Passaggio in Ladakh

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ISBN: 978-88-6780-691-1

giovanna.salvioni

civiltà.nomadismo.spiritualità

PA S S AG G I O I N L A DA K H

andrea aschedamini.cristina locatelli

PA S S AG G I O I N L A DA K H civiltà.nomadismo.spiritualità



giovanna.salvioni

PA S S AG G I O I N L A DA K H civiltĂ .nomadismo.spiritualitĂ

andrea aschedamini.cristina locatelli different.photography


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© immagini 2014 DIFFERENT.PHOTOGRAPHY Andrea Aschedamini e Cristina Locatelli www.differentphotography.it

© testi 2014 EDUCatt Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano tel. 02.7234.22.35 - fax 02.80.53.215 e-mail: editoriale.dsu@educatt.it (produzione) librario.dsu@educatt.it (distribuzione) web: www.educatt.it/libri Associato all’AIE – Associazione Italiana Editori ISBN: 978-88-6780-691-1


premessa Questo libro, nello splendore della testimonianza fotografica, ci conduce sui percorsi di un viaggio che ha molte facce: il viaggio per catturare immagini risulta in realtà un viaggio per ritrovare l’immagine di se stessi nelle immagini degli altri; è un confronto con una natura stupendamente destabilizzante nella sua grandiosità; è un ascolto delle mille e mille voci presenti nel vento dei silenziosi altipiani che si interrogano sulla natura profonda dell’uomo e delle cose, e raccontano di dei, di anima, di preghiera, di meditazione. Ed è effettivo che gli autori, viaggiatori instancabili, un piede dopo l’altro a confronto con la natura, con se stessi e con i propri limiti, siano tornati da questo viaggio avventuroso, solitario e popolato di volti nuovi ed essenziali, con gli occhi illuminati dalla fatica, un po’ diversi da come erano alla partenza, ma di una diversità che parla di arricchimento spirituale e di aumento della consapevolezza. Come è sempre sorprendente, attraverso la visione diretta o la qualificata mediazione di fotografie non casuali, entrare in rapporto con altre “facce” della nostra umanità che non ci sono consuete. Siamo curiosi della diversità, spesso pittoresca, ma scopriamo soprattutto la nostra comune identità in quanto specie, ossia in quanto unica e sola “razza” esistente. E, in più, attraverso i modi e i comportamenti altrui, illuminiamo angoli da tempo in ombra della nostra cultura personale e sociale. Come Gandhi ha ben sottolineato, tutto ciò che attiene all’umano, che attiene agli “altri”, dovunque essi siano, è “nostro” e riguarda anche noi, singolarmente e in gruppo. La diversità è uno dei modi in cui gli esseri umani si sono costruiti esistenze possibili, dimostrando con chiarezza quanto l’intelletto umano sia versatile e sappia creare cultura e vita in ogni ambiente e condizione. Con questi occhi dobbiamo partecipare al mondo degli uomini, “ritrovandoci”, e inserendoci con il massimo del rispetto in una realtà, quella del Pianeta, che non possediamo, ma che invece dobbiamo custodire.

Giovanna Salvioni

Docente di Antropologia culturale ed Etnologia, Università Cattolica del sacro Cuore

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CIVILTÀ Il Ladakh: dov’è, com’è? Il Ladakh fa parte dello Stato Indiano, inserito nello Stato federato di Jammu e Kashmir e racchiuso tra le grandiose catene montuose dell’Himalaya e del Karakorum. Metà dei circa duecentotrentatremila abitanti che sono distribuiti nei due distretti di Leh e di Kargil pratica il buddismo di scuola tibetana, l’altra metà è quasi per intero musulmana del ramo sciita, una piccola minoranza è induista. Definito Piccolo Tibet, il Ladakh accoglie nella sua capitale Leh, che conta poco più di diecimila abitanti, le frequenti visite dell’attuale Dalai Lama; la capitale è nota anche per il palazzo reale che ripropone il Potala di Lhasa in miniatura e, nello spirito della buona convivenza tra fedi e spiritualità diverse, per una bellissima moschea lignea. A Hemis il panorama è caratterizzato dall’imponente monastero omonimo, e così anche ad Alchi, il cui monastero è noto nel mondo e agli storici dell’arte per le meravigliose pitture murali. L’economia si caratterizza per un’agricoltura di sussistenza che lungo l’Indo e il Zanskar produce orzo e frutta, in particolare albicocche. Nel sud, i nomadi allevatori e pastori conducono la loro antica e pacifica esistenza. Oltre agli ovini, sono allevati in alcune zone i robusti cammelli della Battriana. Chiuso ai viaggiatori stranieri fino al 1974, oggi il Ladakh è meta di turisti, di sportivi, di continui pellegrinaggi buddhisti. Forse, nella capitale Leh si avverte attualmente la fatica di far convivere le abitudini della vita

