L'apostolo del paese di Barra: Raffaele Verolino (1822-1890)

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A cura di

Angelo Renzi Sr. Maria Mazzocchi

“L’apostolo del paese di Barra” RAFFAELE VEROLINO (1822-1890)

La Barra di Napoli, 2005


SOMMARIO Presentazione (pag.3) Biografia del Verolino, scritta da Don Raffaele Guida nel 1890 Proemio (pag.4) Parte I – Il Verolino nello stato laicale (pag.5) Parte II – Il Verolino nello stato sacerdotale (pag.8) Cenno storico del Ritiro, scritto da Don Raffaele Guida nel 1893 (pag.14) Nomi delle Religiose e delle Novizie del Ritiro nel 1893 (pag. 16) Lettera del Verolino al Card. Sisto Riario-Sforza del 1867 (pag. 17) Biografia del Verolino, scritta da Sr. Maria Giacinta di S. Francesco nel 1938-39 (pag. 18) Raffaele Verolino ieri ed oggi, scritto da Angelo Renzi nel 2005 (pag. 24) Una breve visita (pag.24) Parte I – Il contesto storico nel quale operò il Verolino (pag.25) Parte II – Il carisma del Verolino e la sua attualità (pag.41) Regola del Verolino 2005 (pag.50) Bibliografia (pag. 55)


PRESENTAZIONE Questo libro contiene quattro cose: 1. La prima biografia di Raffaele Verolino (1822-1890), scritta da Don Raffaele Guida, che fu suo discepolo, suo primo successore in qualità di Superiore della Comunità religiosa da lui fondata (vedi n.46), e poi anche parroco di Barra dal 1896 al 1900. Si tratta, per la precisione, del discorso di “funebre elogio” pronunciato dal Guida nel corso della celebrazione religiosa che si tenne, nella chiesa delle Suore del Verolino in Via Cicarelli a Barra, “nel giorno settimo dalla morte” di questi, avvenuta il 22 gennaio 1890. 2. Il “Cenno storico del Ritiro” ovvero le notizie fondamentali circa l’origine del “Ritiro dell’Immacolato Cuore di Maria” per le ragazze orfane, fondato dal Verolino il 9 maggio 1868. Anche questo “Cenno storico” fu scritto da Don Raffaele Guida, come introduzione alla “Regola del Ritiro” da lui composta nel 1893 e firmata dalle Religiose e dalle Novizie il 31 dicembre di quell’anno. “In calce della Regola”, il Guida conservò, fra l’altro, la lettera autografa con la quale il Verolino “tutto confidente nella Divina Provvidenza, nel novembre 1867 avvanzò supplica al cardinale Sisto Riario-Sforza” per essere autorizzato alla fondazione del Ritiro: anche questa lettera viene qui integralmente riportata. Si segnala inoltre che lo stesso Don Raffaele Guida compose e fece stampare, nel 1895, una “Nuova guida spirituale” per coloro che frequentavano la chiesa del Ritiro, contenente “tutte le pie pratiche religiose da farsi in ciascun giorno dell’anno, coll’aggiunta delle meditazioni ed evangeli domenicali”. 3. La seconda biografia di Raffaele Verolino, scritta da Suor Maria Giacinta di S. Francesco (al secolo, Ida Cosenza) nel 1938-39. La nostra Suora riprende, nella sostanza, le informazioni contenute nella biografia del Guida; ne aggiunge alcune altre, evidentemente desunte dalla “tradizione orale” (vedi nn.23-25); e conclude con la sua personale testimonianza (n.26). Ella ci ha lasciato tre diverse versioni di questa biografia, con alcune varianti, peraltro poco significative; quella qui riportata è la più breve. Lo scritto fu composto in vista delle celebrazioni per il 50° anniversario della morte del Verolino (22 gennaio 1940), in occasione del quale le Religiose avrebbero desiderato che avvenisse anche la traslazione dei resti mortali del Fondatore, dalla Cappella Colombrino nel cimitero di Barra, dove si trovavano, alla chiesa dell’Istituto in Via Cicarelli. Il precipitare degli eventi verso la Seconda guerra mondiale, purtroppo, non lo consentì e la traslazione poté avvenire solo vari anni dopo, il 26 giugno del 1957. 4. Un contributo di Angelo Renzi, “Raffaele Verolino, ieri ed oggi” (anno 2005), articolato in due parti: la prima descrive “Il contesto storico nel quale operò il Verolino”; la seconda analizza “Il carisma del Verolino e la sua attualità”. Come attuale Superiora della Comunità religiosa fondata da Don Raffaele Verolino quel 9 maggio 1868, mi auguro con tutto il cuore che questo libro contribuisca a diffondere e ad approfondire sempre di più la conoscenza della vita, dell’opera e della spiritualità del nostro Fondatore, il cui carisma ha ormai attraversato ben più di un secolo di storia. Le sue azioni e le sue virtù sono certo ben presenti davanti a Dio, ma forse non sempre, come pure meriterebbero, lo sono davanti agli uomini: affinché, vedendole, rendano gloria al Padre nostro che è nei cieli (cfr Mt 5, 16). La fiaccola che Raffaele Verolino, per grazia di Dio, accese in Barra nel secolo XIX, “faccia luce a tutti quelli che sono nella casa” (Mt 5, 15) anche nel terzo millennio cristiano. Barra di Napoli, 25 dicembre 2005.

Suor Maria Mazzocchi


Elogio funebre del sacerdote Raffaele Verolino, fondatore del Ritiro delle orfanelle di Barra, ricitato nel giorno settimo dalla sua morte, nella chiesa del Ritiro, dal Superiore, sacerdote Raffaele Guida. Anno 1890 Proemio Narrabo nomen tuum fratribus meis, in medio ecclesiae laudabo te (Salmo XXI, v: 23). Narrerò le glorie del Tuo Nome ai miei fratelli, nel mezzo della Chiesa loderò Te (Sal 21, 23). 1. Quale doloroso compito di propria volontà mi assunsi, nel volere tessere elogio funebre a colui che fu padre delle orfanelle, maestro della gioventù, guida e direttore delle devote vergini: dir voglio, il sacerdote Raffaele Verolino! Eppure, ben riflettendo meco stesso, confessar posso che questa intrapresa non fu un’allucinazione della mia mente, ma fu un vero cordiale impulso di dovuto affetto per colui, che per me sentiva la più calda stima e benevolenza fiduciosa. Eppure, o Signori, il vedervi questa mane radunati altra volta in questo sacro Tempio, ove foste solito di accorrere per onorare l’Immacolata Vergine, non già in aspetto giulivo, ma piuttosto da profonda mestizia oppressi; al vedere le vostre pupille essere bagnate da calde lagrime al pallido bagliore di queste lugubri faci, il mio cuore più mi si stringe in petto e mi sforza a più lagrimare. Ah, ditemi in fede vostra, o Signori, non è (in) questo Tempio che tante volte da questo pergamo con instancabile zelo annunziò il Verolino la Divina Parola? Non è quel confessionale di penitenza quello stesso tribunale che vedevasi accerchiato da innumerevoli persone per confessare le loro colpe a lui? Non sono queste sacre mura quelle stesse, che echeggiarono del suo canto fatto in lode del Signore? Eppure, il sacerdote Verolino non è più sulla terra, ma se ne volò al Cielo, oggi orsono otto giorni. 2. Oh Dio, ed era a me dalla Provvidenza destinato il diriggere questa sua chiesa, il guidare queste sacre vergini e povere orfanelle, e quel che (è) più doloroso, il montare oggi su questa cattedra per elogiare le sue virtù fra il dolore e le lagrime delle orfanelle sue figlie e delle mie ancora! La religione di Gesù Cristo, che abbatte e suscita, che umilia e conforta, che affanna e consola, che ci prende bambini fra i vagiti dell’infanzia coll’adottarci in figli e come tenera madre ci conforta tra le spine di questa valle di lagrime: essa sola può rafforzare oggi il mio animo a non soccombere alle lagrime della vostra mestizia e dolore. Il ricordare le sue belle virtù a quelli che lo conobbero nei primi anni della sua giovinezza, il farlo conoscere a quelli che in più tarda età nacquero, mi è il più bel conforto al mio addolorato spirito. 3. Ma che dirovvi, adunque, del sacerdote Verolino? Presentandomi d’innanzi al mio sguardo quelle parole del Salmo XXI, dirò: 1°- Narrabo nomen tuum fratribus meis: come, nello stato laicale, il Verolino si addimostrò fervente cristiano collo zelare la gloria del Signore colla pratica delle virtù cristiane; 2°- in medio ecclesiae laudabo te: nello stato sacerdotale, addimostrò tutto lo zelo per la salute delle anime.


Parte I – Il Verolino nello stato laicale 4. Oh, quanto sono veramente ammirabili e sacre le vie che segna la Divina Provvidenza per quelli che chiama a glorificare il Suo Nome ed a salvezza del prossimo! Volendo Dio che il nostro Verolino fosse un lume di virtù nello stato secolare e di poi sacerdotale, come per aversi ottimo frutto bisogna preparare ottima semenza, così il 30 novembre del 1816 impalmava in coniugio Mauro Verolino, di Ignazio ed Antonia Prota, di anni 25, con Maria Maddalena Farinella, del fu Filippo e Maria Antonia Martucci, di anni 20, alla presenza del parroco Don Gaetano Ascione (libro VIII, fol 13, dei Matrimoni). Dal qual matrimonio si ebbero quattro figli: il primo, col nome di Ignazio; la seconda, femina, col nome di Antonetta; il terzo, il nostro Raffaele defunto; ed il quarto, col nome di Ferdinando. Ebbene, spuntava il giorno 8 ottobre del 1822 allorché in Barra, strada Sirena, sopra Casa Langella, aveva la sua nascita il nostro Verolino, e nello stesso giorno veniva rigenerato dalle acque battesimali dal sacerdote Don Gennaro Langella e tenuto alla sacra fonte dalla levatrice Agnese Croci, dando al nato bambino tre nomi: Raffaele, Pasquale, Francesco (libro XIV, fol 105, dei Battesimi). 5. Ebbene, la grazia del S. Battesimo fecondando il docile animo del fanciullo Verolino, dai primi anni della sua infanzia diede a far vedere che inclinava allo stato ecclesiastico. Ed invero, o Signori, che cosa vi dice il vedere il fanciullo Verolino, da una piccola loggetta del lastricato, predicare agli altri fanciulli? Anzi, con santa industria, si faceva dare dagli altri fanciulli dei chiodi, li conservava, poi dopo qualche tempo li vendeva, spendendo il denaro per fare un piccolo altarino nella festa del Corpus Domini. Dunque, il vederlo così presto fare queste piccole feste con gli altri ragazzi, il correre sempre alla chiesa, il predicare ai fanciulli: non dicono, tutte queste cose, che un giorno sarebbe stato sacerdote? 6. E lo aveva in certo modo profetizzato, fin dalla nascita, lo stesso suo padre Mauro, dicendo alla sua moglie Maria Maddalena: “Se il primo nostro figlio, Ignazio, lo metteremo al negozio, Raffaele lo faremo sacerdote”. Anzi, per riuscire nella loro buona volontà, lo misero fin da ragazzo alla scuola presso il sacerdote Don Giuseppe de Martino, in S. Giorgio a Cremano, ove il Verolino ivi ancora pernottava. 7. Dopo circa sei anni, il suo padre Mauro lo affidò in Barra al farmacista Don Gaetano Viviani, che stava vicino alla parrocchia, per apprendere pratticamente il modo di somministrare le medicine. E passò altri quattro anni in questo ufficio. 8. In questo tempo, il 31 luglio 1836, ebbe a morire la sua madre. Ma il Verolino vedendo la perdita del negozio di suo padre, per aiutare la famiglia, essendo di circa 20 anni, essendosi fin dal 1837 piantato in Barra la tessitura delle seti, cioè delle ferbe per uso dei cappelli, essendo allora ben lucrosa questa arte: per cui lo mandò presso Don Leonardo Matera, fabbricante di seta in Barra, palazzo detto “Cannone”. 9. Ivi per quattro anni rèsosi abile da potere da se stesso lavorare, riflettendo che l’ultimo suo fratello, Ferdinando, èrasi fatto grandetto, pensò d’impiantare a suo conto la tessitura delle seti, insieme al suo fratello Ferdinando. Quindi, per i diversi lavori di seti, che lavorava esattamente di rasa, seti per ombrelli, ferbe, e per la sua giustizia nel negozio, aveva per questo da lontani paesi, cioè dalla Provincia di Avellino e fin dalla Sicilia, commissioni di lavori, dando quel prezzo che il Verolino domandava.


10. Poi in Barra nel 1842 essendosi formata la Banda Municipale, il nostro Verolino pensò di ascriversi anche esso, e quindi prese a suonare il clarino e passò ben tre anni in questo esercizio. Ma, avendo sofferto alcuni sbocchi di sangue dal petto, per questo strumento che sonava, pensò ritirarsi dalla Banda. 11. Eppure, nel tempo stesso che il Verolino pensava a menare innanzi la famiglia, attendeva anche alle più belle pratiche devote. La mattina, immancabilmente, si recava in parrocchia per ascoltare Messa e farsi la Comunione, ed in questo tempo faceva supplire altro giovane lavoratore sul suo telaio, onde così il suo padre non avesse di che lagnarsi. Oh, con quanta benignità e mansuetudine trattava quelli che sotto la sua direzione faticavano! Oh, come sapeva bene pregarli a fare del bene, col parlare anche lavorando delle vite dei Santi; col fare loro ogni giorno recitare il rosario alla Vergine; col fare il venerdì la via crucis che aveva nella stanza sua! E poi, per risvegliare la devozione a S. Anna, dai lavoranti per ogni canna di seta lavorata ne conservava un soldo, per fare un regalo a S. Anna nella sua festa in luglio. Così ancora, dolcemente riprendeva i loro difetti e li faceva frequentare i SS. Sacramenti. 12. Eppure, quella inclinazione allo stato ecclesiastico che fin da fanciullo inclinava, faceva sì che non tralasciava di proseguire la sua istruzione letteraria, col sacerdote Don Francesco Verolino che faceva da maestro. E non avendo tempo molto da poter studiare, anche lavorando metteva i libri legati al telaio e così imparava la lezione mentre faticava. 13. Ora il suo padre, vedendo la sua troppa occupazione alla fatica ed allo studio, dissegli un giorno: “Decìditi: o di voler fare l’arte di tessitore, ed allora non voler più studiare; o se vuoi studiare, lascia di tèssere”. E così egli, per secondare la sua vocazione, con più fervore attese allo studio presso il menzionato maestro Francesco Verolino, suo parente ancora. 14. Intanto, essendo nel 1844 venuto in Barra la Missione, sotto la direzione del Padre Cutino di Napoli, questi istituì nella Congregazione della SS. Annunziata la Cappella Seròtina, mettendovi per prefetto il suddetto sacerdote Don Francesco Verolino. Ed il nostro giovinetto Verolino addimostrò tutto lo zelo di assiduamento. La sera frequentava la Cappella Seròtina, per cui fu fatto primo catechista. 15. Anzi, essendosi fin dal 21 aprile del 1839 associato fratello alla Congregazione, fu anche stabilito nel 1845 maestro dei novizi. Per cui la domenica, dopo cantato l’Ufficio della Madonna, istruiva i fratelli, faceva loro privati colloqui alla Comunione. 16. Dopo che fu morto il prefetto Don Francesco Verolino, trovandosi prefetto Don Diego Mignani, vedendo la capacità del Verolino, con permesso della Curia lo fece abilitare a poter (fare), la domenica a sera, la spiega del Vangelo ai fratelli e, nei giorni feriali, il poter fare anche l’istruzione pubblicamente in Cappella. E nel venerdì, dopo di aver fatto la meditazione, si faceva pubblicamente la disciplina di ferro. Ed oh quale vasto campo non era pel Verolino la Cappella Seròtina per spiegare tutto il suo zelo per la gloria del Signore! Girava la domenica pel paese con fanciulli e giovanetti, col Crocifisso avanti, per chiamare altri alla Cappella, cantando per la via devote canzoni.


17. E qui fa d’uopo ricordare che, un giorno festivo, essendosi trovato nella Cappella di Spirito nel Casale di S. Giovanni a Teduccio con alcuni della sua Congregazione, nel vedere che ivi si facevano le “Quarantore”, invogliato di sì devota pratica, disse loro: “L’anno venturo, se Dio lo vuole, le faremo ancor noi”. Scrisse a Roma per aver le indulgenze, e così, fin’oggi, nelle quattro domeniche che precedono la Quinquagesima, si fanno dette “Quarantore” al SS. Sacramento. 18. Più, ad imitazione di S. Giorgio a Cremano, volle anche in Barra formare una Congrega di Cappelluti, nel 1849, sotto il titolo di S. Giuseppe. E la prima volta che, nella festa del Corpus Domini, fu inaugurata, volle che tutti i Cappelluti prima entrassero in parrocchia processionalmente per farsi la Comunione generale a tutti essi. 19. Se non che, avendo un cuore misericordioso per i poverelli del paese, pensò tra i componenti della sua Congrega e quelli della Congregazione dei fratelli, di fare una commissione di beneficenza che, raccogliendo delle elemosine, fossero dispensate per i poveri infermi, col dare loro letti, medicine, vesti, pranzo. Anzi, ricevendo per elemosina della paglia per sacconi, egli stesso, il Verolino, fu veduto portarla sulle sue spalle. E lui stesso andava in giro per visitarli, per confortarli ed apprestar loro tutti quei servigi necessari. E così, oh, quanti infelici scampavano dalla stessa morte, furono guariti! 20. Dunque, ben possiamo di lui dire che, nella sua giovinezza, narrò in mezzo al popolo, suo compaesano, le glorie del Signore: Narrabo nomen tuum fratribus meis.


Parte II – Il Verolino nello stato sacerdotale Chiamata allo stato ecclesiastico 21. Se finora il nostro Verolino zelava la gloria del Signore nello stato secolare, Dio lo chiamava nel campo dello stato ecclesiastico. Un giorno, stando a passeggio nel territorio di Magliani, ascolta che la campana, nell’annunziare la morte del guardiano Siciliano del monastero di S. Antonio, suonava più alla lunga. Disse seco stesso il giovane Verolino: “Dunque, anche dopo morte il sacerdote è onorato. Oh, quanto è grande la dignità del sacerdote! Ebbene, correrò dal mio confessore, Don Michelangelo Langella, a lui manifesterò la mia vocazione, e ciò che mi dice l’avrò come voluto da Dio”. Così fece, ed il confessore alla sua proposta gli risponde: “Il Signore ti vuole prete”. Ed il giovane Verolino risponde: “Padre, non ho mezzi; mio padre ha fatto molti fallimenti nel negozio”. Ed il confessore gli risponde: “Non ti scoraggiare, io stesso ti metterò in Seminario, ti darò il sacro patrimonio e così servirai alla Chiesa”. Le opposizioni 22. Ma qui cominciano le opposizioni che si frappongono alla sua vocazione. Essendo allora di 22 anni, il cardinale Sisto Riario-Sforza non volle accettare la sua domanda per ammetterlo in Seminario, perché troppo grande di età. E benché persone ragguardevoli si fossero interposte presso il cardinale, tra le altre il Prìncipe Bisignano, con tutto ciò, neppure fu accolta la sua domanda. 23. Ed in questo tempo, essendo caduto gravemente infermo il suo fratello Ferdinando, non pensò a fare altra istanza presso il cardinale, credendo impossibile, con tante circostanze, farsi sacerdote lasciando in abbandono la famiglia. E benché dopo due altri anni il cardinale, meglio informato della bontà del Verolino, voleva farlo entrare in Seminario, pure egli lo credette impossibile, per non lasciare il suo padre vecchio solo al negozio della tessitura delle seti, essendo benanche morto il suo fratello Ferdinando. 24. Veniva il 1848 scoppiata la rivoluzione, le seti fecero grande ribasso; anzi, senza pagare innanzi, ne introitò molta. Ma nel seguente anno 1849, essendosi tranquillate le cose, le seti rincararono di molto e, senza prevederlo, il Verolino si trovò fatto un grande lucro. 25. Avendo amicizia col P. Andrea, (frate) Minore Osservante di S. Pietro ad Aram, conoscendo la sua virtù, voleva farlo entrare nel suo ordine religioso, aspettandone però l’opportuna occasione. Difatti, eletto Provinciale il suddito P. Andrea nel 1852, immediatamente scrisse al Verolino che la prima cosa che voleva fare come Provinciale si era appunto la sua entrata nel monastero. Acconsentito il Verolino, e conoscendo per certo l’opposizione che l’avrebbero fatto il suo padre, segretamente fece l’esposta alla Curia di Napoli per avere la testimoniale. Avuto l’informio da prendere il canonico Buonocore, e saputo tutto il bene che faceva nella Cappella Seròtina, disse il canonico: “Una sera verrò all’impensata”. Difatti venuto e sedutosi sull’altare, volle sentirne la spiega dell’istruzione del catechista Verolino che faceva ai fratelli. E, rimasto oltremodo contento, disse a lui: “Vieni domani alla Curia”.


