse: “Mi ha parlato con acutezza dei problemi italiani. Si ha a che fare con un uomo che ha un ele v ato senso della dignità verso il quale non esistono le riserve che aveva avanzato Roosevelt. Una Monarchia con lui a capo potrebbe costituire un elemento stabilizzatore e d’ordine”. E il più avversario della Monarchia, il già citato conte Sforza disse di lui:
“Mi pare proprio a posto. Molto meglio di quanto pensassimo”. Questo era il nostro Umberto. Ma non vorrei dimenticare il suo profondo senso di umanità in particolare per tutti coloro che soffrivano in conseguenza della tragedia della guerra. Ed è falso, ingiusto e ingeneroso attribuire un motivo politico alle opere che egli svolgeva in questo campo. Il Quirinale era diventato un importantissimo centro di assistenza per tutti. Si continuò insomma in quella nobile tradizione impostata dalla Regina Margherita e dalla Regina Elena durante il primo conflitto mondiale. Una vergognosa e volgare speculazione imbastì la stampa di sinistra per dimostrare l’eccessivo costo della Monarchia: scrissero che l’assegno per la famiglia reale era di 32 milioni di lire in oro, mentre in effetti era di L. 11.200.000 pagate in carta, ma bisogna precisare che durante il 1945 le spese che Umberto sostenne per le opere di assistenza furono di L. 11.295.000. L’ansia della repubblica invadeva i partiti di sinistra i quali, con un’accesa e ignobile propaganda ricca di mezzi, faziosa e senza alcun riguardo alla tregua istituzionale, cercavano di far apparire come miracolista lo Stato repubblicano. Nenni, ad esempio, nei suoi veementi ed incendiari comizi prometteva che la repubblica sarebbe stata dispensatrice di case, vestiti, cibo, mentre la Monarchia avrebbe dato al popolo altri lutti per combattere Tito nella riconquista di Trieste e dell’Istria, mentre con uno Stato repubblicano quell’autore delle turpi stragi delle foibe ce le avrebbe restituite come un dono. Nel Dicembre del 1945 il primo governo De Gasperi aprì le porte alla repubblica con l’inserimento nella compagine ministeriale del repubblicano Romita, figlio di un fervente monarchico pie-
Sir Winston Churchill
montese. Umberto non era d’accordo su questa designazione al Ministero degli Interni, tanto è vero che tenne in sospeso il decreto di nomina per una settimana, ma poi si decise in conseguenza dell’urgenza di costituire il governo affinché l’Italia non fosse esclusa dagli aiuti U.N.R.R.A. concessi dagli Stati Uniti ai Paesi vinti. Da quel momento Romita inizia la capillare organizzazione del suo capolavoro. Una situazione veramente strana: in un Regno giuridicamente in atto i repubblicani erano al potere ed avevano tutte le leve del Paese. E quando Umberto chiese un allargamento della compagine ministeriale, De Gasperi promise ma non l’attuò. Giungiamo al 9 Maggio, l’abdicazione di S.M. Vittorio Emanuele III. Una semplice cerimonia in un angoscioso silenzio a Villa Maria Pia e verso le ore 18 il vecchio Re, sotto il peso dei suoi dolori e delle sue tristezze, si avvia sul pontile verso l’imbarco. Gli si getta in ginocchio il fido, vecchio pescatore Gennaro e tenta di baciargli la mano, ma Vittorio Emanuele la ritrae. In quel gesto c’è il cuore, l’affetto, il dolore di tutta Napoli, che ancora non sa della partenza del Re. Umberto abbraccia la mamma; si mette sull’attenti dinnanzi al padre che gli stringe la mano. Si guardano negli occhi. In quel momento denso d’emozione un’infinità di pensieri, un’infinità di ricordi saranno affluiti alla mente dell’uno e dell’altro; sogni e speranze per il risorgere della Patria e in fondo all’animo la convinzione, la coscienza del dovere compiuto fino al sacrificio. Il motoscafo lo porta sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”. Nelle prime ombre della sera S.M., solo a poppa, guarda la costa della sua Patria che si allontana e forse, nonostante la durezza del suo carattere, alcune lacrime gli avranno bagnato le gote. Ed anche in questa dolorosa circostanza la stampa di sinistra, la crudele stampa di sinistra, trovò modo di dileggiare la figura del nostro Monarca: il giornale Avanti di venerdì 10 Maggio in un articolo a firma R.G. dal titolo: “Un uomo in mare” e sottotitolo: “Il Re fuggiasco trascorse le sue ultime giornate nella più completa incoscienza”, descrive S.M. trasportato a bordo