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tradizionale con vari aspetti della modernità, e col legittimo desiderio di sentirsi parte della civiltà mondiale. Le immagini di queste pagine testimoniano tutta la complessità di un oggi a volte problematico ma ben appoggiato al passato per proiettarsi meglio nel futuro, di un paese piccolo per numero di abitanti ma dagli orizzonti maestosi. Nello stesso tempo si avverte che l’“avventura fotografica” è stata per gli autori un percorso, una crescita, una scoperta degli altri e di se stessi. Nella migliore tradizione della conoscenza antropologica e della fruttuosa costruzione di se stessi.

Paese che vai, etnie che trovi

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Quando pensiamo, un po’ astrattamente, che le frontiere racchiudano delle “omogeneità”, religiose, culturali, somatiche, non potremmo commettere errore più grande. Ogni stato della Terra contiene invece diversità e varietà, in una storia comune. Il Ladakh ne è la prova. Nello stesso tempo dobbiamo capire, ma il corredo fotografico ce ne convince senza sforzo, che gli esseri umani e le loro culture, cioè i diversi modi di vivere, non possono essere contenuti rigidamente in nessuna pagina di manuale o descrizione per quanto esauriente, perché la bellezza delle cose create, dagli universi al cosmo al nostro pianeta alla natura e infine a noi esseri umani è il mutamento costante, l’elaborazione continua della vita.


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NOMADISMO I Changpa. L’ anima buddhista Pastori e allevatori seminomadi, i Changpa abitano gli altipiani orientali. Le loro tende di pelo di yak e di capra caratterizzano d’estate, anche a 4500 o 5000 metri di altitudine, il paesaggio della regione di Rupshu e dei laghi Pankong e TsoMoriri. Gli armenti di yak e di ovini si nutrono nei pascoli di alta quota che si formano alla bocca dei ghiacciai, una zona sempre ben intrisa dall’acqua dello scioglimento del ghiaccio. Non si pensi che in quanto nomadi o seminomadi abbiano una vita più stentata degli agricoltori sedentari: ad esempio, la loro dieta include latte e latticini e, d’estate, un energetico alimento a base di carne disidratata. L’alimentazione è anche arricchita da piante commestibili spontanee e da cereali ottenuti in cambio dei prodotti dell’allevamento. Agli uomini è riservato il compito della comunicazione e del commercio con i vicini, alle donne sono riservate le cure domestiche e la manifattura di tessuti e tappeti molto richiesti anche in Europa e nel mondo. I telai sono rudimentali, ma l’abilità e la tradizione sono di alto livello. Come in molte altre parti del mondo, tutti danno il loro contributo al buon andamento della vita della famiglia e del gruppo, compresi i bambini e gli anziani che si rendono molto utili nella cura degli animali al pascolo. Buddhisti per tradizione, i Changpa mantengono tracce di antiche credenze animiste, desumibili anche dagli amuleti e dalle piccole statue di divinità e di antenati che decorano le loro tende e abitazioni. Nello stesso tempo, essendo vissuti per secoli in aree isolate, hanno mantenuto quasi intatte le loro caratteristiche somatiche d’origine, proprie delle popolazioni tibetane e della Mongolia da cui arrivarono nel tempo.