26. Il canonico tutto informò il cardinale, e fatto di poi chiamare alla sua presenza il Verolino, dìssegli: “Perché vuoi farti religioso? Non sai che tuo padre assolutamente non vuole? Prendi piuttosto la carriera ecclesiastica”. Il Verolino risponde: “Eminenza, la volontà di Dio si vede per mezzo dei superiori”. “Dunque” soggiunse il cardinale “presenti la domanda e sarà firmata”. 27. Ma vedete che bella previsione: pochi giorni indietro a questo fatto, un suo lavorante, per nome Felice Franco, aveva sognato che il Verolino èrasi fatto prete e, raccontando questo sogno a lui, rispondeva con sorriso: “E’ sogno”. Ma quando poi ritornò dal cardinale, senza nulla manifestare l’accaduto, disse a questo suo lavorante: “Forse si avvererà il tuo sogno. Oh, quanto è buono il Signore con me! Mentre tutti, per lo passato, volevano darmi il patrimonio per farmi prete, non l’ho potuto giammai ottenere. Oggi, che la Provvidenza mi ha dato tanto da potermi costituire il sacro patrimonio, il Signore farà avverare il tuo sogno. E mentre io credeva di gettare la palla per una via, Iddio me la faceva indirizzare per un’altra”. La vestizione e il tirocinio 28. Stando il canonico Buonocore tutto contento per l’ottenuto suo sogno, disse egli stesso al Verolino: “Io stesso verrò in Barra a vestirti”. Ebbene, era la terza domenica di ottobre del 1852, giorno 17°, Festa della Purità di Maria Santissima: dopo le 21 ore, la chiesa parrocchiale già era tutta affollata di gente (ed io, ancora fanciullo di otto anni, stava presso i gradini dell’altare maggiore); venuto il suddetto canonico, dopo un fervoroso discorso analogo alla circostanza, vestiva il giovane Verolino, dell’età allora di trent’anni, delle clericali divise. Ebbene, il sabato prima della domenica della sua vestizione, il Verolino disse al suo padre: “Padre, fin’oggi ho servito a voi, da domani in poi debbo servire alla Chiesa”. E così fu che non volle niente altro sapere delle faccende del suo negozio. 29. Ora, benché per compiere gli studi egli dimorasse in Napoli, pure veniva in Barra il sabato a sera e tutti i giorni che faceva festa alla scuola per fare (…) gli esercizi nella Congregazione e Cappella Seròtina. Passò tutto il triennio in perfetta salute, quindi gradatamente prese gli ordini fino al diaconato. E come che il parroco (Don Giuseppe Sannino) volle che, il lunedì dopo la sua ordinazione, facesse il colloquio alla Comunione generale ai fanciulli in parrocchia, fu questa una causa che s’infermò, dando sbocchi di sangue e, peggiorando sempre più, il medico di Napoli, Zicarelli, e Don Leopoldo Ascione credettero recarsi dal cardinale, per farlo ordinare sul letto sacerdote. Ma il cardinale disse di non voler dare questo esempio, ma che sperava che si fosse rimesso, come così fu. L’ordinazione 30. Ma venuto il 19 dicembre del 1857, fu ordinato da Sisto Riario-Sforza sacerdote; ma dal medico gli fu proibito di cantare Messa; ma fècesi il discorso analogo alla circostanza dal padre maestro Brandi; ed il nostro Verolino, ciò non ostante che non potette cantare Messa, quando fu alla Comunione volle fare un fervoroso colloquio per la Comunione.


Il Verolino nella contrada Oliva (1858-1868) 31. Per alcuni mesi fece da cappellano alla parrocchia, ma chiamato a règgere la chiesetta dell’Oliva dal giudice del Forno Patrino, ivi spiegò tutto lo zelo sacerdotale. Fu che allargò la piccola chiesetta, occupando l’atrio che era fuori. Fece il campanile, con due stanzette da servire pel cappellano. Fece un nuovo quadro della Vergine, organo, sfera d’argento, molti sacri arredi. 32. Dato il 21 gennaio 1859 l’esame di confessore, ed avuto la facoltà di confessare anche le donne, tutto addimostrò il suo zelo per diriggere le coscienze, occupando per questo molte ore della giornata. Che dirovvi poi di ciò che faceva per maggior profitto delle anime, specialmente giovani? 33. Osservate in tutti i giorni festivi cosa faceva. Nelle prime ore del giorno già confessava; nella prima Messa predicava il Vangelo dal pulpito; alla sua Messa, faceva il colloquio alla Comunione e dopo la Messa, inginocchioni, faceva il ringraziamento per circa mezz’ora, col popolo, da mezzo all’altare. Di poi, passava fino a mezzogiorno ad ascoltare le confessioni. Venuto il mezzogiorno, faceva il suo pranzo nella casa campestre del colòno Luigi Esposito, detto volgarmente “La Rossa”, poco distante dalla chiesa. Ed un’ora prima delle ventunora, era già sul pùlpito a spiegare la dottrina, indi il Vangelo altra volta spiegava, e poi la benedizione. 34. Il primo giorno dopo le festività del Natale, Pasqua e Pentecoste, per tenere raccolte le devote donzelle, faceva il ritiro spirituale leggendo la vita dei Santi, anzi stampò una raccolta di orazioni e meditazioni per le persone devote. 35. Grande devozione ebbe per il Cuore di Gesù: nel 1865, fatto dal P. Ranieri zelatore, ne addimostrò tutto lo zelo nell’ascrivere i fedeli all’Apostolato della Preghiera. In aprile 1878, si ascrisse anche alla Guardia d’Onore. Più, il 30 aprile 1859, ebbe da Roma, dalla Congregazione del S. Cuore di Maria Santissima, il diploma di poter aggregare i fedeli al pio sodalizio, coll’acquisto delle indulgenze. Avuto da Roma, altresì, la facoltà di potere ascrivere al Preziosissimo Sangue, molte persone ne ascrisse ancora. Né qui finì il suo zelo. Essendo egli terziario francescano, volle ivi istituire il Terz’ordine, ascrivendo ben numerose donzelle, conducendole per la via della pietà cristiana. 36. Ma sarei troppo lungo se volessi tutto riferire quello zelo ecclesiastico che il nostro Verolino addimostrò, in questo decennio dal 1858 fino al 1868, nella rurale chiesa dell’Oliva. Fondazione del Ritiro 37. Vedendo il sacerdote Verolino la buona volontà di tante devote donzelle, come anche i pericoli che la corruzione del secolo tende alle povere orfanelle in modo speciale, così pensò di fondare un Ritiro di orfanelle in Barra. E tutto confidente nella Divina Provvidenza, nel novembre 1867 avvanzò supplica al cardinale Sisto Riario-Sforza. Ed il cardinale di proprio pugno pienamente approvava il suo disegno. Ed egli, tutto giulivo, prende in fitto alcune stanze nel cortile Fiorinielli al Cajariello ed il 9 maggio 1868 il parroco Diego Mignani, dopo aver benedetto il casamento, inaugurò l’apertura del Ritiro delle Orfane sotto il Nome dell’Immacolato Cuore di Maria Santissima. Quattro giovanette Terziarie francescane furono le prime ad entrare nel Ritiro, e poi le fanciulle orfane in appresso.


38. Ricevuto alcune somme di denaro per l’opera, dopo tre anni, comprato un giardinetto dal notar Domenico Borrelli, ivi pose fondamenta del Ritiro ed in settembre 1871 fu posta la prima pietra della fondazione della chiesa. In agosto 1872 s’incominciò ad abitare nel novello Ritiro. Nel 1875, terminatosi la chiesa sotto la direzione di Raffaele Noviello, venne di persona il cardinale Riario-Sforza a vederla, e poi acconsentì che si benedicesse. E così, il 9 marzo 1875, fu benedetta dal vicario foràneo Don Luigi De Micco, essendone il parroco Mignani infermo. 39. Stabilito l’opera, pensò di scrivere una Regola per essere approvata dalla Curia arcivescovile. Ebbene, benché molti ostacoli si frapposero dal Prèsule per poterla approvare, pure, attesa la mia cooperazione, il 6 febbraio 1880 veniva da monsignor Fruncillo approvata e firmata. 40. Nel periodo di tempo, di 21 anni, mesi 9 e giorni 3, che il sacerdote Verolino fu nella carica di Superiore, niente risparmiò a fatiche per menare innanzi l’opera. 41. Benché fin dal 1885 incominciò ogni anno per alcuni mesi ad infermarsi, pure nella sua infermità faceva quel che poteva per menare innanzi l’opera. Benché infermàtosi l’ultima domenica dell’agosto 1889 che predicò alle monache, disse queste parole: “Amatevi scambievolmente, questa è l’ultima volta che vi prèdico”. Come così si è verato. L’ultima infermità 42. Benché nei precedenti anni, nei mesi invernali, il Verolino venisse molestato da bronchite, pure in novembre 1889 lo colpì più gravemente. Ma nel 7 dicembre, ristabilitosi alquanto, volle celebrare Messa e questa fu l’ultima che disse. Ma dall’8 dicembre, dovette altra volta stare a letto. Ma in gennaio 1890 si aggravò per modo la bronchite e la malattia del cuore, che il 16 detto si confessò e si fece la Comunione per devozione. E di giorno in giorno aggravavasi il male. La santa morte 43. Il martedì 21, sentendosi più aggravato, senza che alcuno gli avesse detto cosa, si vide che alzava la sua destra mano e benediceva. Le monache che erano presenti dissero: “Superiore, che cosa fate?” ed egli rispose: “Vi sto benedicendo nel Cuore di Gesù Cristo”. Il mattino, furono a lui presentate tutte le piccole orfanelle ed egli altresì le benedisse. 44. Ma la notte del martedì, aggravatosi di più, fui chiamato. Era la mezzanotte ed entrando nella stanza lo trovai con un’asma che spasimava. Lo confortai con belle parole, si volle riconciliare per prendersi l’ultima assoluzione, si fece con grande devozione il S. Viatico e l’Estrema Unzione. Ebbene, ne sono stato testimone oculare che per quanto egli soffriva, altrettanto addimostrava una perfetta pazienza, invocando spessissimo il nome della Vergine e di S. Anna. Anzi, nella notte con me recitava le Litanie della Madonna, del SS. Nome di Gesù, i Salmi ed altre devozioni. Continuato sudore, gli prosternavano le forze. Fino a mezz’ora prima di morire, ragionava delle medicine che prendeva.


Ebbene, all’alba del mercoledì 22 gennaio, alle 6 del mattino, si pose in agonia. Dato tutte le indulgenze come direttore del Terz’ordine francescano, l’assoluzione generale. Erano le sette e minuti 25, l’ultima parola fioca che disse: “Non più mi fido”. Il suo volto mi parve come di un angelo, ed io, tra gli affanni del mio cuore, tra le lagrime delle religiose ed orfane, recitava le preci della S. Chiesa per assistere la benedetta anima. Ed al tocco delle sette e mezza, il sacerdote Raffaele Verolino, l’apostolo del paese di Barra, il padre delle orfanelle, se ne volò al Cielo, contando sessantotto anni, tre mesi e giorni quattordici di sua età. I funerali 45. Ebbene, o Signori, che il sacerdote Verolino fu veramente l’apostolo del paese di Barra, addimostrando il suo zelo sacerdotale per il bene delle divote giovanette, per le orfanelle e per tutte le altre classi di persone, la più eloquente e sicura pruova (fu) il vedere il generale dispiacere che si sentì da tutti all’annunzio della sua morte; il vedere l’affollamento della gente venire in questo tempio in cui, tra accesi ceri, esposto era la sua salma, e tutti versavano lagrime ed imploravano con le preci sempiterno riposo alla sua bell’anima. Che più! Il vedere il solenne accompagnamento funebre fatto, a cui presero parte le due Arciconfraternite della SS. Annunziata e del SS. Rosario, del clero, e delle religiose del Ritiro che seguirono la cassa funebre unite alle orfanelle. Più, la Congregazione delle terziarie francescane, che la maggior parte da lui furono aggregate al Terz’ordine, come anche quelle della Pia Unione dell’Immacolato Cuore di Maria SS. e quelle del SS. Nome di Gesù, ascritte nella chiesa del Ritiro. Ed infine, altri ragguardevoli personaggi, antichi suoi amici, che vollero prendere parte al corteo funebre per attestare la loro cordiale gratitudine. La testimonianza di Don Raffaele Guida 46. Eppure, nel terminare questo piccolo serto di funebre elogio, mi rimane a dare una mia cordiale testimonianza pel mio Verolino, cotanto da me amato e stimato. Ascoltatemi... Se, fin dall’anno 1850, allorché io contavo non più che sette anni di mia fanciullesca età, un angelo m’avesse fatto vedere un quadro ove era dipinto tutta la vita del sacerdote Verolino fino al giorno della sua sepoltura; e m’avesse pure allora fatto vedere, delineato su quel quadro, un fanciullo di sette anni, che doveva il Verolino a questo fanciullo instillare nel suo cuore tali dolci sentimenti che doveva in lui risvegliare il desiderio per la carriera ecclesiastica, che il Verolino doveva la sera nella Seròtina Cappella istruirlo nella dottrina cristiana, guidarlo negli anni della sua giovinezza e, fatto sacerdote, doveva essere il coadiutore per la sua chiesa, pel suo ritiro, per le opere da lui fondate; anzi, questo fanciullo un giorno doveva poi riceverne l’ultima sua confessione, comunicarlo, estremarlo, assisterlo, colle proprie mani dopo la morte vestirlo delle sacerdotali vesti e fin’anche benedire la sua salma sulla tomba del sepolcro… Io al certo curioso avrei detto all’angelo: “Angelo del Signore, dimmi, di grazia, chi sarà questo fanciullo che sì da vicino starà ai fianchi del Verolino e fin dopo la tomba lo benedirà?” E l’angelo mi avesse risposto: “Sei tu stesso, che un giorno ne tesserai il serto di fiori del funebre elogio”. Ebbene, o Signori, io vel confesso, che se ciò realmente mi fosse avvenuto all’età di sette anni, non avrei avuto ritegno di dire: “Angelo del Signore, forse tu mi lusinga, tu mi deludi, come ciò è possibile? Questo sarà un sogno?” Ma l’angelo del Signore, sorridendomi, additando colla sua mano il Cielo, mi disse: “Tutto si avvererà, perché così è segnato nel Cielo”. E mi sparve dagli occhi.


Conclusione 47. Ebbene, quale ultimo tributo di gratitudine rimane a me ed a voi a compiere verso dell’estinto sacerdote Verolino, come tributo della più filiale gratitudine, se non l’impetrare alla sua bell’anima refrigerio e sollievo? Ah si, miei Signori, se ancora qualche neo di lui lo fa stare, in quest’ora, ancora fra le pene espiatorie del purgatorio… Deh, in quest’ora, uniamo la nostra prece alla voce dei sacri Levìti che fra l’odoroso profumo dell’incenso intoneranno la flebile nota dell’eterno riposo. Si, preghiamo Iddio onde quel Sangue Divino, che fu testé offerto su questo altare, venisse dall’angelo suo custode ad imporporare la sua bell’anima, onde divenga degna di volare al Cielo. Si, voglia Iddio nella sua misericordia accogliere le vostre preci, lagrime, sacrifici, e quelle delle sue Religiose, e delle Orfanelle, onde la benedetta anima del Superiore Verolino voli al Cielo, ai casti ed eterni amplessi di Dio, che amò e glorificò in terra. Adunque, in quest’ora che il venerando ministro dell’altare versa sulla sua tomba dell’acqua lustrale; mentre i sacri bronzi squillano in quest’ora di lugubre suono; mentre in quest’ora questo devoto Tempio risuona di flebile canto; noi tutti, raccolti ai piedi dell’altare, colle lacrime agli occhi, coll’amarezza del cuore, con l’accento della divina fede, leviamo alto la nostra voce a Dio, dicendo: Requiem aeternam dona ei,Domine,et lux perpetua luceat ei.Requiescat in pace. Amen. FINE Laus Deo et B.M.Virgini Sac. Raffaele Guida

Il 6 ottobre 1898 è stato dissepellito il corpo del Sac. Raffaele Verolino, alla mia presenza, per riporsi nella nuova cappella di Michele Colombrino. Raffaele parroco Guida, Superiore Il giorno 19 ottobre 1898 essendosi andato al Cimitero con tutta la Comunità fu trasportato la cassa contenente il corpo del defunto Superiore e si pose nella nicchia della cappella, cantandosi poi l’Ufficio dei morti e la Messa. Fu posta la lapide che conteneva la presente iscrizione: Qui riposano gli avvanzi mortali del Sacerdote Raffaele Verolino zelantissimo nel suo ministero Istitutore delle Terziarie francescane in Barra che volò agli eterni celesti gaudii nell’età di anni sessantotto il 22 gennaio 1890


Cenno storico del Ritiro Anno 1893 1. Chiamato al laborioso ufficio della carica di Superiore del Ritiro delle religiose orfane terziarie francescane dal nostro Eminentissimo Cardinale Sanfelice nel febbraio 1890, dopo la morte avvenuta del zelante fondatore Reverendo Don Raffaele Verolino, morto in Barra il 22 gennaio dello stesso anno: con tutto piacere del mio animo mi subarcai al laborioso ufficio, onde procurare quel maggiore possibile vantaggio alle povere orfane dell’Immacolato Cuore di Maria SS. e di S. Francesco. Desiderando a tutt’uomo portare a maggiore perfezione l’opera caritativa del Verolino, che fondata avea. Ebbene, al passar degli anni non abbia a perdersi la memoria dei primi fatti di questa religiosa famiglia, cercai compendiare in un piccolo quadro un cenno storico. 2. Lo zelante sacerdote Verolino, avendo di mira di salvare tante giovanette da mezzo ai pericoli del mondo, che la corruzione del nostro secolo tende di sempre più corrompere ogni innocente cuore, così si ebbe la santa ispirazione di fondare un Ritiro per le povere orfanelle in Barra. Benché non s’avesse pronta un’equivalente somma di danaro, proporzionata all’opera da farsi; ciò non ostante, tutto confidente nella divina provvidenza, si accinse all’opera. Per la qual cosa, avvanzò nel Novembre 1867 una domanda al Cardinale Sisto Riario-Sforza per essere autorizzato a quest’opera. Ciò si verifica dall’autografo del Cardinale Sisto Riario-Sforza sulla domanda del Verolino, che si conserva in calce della Regola. 3. Quindi, preso in fitto un quartino nel Cortile Fioriniello al Caiariello, il dì 9 Maggio apriva questa casa di orfane, nell’anno 1868, inaugurandola, previa benedizione fatta dal Parroco Don Diego Mignano, dando per titolo al suo orfanotrofio “Ritiro dell’Immacolato Cuore di Maria”. Quattro devote giovani secolari Terziarie francescane furono le prime che nell’istesso giorno vi entrarono e di poi gradatamente vennero altre fanciulle e ragazze orfane, che tra lo spazio di un anno giunsero a quindici, vivendo colla sola questua e fatica giornaliera. 4. Dopo tre anni, cioè nel 1871, comprato un giardino, dove oggi si rattrova l’attuale Ritiro, fu posta la prima pietra per la fondazione del Ritiro e della Chiesa ancora. Essendosi in parte ultimata la fabbrica del Ritiro, la famiglia religiosa nel 10 agosto 1872 cominciò ad abitarvi, avendo le religiose un piccolo oratorio nella casa per la celebrazione della Santa Messa. Terminatasi la fabbrica della Chiesa nel 1875, e visitata dal Cardinale Sisto Riario-Sforza, fu benedetta nel 9 Marzo dello stesso anno, e vi si cominciò pubblicamente a funzionare. 5. Ultimatesi le camerate del Ritiro, crebbe la comunità di quaranta orfane, ed il Verolino dettò alcuni Regolamenti per la disciplina del Ritiro. Nel periodo di ventun’anni e mesi nove, che egli fu alla direzione del suo Ritiro, non risparmiò fatiche per menare innanzi l’opera, e per soddisfare alla miglior maniera ai debiti contratti per la fabbrica. Per lo zelo che ebbe per accudire alla chiesa colla confessione e predicazione a vantaggio del popolo, fin dal 1885 la sua salute cominciò a risentirne; e quindi ebbe una malattia che, resosi cronica, lo costrinse a non potere più uscire di sua stanza, che avea vicino al Ritiro stesso, nel Cortile Fiorillo, ma ciò non ostante alla miglior maniera dirigeva l’opera. Trovandosi in tali condizioni di salute, per non fare mancare l’esercizio di culto a bene dei fedeli, in Gennaio del 1889 mi fece dalla Curia Arcivescovile di Napoli costituire Rettore della Chiesa. 6. Aggravatosi nella infermità, il 22 Gennaio 1890 spirava l’anima al Signore, ricevendo la corona di gloria, meritata per le fatiche del suo sacro ministero.