su una sedia da paralitico a rotelle. Questa spudorata falsità scatenò l’ira di tutti indistintamente gli Ufficiali del “Duca degli Abruzzi”. La sera stessa del 9 Umberto tornò a Roma da Re. Il suo avvento al trono veniva a sconvolgere i piani dei governanti e ad accrescere i loro dubbi sull’esito repubblicano del referendum. Ed è per questo che decisero l’accentuazione della propaganda antimonarchica, in particolare contro la persona del Re e l’inammissibilità delle manifestazioni a favore della Corona; decisioni che sollevarono le vive proteste di Cattani, l’unico difensore della Monarchia in seno al governo. La nuova situazione dette un incondizionato impulso all’entusiasmo monarchico che faceva dire al giornalista Martin Moore del Daily Telegraph: “La reazione della stampa di sinistra al momento dell’abdicazione dimostra che quei partiti ne temono gli effetti”. È ancora viva e palpitante in me la manifestazione del 10 Maggio in piazza del Quirinale che, per la quantità della gente e delle Bandiere con la Croce bianca di Savoia, ebbe il carattere della grandiosità. Era il popolo fatto di popolani, di mutilati, di reduci delle varie guerre che diceva al nostro Re: “Siamo qui a darti un po’ di gioia. Nonostante i sacrifici sofferti, nonostante le disgrazie che ci hanno colpito, nonostante la criminale propaganda, nei nostri cuori arde la fiamma della tanto martoriata Patria e ora siamo qui a dimostrartelo”. Ed egli, sono certo, anche negli ultimi aneliti di vita non dimenticò quell’entusiasmo, quelle braccia levate, quello sventolio di Bandiere, quella gente ancora pronta, se ve ne fosse stato bisogno, a sacrificarsi nel suo nome. Probabilmente furono anche queste dimostrazioni che lo decisero ad intraprendere i viaggi al sud e al nord. “Scriveranno che faccio il mio giro elettorale”, disse, “ma io non compro la Corona. Cercherò di dimostrarlo”. In Sardegna si svolsero episodi di simpatia e di affetto a getto continuo. A Napoli fu un trionfo a piazza del Plebiscito. (segue a pag. 14)
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RE UMBERTO II NEI DUE ANNI DI REGNO (da pag. 13)
Nella “culla della sua Casa” a Torino, nonostante la martellante propaganda rossa, per ore intere riceve la folla nel palazzo reale e quando scende nel cortile viene sollevato a spalla. Una povera vecchietta che non riusciva a vederlo la fanno avvicinare e abbracciandolo gli dice: “figlio, figlio mio caro”. A Palermo centomila persone lo accolgono. Indimenticabili le tappe a Trapani, Catania, Messina e a Reggio, dove il suo vestito andò letteralmente in brandelli. A Genova, seccato per le auto poste alla sua sicurezza, le pianta in asso e se ne va liberamente. La piazza della Prefettura è gremita e con gli applausi giungono anche fischi. Un giovane comunista gli domanda: “È vero che lei odia il popolo? Me lo dicono tutti i giorni in cellula e mi ordinano di dirlo agli altri”. Proprio in questa città, il 31 Maggio, promise al popolo italiano, nel caso di maggioranza monarchica, un secondo referendum perché egli non voleva essere il Re a tutti i costi, ma il Re di tutti gli Italiani o il Conte di Sarre. Nella roccaforte rossa Milano - nonostante i contrasti, l’accoglienza fu soddisfacente. La stampa di sinistra parlò d’avversione, ma dimenticò di dire che il tentativo di una parata ostile fallì per il rifiuto della gran parte delle masse operaie. A Venezia, dopo una manifestazione alquanto contrastata in piazza San Marco, il Re si avviò con un motoscafo scoperto lungo i canali e da ogni parte, con qualche contrasto, la folla lo salutava con calore. Dobbiamo dire che questo viaggio fu veramente un successo. I monarchici erano numerosissimi, “erano i più” come dice Falcone Lucifero e ben lo sapeva il “costruttore” Romita che nel suo libro scrive: “… un rin v io del referendum anche di sei mesi avrebbe potuto essere fatale per la causa repubblicana”. Ed eccoci alla grande vessazione alla quale siamo stati sottoposti: la vergogna del referendum. Il 2 Giugno non esistevano in Italia le condi-