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I Dardi. La tradizione islamica

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Discendenti da bellicose genti provenienti dal Caucaso all’inizio dell’era cristiana, i Dardi ebbero periodi di notevole sviluppo e di crescita demografica, ma furono incapaci di mantenere le loro posizioni quando imperi più potenti si scontrarono nei loro territori e quando nacque il regno del Ladakh. La fusione con altre popolazioni rende difficile oggi rintracciare i pochi gruppi che mantengono fisionomie e cultura originarie. Ma quando ci si imbatte in uno di questi gruppi, come la comunità di Dah-Hanu, l’unica ad essere rimasta fedele al buddhismo, le sorprese sono assicurate, soprattutto in ambito rituale e simbolico. Per quanto riguarda le attività di sussistenza, i Dardi sono agricoltori e frutticoltori, molto coraggiosi dato che i loro campi sono stretti tra alte pareti rocciose e l’Indo, molto vorticoso. Le donne, riconoscibili anche da lontano come appartenenti all’etnia dardi a causa dei loro copricapi ornati di vistosi serti di fiori freschi, curano gli alberi da frutto, e favoriscono un ottimo commercio di mele, noci, fichi e albicocche secchi. Per tornare alle sorprese rituali, basta ricordare che i membri della comunità non possono sposare al di fuori di essa, che vige cioè una forma stretta di endogamia; i giovani devono trovare il loro partner solo nei villaggi dardi; ma l’esiguità dei numeri, pochi piccoli villaggi con poca popolazione, è stata un problema da risolvere pena la progressiva estinzione. Ebbene, la saggezza delle antiche società lo ha risolto, pur professando ormai, i Dardi, l’islamismo: ogni tre anni essi indicono, dopo il raccolto, un Festival della vita e della fecondità; per una settimana tutto è lecito, l’eccesso di cibo, di danze, di musica, di liberi rapporti sessuali tra i membri della comunità; attraverso le successive nascite questi rapporti permetteranno alla comunità stessa di perpetuarsi, di incrementarsi.


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I Balti Di origine caucasica come i Dardi, i Balti hanno però acquisito e fuso con i propri più di questi ultimi elementi culturali sia tibetani che indiani; in Ladakh anche i tratti somatici sono, ad esempio, marcatamente più mongolidi. La loro storia si dipana significativamente tra l’undicesimo secolo, in cui cadono sotto l’influenza tibetana e buddhista, e il sedicesimo, allorché possono tornare all’islamismo, restando però linguisticamente tributari del periodo precedente, perché ancora parlano una sorta di antico tibetano. Noti per avere partecipato in qualità di portatori e guide a grandi e avventurose scalate himalayane, i Balti sperano, proprio a partire da queste attività e dalla partecipazione ai moderni trekking, in un futuro meno povero. Il prezzo è alto, perché il minimo benessere viene barattato con la perdita dei valori tradizionali e con l’inquinamento ambientale. Certamente i Balti sanno cos’è il vivere frugale, portano abiti semplici per lo più di lana cruda, larghi pantaloni e ampie casacche, un copricapo aderente oggi sostituito da normali baschi per gli uomini, per le donne lunghi abiti e ornamenti e pettinature derivati da fogge tibetane; si nutrono di verdure e legumi prodotti localmente, una sorta di orticoltura, ma il loro piatto forte resta il chapati, il sottile pane non lievitato cotto su pietra o in piccoli forni di terracotta. Il chapati viene spezzettato nel tè oppure condito con burro, a volte viene fritto, a volte lo si accompagna con latte cagliato. Prezioso esempio di un islam sostanzialmente di pace, i Balti, come tutte le popolazioni himalayane, coltivano un rapporto vivo e profondo con le realtà estreme e maestose del loro ambiente naturale, le altissime cime innevate e la solitudine degli altipiani.

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I Gujar. La lieve presenza dell’induismo I Gujar, una presenza minoritaria in Ladakh, sono pastori seminomadi dediti alla transumanza che dalle basse montagne poco a nord di Jammu, a primavera, portano le loro mandrie e le loro greggi verso gli alti pascoli himalayani. In gran parte induisti, si considerano appartenenti alla casta dei guerrieri, o kshatrya, e discendono forse dagli antichi invasori Unni del nord dell’India. Fuori dei confini del Ladakh sono in genere musulmani, ma tutti conservano strutture sociali tradizionali come la suddivisione in clan. La famiglia è patrilineare (l’eredità e il nome passano di padre in figlio), i matrimoni prevedono il “prezzo della sposa”, non il volgare “acquisto” di una donna, ma un indennizzo corrisposto dal futuro genero alla famiglia della futura moglie per compensare la perdita di una fanciulla amata e attiva. 55