7. Circa due anni prima della sua morte avendomi fatto dichiarare, da Monsignor Vicario di Napoli, vice-superiore del Ritiro, dove fui anche confessore per molti anni, dopo la sua morte il Cardinale Sanfelice mi nominava Superiore ed Amministratore del Ritiro, essendone Egli l’erede testamentario. 8. Intrapresa nel nome del Signore la direzione del Ritiro, mi avvidi che molte cose dovevano perfezionarsi, sia nella parte materiale, sia nell’ordinamento generale del Ritiro, poiché il Verolino, attesa la grave infermità, fu impedito al perfezionamento di queste cose. Soddisfatti i debiti a carico del Ritiro, riordinate ed abbellite le camerate, e fatto quanto occorresse per l’interno ed esterno della fabbrica, posi l’impegno a stabilire un ordinato Regolamento per la Comunità. Ora, i pochi articoli di Regolamento dettati dal Verolino erano insufficienti ad ottenere il perfezionamento della Comunità religiosa, avendo l’opera presa un andamento molto differente dalla sua origine. Quindi, credetti di formare un completo Regolamento in cui fosse sanzionato tutto il nuovo andamento da me stabilito, e non venisse a mutarsi per l’avvenire con pregiudizio dell’opera. 9. Con questa occasione di scrivere la presente Regola, ho cercato di sanzionare e dichiarare i diritti, che competono alle nostre Religiose, come famiglia francescana canonicamente formata, motivo per cui quelle facoltà, che il Verolino riceveva dal Molto Reverendo Provinciale dei Minori Riformati (P. Michelangelo da Marigliano) nel 1874, furono anche a me conferite nel 1889 dal Molto Reverendo Provinciale P. Luigi da Casanova. Anzi, oggi, ho procurato ottenere dall’attuale Padre Provinciale Molto Reverendo P. Antonio da Casoria un altro decreto, onde in perpetuo i futuri Superiori del Ritiro si avessero tutte le facoltà che si concedono ai Direttori dell’Ordine Francescano: il quale decreto viene accluso al presente Regolamento. 10. Il presente Regolamento si è uniformato al fine principale dell’istituzione dell’opera, e nel tempo stesso ho cercato di dare un esatto ordine all’andamento del Ritiro, onde fossero tutte le giovani Orfane educate cristianamente, e farle germogliare sante Religiose e vere figlie di S. Francesco, e si cooperassero al bene delle povere fanciulle. Mi auguro che per l’avvenire, mediante l’esatta osservanza della presente Regola, il serafico S. Francesco voglia sempre più fare accrescere la perfezione nelle Religiose e giovani Orfane, e diramarsi la nostra comunità religiosa anche in altre nuove famiglie religiose, e così provvedere nel miglior modo al bene delle Orfane fanciulle abbandonate in mezzo al secolo. Tale regola la mettiamo sotto gli auspici dell’Immacolata Vergine Maria, che è la Madre speciale delle povere fanciulle Orfane. Il 25 dicembre dell’anno 1893, sacerdote Raffaele Guida, Superiore del Ritiro, Dottore in Sacra Teologia.


Dopo questa premessa, si trova la Regola scritta da Don Raffaele Guida, articolata in XXIII Capitoli, che si conclude nel modo seguente: FINE Laus Deo, et Immaculatae Semper Virgini Mariae et Patri S. Nostro Francisco. Nomi delle Religiose e delle Novizie del Ritiro Oggi 31 Dicembre del 1893 Noi qui sottoscritte accettiamo e ci obblighiamo all’osservanza della presente Regola per ottenere la nostra spirituale salvezza. 1. M.a Chiara de Luca 2. M.a Agnesa Busiello 3. M.a Michelina Cannavacciuola 4. M.a Margherita Velotto 5. Catarina Terracciano 6. Matilde Elefante 7. M. Serafina D’Oriano 8. M. Assunta Soria 9. M. Raffaela Grosso 10. M.a Beatrice Aprea 11. Crocifissa Sannino 12. Veronica Napoletana 13. M.a Michela Feola 14. M.a Gabriela Valentino 15. M.a Filomena Busiello 16. M.a Francesca de Luca 17. M.a Carmela Cozzolino 18. M.a Teresa Musella 19. M.a Elisabetta Ferraro 20. M.a Luisa di Toro 21. Vincenzina Duro Novizia 22. Ina Cosenza Novizia 23. Adelina Scuotto Novizia 24. Fiorentina Ferrara Novizia Ed Adelina Caravella. Sac. Raffaele Guida, Superiore. Allegati alla Regola, vi sono gli originali dei Decreti rilasciati dai tre Superiori Provinciali Francescani P. Michelangelo da Marigliano, P. Luigi da Casanova e P. Antonio da Casoria, ai quali accenna il Guida nella sua premessa. Vi è, inoltre, la seguente lettera autografa dello stesso Raffaele Verolino, del novembre 1867.


A S. Em.za Rev.ma Il Cardinale Arcivescovo di Napoli Eminentissimo Prìncipe, Il Sacerdote Confessore utriusque sexos Raffaele Verolino del Casale di Barra con umili suppliche fa noto all’E. S. Rev.ma come egli nutriva da più tempo il desiderio di formare un Istituto Religioso, dove fossero riunite alcune giovanette, che attendessero in modo particolare alla perfezione, a star più unite collo Sposo loro Divino, lontane da’ tumulti del mondo, ed esercitare anche la carità verso de’ poveri. Ora pare, che sia venuto il tempo di mettere in opera il suo disegno; ora specialmente, che si vuole distrutto ogni Ordine religioso; perché vorrebbe ridestare nel cuore di molti la carità, lo zelo della gloria di Dio, lo spirito veramente religioso e il bene delle anime. Quindi vorrebbe raccogliere sette od otto giovanette di provata vita, quali abbiano per iscopo principale attendere alla perfezione del loro spirito non solo, ma accogliere ancora tutte le fanciulle povere del paese, e dar vitto, vestito, istruzione, ed educazione religiosa. Accogliere inoltre eziandio le povere inferme, esercitando verso loro la pazienza e la carità, senza omettere il lavoro delle mani. Ed essendo tali giovanette del 3.o Ordine secolare di S. Francesco d’Assisi, si farebbe il terz’Ordine Claustrale sotto gli auspìci del Cuore Immacolato di Maria. A conoscere pertanto, se questa cosa sia veramente voluta da Dio, e possa promuovere la di Lui gloria, nonché il bene spirituale e temporale della società, l’oratore si prostra a’ piedi dell’E. S. Rev.ma ed aspetta l’oracolo dalla sua bocca come dalla bocca di Dio, e si protesta ch’egli non muoverà una mano, né un piede, né un filo, senza il beneplacito dell’E. S. Rev.ma. Per la qual cosa egli à premessa la preghiera ed à fatto pregare caldamente per molti giorni, onde l’Onnipotente Signore avesse manifestata la sua Volontà per la bocca dell’E. S. Rev.ma. Spera l’oratore di essere esaudito ne’ suoi voti.


Raffaele Verolino apostolo, benefattore, padre Omaggio dell’umile figlia beneficata Suora Maria Giacinta di S. Francesco, Terziaria Francescana del Ritiro Verolino in Barra

Anno 1938-39 1. Una figura, semplice e grande in pari tempo, brillò quale astro luminoso sotto il bel cielo partenopeo, nello scorso secolo. Figura di apostolo, di benefattore, di padre, di amico, di sacerdote, fu quella di Raffaele Verolino che, con tutto lo slancio gentile del suo amore e della sua carità, indefessamente lavorò per la glorificazione di Dio e per il bene delle anime. Nascita, infanzia, giovinezza 2. In Barra, in località detta “Casa Langella”, al Corso Sirena, da Mauro e Maddalena Farinella, l’8 ottobre 1822, Raffaele Verolino vide per la prima volta la luce. I buoni e pii genitori, dopo la nascita del loro fiore, sbocciato dall’amore puro e santo, lo fecero portare in chiesa, perché vi ricevesse le acque lustrali, rigeneratrici di grazie santificanti. 3. Il piccolo Raffaele, fin dalla tenera età, si manifestò buono, pio, gentile, caritatevole. Spesso trastullavasi santamente con i compagni, che stupivano dei suoi giuochi. Ritto su di un terrazzino, fungeva quale oratore, ammaestrando i suoi piccoli uditori nel catechismo cristiano, o si dava un gran da fare a costruire con assicelle di legno un altarino, ornandolo di ceri e di fiori, comprati coi suoi piccoli risparmi. A volte, prostrato presso qualche immagine sacra, invitava gli amici alla preghiera in comune. 4. Fanciullo ancora, Raffaele fu mandato dal padre presso un farmacista, quale fattorino, perché dalla tenera età si piegasse al lavoro. Ivi stette quattro anni, dando prove di diligenza, di sveltezza e puntualità. 5. In seguito, perché imparasse un mestiere, fu mandato in un magazzino di cappelli da sacerdoti, quale apprendista tessitore. Anche qui, diede esempi di compostezza, precisione e abilità. 6. Amava però lo studio delle lettere, e nelle ore libere dalle sue occupazioni era sui libri a studiare. Spesso leggeva anche durante il lavoro, tenendo il libro aperto sul telaio. 7. I disegni di Dio però sono imperscrutabili. La Provvidenza ordiva su quella tela un nuovo disegno. Raffaele Verolino non era nato per la tessitura; i suoi grandi ideali dovevano maturare, e presto. Il padre, vedendolo così proclive allo studio, gli fece lasciare il telaio e lo affidò ad un suo parente maestro, Francesco Verolino, perché si dedicasse agli studi. E’ da immaginarsi con quale slancio d’amore intraprese la nuova via che la Provvidenza gli tracciava. Egli, che agognava ardentemente allo stato ecclesiastico, vide così aprirsi dinanzi a sé nuovi orizzonti, splendenti di luci di verità e profumati dalla santità di Dio.


8. Nell’anno 1844, vennero in Barra i Missionari, sotto la direzione del Padre Cutino da Napoli, colui che istituì la “Cappella seròtina” nella Congregazione della SS. Annunziata, tenendo ivi un corso di santi Spirituali Esercizi, ed essendo il giovane Verolino confratello di detta Congregazione, espletò tutte le sue attività ed il suo zelo per insegnare al popolo i rudimenti della dottrina cristiana, al fine della buona riuscita della Santa Missione. 9. In seguito, fu nominato Maestro dei confratelli novizi. La nuova carica gli diede più fervore di lavorare nel vasto campo dell’apostolato. Nei giorni festivi, dopo la recita dell’Ufficio della Madonna, istruiva i confratelli congregati con facondia ed amore. La sua parola trovava dolce risonanza nel cuore dell’uditorio, tanto da far stupire e commuovere. Molte anime si accostavano ai Santi Sacramenti, dopo le istruzioni del giovane Verolino. 10. Il sacerdote Don Diego Mignano, prefetto della Congregazione, conoscendo bene le doti di mente e di cuore che possedeva il neo-Maestro dei novizi, con il permesso della nostra Curia arcivescovile, lo fece abilitare alla spiegazione del Vangelo nei giorni festivi ed all’istruzione catechistica in quelli feriali. Ed era veramente bello nel vedere il chierico Raffaele insegnare al popolo le verità rivelate da Cristo ai suoi apostoli. Girava poi per il paese reggendo l’effigie del Crocifisso, seguito da fanciulli, cantando mottetti ed inni sacri, invitando i giovani ed altri oziosi a seguirlo. 11. Trovandosi una domenica con altri confratelli presso la Cappella di Spirito in S. Giovanni a Teduccio, alla vista d’una chiesa ornata per la ricorrenza delle circolari “Quarantore”, il suo cuore sensibile rimase conquiso dinanzi al Dio nascosto sotto i Veli Eucaristici. Prostrato, pregò lungamente e fervorosamente. Assistette con profondo raccoglimento alle funzioni e, uscendo dal tempio, disse ai suoi confratelli: “Nel prossimo anno, se il Signore vorrà, le faremo anche noi”. E per suo volere, l’esposizione solenne del SS. Sacramento fu istituita anche in Barra, con le annesse indulgenze. 12. Nel 1849, ad imitazione di ciò che si faceva in S. Giorgio a Cremano, istituì la Congrega dei Cappellisti, sotto il titolo di S. Giuseppe, inaugurandola nella grande solennità del Corpus Domini. La processione di quell’anno fu veramente un trionfo di fede e di amore, che il buon popolo di Barra, mercé la solerte attività di Raffaele Verolino, tributò con entusiasmo a Cristo Eucaristico. 13. Acceso sempre più di carità per i poveri infermi bisognosi, con l’aiuto di persone caritatevoli, fondava un’infermeria. Ed in quest’opera di bene, spesso fu visto portare sulle spalle suppellettili e quanto altro la pubblica carità gli offriva per i suoi infermi. Si recava sovente al loro capezzale, porgendo soccorsi materiali e spirituali. L’ordinazione sacerdotale 14. Il 19 dicembre 1857 fu ordinato sacerdote dall’eminentissimo cardinale Sisto Riario-Sforza, vero apostolo di carità della città di Napoli. Il novello sacerdote sentiva, ora più che mai, l’importanza dei doveri che su di lui gravavano, per l’esplicazione dell’alto, delicato ed importante ministero. Di Raffaele Verolino possiamo ora ripetere le sublimi parole del versetto biblico: Il Signore dal cielo volge lo sguardo sui figli degli uomini, per vedere se ve n’è uno che capisca o che ricerchi Dio (Sal 14, 2; 53, 3).


Il palpito lungamente agognato del suo cuore, dopo molte e svariate peripezie, finalmente si compiva: celebrare i Divini Misteri! Quanta gioia e commozione inondava l’animo gentile del neopresbìtero! Ed egli cantava col salmista, con tutta enfasi: Tu dai luce alla mia lampada, o Signore! (Sal 18, 29) Il Verolino nella contrada Oliva (1858-1868) 15. Il novello sacerdote stette per pochi mesi quale cappellano nella parrocchia del paese, indi fu mandato a reggere una chiesetta di campagna, dedicata a Maria SS. delle Grazie, in località detta “Oliva”, fino allora malcurata e quasi spregevole. In breve Don Raffaele, dopo non pochi sforzi, rese ai fedeli un piccolo tempio, splendente e adorno di arredi, degno della Casa di Dio. 16. Lavorò per circa un decennio, dall’anno 1858 al 1868, con grande attività, instancabilmente. Eccolo sollecito accorrere dove il dovere lo chiamava. Dall’altare al confessionale, dal letto del moribondo al catechismo, fra i fanciulli, dal pèrgamo al cimitero, fu tutto un lavoro costante, delicato, doveroso per il nostro apostolo. 17. Nelle solennità del Natale, della Pasqua e della Pentecoste, teneva a raccolta le giovanette, impartendo ad esse insegnamenti di vita spirituale. 18. Nel 1865, con l’ausilio del Padre Ranieri, zelatore, istituì l’Apostolato della Preghiera, ove si ascrisse un gran numero di fedeli. Nell’aprile del 1878, volle iscriversi quale Guardia d’Onore del S. Cuore. Più tardi, fondava nella sua chiesa la Compagnia del Preziosissimo Sangue. La fondazione del Ritiro e la prima Regola 19. Il nostro apostolo, divenuto in breve il benefattore, il padre, l’amico delle anime, sentiva impellente il bisogno di dare alla gioventù femminile un asilo sicuro di protezione, al fine di liberare le anime dallo spaventevole burrone del peccato. Ascritto al Terz’ordine francescano, sentiva nell’animo il fuoco vivo dell’amore e della carità del Poverello Serafico. Sorriso dalla Provvidenza, dopo l’adesione del cardinale Sisto Riario Sforza, fondava in Barra, in Via Cicarelli, l’Istituto delle Orfane Terziarie Francescane. Ed il buon padre, il 9 maggio 1868, all’atto della benedizione della Casa religiosa, fatta dal parroco Don Diego Mignano alla presenza di autorità e di numeroso pubblico, versò lacrime commosse di paterno amore. Il gran voto del suo cuore si andava compiendo. E le prime sei giovanette: Agnese Busiello, Chiara De Luca, Margherita Velotto, Michelina Cannavacciuolo, Beatrice Aprea ed Assunta Soria, tutte di Barra, che l’Istituto accolse, emanarono profumi d’innocenza e di santità. 20. Don Raffaele Verolino aspirava ora ad un’altra ed importante opera: la chiesa annessa all’Istituto. Non aveva mezzi, possedeva soltanto la fiducia nella Provvidenza. Già aveva messo a disposizione il suo modesto patrimonio, finanche le fibbie delle scarpe erano state vendute. La Provvidenza doveva sorridergli, come sempre. Con l’aiuto dei suoi cooperatori, Onofrio Borrelli, Rocco Fitto, Donato Capone, Raffaele Noviello, poté vedere, dopo non poche vicissitudini e difficoltà, l’erezione della chiesa secondo i suoi desideri.