Ministro della Real Casa Cav. Falcone Lucifero
zioni di democraticità e di libertà di propaganda, che sono i requisiti indispensabili per poter dar luogo ad un referendum. Il Paese era ancora occupato dalle potenze vincitrici e non sapevamo a quali mutilazioni saremmo stati sottoposti. La tregua istituzionale, necessaria perché il popolo potesse decidere in piena libertà era stata rispettata, come abbiamo detto, soltanto da una parte, quella del Re. Assenza di circa 500.000 nostri connazionali ancora prigionieri. Sfollati che non erano rientrati nelle sedi originarie. Cittadini all’estero non rimpatriati. Assenza di quelli dei campi di concentramento in Patria e quelli sottoposti a processi di epurazione. L’inconcepibile non ammissione al voto degli elettori delle province di Bolzano, della Venezia Giulia e di Trieste. Insomma un complessivo di oltre due milioni di persone che non si vollero far partecipare alla votazione. Con quale valore giuridico si potevano escludere tutti questi cittadini dalla consultazione popolare? Romita e compagni consideravano invece opportunissima questa situazione per la nascita della repubblica e non si spiegherebbe altrimenti la loro ansia, la loro fretta, il loro motto: “ora o mai più”. A Milano, fra i tanti manifesti antimonarchici, se ne affigge uno con la scritta: “Monarchici attenzione! Piazzale Loreto insegna e aspetta”. Romita disse che le manifestazioni monarchiche, quelle poche che si riuscivano a fare, turbavano l’ordine pubblico. Sì, perché le altre tendevano alla concordia! Alle ore 18.45 del 21 Maggio, secondo quanto riferisce Rodolico Niccolò nel suo “Libro
Azzurro sul Referendum”, la polizia avrebbe svolto una perquisizione nello stabilimento del Poligrafico dello Stato di piazza Verdi a Roma rinvenendo, in un cassetto del Reparto litografia, un clichè impiegato per stampare certificati elettorali falsi. Le vere schede venivano stampate nello stabilimento di Via Capponi. Schede di stessi individui in due o tre esemplari. A Milano, nel quartiere Friuli della zona Vittoria, oltre 500 famiglie ricevettero due certificati per persona, con due distinte sezioni ove votare. Al teatro Vittorio Emanuele di Torino, l’attuale auditorium della RAI, Parri affermò che il trattato di pace sarebbe stato più favorevole se il Paese avesse scelto un regime repubblicano e ciò creò in non poche persone un grave caso di coscienza. Si vede poi quanto illusoria fosse questa speranza, ma intanto il dubbio negli animi aveva prodotto il suo effetto. In tutta l’Emilia e Romagna dal 25 Aprile 1945 al 2 Giugno del 1946 si verificò uno stato di terrorismo rosso contro ogni elemento di ordine e particolarmente contro i monarchici, a cui impedirono qualsiasi attività di propaganda, di affissione e di stampa. Ciò nonostante in quelle zone si ebbero dei risultati insperati. A Roma in via dei Banchi Vecchi presso la 78^ sezione elettorale il presidente denunciò la votazione di 100 elettori in più e ciò si era avuto approfittando di una sua brevissima assenza. I componenti del seggio della 532^ sezione, sempre a Roma, alle ore 13 del 4 Giugno abbandonarono sui tavoli tutto il materiale elettorale senza prima aver posto i sigilli. A Genova non pochi ferrovieri asserirono di aver votato repubblica in sezioni diverse, perché da quella rossa amministrazione avevano ricevuto più di un certificato, mentre ad altri cittadini dichiaratamente monarchici o anticomunisti, non venne recapitato. Moltissimi seggi, all’atto dello scrutinio non verbalizzarono i dati relativi alle schede non ritenute valide e distrussero perfino le schede stesse, mentre la legge ne richiedeva il