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SPIRITUALITÀ Le suggestioni della natura e la forza dei simboli I panorami himalayani, grandi cieli purissimi, vette quasi irreali nella loro immensità e bellezza, altipiani silenziosi e solitari, incutono in qualsiasi essere umano un senso di reverenza e indirizzano la riflessione su temi eminentemente spirituali. Del resto, in tutte le culture e in tutte le religioni, le vette e il silenzio dei luoghi deserti giocano un ruolo fondamentale. La montagna, soprattutto per quanto riguarda le cime più alte, è ed è sempre stata ritenuta sacra, molto spesso al centro di avvenimenti prodigiosi e di rivelazioni. La sua valenza simbolica poggia sia sulla verticalità (e la vicinanza al cielo) che sull’idea di centro. Dall’alto infatti è identificabile come il punto estremo di una verticale che segna il centro del mondo e la via per la discesa degli dei. Citiamo solo qualche esempio preliminare: il monte Kenya, il monte Fuji, la vetta del Sinai, ma aggiungiamo anche qualche località europea, cui non prestiamo più molta attenzione ma che pure rientra nella stessa categoria della sacralità: a cominciare dai diffusi Sacri Monti (percorsi in ascesa che comprendono le stazioni della via Crucis), poi cime “urbane” come quella dedicata a Notre Dame de la Garde a Marsiglia, o Montmartre (Monte dei Martiri) a Parigi, e non ultime le cime di Alpi e Appennini, spesso segnate da un piccolo altare di pietra o da una o più alte croci e proscenio della suggestiva abitudine estiva di celebrazioni liturgiche. Si legge nel Dizionario dei Simboli (Chevalier e Gheerbrant): «Le montagne assiali (asse del mondo) più conosciute sono il Meru per l’India, il K’un-lun per la Cina […] il monte Lie-Ku-Ye di Lie-tzû […] l’Olimpo greco; l’Alborj persiano; la Montagna dei Paesi in Mesopotamia; il Garizim samaritano; il Moriah massonico; l’Elbruz e il Tabor (da una radice che significa ombelico); il Monsalvat del Graal e la Montagna di Qâf dell’Islam; la Montagna Bianca celtica; il Potala tibetano […]». L’India venera oltre il Meru anche il Kailâsa, residenza di Shiva, e il Mandara, i Cinesi i quattro

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pilastri del mondo, tra i quali risalta il monte P’u-chou, che è anche una porta per il mondo sotterraneo, oltre a quattro montagne cardinali. Nella mitologia taoista, gli Immortali vivevano sulla Montagna del Centro del Mondo, a cui si inchinavano il Sole e la Luna. Con qualche adattamento, il simbolo entra nella Bibbia e nel cuore dell’ebraismo: «…erede della montagna divina primordiale, la montagna diviene spesso il simbolo della presenza e vicinanza di Dio: la rivelazione sul Sinai, il sacrificio di Isacco sulla montagna (Genesi, 22,2), più tardi identificata nella collina del Tempio. Elia ottiene il miracolo della pioggia dopo avere pregato sulla vetta del Carmelo (I Re, 19,9 segg.). Ci si deve ricordare il Sermone della montagna (Matteo, 5,1 segg.) che corrisponde senza dubbio nella nuova alleanza, alla legge del Sinai precedente» (Chevalier e Gheerbrant). Dio si manifesta sulle vette, ma queste sono ambivalentemente anche il luogo in cui l’uomo innalza i suoi idoli e dispiega il suo orgoglio. In questo caso, il monte è funestato dal presagio del crollo finale. L’idea del crollo come appianamento, come rigenerazione, riguarda anche la fine dell’esilio; Dio ne trarrà fuori il suo popolo pareggiando i dislivelli (Isaia, 40,4), e la fine dei tempi (I, Enoch, 1,6; Ascensione di Isaia, 4,18; Apocalisse, 16,20). Non crollerà mai invece il Sinai interiore, o Sinai del proprio essere, che nel misticismo ebraico equivale al lungo percorso da se stessi a se stessi. Anche la montagna Qâf della cosmologia islamica, che circonda il mondo ed è di puro smeraldo, ha tra le altre una interpretazione mistica che la identifica con una realtà psico-cosmica, ossia con la manifestazione della realtà eterna dell’uomo, riflesso della perfezione di Dio. Essa è comunque sempre ritenuta il punto d’appoggio della terra. Se la montagna Qâf non esistesse, la terra sarebbe scossa da forti tremiti, e la vita non potrebbe svilupparsi. È evidente il simbolismo del centro, dell’ombelico del mondo; il Qâf è la montagna madre di tutte le montagne del mondo, collegate a lei da ramificazioni sotterranee, inaccessibile agli umani e nello stesso tempo confine tra mondo visibile e mondo invisibile.