Nell’anno 1875, il cardinale Riario Sforza si recava personalmente a Barra e, fra l’esultanza del fondatore, delle religiose e del popolo, consacrava il nuovo tempio, inaugurando ancora il Ritiro delle Orfane Terziarie Francescane. 21. Scrisse in seguito una Regola, approvata dalla Curia arcivescovile di Napoli il 9 febbraio 1880, e firmata dal Vicario generale, monsignor Carbonelli. 22. Intanto, per Raffaele Verolino gravavano nuovi doveri, per essere a capo di una famiglia religiosa. Ma egli, con la sua sagacia, con intelligenza ed amore, seppe rispondere in pieno ai suoi doveri di padre provvido e di custode vigile. L’ultima prèdica nella chiesetta dell’Oliva 23. Dimostrò anche un certo spirito profetico. Recàtosi un giorno alla chiesetta dell’Oliva e visto che era disertata dai fedeli, volle tenervi una solenne funzione religiosa. Salito al pèrgamo, parlò con tanto calore, incitando i fedeli a frequentare la Chiesa ed i Sacramenti. Man mano che parlava, accendendosi sempre più, la chiesa lentamente si sfollava, finché non rimase solo l’oratore che, punto offeso, disse: “Verrà un giorno che le nuvole non pioveranno qui”. Il nostro Don Raffaele voleva alludere alla pioggia mistica della Parola di Dio, che deve irrorare le anime aride degli uomini. Infatti, la profezia si avverava: la chiesa dell’Oliva non ha sentito più la parola d’un apostolo. Durante il colera del 1884. Due prodìgi. 24. Nel 1884, scoppiata la terribile epidemia colerica, Raffaele Verolino si adoperò con tutto l’entusiasmo alle cure dei poveri colpiti. Ed il suo cuore non poteva restare insensibile dinanzi a certi spettacoli di desolazione e di morte. Fu visto accorrere da un tugurio all’altro per porgere gli aiuti necessari. 25. Dio, che dall’alto mirava l’opera feconda del suo servo fedele, lo premiò concedendogli il dono dei miracoli. Mediante le sue preghiere, guariva dal morbo crudele la giovane Luisa Esposito, e più tardi salvava anche, da sicura morte, una certa Gelsomina Ascione, per essere stata colpita da tumore maligno facciale. “Anch’io, umile figlia del padre Verolino…” 26. Chi può dire la grandezza e la carità del nostro padre fondatore? Quante anime non ha egli salvate, protette, aiutate, durante il suo fecondo apostolato? Fra un’interminabile schiera di beneficati, che continuamente rivolgono a Raffaele Verolino l’espressione viva, sentita, del loro cuore riconoscente, anch’io, umile figlia del padre Verolino, con animo grato e commosso, esprimo col cuore, più che con la lingua, i palpiti di gratitudine e di riconoscenza per avermi accolta nelle sue braccia amorose e paterne, fin dagli albori della mia vita. Non contavo che trenta mesi, allorché, rimasta orfana, fui affidata ai voleri della Provvidenza. Il mio piccolo ed innocente cuore, nei suoi palpiti, pareva che dicesse come il salmista: Vòlgiti a me ed abbi pietà, perché sono sola e povera (Sal 25, 16) E tu, dolce padre, apostolo e benefattore, tendesti le braccia e con soave sorriso mi accogliesti, prodigandomi le più amorevoli cure.


Come ti ho presente quando, all’età di sette anni, ammalai! Pregasti per la mia guarigione, il tuo cuore paterno palpitò di ansia nei giorni in cui il male infierì, facendo temere della mia salute. I tuoi voti furono esauditi e tua figlia ti fu ridonata. Ancora fanciulla, mi profetizzasti che sarei divenuta, a sedici anni, religiosa di S. Francesco e sotto la protezione del Santo mi ponesti. Più tardi, anche quest’altra profezia si compiva. L’ultima infermità 27. La vita del nostro padre Raffaele Verolino fu tutta intensa di opere di bene e di virtù. Sebbene malfermo, dopo una terribile bronchite dalla quale era stato colpito nel 1885 e che aveva minato le sue forze, pure continuava la sua opera attiva, a bene dell’Istituto e delle anime che a lui si appressavano. Nonostante le proibizioni dei medici, Dottor Zicarelli da Napoli ed Ascione di Barra, pure continuò nelle sue attività, dicendo che l’apostolato, a cui era stato chiamato, non gli permetteva riposo. 28. Quattro anni dopo, nel novembre 1889, un nuovo attacco di bronchite gli si riacutizzava, facendo temere prossima la sua fine. Riméssosi alquanto, volle celebrare la Santa Messa il mattino del 7 dicembre successivo, vigilia dell’Immacolata. Ma per un’improvvisa recrudescenza del male fu costretto porsi a letto lo stesso giorno, senza potersi più muovere. Il 16 gennaio 1890, chiese ed ottenne il Santo Viatico, che ricevette con profonda pietà e raccoglimento. La santa morte 29. Il 21 successivo, sentendo la morte vicina, fece venire presso di sé la comunità religiosa, che volle ancora una volta benedire, così fece anche per le piccole orfanelle. Nelle ore della notte, ricevette gli ultimi conforti religiosi e l’assoluzione generale quale figlio di S. Francesco. All’alba del 22, l’anima bella di Raffaele Verolino, sfiorata dall’afflato di Dio, “quale colomba dal disìo chiamata”, spiccò l’eterno volo per il cielo, a cantare l’inno dell’immortalità e dell’amore. E’ scritto nel Libri Santi: E’ preziosa, al cospetto del Signore, la morte dei giusti (Sal 116, 15) Ma il mondo piange allorché vede scomparire simili figure di apostoli e di benefattori. Così fu anche del nostro padre fondatore. Presso il suo povero giaciglio, nell’ora del suo trànsito, i nostri occhi si inumidirono, con quelli del suo confessore Don Raffaele Guida, mentre il cuore era invaso da profondo cordoglio. Sulle labbra del Verolino, invece, si affiorava un soave sorriso, forse perché andava a riceversi il grande guiderdone, frutto del suo lungo apostolato. I funerali 30. Spàrsasi la nuova della sua dipartita, fu un accorrere di beneficati, di ammiratori ed amici d’ogni condizione, per esternare al nostro fondatore imperitura riconoscenza.


Conclusione 31. Ed oggi, dopo circa cinquant’anni della sua morte, un duplice voto ha formato il palpito irrefrenabile di noi figlie, nonché quello di un popolo, anelanti tutti di avere il corpo del nostro padre Raffaele Verolino, dal cimitero, dalla cappella Colombrino ove trovasi, nella chiesa da lui fondata, in mezzo a noi, nonché quello di vedergli brillare sul capo l’aureola fulgiva dei beati.


Raffaele Verolino, ieri ed oggi di Angelo Renzi

Anno 2005 Una breve visita 1. Entrando oggi nella chiesetta delle suore “del Verolino” che si trova in Via Pasquale Cicarelli, a Barra, si può vedere una piccola lapide, posta sulla parete di destra, che reca la scritta seguente: ECCLESIA HAEC CORDI IMMACULATAE VIRGINIS MARIAE DICATA CONDITA EST A RAFAELE VEROLINO SACERDOTE HUIUS PAGI BARRAE PRO PUELLIS PARENTIBUS ORBATIS ANNO M DCCC LXX V

QUESTA CHIESA, DEDICATA AL CUORE DELL’IMMACOLATA VERGINE MARIA, E’ FONDATA DA RAFFAELE VEROLINO, SACERDOTE DI QUESTO PAESE DI BARRA, PER I FANCIULLI RIMASTI PRIVI DEI GENITORI ANNO 1875

Poco più avanti, lungo la stessa parete, si vede la tomba del fondatore, con la dicitura: QUI RIPOSANO GLI AVANZI MORTALI DEL SACERDOTE RAFFAELE VEROLINO, ZELANTISSIMO NEL SUO MINISTERO, FONDATORE DELL’ORFANOTROFIO VEROLINO IN BARRA, CHE VOLO’ AGLI ETERNI CELESTI GAUDII, NELL’ETA’ DI ANNI 68, IL 22 - 1 - 1890. 26 - 6 - 1957 2. La dedicazione della chiesa al “Cuore dell’Immacolata Vergine Maria” è espressa anche dalla bella statua che si vede al di sopra dell’altare centrale e che cattura subito lo sguardo. La statua ricalca l’immagine della Madonna che si trova sul portale della “Santa casa per l’infanzia abbandonata” annessa alla chiesa della “SS. Annunziata” in Napoli, e raffigura la Vergine che accoglie sotto il suo mantello i fanciulli (nell’immagine di Barra, le fanciulle) “orbàti dei genitori”: rimasti senza casa e senza famiglia in questo mondo, essi trovano casa e famiglia nella comunità cristiana, nella quale Maria è la Madre premurosa. 3. Le due scritte sopra riportate esprimono, in estrema sintesi, il senso della vita e dell’opera di Don Raffaele Verolino, una delle personalità più significative del clero Barrese nell’Ottocento, che si dedicò con tutto se stesso, nel periodo a cavallo fra l’antico Regno Borbònico delle Due Sicilie ed il nuovo Regno Sabàudo d’Italia, alla elevazione materiale e spirituale della parte più povera della popolazione di Barra. 4. In effetti, anche la parrocchia di Barra è dedicata alla “SS.Annunziata” (“Ave gratia plena”, AGP) ma non vi era, nell’Ottocento, alcuna istituzione che si proponesse di accogliere ed educare gli orfani, a somiglianza della “Santa casa” napoletana. Il Verolino pensò di colmare questa lacuna, fondando così il primo istituto religioso interamente Barrese, nonché secondo istituto religioso femminile in Barra, dopo le “monache francesi” di S. Giovanna Antida Thouret (1765-1826), giunte al tempo del Re Gioacchino Murat (1808-1815).


Parte I - Il contesto storico nel quale operò il Verolino La restaurazione Borbonica 1. Nel 1822, anno in cui nacque il Verolino, l’Italia meridionale continentale e la Sicilia erano da poco ritornate in possesso della dinastia Borbonica, iniziata con il grande Carlo (1716-1778), Re di Napoli e Sicilia dal 1734 al 1759, e proseguita con il figlio Ferdinando (1751-1825), asceso al trono nel 1759. 2. Agli sconvolgimenti provocati in tutta Europa prima dalla Rivoluzione francese e poi da Napoleone Bonaparte, avevano corrisposto, qui da noi, prima la breve e sventurata esperienza della Repubblica napoletana (dal gennaio al giugno del 1799) e poi il “Decennio francese” (1806-1815), nel quale Napoleone Bonaparte designò, a governare il Regno di Napoli, suo fratello Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e successivamente Gioacchino Murat (1808-1815), marito di sua sorella Carolina. 3. Sconfitto però Napoleone dalle potenze europee coalizzate, il Congresso di Vienna (1814-15) restituì, a ciascuno degli antichi sovrani “legittimi”, il proprio Regno. Così, anche Ferdinando di Borbone riebbe il suo, che dal dicembre del 1816 volle ufficialmente denominare “Regno delle Due Sicilie”. 4. La Barra contava, nel 1818, secondo il censimento contenuto negli Atti di Santa Visita del card. Luigi Ruffo-Scilla, circa 5.800 abitanti. Considerando anche gli anni successivi, si ha il quadro seguente: Anno Abitanti 1818 5.800 1838 7.000 1850 7.200 1877 9.200 1900 10.000 5. La popolazione Barrese era costituita in gran parte da “parulàni” cioè da antiche e ben radicate famiglie contadine, che coltivavano, con fatica ma non senza qualche soddisfazione, i fertili terreni agricoli delle “Palùdi” (= la valle del fiume Sebéto), producendo soprattutto frutta ed ortaggi della migliore qualità, che venivano poi venduti direttamente nel paese di Barra oppure portati, con le apposite “carrettèlle”, ai posti di vendita all’aperto nella vicina grande città. Vi erano poi le minoranze dei vari “mestieri”, degli artigiani, dei piccoli negozianti, e le ancor più piccole minoranze dei professionisti di paese (notaio, medico, farmacista, etc.) e dei proprietari terrieri borghesi. Finita la grande stagione Settecentesca delle “ville di delizia”, rimanevano tuttavia presenti anche alcune famiglie nobili (i Bisignano, gli Spinelli, etc.), che risiedevano stabilmente o periodicamente sul territorio. Le novità del Decennio francese (1806-1815) 6. Come ovunque in Europa, anche in Napoli il “Decennio francese” (1806-1815) aveva portato con sé numerose novità. 7. Anche da noi venne introdotto il nuovo Codice di diritto civile (il cosiddetto “Codice napoleonico”) che sanciva, dal punto di vista giuridico, le principali conquiste della Rivoluzione francese, abolendo del tutto le vecchie, intricate e molteplici normative feudali.


Il Codice napoleonico, in sostanza, faceva della proprietà privata “il cardine della nuova organizzazione economica e sociale” (Lepre). Si compì, cioè, la codifica del potere economico e sociale raggiunto dalla borghesia, anche se mancava ancora ad essa la piena partecipazione politica, impedita dall’assolutismo monarchico: di qui il fatto che le successive rivolte (quella del 1820-21 e quella del 1848) ebbero come principale richiesta la concessione, da parte del Re, di una “Costituzione” che, in pratica, doveva appunto garantire tale partecipazione. 8. La terra divenne quindi una semplice “merce”, soggetta alla libera compra-vendita. Con l’abolizione della feudalità, l’espropriazione e la vendita delle terre ecclesiastiche, e la privatizzazione di quelle demaniali, la nuova classe sociale in ascesa, la borghesia, si appropriò della maggior parte dei terreni coltivabili, a danno dell’antica aristocrazia e della Chiesa, ma anche a danno dei contadini poveri. 9. Vennero abolite le antiche milizie feudali (cioè gli uomini armati al servizio del “signore”) ed istituito un vero e proprio esercito nazionale; ciò richiese, però, l’introduzione della leva obbligatoria per tutti i giovani, fino a quel momento inesistente. 10. Nel 1809, venne introdotta l’anagrafe civile; vale a dire (e si trattava di una novità assoluta, che modificava notevolmente il costume) che le nascite, i matrimoni e le morti furono registrati non più solo dalla Chiesa, nei registri parrocchiali, ma anche dallo Stato. Ancor più, il matrimonio civile venne separato da quello religioso e fu consentito, dalla legge civile, il divorzio. 11. Venne rifatto completamente e, in alcuni casi, creato ex-novo il catasto, allo scopo evidente di sancire in modo definitivo i nuovi rapporti di proprietà. Corrispondentemente, cessò il vecchio sistema delle imposte date in appalto ai privati, sostituito da un sistema di tassazione unico, gestito dallo Stato e basato principalmente sulla cosiddetta “fondiaria”, ossia l’imposta sulla proprietà della terra. Si introdussero, però, anche nuove forme di tassazione, come la cosiddetta “personale” (che gravava su tutti i capi-famiglia) e la cosiddetta “patente”, che tutti gli artigiani dovevano pagare per poter esercitare la loro attività. 12. Tuttavia, la novità forse più immediatamente risentita dal popolo fu l’abolizione di quella che si potrebbe chiamare la “democrazia di base” del periodo feudale. L’amministrazione locale, infatti, “per le costituzioni di Federico II di Svevia, perciò sin da tempi antichissimi, era affidata ad un Sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità e gli infami per condanna o per mestiere. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito” (Colletta). Al posto di questo sistema, forse primitivo ma autenticamente popolare, i Francesi introdussero il cosiddetto “Decurionato”, ossia una amministrazione locale formata da 10 persone (ma si poteva arrivare anche a 30, secondo il numero degli abitanti). Il Decurionato fissava i bisogni, le entrate e le spese; sceglieva gli impiegati comunali, durabili un anno, e li giudicava al termine del mandato. I “decurioni”, però, non erano eletti dal popolo bensì estratti a sorte fra i soli possidenti (di età superiore ai 21 anni), rinnovandone ogni anno la quarta parte; ed erano essi a nominare il Sindaco e i due Eletti. In tal modo, evidentemente, la classe dei possidenti borghesi si appropriava in esclusiva delle amministrazioni locali.


13. Al suo ritorno sul trono, nel 1815, Ferdinando di Borbone lasciò sostanzialmente inalterate gran parte delle principali novità introdotte dai Francesi, limitandosi a cambiarne il nome ed a correggere solo quelli che gli sembrarono insopportabili “eccessi”. Così, ad esempio, dal Codice civile (che rimase quello napoleonico, anche se ri-battezzato “ferdinandeo”) fu cancellato il divorzio. In particolare, fu stipulato con la Chiesa un nuovo Concordato (nel 1818) che ripristinava la religione cattolica come unica religione dello Stato e la censura ecclesiastica su tutti i libri e giornali pubblicati. Barra nel Decennio francese 14. Anche a Barra, nel Decennio 1806-1815, furono dunque introdotte tutte le novità sopra descritte. In particolare, venne istituito il “Decurionato” ed inoltre i compiti dell’amministrazione locale si accrebbero notevolmente, con l’istituzione, fra l’altro, dell’anagrafe civile. Divenne necessaria, pertanto, una vera e propria Sede municipale, che fu collocata nel palazzetto designato attualmente Corso Sirena n° 290. Sopra l’arco d’ingresso di esso, venne posta la lapide (che tuttora si vede) raffigurante l’antico stemma del Casale, la Sirena bicàuda con il motto UNIVERSITAS, sul modello delle due lapidi apposte, sul finire del Seicento, ai lati del battistero nella chiesa parrocchiale “Ave gratia plena”. 15. Furono soppressi i due storici conventi (quello francescano e quello domenicano) e sottoposte a controlli e limitazioni tutte le attività ecclesiastiche. Per contro, furono proprio i Francesi ad introdurre in Barra, per la prima volta, un Ordine religioso femminile. Si chiamavano “Suore della Carità” ma il popolo le disse subito “monache francesi”: perché francese era la loro fondatrice, ma anche perché protette dai Francesi, e da Gioacchino Murat in particolare, che diede loro, come sede principale in Napoli, l’antico convento di S. Maria Regina Coeli, ove tuttora è custodito il corpo della loro fondatrice, S. Giovanna Antida Thouret (17651826). In Barra, alle “monache francesi” venne dato il palazzo con annesso giardino (già visibile nella mappa del Duca di Noja) che ha il suo ingresso proprio laddove la attuale Via G. B. Vela confluisce nel Corso Sirena, di fronte alle Ville Spinelli e De Cristofaro; in quella sede, le Suore sono rimaste fino a poco dopo la metà del Novecento, quando lasciarono Barra per S. Giorgio a Cremano. 16. Di evidente ispirazione francese, anche se emanata ufficialmente da Ferdinando di Borbone nel 1817, fu anche la legge che modificava il sistema di sepoltura dei defunti, incidendo notevolmente nel costume. Fino ad allora, i morti venivano seppelliti nelle chiese: sotto il pavimento, il popolo semplice; nelle cappelle laterali (“di famiglia”), i nobili e le persone più rappresentative della comunità. Invece, “in quello stesso anno del 1817, venne fuori una legge, la quale ingiungeva che i cadaveri non si seppellissero più dentro il chiuso dell’abitato; e che perciò i Comuni si affrettassero tutti a farsi ciascuno il proprio Campo Santo nell’aperto della campagna” (Palomba). Il Comune di Barra provvide al suo cimitero grazie al terreno messo a disposizione dalla famiglia Pironti, che possedeva una villa e terreni al margine del Comune, subito dopo quelli dei Mastellone. Barra nel 1822 17. Questa era dunque, a grandi linee, la situazione sulla quale si aprirono per la prima volta alla luce gli occhi di Raffaele Verolino, l’8 ottobre 1822.