deposito presso preture o tribunali a disposizione delle autorità inquirenti. Alcuni, recatisi a votare con il regolare certificato, si sentirono dire che avevano già votato e vennero minacciati di arresto se avessero tentato di farlo ancora. Il simbolo dell’Italia turrita venne indicato dagli attivisti repubblicani al sottoproletariato come il simbolo della Monarchia: “vota per la Regina, vota per la donna” insistevano. Anche la stampa inglese mise in risalto la confusione che avrebbero destato i simboli scelti. Quasi alla vigilia delle elezioni esplosero bombe a Milano, Napoli, Bologna, Bari e in numerosi altri centri, il che costrinse gli alleati a ricordare, con sfilate di carri armati e di forze, che si era ancora sotto la loro vigilanza. Ma come è possibile enumerare le irregolarità, le infrazioni, i reati commessi a danno della Monarchia e, diciamo pure, di noi monarchici? Basta considerare la dichiarazione postuma del ministro degli Interni Scelba che, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 Aprile 1948 in un comizio elettorale a Roma in Piazza del Popolo, disse: “Questa volta non si avranno brogli elettorali come quelli che si ebbero il 2 Giugno”. Ho cercato di dare appena un cenno del caos che si era creato in quei giorni. “Il caos necessario”, ebbe a sentenziare Nenni. S.M. è consapevole di tutto questo e, sia pure con l’animo dolorante, invita alla concordia, invitando tutti a rispettare e ad accettare la volontà della maggioranza. A coloro che, nella imminenza del voto, cercavano di convincerlo a rivolgere alla radio un appello agli elettori, egli rispose che il Re, nonostante il vantaggio che poteva procurare, non doveva trasformarsi in un capo partito, sia pure per i monarchici; con quella gara elettorale si sarebbe logorato il prestigio della Corona. Delegò, come noto, il suo ministro Falcone Lucifero, il quale pronunciò alla radio un “calmo e nobile discorso, ragionato ed obiettivo”. Romita fu ovviamente il maggiore responsabile di tutta la illegale situazione, ma egli aveva abilmente creato l’architrave di tutta l’impalcatura repubblicana. Con abili-
La lettera 4 giugno 1946 di Alcide De Gasperi al Ministro della Real Casa Cav. Falcone Lucifero. tà si circondò di fedelissimi collaboratori; incrementò la sua polizia con gli “ausiliari”: elementi più disparati per attitudine e capacità; dissemina dappertutto suoi informatori per controllare tutto l’andamento elettorale; crea prefetti politici capaci di condurre in proprio la campagna elettorale. Scrive fra l’altro nel suo libro: “…fu questo il cardine della mia politica: portare in Italia la Repubblica”. La mattina del 4 Giugno la Monarchia è in vantaggio. De Gasperi ne dà notizia a Falcone Lucifero e commenta: “Il ministro Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana. Io personalmente non credo si possa - rebus sic stantibus - giungere a tale conclusione”. Nel pomeriggio la Monarchia è ancora in vantaggio di 700.000 voti e a sera il responso dei voti del settentrione non modifica sostanzialmente tale differenza. Siamo su un 54%. Si attendono le cifre del meridione che, essendo a prevalenza monarchica, dovrebbero consolidare questa percentuale. Inspiegabilmente l’afflusso delle cifre si interrompe. Si ha notizia che Nenni e Togliatti, preoccupati della prevalenza monarchica, stiano organizzando uno sciopero generale: intenderebbero impedire il successo con un vasto moto di piazza. Nella notte sul 5 l’Aiutante di Campo di S.M. Generale Infante - ha notizia di una forte maggioranza repubblicana e sorpreso esclama: “È un assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte”. Poco
dopo De Gasperi conferma tale notizia e aggiunge: “Sono io il primo ad essere sorpreso. La situazione è mutata. Occorre un esame attento”. S.M. ne prende atto in attesa della dichiarazione ufficiale che spetta alla Corte di Cassazione, la quale si sarebbe riunita entro sabato 8 Giugno. Lo stesso giorno 5 S.M. Maria Josè con i quattro bimbi, su ordine del Re, parte per Napoli. Il piccolo Vittorio Emanuele non si rende conto di quella partenza ed esclama: “Che strano, ci hanno battuto tanto le mani e adesso dobbiamo partire”. Il giorno dopo alle ore 5 del mattino la Regina e le LL.AA. si imbarcano sull’Incrociatore “Duca degli Abruzzi” alla volta del Portogallo. Con il diffondersi della beffa dei risultati della consultazione, scoppiò