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Nessuno passa questo limes, che è anche di conoscenza. Solo Dio conosce tutto. I vasti e silenziosi altipiani del Ladakh, apparentabili col deserto e con i suoi universi simbolici, stimolano ulteriori riflessioni. Superficie vuota, il deserto nasconde sotto di sé la Realtà, così come dice in antico Abd Al-Karim Al-Jîlî (1365c. 1424): «Fuori della Sua dimora lo stuolo era nel deserto. Quali limiti insuperabili si mostrano alla carovana che tende verso di Essa!» Queste parole si applicano ugualmente alla ricerca della Terra Promessa da parte degli Ebrei, soggetti alle dure prove imposte dall’ambiente desertico. Nella Bibbia, del resto, il deserto è una presenza estremamente significativa; è il mondo distante da Dio, il terreno delle tentazioni, il dominio del male; ma, d’altra parte, è anche il luogo in cui gli esseri umani si affidano esclusivamente alla grazia e alla misericordia di Dio, ricercando in questo rapporto il Bene e la Verità. «Per questo i primi monaci cristiani si ritirarono nel deserto come eremiti (deserto in greco si dice eremos), per affrontarvi la propria natura e quella del mondo col solo aiuto di Dio; il carattere simbolico del termine appare qui particolarmente bene, poiché in seguito non si credette più necessario ritirarsi materialmente nel deserto per condurre una vita eremitica» (Chevalier e Gheerbrant). Se gli esseri umani sono dovunque e sempre simili nella loro più intima realtà, se la natura ci contiene da millenni sia con la sua vivida concretezza che con le sue misteriose suggestioni, allora i pastori del Ladakh, ma anche i cittadini della capitale, vivono certamente i loro paesaggi, magnifiche e immense presenze, come un richiamo irresistibile a “vedere” ciò che è invisibile e più reale del reale.


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Il Nodo-senza-fine (in sanscrito srivatsa, in tibetano dpal be’u) o “Nodo dell’eternità” è composto da linee chiuse intersecantisi ad angolo retto. Rappresenta il ciclo di esistenza senza inizio, il legame inestricabile di saggezza e metodo compassionevole dell’illuminazione di Buddha e l’infinito amore ed armonia. Dato che il nodo non ha inizio né fine simboleggia l’infinita saggezza e conoscenza del Buddha e l’eternità della Dottrina, del Dharma, nel divenire incessante e perennemente mutevole della manifestazione. Il nodo-senza-fine è usato non solo in connessione con i Simboli di Buon Auspicio ma anche da solo come il più alto segno di buon auspicio, per esempio posto assieme a un dono o in uno scritto significa la connessione tra chi dona e chi riceve, stabilendo legami per favorevoli circostanze per il futuro, ricordando che ogni effetto positivo e favorevole per noi in futuro ha le sue radici, le sue cause dalle nostre azioni nel presente.

‘PASSAGGIO IN LADAKH’ racconta di un viaggio spazio.temporale tra Rumtse e Korzok (Rupshu), area sud-est del Ladakh. I fotografi l’hanno percorsa e ripresa per 8 giorni a piedi, seguendo un’antica via utilizzata dai nomadi tibetani, oltrepassando 7 alti passi, incontrando 2 grandi laghi ed attraversando altipiani tra 4.000 e 5.500 mt per più di 100 km in estensione. Hanno proseguito da nord a sud in auto, alla scoperta di antichi monasteri.

Fotografie riprese con Canon EOS 5D mkIII Ricerca antropologica a cura di Giovanna Salvioni Fotografia, concept ed impaginazione a cura di Cristina Locatelli e Andrea Aschedamini (info@differentphotography.it) Finito di stampare presso la Litografia Solari s.r.l. (info@litografiasolari.it) di Peschiera Borromeo, Milano nel dicembre 2014


ISBN: 978-88-6780-691-1

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