Quell’anno rimase in verità memorabile per la popolazione Barrese, soprattutto per due eventi che lo caratterizzarono. 18. Il primo evento fu che, il 9 luglio 1822, essendo papa Pio VII (1800-1823), arcivescovo di Napoli il card. Luigi Ruffo-Scilla (1802-1832) e parroco di Barra Don Gaetano Ascione (18061825), venne emessa la apposita Bolla pontificia con la quale S. Anna veniva proclamata ufficialmente quale “patrona” di tutto il Comune della Barra. Quella intensa e diffusa devozione verso la madre di Maria, che aveva caratterizzato il Casale per tutto il Seicento ed il Settecento, riceveva finalmente, nell’universale giubilo della popolazione in occasione della festa di S. Anna di quell’anno, anche un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa. 19. “Poco dopo, avemmo il giubileo dell’anno santo. Questo, che secondo la moderna disciplina della Chiesa ricade ogni 25 anni e non si era potuto fare nel 1800 a cagione delle rivolture che allora commovevano il mondo, aspettavasi da tutti con ansia grande; ed arrivato che fu, produsse dovunque copiosissimo frutto.... Le chiese che si dovettero visitare furono: la parrocchia di S. Giorgio, la parrocchia della Barra, S. Domenico e S. Antonio parimenti della Barra...” (Palomba). In occasione del giubileo del 1825, furono dunque stabilite, come meta dei pellegrinaggi di tutta la zona ad oriente della città, proprio le chiese di Barra: la parrocchiale, con la venerata statua di S. Anna, da poco proclamata ufficialmente patrona del Comune, e le chiese dei Francescani e dei Domenicani, che si volle evidentemente “risarcire” dopo la soppressione patita nel Decennio francese. 20. Raffaele Verolino non aveva ancora compiuto un mese di vita, quando iniziò (e fu questo il secondo evento memorabile dell’anno) quella che è ritenuta dagli studiosi la più forte eruzione del Vesuvio di tutto il secolo: durò dal 21 ottobre fino all’11 novembre del 1822 e, anche se non procurò gravi danni materiali a Barra, segnò con grande spavento quell’anno negli animi, almeno fino a quando una nuova, e purtroppo più grande, sciagura non sopravvenne a cancellare momentaneamente il ricordo di tutte le altre. Il colera del 1836-37 21. La malattia emblematica del Seicento era stata la peste; quella dell’Ottocento fu il cosiddetto “morbo indiano” (come allora si chiamava il colera). 22. Raffaele Verolino aveva circa 15 anni, ed era stato affidato da suo padre Mauro al farmacista di Barra, Don Gaetano Viviani, come giovane lavorante e “per apprendere pratticamente il modo di somministrare le medicine”, quando si ebbe la prima ondata della malattia, quella del 1836-37, che fu la più terribile. Il suo bilancio, in nude cifre, fu il seguente: 1° periodo (2 ottobre 1836 - 8 marzo 1837): più di 10.000 colpiti; più della metà, uccisi. 2° periodo (13 aprile 1837 - ottobre 1837): 21.784 colpiti; 13.810 uccisi. Questi dati riguardano l’intera città di Napoli ed il suo circondario. 23. Limitatamente a Barra, i morti (quelli ufficialmente annotati nei registri parrocchiali) furono in numero di 340 nell’anno 1837, su una popolazione che ammontava a circa 7.000 persone. Si consideri, come termine di confronto, che i morti nell’anno precedente (1836) erano stati 119 e 108 nel seguente (1838). Nell’anno 1837, dunque, il colera provocò una mortalità che era circa il triplo della mortalità media del Comune.


24. La malattia si presentava con sintomi particolarmente spaventevoli ed era, fino a quel momento, del tutto sconosciuta da noi; non vi erano quindi né cure specifiche già sperimentate, né misure certe di prevenzione. “Nei primi giorni, si ebbero più morti di paura o per mancanza di assistenza che per causa diretta del colera. Tra gli altri spaventi di cui erano assaliti i colerici, il più terribile era quello di vedersi presentare al capezzale un uomo avvolto dal capo ai piedi in una veste di pece nera, avendo soltanto due aperture a cerchio innanzi agli occhi per vedere, ed annunziarsi al sofferente come il medico o l’infermiere. Figuratevi se quel tremendo fantasma poteva far bene all’affranto e spaventato colerico!” (Buttà). 25. Nonostante i limiti propri dell’epoca, va però detto che le misure approntate, anche grazie all’impegno del giovane Re Ferdinando II (salito al trono solo sette anni prima, nel 1830), furono tempestive ed organiche. E’ da notare che, nonostante fossero stati predisposti ospedali e luoghi di cura appòsiti, quasi nessuna famiglia volle mandarci i propri malati, preferendo curarli in casa. Venne perciò istituito un “servizio domiciliare”: i medici si recavano presso gli malati, di giorno e di notte, ed i farmacisti fornivano gratuitamente le medicine prescritte; entrambi, venivano poi rimborsati dalla Cassa pubblica. 26. A Barra, la famiglia Mastellone aveva messo a disposizione una parte della sua villa per adibirla ad ospedale (e “Don Ignazio Mastellone, figlio di Don Domenico e di Isabella Carpennino, abitante nella propria masseria a Santa Rosa, di anni 75”, risultò poi fra i morti nell’epidemia) anche se, pure da noi, la maggior parte delle famiglie preferì l’assistenza domiciliare, ed accudì i propri malati nelle povere case dei cortili del Corso Sirena o delle campagne. 27. Il medico Ascione ed il farmacista Viviani (con il suo “giovane aiutante” Verolino…) fecero quello che potevano, ed anche il clero fu, in generale, ammirevole nell’assistenza spirituale agli ammalati. Si distinse in particolare Don Paolo Riccardi (“prete della Barra, uomo insigne, pieno di carità e di zelo per tutti”) il quale era, in quel tempo, responsabile della chiesetta “del Pittore” in S. Giorgio a Cremano, e “appunto perché non era di S. Giorgio ma della Barra, per quantunque non avesse mai lasciato in abbandono alcuno della contrada posta intorno alla sua chiesetta il quale fosse stato tocco dal colera, pure il tempo residuo, di che poteva disporre, lo spendeva come era ragionevole che facesse, in pro dei suoi Barresi parimenti tocchi da quella malattia” (Palomba) . 28. La malattia accomunò la condizione delle classi e contadini, borghesi ed aristocratici furono, in proporzione al numero, egualmente colpiti. Quasi come un simbolo dell’unità del Comune nella sventura, anche Don Alessandro Russo, che era parroco di Barra dal 1825, morì nell’epidemia, l’8 maggio 1837. Sorte eguale ebbero poi anche le salme dei defunti, che furono sepolte tutte insieme nel “camposanto dei colerosi”, appositamente istituito, in Cupa Santaniello, dai 5 Comuni di Barra, S. Giorgio a Cremano, S. Giovanni a Teduccio, Portici e Resina, che vi interrarono ciascuno i propri defunti. Il terreno che fu adoperato a questo uso era di un certo Andrea Ascione, figlio di Gennaro, e costò in tutto 698 ducati. Dopo il 1837: la rinascita dell’arte della seta e le prime attività industriali 29. Il 1837 non fu, però, solo l’anno del colera. Per Barra, esso fu anche l’anno che fece da spartiacque per un altro e ben diverso fenomeno e cioè la rinascita dell’arte della seta. Si rileggano, in propòsito, i nn. 8-9 della biografia del Verolino scritta da Don Raffaele Guida, che costituiscono anche un prezioso scorcio descrittivo della vita di Barra in quegli anni.


30. Le annotazioni di Don Raffaele Guida sull’arte della seta in Barra sono confortate dalla descrizione fatta dall’Alvino nel 1845: “Appresso S. Giovanni a Teduccio, giace il Casale della Barra, anch’esso delizioso per le campagne e di miglior aria che non è quello... Era esso compreso nel territorio appellato un tempo Tresano o Trasano... In questa contrada è la villa Bisignano, notevole per le molte e rare piante che ivi conservansi, e che una volta formavano la delizia degli stessi botanici... il suo tenimento è ricco di gelsi, e principal sua industria è quella della seta”. E dal Chiarini, nel 1856: “Da maggio a settembre, i contadini di tali luoghi non li vedi altrimenti applicati che tutti all’industria della seta, a cui pigliano grandissima parte le donne”. 31. Purtroppo, osserva lapidariamente il Palomba, “la malattia che incolse ai bachi da seta, e le porte che furono aperte alle produzioni estere, mutarono la faccia di queste cose”. 32. Un altro mutamento epocale si andava però preparando. Poco dopo il 1830, nacquero le prime “Società per azioni” del Mezzogiorno e cominciò a sorgere una vera e propria industria, soprattutto nelle aree intorno alla città. Nella zona orientale, in particolare, sorsero gli opifici metalmeccanici “Macry & Henry”, “Guppy” ed altri minori. Del 1839 è l’inaugurazione della prima linea ferroviaria d’Italia, la celebre tratta Napoli-Portici. “Tre cose belle furono in quell’anno (1839): la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te voglio bene assaje” (Settembrini). Del 1840 è l’opificio di Pietrarsa. Anche presso di noi, cominciarono quindi ad esservi dei piccoli nuclei di classe operaia, a fianco dei contadini e degli artigiani tradizionali. Il famoso 1848 33. Il famoso “quarantotto”, che fu “l’anno delle rivoluzioni” in tutta Europa, non ebbe che ripercussioni indirette e molto tenui nei Comuni intorno alla città e quindi anche a Barra. A Napoli, non più di 2000 “liberali”, senza significativi collegamenti né con il vasto popolo della città né con i contadini delle provincie, alzarono barricate nelle vie principali (a Toledo, a Monteoliveto, a S.Brigida, al Museo... ), chiedendo maggiori poteri ad un Parlamento per il quale avevano diritto di voto i soli proprietari terrieri, e nemmeno tutti, ma solo i maggiori fra essi! 34. E’ dunque ben comprensibile che, ai contadini dei Casali, alla plebe, ai piccoli artigiani ed ancor più ai primi operai, quel tumulto della città nel 1848 apparisse, tutto sommato, solo come un conflitto “fra signori”, che poco li riguardava e che molti neppure capivano. “Ed io non dico già che allora niuno, qui da noi, si diede aria come di amatore di novità: ma que’ pochi che lo fecero, lo facevano con tale accorgimento che quasi non vi ebbe chi se ne fosse avveduto...” (Palomba). Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria (1854) 35. Sempre intorno alla metà del secolo, vi fu invece una forte ripresa della religiosità popolare, in corrispondenza alla proclamazione ufficiale del dogma della Immacolata Concezione di Maria ed alle successive apparizioni di Lourdes. 36. Il papa Pio IX (1846-1878), con la Bolla intitolata “Ineffabilis Deus” e datata 8 dicembre 1854, sancì come “verità di fede cattolica” che: “La vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente ed in vista dei meriti di Gesù Cristo salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale”.


Con questa definizione dogmatica, egli poneva termine ad un secolare dibattito sull’argomento, svoltosi all’interno della Chiesa cattolica, fra “macolisti” (soprattutto i Domenicani) ed “immacolisti” (soprattutto i Francescani), dando sostanzialmente ragione a questi ultimi. 37. Solo quattro anni dopo (a partire dall’11 febbraio 1858), si verificarono le 18 apparizioni consecutive della Vergine alla quattordicenne Bernadette Soubirous (1844-1879), nei pressi della cittadina francese di Lourdes e, in una di queste apparizioni (precisamente, in quella del 25 marzo, festa dell’Annunciazione) Maria, quasi a conferma del dogma, disse a Bernadette: “Io sono l’Immacolata Concezione”. 38. Anche a Barra (in relazione altresì all’ “anno santo” 1850), si vide in quel periodo una più fervida partecipazione del popolo alla vita della Chiesa (in continuità, del resto, con la tradizione dei secoli precedenti), in particolare con l’ampliamento delle due chiesette di campagna dello “Scassone” e dell’ “Oliva”. 39. Animatori del “cantiere” dello “Scassone”, nel periodo 1849-1854, furono due fratelli gemelli (nati il 27 ottobre 1808), entrambi preti, Don Giuseppe e Don Gabriele Musella, i quali, insieme alla famiglia Veneruso, sostennero anche le spese maggiori. 40. Analogamente, rileggendo i nn. 31-36 della biografia del Verolino scritta da Don Raffaele Guida, vediamo che, nel decennio 1858-68, il Verolino (come i Musella nel 1849-54) fu animatore dell’ampliamento e del restauro di una chiesetta rurale di Barra, quella della contrada “Oliva” (anch’essa, come S. Maria di Costantinopoli allo “Scassone”, di origine Seicentesca), ed il restauro dell’edificio fu evidentemente il segno ed il risultato visibile di una costante e fervida spiritualità cristiana popolare. 41. In questo stesso “clima” spirituale, contraddistinto dalla proclamazione del dogma mariano del 1854, il Verolino si dedicò anche alla fondazione della sua istituzione per le orfanelle, che volle appunto denominare “Ritiro dell’Immacolato Cuore di Maria”. L’annessione al Regno d’Italia (1860) 42. Durante la spedizione dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi, che portò alla fine del Regno delle Due Sicilie, non vi furono battaglie a Napoli e nelle sue vicinanze, grazie anche alla saggezza dell’ultimo Re Borbone, Francesco II (1859-1860), che non volle coinvolgere la città nella guerra, per salvaguardarla da inutili distruzioni, e si ritirò con l’esercito nelle fortezze di Capua e di Gaeta. Garibaldi entrò in Napoli il 7 settembre 1860, accompagnato da pochi uomini e precedendo di due giorni il suo esercito. Il 21 ottobre 1860, si votò sottoponendo al popolo questa sola domanda: “Il popolo vuole l’Italia una e indivisa, con Vittorio Emanuele II re costituzionale ed i suoi legittimi discendenti?” Il risultato del plebiscito fu una schiacciante maggioranza di “sì”; ma si trattò, in effetti, di un risultato largamente “truccato”: molte schede furono vistosamente manomesse; molti che erano per il “sì” votarono più di una volta; in alcune località il numero dei “sì” risultava addirittura superiore a quello degli abitanti, mentre in molte altre non si votò affatto. 43. “Alcuni paesi, invece di votare, si rivoltarono contro coloro che consigliavano il plebiscito. In quei paesi ove non era la forza armata, ad onta degli sforzi dei liberali, non si fece plebiscito, anche alla Barra, che è alle porte di Napoli” (Alianello). Vediamo quindi che la popolazione di Barra non si mostrò affatto entusiasta dell’ingresso nel nuovo Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia, rifiutandosi addirittura di partecipare al plebiscito.


I circa 8.000 abitanti del Comune di Barra nel 1860 entrarono, perciò, nel nuovo regime più sottomessi che convinti e gli eventi successivi dimostrarono che essi non avevano, in definitiva, tutti i torti. L’Italia dei “galantuomini” 44. Il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia (1860-1878), colui che i biografi di corte definirono “il Re galantuomo”, fu anche “il Re dei galantuomini”, nel senso che regnò su una società nella quale il potere era esercitato, di fatto, dai cosiddetti “galantuomini” ossia i nuovi padroni borghesi: prevalentemente proprietari di industrie, al Nord; prevalentemente proprietari terrieri, al Sud. Il nuovo parlamento italiano, che si insediò a Torino nel 1861, era composto in realtà di un solo partito (quello liberale), espressione di una sola classe (quella borghese). I parlamentari erano infatti eletti da non più di 500 mila persone in tutta Italia (meno del 2% della popolazione): avevano diritto al voto solo i cittadini di sesso maschile, che avessero compiuto i 25 anni di età e pagassero almeno 40 lire all’anno di imposte dirette; in pratica, solo i ricchi (maschi). La dialettica parlamentare si articolava approssimativamente in una Destra e una Sinistra, peraltro con frequenti cambiamenti di campo da parte dei singoli parlamentari (trasformismo). Le grandi masse popolari erano quindi del tutto escluse da una partecipazione attiva al nuovo Stato unitario ed i loro interessi sostanzialmente non rappresentati in parlamento. 45. Il problema più grave era però quello del debito pubblico del nuovo Stato. Il Regno delle Due Sicilie aveva chiuso il suo ultimo bilancio, nel 1860, con 31 milioni di ducati in attivo. Il nuovo Regno d’Italia, al primo bilancio finanziario nel 1862, aveva entrate (450 milioni di lire) che erano meno della metà delle uscite! Per far fronte a questa situazione, gli economisti liberali (celebre, fra tutti, il ministro Quintino Sella) pensarono di essere “rigorosi” facendo pagare ai poveri i debiti di un Regno governato esclusivamente dai ricchi. Così, nel 1868, venne introdotta la famigerata “tassa sul macinato”, che venne giustamente definita “l’imposta progressiva sulla miseria” perché colpiva, in pratica, il consumo del pane. La tassa veniva calcolata per mezzo di un contatore applicato alle màcine dei mulini e procurava allo Stato un introito sicuro di un centinaio di milioni l’anno. Al momento della sua applicazione, vi furono ovunque proteste e rivolte, che vennero represse con ben 250 morti! 46. Si procedette, inoltre, come nel Decennio francese (vedi n.8), alla vendita di terre demaniali, alla soppressione degli Ordini religiosi ed alla espropriazione e vendita dei beni ecclesiastici. La soppressione cominciò subito dopo il 1860, e divenne generalizzata con la Legge nazionale del 7 luglio 1866. A Napoli, in particolare, il cardinale arcivescovo Sisto Riario-Sforza (1846-1877) venne costretto all’esilio (dal 1860 al 1866). La Barra dei “galantuomini” 47. Per i Comuni come Barra, la legge “italiana” sulle amministrazioni locali prevedeva un Consiglio comunale formato da 20 consiglieri che eleggeva, nel suo seno, una Giunta municipale formata da 4 assessori. Il Consiglio comunale restava in carica per 5 anni, ma ogni anno si doveva rinnovare per un quinto: si estraevano a sorte i 4 consiglieri che ogni anno si dovevano dimettere. La Giunta municipale, a sua volta, ogni anno doveva rinnovarsi della metà: quindi, ogni anno cambiavano due assessori (però la legge consentiva anche che fossero immediatamente ri-eletti).


Vi era, infine, il Sindaco, che non veniva né designato dai cittadini né votato dai consiglieri comunali, ma era di nomina governativa (come i prefetti): veniva scelto “dall’alto” tra i consiglieri comunali in carica, nominato con appòsito Règio Decreto ed il suo mandato durava per 3 anni. 48. Beninteso, erano esclusi dal diritto di voto: le donne; tutti coloro che non sapevano né leggere né scrivere; tutti quelli che non superavano un certo reddito. Quindi, in realtà, erano esclusi quasi tutti: il 96% circa della popolazione! Si può stimare che, su una popolazione Barrese di circa 8.000 abitanti (7.866 secondo il primo censimento nazionale, del 1861), avevano diritto al voto (ma non è detto che tutti esercitassero sempre questo diritto) all’incirca… 300 persone. In pratica, oltre ai vecchi nobili ri-ciclatisi come “liberali”, erano i “gentiluomini” borghesi, maschi (proprietari terrieri, professionisti, grossi commercianti, etc.). 49. Anche il Comune di Barra (nonostante i vari trucchi contabili) era, in effetti, costantemente in perdita, dal punto di vista del bilancio finanziario. Ed anche qui, la fonte principale delle entrate era il cosiddetto “dazio di consumo” ovvero una tassa che veniva imposta sui generi alimentari di prima necessità e colpiva quindi soprattutto i più poveri. Il “dazio di consumo” rappresentava da solo circa il 37% delle entrate, di gran lunga superiore a qualsiasi altra, ed era ben il doppio di quanto si ricavava dall’imposta sulla proprietà della terra (che pagavano i possidenti). 50. Anche a Barra, nonostante fossero ormai “proprietari” di ben poco, furono di nuovo (vedi n.15) soppressi i due conventi storici (francescano e domenicano), ed i loro locali vennero espropriati, per essere poi venduti a privati o adibiti ad altri usi. Il brigantaggio post-unitario nell’Italia meridionale (1860-1865) 51. In definitiva: nell’ex-Regno delle Due Sicilie, l’antica miseria, sommata alle misure impopolari prese dai nuovi governanti e alla delusione delle speranze che aveva suscitato il Garibaldi, provocò una eccezionale ripresa del tradizionale “brigantaggio”, il quale venne configurandosi, nel quinquennio 1860-1865, come un vasto fenomeno popolare di rivolta sociale e di dissenso politico. Ma il popolo in disperata rivolta, in quei 5 anni, non trovò, né riuscì ad esprimere dal suo seno, dei veri e propri “dirigenti” del suo movimento: persone, cioè, che avessero una autonoma e cosciente visione politica e non fossero semplici agenti infiltrati dai Borboni o dallo Stato pontificio. D’altra parte, la risposta del governo liberale “piemontese” alle esigenze e sofferenze delle masse contadine fu solo una insipiente e brutale repressione armata. Secondo le cifre dedotte dai documenti del Ministero della guerra e della Camera dei deputati, tra il 1861 ed il 1865, furono uccisi dall’esercito piemontese (in guerra o fucilati) 5.212 briganti, ossia più morti che in tutte le guerre di indipendenza messe assieme! Inoltre, più di 5.000 persone vennero arrestate e condannate a lunghissima carcerazione. La prima guerra combattuta dal nuovo Stato italiano fu, dunque, quella contro i contadini del Sud; si confermava così, in modo aperto e violento, la natura classista (borghese) di quel nuovo Stato.