improvvisa la notizia del grande numero di ricorsi per questo imbroglio del referendum. Per non far apparire irrisoria la vittoria repubblicana si considerarono votanti soltanto il complesso dei voti validi. Cosicché coloro che avevano posto nelle urne scheda bianca o che per altro motivo il loro voto fosse stato annullato era come se non si fossero mai recati a votare. Tutti gli innumerevoli ricorsi mandarono in bestia sia Nenni che Togliatti, che in tal modo sentivano sfuggir di mano la proclamazione della repubblica per il sabato 8. Da ciò nacque, in un agitatissimo consiglio dei ministri, l’idea del “fatto compiuto”: la proclamazione cioè unilaterale della repubblica, da far san-
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zionare successivamente dalla Corte di Cassazione. Il mattino del giorno 7 nel cortile del Quirinale si svolgono manifestazioni di affetto all’indirizzo del Re che aveva concesso pubbliche udienze. “Non partire, ti hanno tradito, non ci abbandonare”, grida la folla. A sera Umberto su un terrazzo del Quirinale si prende un po’ di riposo. Ammira la maestosa visione di Roma avvolta nella luce ovattata delle ultime ore del giorno ed esclama: “ …Mia cara Roma … ho compiuto il mio dovere. Questi ultimi due anni sono stati di duro sacrificio. Ho conosciuto l’ingratitudine umana, così come ho a v uto pro v e di dedizione oltre misura. Nel partire dall’Italia non posso che augurare ogni bene al mio Paese, al quale andranno sempre i miei pensieri”. Parole amare, parole piene di sofferenza di colui che non ha intenzione di svolgere una resistenza ad oltranza. Nei giorni 8 e 9 il ministro guardasigilli Togliatti sollecitò il presidente della Corte - Pagano - di proclamare l’esito del referendum. All’osservazione del presidente che i termini della legge sul referendum stesso non consentivano di dar luogo alla proclamazione, Togliatti rispose che il compito della Cassazione era esclusivamente quello di controllare i dati risultanti dai verbali. Osservazione che indispettì il Pagano, il quale senza mezzi termini replicò che quello sarebbe stato l’incarico di un semplice ragioniere e non di una Suprema Corte di Cassazione. Ciò nonostante, a causa delle scorrette insistenze, il giorno 10 ebbe luogo, molto inopportunamente a mio avviso, la pubblica seduta nella quale si dette comunicazione dei soli risultati affluiti, precisando che mancavano i verbali di 118 sezioni, che dovevano essere esaminati i verbali e le contestazioni e che restava da indicare il numero dei votanti e i voti nulli. In altra seduta sarebbe stato emesso il giudizio definitivo. Ciò equivaleva a dire che la proclamazione della repubblica era rinviata e il Re continuava ad essere Re. L’altra seduta ebbe luogo, come noto, il 18 Giugno con i seguenti risultati: repubblica 12.717.923, Monarchia 10.719.284, voti nulli 1.509.735. Anche se questi dati fossero presi per buoni , lo scarto per
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la repubblica fu di appena 244.451 voti rispetto alla maggioranza. Secondo i dati dell’Istituto di Statistica non era materialmente possibile che avessero votato 24.946.942 elettori. Tenuto conto dell’entità della popolazione, dei maggiori di 21 anni, degli elettori comunque assenti e defunti e dei certificati non consegnati, si desume che si ebbero circa 2 milioni di votanti in più rispetto agli aventi diritto. A chi andarono questi voti? Il 10 e l’11 furono i giorni in cui la pericolosità e la violenza raggiunsero il culmine. In particolare a Napoli dove i “lazzaroni del Re”, come vennero spregiatamene chiamati dal governo di allora, al grido di “Vi v a o’ Re”, morivano sotto il piombo del famoso battaglione allievi della polizia che, sceso da Roma, era formato da elementi estremisti. Undici furono i caduti e un centinaio i feriti. A Roma una manifestazione monarchica di protesta ad un’altra organizzata 24 ore prima da Romita, venne dispersa a colpi di manganello, cariche di cavalleria e di jeeps; numerosissimi i feriti. Alcuni firmatari di ricorsi alla Cassazione vennero fermati e persino arrestati. S.M. è