Borbònici e Sabàudi a Barra (e dintorni) 52. Le bande brigantesche che operarono più vicino all’abitato di Barra furono soprattutto due: quella di Vincenzo Barone da S. Anastasia e quella di Antonio Cozzolino da Boscotrecase (detto “Pilòne”). Entrambe erano in contatto con esponenti borbonici, avevano il loro covo nel territorio boscoso alle pendici del Vesuvio ed agivano con rapimenti e colpi di mano, contro i “galantuomini possidenti” e contro il nuovo governo “piemontese”, nei paesi e nelle campagne circostanti. 53. A Barra, peraltro, rimanevano importanti e fieri “nostalgici” del periodo borbonico. Il 21 settembre 1867, “il chiarissimo archeologo e l’ispirato epigrafista, Bernardo Quaranta, vi esalava l’estremo anelito, dopo di avervi, nella Villa Finizio, lungamente dimorato” (Cozzolino). Bernardo Quaranta (1796-1867), filologo e scrittore “ammirato in Europa e in America”, professore di archeologia e di letteratura greca presso l’Università napoletana, direttore degli “Annali civili del Regno delle Due Sicilie”, segretario perpetuo della “Accademia ercolanense” e responsabile della collezione dei “Papìri ercolanensi”, era stato una delle principali “glorie” del Regno borbonico, che lo aveva (meritatamente) ricoperto di cariche e di onori. Quando quel Regno finì, nel 1860, non volle tradire il giuramento di fedeltà che aveva prestato, da giovane, al suo Re né comportarsi da ingrato per i tanti benefìci ricevuti, e si rifiutò quindi di riconoscere la legittimità del nuovo Regno d’Italia, pur dovendo perciò rinunciare alla cattedra universitaria e a tutte le cariche ricoperte. Si ritirò a vivere i suoi ultimi anni nella verde tranquillità Barrese di Villa Finizio, ove già era uso trascorrere periodicamente la sua “villeggiatura”, e vi morì 7 anni dopo (1867), all’età di “anni 71, mesi 6 e giorni 27”. Anche il Comune “liberale” di Barra (Delibera del 28 giugno 1874) riconobbe i meriti di studioso e la rara coerenza morale di quel leale “avversario”, dedicandogli la lapide che tuttora si legge sul muro di Villa Finizio e la strada “che corre a pie’ della casa ove egli abitò”. 54. Coerente “fautore della restaurazione borbonica” era anche Luigi III (1823-1888), XV ed ultimo Prìncipe di Bisignano, che nel 1876 fece restaurare (“curò che ritornasse all’antico artistico splendore”) il Palazzo dei Bisignano in Barra, apponendovi la lapide che tuttora vi si legge, e che diventerà in seguito uno dei dirigenti della cattolica Opera dei Congressi (nata nel 1874). Da notare che questo Luigi III di Bisignano (quasi coetaneo di Raffaele Verolino) era il figlio di quel “prìncipe di Bisignano” che si era interposto presso il cardinale Sisto Riario-Sforza a favore del Verolino stesso (vedi n.22 della biografia scritta da Don Raffaele Guida): il prìncipe “intercessore” era, evidentemente, Pietro Antonio III (1790-1865), XIV Prìncipe di Bisignano e, appunto, padre di Luigi III. 55. Per contro, troviamo in Barra dei liberali “degni eredi” di quel Domenico Minichino che ebbe parte attiva nella Repubblica napoletana del 1799. Sono, in particolare, due dei quattro figli di Onofrio Minichino (1784-1836), un ex-frate poi sposatosi con una tale Maria Napolitano: Annibale e Domenico Minichino. Lo “sventurato patriotta” Annibale morì il 7 luglio 1863, in età di anni 39, presumibilmente in uno scontro con esponenti della parte borbonica. Suo fratello, invece, il sacerdote Domenico, anche lui di sentimenti liberali, nacque nel 1821 e morì nel 1890 (lo stesso anno nel quale morì il Verolino) e, insieme a Don Paolo Riccardi e a Don Raffaele Verolino, costituisce la triade dei preti Barresi forse più rappresentativi dell’Ottocento. Fu appassionato latinista oltre che maestro nelle prime scuole elementari pubbliche, che cominciarono ad istituirsi anche a Barra negli anni successivi all’unità d’Italia.


L’ingegner Pasquale Cozzolino, che lo conobbe personalmente, ne tesse un caldo elogio, scrivendo nel 1889: “…nel vivente sacerdote Domenico Minichino, mio antico maestro in latinità… tu non sai se devi ammirare più gli ideali di civile reggimento che sempre lo illuminarono o le profondità oraziane del consumato latinista scrittore, con l’aureola, aggiungi, di una sublime virtù cristiana non mai smentita! Egli, il degno erede del Minichino del 1799!” Per questi meriti, gli venne in seguito intitolata la strada di Barra che tuttora porta il suo nome. La scelta del Verolino (1868-1875) 56. In questo contesto, dunque, di oppressione classista e di violenza, nello spaventoso aggravarsi delle condizioni di miseria e di abbandono in cui versavano le classi più povere, il Verolino si pose, evangelicamente, a fianco dei più deboli fra i deboli: le ragazze povere, rimaste per di più prive dei genitori. Da “buon pastore”, egli pensò di dover essere come un “padre di famiglia” per chi non aveva più nemmeno la famiglia: come dice lui stesso (vedi la sua lettera autografa del novembre 1867), si trattava, “ora specialmente che si vuole distrutto ogni Ordine religioso”, di accogliere, se fosse stato possibile, “tutte le fanciulle povere del paese, e dar vitto, vestito, istruzione, ed educazione religiosa”, curando altresì “le povere inferme”. Come buon padre, egli si preoccupava delle loro esigenze materiali e di quelle spirituali: procurare il necessario per la semplice sussistenza; ma anche un minimo di formazione intellettuale, e soprattutto morale e spirituale, che consentisse loro di vivere come vere figlie di Dio. Pur non avendo né mezzi economici, né appoggi politici, diede loro tutto quello che aveva: se stesso, il suo amore, la sua vita, perché potessero rialzarsi e camminare insieme. Egli annunciava così, a modo suo, non solo con la voce ma con tutta la vita, quella parola della Scrittura: Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, àlzati e cammina! (At 3, 6) 57. Emblematicamente, lo stesso anno 1868, in cui il Verolino, addì 9 maggio, nelle stanze (prese in fitto!) del cortile Fioriniello al Caiariello, apriva la sua casa-rifugio per le povere orfane, il governo dei “galantuomini” imponeva sulle spalle dei miseri la “tassa sul macinato”! 58. Solo con l’aiuto di elemosine, il Verolino riuscì poi, dopo tre anni (nel 1871), a comprare un piccolo giardino per costruirvi una casa ex-novo (l’attuale sede dell’Istituto in Barra), che cominciò ad essere abitata a partire dal 10 agosto 1872, e successivamente (nel 1875) l’annessa chiesetta. Il Corso Sirena (1875) 59. In quello stesso anno 1875, il sindaco Alfonso Picenna attribuiva il nome unico di “Corso Sirena” alla strada principale di Barra, che fino ad allora si chiamava in modo diverso nei suoi diversi tratti. “I moderni, sotto il Sindacato Picenna, vollero rendere ancora un omaggio all’antica dama (la Sirena), col dare il di Lei nome a tutto l’attuale Corso, principale ed unico, dell’abitato, il quale portava ancora le varie denominazioni della sua lenta formazione: Vie di Sopra e di Sotto le Torri, Parrocchia, S. Antonio, Crocella, Serino, S. Anna” (Cozzolino).


La Madonna Addolorata in Piazza Crocella (1879) 60. Pochi anni dopo, nel 1879, il Sindaco cavalier Giovanni Mastellone dei duchi di Limatola, “in omaggio alla religione e alla civiltà”, fece sorgere in Piazza Crocella, al posto di un pre-esistente “monumento rozzo di forma”, la statua della Madonna Addolorata che tuttora vi si vede (restaurata dopo il terremoto del 1980), posta all’interno di una cappellina sormontata dallo stemma del Comune di Barra, con la Sirena bicàuda. Perchè proprio la Madonna “addolorata”? Evidentemente, perchè la piazzetta era il luogo dal quale bisognava necessariamente transitare per andare, a piedi, verso il cimitero di Barra (istituito in seguito alla legge del 1817), passando per le antiche “cupe” di Via Mastellone e Via Cimitero. Si stimò quindi appropriato che le persone, recandosi al cimitero, trovassero, all’inizio del loro mesto pellegrinaggio, l’immagine della Madonna in lacrime per il suo Figlio morto. Le Suore “Stimmatìne” a S. Maria del Pozzo 61. Nel 1873, un po’ dopo la fondazione del Verolino, ma nella parte opposta di Barra, a S. Maria del Pozzo, giunsero le Suore Stimmatìne. Questo Istituto di Suore (“Povere figlie delle Sacre Stìgmate di S. Francesco d’Assisi”, popolarmente “Stimmatìne”) era stato fondato nel 1850 dalla fiorentina Anna Maria Fiorelli Lapini (27 maggio 1809 - 15 aprile 1860). Grazie alla generosità di Baldassarre Barra, un ricco commerciante di cuoio, esse poterono insediarsi nel palazzo accanto alla chiesa di S. Maria del Pozzo, nel quale aprirono una scuola gratuita che accoglieva circa 200 fanciulle. Suor Maria Passione 62. Fra le allieve delle Suore Stimmatine, tra l’altro, è da menzionare un’altra Barrese illustre: Maria Grazia Tarallo, la futura Suor Maria Passione (1866-1912), “la mistica di Barra”. Nata nel 1866, la figlia del giardiniere Leopoldo e di Concetta Borriello fu tra le prime fanciulle Barresi, insieme alla sorella Drusiana, a ricevere l’istruzione elementare presso l’Istituto delle Stimmatìne a S.Maria del Pozzo. Maria Grazia stava con le Suore l’intera giornata, e la sera andava a dormire presso la zia Nunziata Borriello, la cui casa si trovava poco distante. Il Sabato e la Domenica rientrava alla casa paterna, che sorgeva fra Piazza Crocella e Piazza Serìno, proprio a pochi metri di distanza dalla “Casa Langella” in cui era nato il Verolino. La scuola pubblica 63. Nel frattempo, la scuola pubblica era praticamente inesistente e la popolazione italiana quasi completamente analfabeta. Il 15 luglio 1877, il parlamento italiano approvò la prima legge sulla istruzione elementare che, dal cognome di colui che la propose, il ministro della Pubblica istruzione Michele Coppino, venne detta appunto “Legge Coppino”. La legge istituiva 2 anni di scuola elementare, obbligatoria e gratuita, per tutti i fanciulli di ambo i sessi dai 6 ai 9 anni; stabiliva le ammende per i genitori inadempienti e sanciva gli obblighi dei Comuni nel provvedere alle classi ed alle attrezzature per le scuole. Naturalmente, la realizzazione pratica di quanto stabilito dalla legge fu cosa molto più lunga e complessa, dovendosi fare i conti con la cronica mancanza di fondi da parte dei Comuni e dello Stato.


La scuola pubblica a Barra 64. A Barra, fu il Règio Commissario straordinario, avvocato Vincenzo Lugaresi, che amministrò il Comune dall’agosto al dicembre del 1873, ad istituire per la prima volta due classi di “scuola serale” per gli adulti, nonché la terza classe elementare maschile e la terza femminile. Fra i maestri, vi erano anche due preti: Don Luigi Vitale (che era nipote di quel Don Paolo Riccardi di cui al n.27) e Don Domenico Minichino (vedi n.55). Anche in una situazione di conflitto fra Stato e Chiesa, quale vi era allora, ciò non deve meravigliare, ove si consideri che, in un piccolo paese, erano spesso solo i preti quelli che avevano studiato ed avevano quindi i titoli per poter insegnare. D’altra parte, l’elevato numero dei preti stessi e le scarse risorse a disposizione della parrocchia rendevano comunque conveniente arrotondare le entrate con il pur magro stipendio di maestro elementare. Il colera del 1884 e il “Risanamento” 65. La malattia del secolo, il colera, infierì di nuovo da metà agosto a metà novembre 1884 e provocò in Napoli circa 7.000 morti (lo stesso numero registrato 30 anni prima, nel 1854). Anche i Comuni limitrofi, fra i quali Barra, furono duramente colpiti. In seguito alla tragedia, sia il Re Umberto I di Savoia (1878-1900) che il primo ministro Agostino Depretis (1876-1887) visitarono la città e fu in quella circostanza che il Depretis proferì la celebre frase: “Bisogna sventrare Napoli”, che diede il via al cosiddetto “Risanamento”. E, in effetti, assai rapidamente (il 15 gennaio del 1885) il Parlamento italiano approvò la apposita legge “Pel risanamento della città di Napoli”: la prima grande operazione urbanistica ed edilizia realizzata dallo Stato italiano unitario nel Sud. I lavori, però, iniziarono di fatto solo nel giugno del 1889 e, fra scandali, inchieste per malversazioni e revisioni dei progetti in corso d’opera, durarono addirittura fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel 1913. La attuazione pratica di questa legge costituì il primo esempio di come la borghesia del Nord (il grande capitale finanziario) fosse ormai effettivamente unita a quella del Sud (gli “imprenditori” meridionali nel campo dell’edilizia)... nello sfruttare cinicamente la miseria e le tragedie del popolo, allo scopo di arricchirsi ulteriormente. La vicenda della “Ricostruzione” dopo il terremoto del 1980 potrebbe essere considerata come una sorta di nuova “edizione”, riveduta e peggiorata, di quella del “Risanamento” di un secolo prima. Il colera del 1884 a Barra 66. A Barra, nel 1884, era Sindaco il farmacista Luigi Martucci (1841-1910), che rimase in carica dal 1882 al 1886. La sua opera come Sindaco fu da tutti apprezzata, per l’onestà personale e la sensibilità sociale che la caratterizzarono, e proprio in quella tragica circostanza ebbe modo di manifestarsi tutta la dedizione con la quale egli svolgeva il suo ufficio. Si prodigò in tutti i modi per organizzare l’assistenza ai colerosi (che, come nel 1837, rimasero prevalentemente nelle proprie case) e girava personalmente in tutta Barra (ricordiamo che, oltre ad essere il sindaco, era anche farmacista) per visitare le famiglie colpite, raccogliere le necessità dei cittadini, dare gli aiuti possibili. “Nell’epidemia colerica del 1884, con mirabile abnegazione, col P. Giuseppe De Cristofaro (Domenicano), affrontò ogni pericolo, distribuendo viveri, medicinali, denaro e persino biancheria della propria famiglia, meritando la medaglia d’argento al valore civile” (Lapegna).


67. Come, dunque, nel 1836-37, il quindicenne “aiutante farmacista” Raffaele Verolino aveva incontrato sulla sua strada il medico Ascione, Don Paolo Riccardi, il parroco Don Alessandro Russo (vedi nn.21-28), così nel 1884 (vedi nn. 24-25 della biografia del Verolino scritta da Sr. Maria Giacinta) si trovò insieme al Sindaco Luigi Martucci ed al Padre domenicano Giuseppe De Cristofaro nel compiere i prodìgi dell’umana fraternità. Il “Risanamento” a Barra 68. Ormai, però, la parabola della sua vita era al declino, e quella Barra dell’Ottocento, che lui aveva conosciuto ed amato, si avviava a cambiare rapidamente: se non in profondità, certamente nelle apparenze. Il clima di “operoso fervore”, determinato dal “Risanamento”, consentì al cavalier Giovanni Mastellone dei duchi di Limatola, nominato Sindaco di Barra per altre due volte consecutive (dal 1886 al 1892) di proseguire i lavori già iniziati durante il suo primo mandato nel 1879-82. Avvalendosi dei progetti elaborati dall’ing. Pasquale Cozzolino, si realizzò dunque il “rettifilo” Barrese, anzi addirittura due: il Corso Vittorio Emanuele III (attualmente, Corso Bruno Buozzi) ed un altro ad esso perpendicolare (secondo una forma a T), di collegamento con la strada costiera “delle Calabrie” in S. Giovanni a Teduccio (attualmente, Corso IV Novembre). Il collegamento tra lo storico Corso Sirena ed il nuovo Corso Vittorio Emanuele III venne garantito con una nuova strada, dedicata a Domenico Minichino, e soprattutto con la nuova piazza, dedicata ad Umberto I (attualmente, Piazza Vincenzo De Franchis), che si apriva proprio davanti alla nuova Sede municipale e che completava la struttura a T. Inoltre, la realizzazione del Corso Vittorio Emanuele III comportò anche l’apertura della piazzetta che fu dedicata, come già la Via, ad Egidio Velotti. In quelle circostanze, il Cozzolino scrisse anche la sua opera storica “La Barra e sue origini (nella Napoli suburbana)”, che volle pubblicare con la stessa data di inizio dei lavori (1 novembre 1889) e nella quale, fra l’altro, propose addirittura di cambiare il nome del paese (da “Barra” a “Sirena vesuviana”). 69. In effetti, Barra non aveva mai visto un rinnovamento così ampio della propria struttura urbanistica. In definitiva, però, il suo “sventramento” non sortì effetti migliori di quello di Napoli. Lungo le nuove strade che si realizzarono (il doppio “rettifilo” a T), si insediarono famiglie appartenenti ad un ceto sociale che non era certo quello che avrebbe avuto veramente bisogno di nuove abitazioni. Si evidenziò sempre di più, anche urbanisticamente, il crescente divario fra il nuovo ceto borghese dominante, che tendeva ad imitare (sia pure in tono ovviamente minore) la “dimora in villa” degli antichi aristocratici, e le tradizionali famiglie contadine, i primi operai della nascente industria, la minuta plebe paesana… L’imperialismo “straccione” 70. Un’altra cosa, non sappiamo con quanto piacere, il Verolino riuscì a vedere prima di morire. Negli ultimi due decenni del secolo, anche la “nuova” Italia, come le altre nazioni europee, ebbe la sua ”febbre di intraprese coloniali” e cercò di partecipare alla competizione imperialistica per la spartizione del mondo. Quello italiano venne, però, giustamente definito “l’imperialismo straccione”, perché adoperava imprese coloniali ed emigrazione come valvole di sfogo alla secolare miseria delle grandi masse contadine, che non si voleva risolvere con una più equa ripartizione delle terre in Italia.


Poveri contadini italiani, che per sfuggire alla fame vestivano la divisa militare, riempiti di promesse menzognere e di retorica nazionalista, vennero condotti, dalla classe dirigente borghese, ad uccidere e farsi uccidere per rubare terre che appartenevano ad altri popoli. 71. Nel marzo 1882, il governo italiano (Agostino Depretis) comprò la baia di Assab (sul Mar Rosso, in Eritrea) dalla Società di navigazione Rubattino (che l’aveva avuta nel 1869 da un Sultano locale) e, nel giugno dello stesso anno 1882, quel porto divenne ufficialmente la prima colonia italiana. Il 17 gennaio del 1885 (l’anno dopo l’epidemia di colera!), un battaglione di bersaglieri salpò da Napoli, fra grandi manifestazioni di entusiasmo “patriottico”, al fine di conquistare Massàua (altra cittadina sulla costa eritrea) e poi procedere nella conquista delle zone interne. La conquista di Massàua avvenne in sole tre settimane, ma il resto dell’operazione si rivelò più laborioso del previsto: il popolo eritreo oppose una ferma resistenza, e il 26 gennaio del 1887 il ras Alùla inflisse agli italiani la celebre “disfatta di Dogali”. Morto il Depretis, la politica di espansione coloniale fu continuata da Francesco Crispi, nel cui decennio di governo (1887-1896) si ebbero le due sciagurate guerre coloniali italo-etiopiche (188789 e 1895-96). Nella prima di esse, il generale Baldissera guidò le truppe italiane contro quelle del negus Giovanni e poi del suo successore, il negus Menelik, fino alla conquista di una piccola fascia di terra lungo il Mar Rosso. Questa piccola fascia di terra, costata centinaia di morti italiani ed africani, venne pomposamente proclamata, nel gennaio del 1890, “colonia italiana di Eritrea”. Nello stesso gennaio 1890, dopo una vita dedicata interamente alla elevazione materiale e spirituale dei più poveri, Raffaele Verolino chiudeva definitivamente gli occhi, mormorando: “Non mi firo più”.


Elenco cronologico dei parroci di Barra nel secolo XIX Don Gaetano Ascione (gennaio 1806- aprile 1825) Don Alessandro Russo (giugno 1825 – maggio 1837) Don Giuseppe Minichino (dicembre 1838 – gennaio 1848) Don Giuseppe Sannino (agosto 1848 – luglio 1861) Don Diego Mignano (luglio 1861 – giugno 1882) Don Luigi De Micco (gennaio 1883 – febbraio 1890) Don Luigi Perna (luglio 1890 – maggio 1896) Don Raffaele Guida (agosto 1896 – giugno 1900) Elenco cronologico degli arcivescovi di Napoli nel secolo XIX Card. Giuseppe Capece-Zurlo (1781-1801) Card. Luigi Ruffo-Scilla (1802-1832) Card. Giuseppe Caracciolo-Giudice (1833-1844) Card. Sisto Riario-Sforza (1846-1877) Card. Guglielmo Sanfelice (1878-1897) Vincenzo Sarnelli (1897-1898) Card. Giuseppe Prisco (1898-1923) Elenco cronologico dei Re nel secolo XIX Carlo III di Borbone (1734-1759), Re di Napoli e Sicilia Ferdinando I di Borbone (1759-1825), Re di Napoli e Sicilia fino al 1815, e poi Re delle Due Sicilie Il suo regno fu interrotto da quello dei due Re francesi: Giuseppe Bonaparte (1806-1808) Gioacchino Murat (1808-1815) Francesco I di Borbone (1825-1830), Re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone (1830-1859), Re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone (1859-1860), Re delle Due Sicilie Vittorio Emanuele II (1860-1878), Re d’Italia Umberto I di Savoia (1878-1900), Re d’Italia


Parte II – Il carisma del Verolino e la sua attualità Dimensione mistica e dimensione sociale 1. La spiritualità del Verolino è evangelicamente semplice e concreta, solida e ben radicata, come la casa costruita sulla roccia dall’uomo saggio, che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica (cfr. Mt 7, 21-27). Leggendo la sua lettera autografa al cardinale Sisto Riario-Sforza del novembre 1867, vengono subito in mente quelle parole della Scrittura: “Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1, 27). 2. Per il Verolino, “attendere in modo particolare alla perfezione” significa immediatamente “stare più uniti allo Sposo Divino” ed “esercitare anche la carità verso de’ poveri”. “Stare lontano da’ tumulti del mondo” va insieme a “promuovere il bene spirituale e temporale della società”. Sappiamo bene che la perfezione evangelica è irraggiungibile ma sempre da perseguire: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48) “Se vuoi essere perfetto, va’…” (Mt 19, 21) Essa è, essenzialmente, perfezione nell’amore (“perfectae caritatis”): “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Lui è perfetto in noi” (cfr. Gv 4, 7-21) E questo amore è indissolubilmente amore verso Dio e verso il prossimo (cfr. Mc 12, 28-34 e par.). Questa è, certamente, l’atmosfera vitale del cristianesimo. Ed il Verolino “respira” in essa con grande semplicità, come a casa sua, sia nella dimensione mistica (“l’unione con lo Sposo”) sia in quella sociale (“esercitare la carità verso de’ poveri”). 3. La sua “unione con lo Sposo” non è né individualistica né astratta; è unione concreta con la persona di Cristo, nella sua duplice natura umana e divina, storicamente presente nella Chiesa da Lui fondata ed animata dal Suo Santo Spirito, per perseguire il Regno del Padre “come in cielo così in terra”. Perciò, si manifesta nell’obbedienza a tutta prova nei confronti del proprio vescovo (“Egli non muoverà una mano, né un piede, né un filo, senza il beneplacito dell’E. S. Rev.ma”), accompagnata peraltro dalla preghiera affinché la Volontà di Dio si manifesti effettivamente attraverso la sua bocca. 4. Il suo “esercitare la carità verso de’ poveri” non significa “fare la carità” in modo occasionale e superficiale, ma è una scelta di tutta la vita (“nutriva da più tempo il desiderio… di mettere in opera il suo disegno”). La sua idea è quella di una comunità ben organizzata, guidata da regole chiare e precise, che si adopera stabilmente per “accogliere”. La parola “accogliere” ricorre due volte nella lettera: “accogliere ancor tutte le fanciulle povere del paese, e dar vitto, vestito, istruzione, ed educazione religiosa” e poi “accogliere inoltre eziandio le povere inferme, esercitando verso loro la pazienza e la carità”.


5. Sia nella dimensione mistica sia in quella sociale, il Verolino sa evangelicamente “distinguere i segni dei tempi” (cfr. Mt 16, 3): “Ora pare che sia venuto il tempo… ora specialmente …” 6. Così, la sua opera è posta “sotto gli auspìci del Cuore Immacolato di Maria”, perché proprio in quel tempo (1854) la Chiesa aveva ufficialmente definito il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, e con questo titolo la Madonna si era manifestata a Lourdes (1858). 7. Ma bisogna “attendere alla perfezione dello spirito” senza “omettere il lavoro delle mani”. Nei confronti della miseria, dell’ignoranza e dell’ingiustizia presenti nel mondo, il Verolino scarta sia la rassegnazione passiva, di cui aveva di fronte a sé molti esempi, sia la rivolta violenta, dissennata e sterile, di cui pure, in quei tempi briganteschi, aveva vari esempi. 8. In quel tempo, gli Ordini religiosi venivano soppressi dallo Stato e non mancarono i religiosi che, impauriti o sfiduciati, abbandonarono la loro scelta di vita, magari anche allettati dalla “pensione maggiorata” che il governo liberale (e massonico) assegnava ai religiosi che abbandonavano. Il Verolino, che “vorrebbe ridestare nel cuore di molti lo zelo della gloria di Dio, lo spirito veramente religioso e il bene delle anime”, non si attarda certamente in scelte di comodo nei confronti del potere politico dominante. Consapevole che “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29), egli si accinge, proprio allora, a costituire un nuovo Istituto Religioso che faccia proprio quelle cose che lo Stato liberale non sa e non vuole fare: prendersi attivamente cura delle fasce più deboli della società e metterle al centro della propria attenzione. 9. In tempi nei quali, anche a Barra, la nuova classe egemone borghese mirava soprattutto a riempire il porta-fogli, sfruttando a questo fine il potere politico finalmente conquistato, il Verolino prospetta quello che si potrebbe considerare un vero e proprio piano organico di rinascita “spirituale e temporale della società”, che pone invece al suo centro i più poveri e le loro necessità primarie: cibo, vestito, istruzione, cure mediche… senza trascurare l’educazione religiosa. 10. L’ideologia del capitalismo liberale prevedeva (e prevede…) che i “liberi” proprietari imprenditori, competendo fra di loro nel “libero” mercato e guidati esclusivamente dal proprio interesse individuale, sarebbero stati “fonte di benessere” per tutti. Il Verolino certo non conosceva questa ideologia, ma ne vedeva i tristi effetti sulla popolazione Barrese. Non aveva letto Adam Smith, ma aveva letto il Vangelo: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 19-21) “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio ed a Mammona (l’idolo della ricchezza)” (Mt 6, 24) “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33) 11. In tal modo, si può dire che egli anticipava, in pratica, la posizione della Chiesa rispetto alla “questione sociale”, che verrà precisata, di lì a non molto (un anno dopo la sua morte), dal Papa Leone XIII (1878-1903) con la storica enciclica “Rerum novarum” (1891). Ancor più, si può dire che egli viveva la “opzione preferenziale per i poveri”, come “forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa”, recentemente richiamata dal Papa Giovanni Paolo II (1978-2005):


“Questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell'esistenza di queste realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ricco epulone, che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (Lc 16,19). La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l’obbligo di tenere sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà. Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente sviluppati. Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava un’ipoteca sociale, cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni” (Sollicitudo rei socialis, 1987, n.42). Dimensione laicale e dimensione sacerdotale 12. Già il suo primo biografo, Don Raffaele Guida, ebbe la felice intuizione di considerare il Verolino come esempio di cristianesimo vissuto sia nello stato laicale sia in quello sacerdotale. 13. Essendo stato ordinato prete all’età di 35 anni, egli ebbe modo di vivere tutta la sua giovinezza (i suoi “vent’anni”) nella condizione laicale, che visse non meno intensamente di quella sacerdotale. “L’apostolato dei laici è partecipazione alla missione salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso, per mezzo del battesimo e della confermazione” (LG, n.33b). Anche la condizione di laico può, infatti, essere vissuta come una “vocazione” cioè una chiamata da parte di Dio. “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore” (LG, n.31b). 14. Queste parole del Concilio Vaticano II (1962-1965) furono anticipatamente vissute dal Verolino, che vediamo, infatti, impegnato a “cercare il Regno di Dio” fermentando di spirito evangelico quelle “ordinarie condizioni della vita familiare e sociale” di cui la sua esistenza era “intessuta”: contribuire alla “santificazione del mondo” nel lavoro per “menare innanzi la famiglia”, nello studio e nel “tempo libero”.


15. Lavorò prima per quattro anni come giovane apprendista presso la farmacia di Gaetano Viviani, dove ebbe modo di conoscere i rudimenti della preparazione e della somministrazione dei farmaci, e di venire a contatto con le sofferenze della popolazione Barrese nell’epidemia colerica del 1836-37. 16. Poi, per altri quattro anni, divenne apprendista del mestiere di “tessitore della seta”, di cui in sèguito impiantò un negozio per conto suo, insieme al fratello minore Ferdinando. Come in genere gli antichi artigiani, egli era contemporaneamente imprenditore (cioè proprietario dei suoi strumenti di produzione e dei prodotti finiti) e lavoratore. Il Guida si compiace di annotare che egli riceveva ordinazioni anche “da lontani paesi”, ed i suoi clienti davano “quel prezzo che il Verolino domandava”, perché avevano imparato a conoscere non soltanto la sua competenza e bravura nel mestiere ma anche “la sua giustizia nel negozio”. Lo troviamo anche coinvolto in una sorta di involontaria “speculazione finanziaria”, perché durante la rivoluzione del 1848 la seta ebbe un grande ribasso di prezzo ed egli “ne introitò molta” addirittura senza pagarla. Successivamente, cessate le turbolenze sociali, il prezzo della seta tornò ad essere quello usuale e così “senza prevederlo, il Verolino si trovò fatto un grande lucro”. Lo vediamo, peraltro, utilizzare questi imprevisti guadagni in una “commissione di beneficenza” per i poveri, e nella costituzione del “sacro patrimonio” per entrare in Seminario! 17. Nel negozio, non sottraendosi mai al lavoro, dava esplicita testimonianza della sua fede ai compagni e dipendenti, “con benignità e mansuetudine”, riprendendo i loro difetti ed esortandoli a fare il bene e a seguirlo nella preghiera. Con devozione tipicamente Barrese, “per ogni canna di seta lavorata, ne conservava un soldo, per fare un regalo a S. Anna nella sua festa di luglio”. 18. Non voleva, però, che il lavoro gli impedisse “di proseguire la sua istruzione letteraria” e così “anche lavorando, metteva i libri legati al telaio e così imparava la lezione mentre faticava”. 19. In tutto questo, un’altra passione tipicamente Barrese: quella per la musica di paese. “Essendosi formata in Barra, nel 1842, la Banda Municipale”, pensò di aderirvi e cominciò a suonare il clarino, passando “ben tre anni in questo esercizio”. Purtroppo, dovette poi smettere, a causa delle sue fragili condizioni di salute, che comportavano anche “alcuni sbocchi di sangue dal petto”. 20. Ben presto, già da laico, divenne anche “maestro nella fede”. Lo vediamo infatti “primo catechista” nella Cappella seròtina, e poi anche “maestro dei novizi” della Congregazione della SS. Annunziata, con facoltà di “fare la spiega del Vangelo” la domenica sera e “fare anche pubblicamente l’istruzione”. 21. La Congregazione della SS. Annunziata, legata alla parrocchia “di S. Anna”, era una delle due Congregazioni di laici allora presenti in Barra, l’altra essendo la Congregazione del SS. Rosario tenuta dai Padri domenicani. Entrambe (insieme alla Congregazione di S. Antonio, dei Padri francescani, che però ebbe una diversa evoluzione storica) erano state fondate in seguito al Concilio di Trento (1545-1563). 22. Le Cappelle seròtine, invece, erano un efficace metodo di evangelizzazione popolare, “inventato” a Napoli nel 1728 da S. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), colui che fu detto “il più napoletano dei Santi e il più santo dei Napoletani”. Una Cappella seròtina era semplicemente un’adunanza che, per consentire la partecipazione a coloro che durante il giorno lavoravano, si teneva la sera (e perciò “seròtina”), di solito in qualche chiesa o cappella. In tali adunanze, si praticavano essenzialmente la meditazione e la preghiera: venivano cioè spiegate in modo semplice le verità essenziali della fede, partendo da qualche versetto del Vangelo,


affinché fossero da tutti praticamente assimilate; e poi ci si intratteneva nella preghiera, con canti, inni, esortazioni spirituali, etc. Le note caratteristiche delle Cappelle seròtine erano le seguenti: 1. non si rivolgevano alle persone istruite, nobili o borghesi, bensì “a lazzari, saponari, muratori, barbieri, falegnami et altri operari”, prevalentemente analfabeti; 2. non si rivolgevano alle persone devote, bensì in particolare a coloro che vivevano più lontani dalla pratica della fede, mirando alla loro conversione e cambiamento nella vita quotidiana; 3. non avevano particolari Statuti o Regolamenti, non prevedevano alcuna formalità, l’ingresso era libero ed aperto a tutti: le uniche “istituzioni” fisse erano il luogo ed il responsabile; 4. i responsabili erano dei laici; vi erano uno o più preti, indispensabili per la Confessione e per la Messa, che facevano da assistenti e supervisori, ma era un laico che spiegava il Vangelo, teneva le esortazioni, guidava la preghiera, etc.; questi responsabili non erano né studiosi né teologi, erano semplicemente operai manuali, come le persone stesse alle quali si rivolgevano, ne parlavano lo stesso linguaggio ed avevano gli stessi problemi; 5. l’adunanza si teneva ogni sera, creando così una familiarità stabile e concreta; la domenica, ci si tratteneva insieme l’intera giornata, fra la meditazione, la Messa, la preghiera vocale ed i canti in comune, l’adorazione eucaristica silenziosa, la visita agli ammalati, la passeggiata serale… Nel 1798, si contavano in Napoli circa 75 Cappelle seròtine, con una quindicina di partecipanti ognuna (quindi, complessivamente, un migliaio di persone); nel 1834 erano diventate circa 100, e con 2-300 partecipanti ognuna (quindi, all’incirca 30.000 partecipanti totali). 23. A Barra (vedi n.14 della biografia del Guida), una Cappella seròtina venne istituita nel 1844, quando il Verolino aveva 22 anni. La sede era “nella Congregazione della SS. Annunziata”, quindi le riunioni serali si tenevano in quella chiesetta che si trova proprio di fronte alla parrocchia “di S. Anna” e vi partecipavano, evidentemente, anche iscritti alla Congregazione (lo stesso Verolino era iscritto dal 1839). Date le caratteristiche delle Cappelle seròtine, non stupisce che il Verolino si sia trovato molto a suo agio in quella del suo paese. La Cappella seròtina fu per lui un’ottima palestra di formazione e, nello stesso tempo, un vasto campo di esercizio del suo giovanile apostolato popolare. 24. Non fu mai un laico che da’ la sua testimonianza “isolatamente”, ma sempre partecipe e promotore di un “laicato organizzato”. Giunse perfino a fondare lui stesso una associazione che, secondo l’uso ed il linguaggio del tempo, fu una “Congrega”. Si trattava, presumibilmente, di un’associazione che mirava a riunire in modo stabile, per il reciproco aiuto spirituale e materiale, tutti coloro che facevano il suo stesso mestiere di “fabbricanti di cappelli”. 25. Il suo era tutt’altro che un bigottismo sterile. Fu lui a introdurre in Barra la pratica delle “Quarantore” di adorazione eucaristica. Ma, siccome “dai Sacramenti, e specialmente dalla Sacra Eucaristia, viene comunicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è l’anima di tutto l’apostolato” (LG, n.33b), subito i fratelli della sua Congrega e quelli della Congregazione della SS. Annunziata vennero da lui coinvolti in una “commissione di beneficenza che, raccogliendo delle elemosine, fossero dispensate per i poveri infermi col dare loro letti, medicine, vesti, pranzo”.


26. Né era di quelli che vogliono sempre e solo “coordinare” il lavoro altrui. “Ricevendo per elemosina della paglia per sacconi, egli stesso fu veduto portarla sulle sue spalle. E lui stesso andava in giro per visitarli, per confortarli ed apprestar loro tutti quei servigi necessari”. 27. Possiamo perciò ben dire che Raffaele Verolino, da laico, ha fatto pienamente onore a questo nome: incorporato a Cristo, tramite il battesimo, nel Suo popolo chiamato ad essere Santo (Lv 19, 2: “Siate santi, perché Io, il Signore Dio vostro, sono Santo”), egli ha vissuto in modo esemplare la sua partecipazione laicale al triplice ufficio sacerdotale (LG, n.34), profetico (LG, n.35) e regale (LG, n.36) di Cristo stesso, al servizio del mondo. Tutta la vita del Verolino ventenne potrebbe essere considerata quasi come una illustrazione vivente del Cap.IV della “Lumen gentium” (il documento del Concilio Vaticano II, nel capitolo riguardante i laici) nonché della “Apostolicam actuositatem” (il documento dello stesso Concilio, riguardante l’attività apostolica dei laici). 28. “Dunque, ben possiamo di lui dire che, nella sua giovinezza, narrò in mezzo al popolo, suo compaesano, le glorie del Signore: narrabo Nomen Tuum fratribus meis (“annunzierò il Tuo Nome ai miei fratelli”: Sal 21, 23). Si, egli fu veramente un giovane apostolo laico, ed anzi un modello dell’apostolato dei laici sempre attuale, dato che: “I nostri tempi non richiedono minore zelo da parte dei laici, anzi le circostanze odierne richiedono assolutamente che il loro apostolato sia più intenso e più esteso” (AA, n.1b). 29. Il Verolino entrò in Seminario nel 1852, all’età di 30 anni, e venne ordinato prete a 35 anni, nel 1857. La sua vita sacerdotale si articola nelle due fasi di Rettore della chiesetta dell’Oliva (1858-1868) e poi di fondatore e primo Superiore del “Ritiro dell’Immacolato Cuore di Maria” per le fanciulle orfane (1868-1890). 30. Nella contrada Oliva (vedi nn.31-36 della sua biografia scritta dal Guida), il Verolino cercò di trasmettere quello stesso fervore spirituale, popolare e comunitario, che lo aveva contagiato nell’esperienza della Cappella Seròtina. 31. Anche qui, evidentemente, applicò il princìpio di “attendere alla perfezione dello spirito” senza “omettere il lavoro delle mani”. Lo vediamo perciò impegnato sia nel restauro e nell’ampliamento dell’edificio della chiesa, che appariva in quel tempo “malcurata e quasi spregevole”; sia, e soprattutto, nell’edificazione della comunità. “La casa di preghiera, in cui l’Eucaristia è celebrata e conservata, ed in cui i fedeli si riuniscono… deve essere nitida e adatta alla preghiera e alle sacre funzioni” (PO, n.5e) ma, soprattutto, i sacerdoti “riuniscono la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità, e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo” (PO, n.6a). Il Verolino non pensò certo mai di essere un semplice “fornitore di servizi religiosi”, ma sempre di essere il padre di una famiglia un po’ numerosa, dove però tutti sono chiamati a vivere insieme come fratelli, a chiamarsi per nome e guardarsi negli occhi. 32. A tal fine, ben consapevole che “il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della Parola del Dio vivente, che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra del sacerdote” (PO, n.4a), seppe dare in concreto il primato alla Parola di Dio.