sollecitato ad impiegare la forza, ma manifesta una viva repulsione a questa proposta e risponde: “Per me è solo un incitamento a partire il più presto possibile. La storia non deve dire domani che la Corona abbia fomentato o solo permesso la guerra civ ile”. Egli però non vuole abbandonare il campo e a De Gasperi riafferma la sua decisa volontà di “rispettare”, sono le sue parole, “il responso del popolo italiano …quale risulta dagli accertamenti e dal giudizio definitiv o della Suprema Corte di Cassazione chiamata per legge a consacrarlo”. Non si trattava di intenzionale resistenza o di inconciliabilità, come osservava De Gasperi, ma di una giusta, giuridica pretesa onde poter, tra l’altro, trasmettere agli Italiani la nuova forma istituzionale. Ed ecco il colpo di Stato: nella notte sul 13 Giugno nell’aula del Viminale, in una violenta discussione, il governo vota un ordine del giorno, dal quale
dissente solo Cattani e si astiene il De Courten, nel quale viene affermato che la comunicazione dei risultati del 10 Giugno ha portato automaticamente alla instaurazione di un regime transitorio, per cui la funzione di Capo dello Stato spetta ope legis al presidente del consiglio in carica. In tal modo S.M. Umberto II diveniva un semplice cittadino. Nasceva la repubblica senza la sanzione della Suprema Corte. Varie ipotesi vennero prospettate al Re dai suoi consiglieri tra le quali anche quelle che avrebbero dato luogo, in un modo o nell’altro, ad ulteriore spargimento di sangue, ma egli preferì la partenza perché: “Non voglio un trono macchiato di sangue. Mi sono costantemente preoccupato di non intaccare la compattezza delle Forze Armate. È soprattutto per questo che, come militare cercai, finchè fu possibile, di giungere ad un regolare pas-
saggio dei poteri. Intendo evitare la ripetizione dell’8 settembre”. Alle ore 16,09 di quello stesso giorno 13 dall’aeroporto di Ciampino l’aereo “Savoia Marchetti 75”, al comando del Capitano Lizzani, decollava per portare S.M. Umberto II, il nostro Re, verso l’esilio di Cascais. Ciò che avvenne dopo non fa parte di questa trattazione. Ci basta soltanto osservare che fino all’ultimo momento egli dimostrò di amare la Patria e il suo popolo a tal punto che fece eliminare dal suo proclama l’espressione “colpo di Stato”, che avrebbe potuto incitare alla rivolta le masse monarchiche. Proclama che nella compostezza delle sue espressioni, fa vibrare ancora oggi nei nostri animi un senso violento di ribellione contro tutti coloro che ci hanno frodato, giacchè prima ancora della Monarchia è stato il popolo italiano ad essere frodato.
13 Giugno 1946, Aeroporto di Ciampino. Sua Maestà il Re saluta l’Italia nella quale ad oggi una casta politica comprendente intrallazzatori, bacchettoni, incapaci e corrotti ne ha impedito il ritorno anche da defunto. Si tratta tra l’altro di una questione morale che ci sta tormentando e che potrà essere alleviata, dico soltanto alleviata, da un atto riparatore:
porre termine all’esilio dei nostri Reali e portare le loro Sa lme in Patria, qui con noi, nella sede naturale: il Pantheon. ■
MESSAGGIO DI S.M. RE UMBERTO II AGLI ITALIANI ALL’ATTO DELLA PARTENZA PER L’ESILIO taliani! Nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 Giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunziare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.
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Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Italiani! Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lagrime siano risparmiati al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Com-
piendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta: protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto. A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo han-
no prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia! UMBERTO Roma, 13 giugno 1946. ■
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A Mentone (Francia), il 16 Ottobre 1976 con la Redazione di questo Mensile che aveva la testata “Alleanza Monarchica�.
ITALIA REALE - 3/2013