Lo vediamo perciò instancabilmente impegnato anzitutto nella predicazione del Vangelo, e nel trasmettere al popolo semplice una consapevole, viva, sapienziale, conoscenza della dottrina della Chiesa. Né si limitava ad esporla in termini generali ed astratti, ma applicandola alle circostanze concrete della vita, soprattutto attraverso la Confessione e la “direzione spirituale” delle singole coscienze che a lui si affidavano. 33. La pratica della meditazione e della “spiega” nella Cappella Seròtina gli aveva insegnato a educare una fede non puramente sentimentale o emotiva, ma intelligentemente “consapevole”, anche presso il popolo analfabeta. “Stampò una raccolta di orazioni e meditazioni per le persone devote”. Ma quanti erano, nella Barra di allora, quelli che sapevano leggere? Certo pochissimi. Ed ecco allora che “in alcuni giorni dell’anno faceva il ritiro spirituale, leggendo (al popolo) la vita dei Santi”. 34. In tutta la sua vita, del resto, fu sempre un educatore e maestro di educatori. La sua pratica “dell’istruzione ai fratelli”, dei “colloqui alla Comunione” (vedi nn.15-16 nella biografia del Guida), che ne esaurì le forze fino ad “infermarsi” (nn.29-30, ivi), indica come per lui (e la cosa era tutt’altro che scontata, in quel tempo) la celebrazione dei Sacramenti dovesse sempre essere accompagnata da una pertinente “spiega”, che mirasse ad ampliare la capacità di approfondimento degli ascoltatori e ne mostrasse l’applicazione alle circostanze concrete della vita. “Di ben poca utilità saranno le cerimonie più belle o le associazioni più fiorenti, se non sono volte ad educare gli uomini alla maturità cristiana” (PO, n.6b). Il sacerdote che all’Oliva annuncia la Parola di Dio non annulla certo, in lui, ma anzi presuppone e perfeziona il “primo catechista” della Cappella Seròtina ed il “maestro dei novizi” nella Congregazione della SS. Annunziata. Dai “dolci sentimenti” e dalla “istruzione” che il Verolino profondeva nella Cappella Seròtina sortì la vocazione religiosa (vedi n.46, ivi) di Don Raffaele Guida, discepolo e successore suo. Dalla sua predicazione, ed istituzione del Terz’ordine francescano all’Oliva, sortirono le “quattro giovanette terziarie francescane” che “furono le prime ad entrare nel Ritiro” come religiose e costituirono quindi il nucleo originario della Comunità da lui fondata. 35. Ma siccome “la vita è il paragone delle parole” (Manzoni), il suo insegnamento fu tanto più efficace in quanto mai disgiunto dall’esempio della sua vita stessa, e dalla sua pratica delle virtù cristiane, soprattutto quelle specificamente religiose della povertà, della castità e dell’obbedienza. 36. Della sua obbedienza si è già dato testimonianza, a propòsito della lettera da lui scritta al cardinale Sisto Riario-Sforza (vedi n.3). La sua grande umiltà, del resto, si esercitava verso tutti, come vediamo nell’episodio riferito al n.23 della biografia scritta da Suor Maria Giacinta: ritornato un giorno in Contrada Oliva, una decina d’anni dopo averla lasciata, non solo non venne riconosciuto, ma la sua predica venne disertata dai fedeli; ed egli non rimase per nulla offeso, limitandosi a dire, con linguaggio profetico: “Verrà un giorno che le nuvole non pioveranno qui”. Egli “voleva alludere alla pioggia mistica della Parola di Dio”, ed infatti per vari anni, a partire da allora, la Contrada Oliva non ebbe più un sacerdote stabile che se ne prendesse cura e vi predicasse. Sempre a propòsito della sua umiltà, vediamo che, presentando al Card. Sisto Riario-Sforza il suo desiderio di formare un Istituto Religioso, dice semplicemente, lontano dalla presunzione come dall’ignavia, di voler “riunire alcune giovanette”, “raccogliere sette od otto giovanette di provata vita”. Ed in verità, “quattro giovanette Terziarie francescane” furono le prime ad entrare nel Ritiro, il 9 maggio 1868, ma “tra lo spazio di un anno giunsero a quindici” e nel 1893 (dunque, tre anni dopo la sua morte) si contavano già venti Religiose e cinque Novizie:


“Dio resiste ai superbi, agli umili invece da’ la sua grazia” (Gc 4, 6; 1Pt 5, 5) 37. Pur trovandosi spesso in mezzo a “devote donzelle”, nessuna ombra cadde mai sulla purezza del suo comportamento nei loro confronti. Egli, infatti, si curava della salvezza delle loro anime, non della loro attrattiva esteriore: “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16, 7). 38. Ma soprattutto evidente era il suo grande spirito di povertà. Proprio perché amava i poveri, voleva dar loro “vitto, vestito, istruzione ed educazione religiosa” e promuovere “il bene spirituale e temporale della società”, aveva allontanato da sé ogni attaccamento ai beni di questo mondo. Accettò con pazienza anche di rimandare la sua entrata negli Ordini, per non lasciare in abbandono la sua famiglia, quando questa aveva bisogno di lui. Ma quando tali difficoltà si risolsero, lo vediamo dire a suo padre, già il giorno prima della sua entrata in Seminario: “Padre, fin’oggi ho servito a voi, da domani in poi debbo servire alla Chiesa”. E “non volle niente altro sapere delle faccende del suo negozio”, in cui pure aveva lavorato con tanto amore e profuso tante energie. I sacerdoti, infatti, “non trattino l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare il proprio patrimonio personale; anzi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare ogni bramosia ed astenersi da qualsiasi tipo di commercio” (PO, n.17c). 39. Non volle mai essere “un ricco che aiuta i poveri” ma sempre “un povero che aiuta un altro povero”. Si accinse alla sua opera di fondatore del Ritiro “benché non s’avesse pronta un’equivalente somma di danaro, proporzionata all’opera da farsi” ma “tutto confidente nella Divina Provvidenza”. E la Provvidenza non abbandonò mai né lui né la sua Comunità religiosa, che pure viveva “colla sola questua e fatica giornaliera”. Il Signore, il quale certo vedeva che “già aveva messo a disposizione il suo modesto patrimonio e finanche le fibbie delle scarpe erano state vendute”, gli fece trovare benefattori e cooperatori (Raffaele Noviello, Onofrio Borrelli, Rocco Fitto, Donato Capone…) nonché un discepolo e collaboratore fidato, in Don Raffaele Guida, che poi portò a compimento la sua opera. 40. Non visse mai lontano dal popolo dei poveri. Anzi, a quanto pare, quando fu nominato Rettore della chiesetta dell’Oliva, andò ad abitare in due stanzette poste nel campanile della chiesa e la domenica “faceva il suo pasto nella casa campestre del colòno Luigi Esposito-La Rossa, poco distante dalla chiesa”. I sacerdoti, infatti, “cerchino di evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo indurre i poveri ad allontanarsi, e più ancora degli altri discepoli del Signore vedano di eliminare dalle proprie cose ogni ombra di vanità. Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa” (PO, n.17e). 41. Dunque, ben possiamo di lui dire che, nella sua vita sacerdotale, seppe lodare il Signore in mezzo all’assemblea dei fedeli: in medio ecclesiae laudabo Te (“nel mezzo della Chiesa loderò Te”: Sal 21, 23). Si, egli fu un sacerdote veramente apostolico, e quindi un modello di sacerdote sempre attuale, dato che: “Questo Ordine (l’Ordine dei presbìteri) ha un compito estremamente importante e sempre più arduo da svolgere nell’ambito del rinnovamento della Chiesa di Cristo” (PO, n.1a).


Dimensione locale e dimensione universale 42. La dimensione locale, “paesana”, di Raffaele Verolino è indiscutibile e profonda. La sua vita si svolge, per intero, dentro un perimetro geograficamente ristretto e culturalmente ben identificato: la sua natìa “Casa Langella”; la farmacia Viviani ed il medico Ascione; il prìncipe di Bisignano; la Banda Municipale di Barra; la parrocchia “di S. Anna” e la chiesetta della Congregazione della SS. Annunziata; il Corso (non ancora) Sirena ed il passeggio nelle terre di Palazzo Magliano ascoltando le campane della chiesa “di S. Antonio”; la contrada e chiesetta dell’Oliva; il cortile Fioriniello al Caiariello…; al massimo, ci sono gli spostamenti, ovviamente a piedi, nei vicini Casali di S. Giovanni a Teduccio e S. Giorgio a Cremano; e naturalmente, “a Napoli”. La sua figura non è nemmeno concepibile, se non sullo sfondo del Casale della Barra nel secolo XIX. Raffaele Verolino èvoca Barra almeno quanto S. Francesco, tanto da lui amato, èvoca Assisi. 43. E tuttavia, altrettanto indiscutibile e profonda è la sua dimensione universale. Non soltanto, com’è ovvio, per la sua unione personale ad un Dio che trascende ogni tempo ed ogni luogo, e per la sua appartenenza alla Chiesa “cattolica”, cioè universale. Ma proprio per le caratteristiche specifiche della sua figura storica. Le caratteristiche che di lui abbiamo delineato, come laico (nn.12-28) e come prete (nn.29-41), vissute con semplicità e concretezza, possono ben valere per ogni laico e per ogni prete, di qualunque parte del mondo, che vogliano vivere fino in fondo la propria vocazione cristiana. La sua indipendenza rispetto al potere politico ed economico dominante (vedi nn.7-9), per mettere invece al centro i più poveri e le loro necessità primarie, materiali e spirituali: la scelta del Verolino (vedi Parte I- n.56) vale per ogni credente, anzi dovrebbe valere per ogni essere umano, in particolare per coloro che sono più impegnati, ai vari livelli, nei vasti campi del mondo politico ed economico. Conclusione 44. Nel descrivere le opere e la spiritualità del Verolino, vissuto nel secolo XIX, è venuto quasi spontaneo intrecciarle con citazioni dai documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), il grande Concilio della nostra epoca: questo, già di per sé, dice molto circa la permanente attualità della sua figura. “Attendere in modo particolare alla perfezione”. “Stare più uniti allo Sposo divino” ed “esercitare anche la carità verso de’ poveri”. “Stare lontano da’ tumulti del mondo” e “promuovere il bene spirituale e temporale della società”. Queste sono le massime che Raffaele Verolino lascia, come eredità vivente, alle sue Religiose e figlie. Ma non sono forse un intero programma di vita, per ogni persona su questa terra?


REGOLA DEL VEROLINO (2005) Premessa Il nostro padre, il sacerdote Raffaele Verolino (1822-1890) del Casale della Barra di Napoli, nutrendo da più tempo il desiderio di formare un Istituto Religioso sotto gli auspìci del Cuore Immacolato di Maria, e sembrandogli venuto il tempo opportuno di mettere in opera il suo disegno, tutto confidente nella Divina Provvidenza, nel novembre 1867 avanzò supplica scritta al cardinale Sisto Riario-Sforza arcivescovo di Napoli (1846-1877), per essere autorizzato a quest’opera. Ed il cardinale di proprio pugno pienamente approvava la sua santa intenzione. Alla sua morte, però, avvenuta il 22 gennaio 1890, molte cose dovevano ancora perfezionarsi, sia nella parte materiale sia nell’ordinamento generale dell’Istituto, poiché il Verolino, attesa una grave infermità, fu impedito al perfezionamento di queste cose. Il sacerdote Raffaele Guida, suo primo discepolo e successore come capo dell’Istituto, e poi anche parroco di Barra (1896-1900), compose nel 1893 un più completo Regolamento, onde accompagnare e favorire il nuovo sviluppo dell’opera. Pertanto, dalla lettera scritta dal Verolino al cardinale Sisto Riario-Sforza; dalla testimonianza della sua vita, raccolta per iscritto da coloro che ne furono testimoni oculari; dal Regolamento dettato dal sacerdote Raffaele Guida; dalla tradizione vivente della nostra Comunità religiosa; ed in religioso ascolto di quanto lo Spirito ha detto alle Chiese (cfr Ap 2, 7) con il Concilio Vaticano II (19621965), abbiamo la seguente Regola. Regola del Ritiro 1. Leggiamo nella Sacra Scrittura: “Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1, 27). 2. Coloro dunque che, ascoltata questa Parola, desiderano metterla in pratica (cfr Mt 7, 21-27) secondo questa Regola, si ritìrino insieme in una stessa casa, come una sola famiglia, per attendere in modo particolare alla perfezione, a star più unite collo Sposo loro Divino, lontane da’ tumulti del mondo, ed esercitare anche la carità verso de’ poveri. 3. Abbiano per iscopo principale attendere alla perfezione del loro spirito non solo, ma accogliere ancora tutte le fanciulle povere del paese in cui si trovano, e dar vitto, vestito, istruzione, ed educazione religiosa. Accogliere inoltre eziandio le povere inferme, esercitando verso loro la pazienza e la carità, senza omettere il lavoro delle mani. La santa obbedienza 4. Non vi siano in una stessa casa più di quattro o cinque religiose; in ogni casa, le religiose scelgano fra di loro una, che svolga l’ufficio di madre di tutte, col nome ed il còmpito di Superiora della casa. Tutte insieme le religiose, poi, scelgano una Superiora per l’intero Istituto e promettano a lei la santa obbedienza, per la quale ognuna non muoverà una mano, né un piede, né un filo, senza il beneplacito della Superiora, perché la volontà di Dio si vede per mezzo dei Superiori.


5. Ricordino tutte che, per entrare nella vita spirituale, occorre passare attraverso la porta bassa dell’umiltà, e che non sono venute nella casa per fare la propria volontà ma la volontà di Colui che per primo le ha chiamate (cfr Gv 4, 34; 5, 30; 6, 38). Pertanto, offrendo se stesse come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cfr Rm 12, 1-2) mediante la completa rinuncia alla propria volontà, sull’esempio di Gesù (cfr Lc 22, 42) e della sua Madre Immacolata (cfr Lc 1, 38), vivano con gioiosa gratitudine in questa santa obbedienza. 6. Per la qual cosa, premettano sempre la preghiera e preghino caldamente per tutti i Superiori, onde l’Onnipotente Signore manifesti la sua Volontà per la loro bocca. 7. La Superiora, poi, niente risparmi a fatiche per menare innanzi l’opera. Custodisca il piccolo gregge che Dio le ha affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a lei affidate ma facendosi modello del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo riceverà la corona della gloria che non appassisce (cfr 1Pt 5, 2-4). 8. La Superiora nulla imponga o suggerisca al di fuori della Regola e delle Costituzioni, tratti con benignità e mansuetudine quelle che sotto la sua direzione faticano, riprenda dolcemente i loro difetti e sappia bene pregarle a fare del bene. 9. Precedendole con l’esempio, esorti tutte a seguire Cristo come le sante donne che servirono e seguirono il Signore fino alla croce (cfr Lc 8, 1-3; 23, 49; Mt 27, 55-56; Mc 15, 40-41; Gv 19, 25) e furono le prime testimoni della sua resurrezione (cfr Mt 28, 1-10; Mc 16, 1-10; Lc 23, 55-56; 24, 110; Gv 20, 1-2.11-18) affinché, per la via del Vangelo, attendano alla perfezione del loro spirito nella carità, amando Dio sopra ogni cosa ed il prossimo come se stesse. La castità perfetta 10. Le religiose promettano anche di vivere in castità perfetta, come scelta, pienamente consapevole e libera, di avere Gesù Cristo come unico loro Sposo, accogliendolo senza riserve nella propria vita ed offrendosi interamente a lui con l’anima e col corpo: “Il mio Diletto è per me, ed io per Lui” (Ct 2, 16; 6, 3; 7, 11). 11. Avendo in grande stima il matrimonio ed i beni che da esso conseguono alle persone, alla società e alla Chiesa, considerino però la castità perfetta come uno speciale dono del Signore, per attirarle, stringerle e tenerle più strettamente unite a Sé (cfr Ct 1, 1-4; 2, 3-7; 3, 3-4; 8, 3) e consentire loro di dedicarsi, con cuore non diviso (cfr 1Cor 7, 32-35), ad essere madri di tutti, in particolare di coloro che sono rimasti privi dei genitori. La povertà volontaria 12. Entrando nella casa, tutte le religiose, quali che fossero le loro precedenti condizioni sociali ed in tutto confidenti nella Divina Provvidenza, abbraccino la povertà volontaria e promettano di esserle sempre fedeli, sull’esempio di Cristo e del santo patriarca Francesco d’Assisi, che è il particolare celeste patrono dell’Istituto. 13. Pertanto, seguano anzitutto la legge comune del lavoro, imitando l’Apostolo Paolo, che dice: “Sapete infatti come dovete imitarci, poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato, con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi…


E infatti, quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi” (2Ts 3, 7-8.10). Non accada dunque che le religiose vivano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione, ma mangino il proprio pane lavorando in pace (cfr 2Ts 3, 11-12). Possibilmente, apprendano un mestiere, in modo da rimanere abili da potere da se stesse lavorare e, senza mai omettere il lavoro delle mani, non tralascino di proseguire la loro istruzione, anche imparando la lezione mentre faticano. 14. Il giorno precedente il loro ingresso definitivo nella casa, dicano ai genitori ed a tutti i loro congiunti secondo la carne: “Fino ad oggi ho servito a voi, da domani in poi debbo servire alla Chiesa” e non vogliano niente altro sapere delle faccende economiche della loro famiglia. 15. Entrate poi nella casa, nessuna consideri sua esclusiva proprietà ciò di cui fa uso, ma tengano ogni cosa in comune fra loro (cfr At 2, 44; 4, 32). Tutto ciò che viene ricevuto, anche da una singola religiosa, ed anche dai propri familiari, sia portato alla Superiora, che ha l’ufficio di distribuire a ciascuna secondo il bisogno (cfr At 2, 45; 4, 35). La vita comune 16. In tutta la loro vita comune, abbiano sempre a supremo modello la prima comunità apostolica, come descritta nelle Scritture: “Erano assidui nell’ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2, 42-48). Ed anche: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4, 32-35). Il còmpito profetico 17. Assidue, perciò, anzitutto, nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, le religiose adempiano per la loro parte al còmpito profetico proprio di tutto il popolo di Dio, che consiste nell’ascoltare e nell’annunciare agli altri, con le opere e con la voce, la Sua Parola . 18. A tal fine, àbbiano ogni giorno fra le mani la Sacra Scrittura, nell’unità dell’Antica e della Nuova Alleanza, riconoscendo in essa la voce dello Sposo (Ct 2, 8-14; 5, 2; 8, 6; Ap 3, 20) che ogni giorno le invita a seguirLo negli eventi della loro esistenza ed a risponderGli con la preghiera. Ignorare la Scrittura, infatti, significa ignorare Cristo. Quando leggiamo, ascoltiamo Lui; e quando preghiamo, parliamo con Lui.


19. Alla lettura accompagnino sempre la meditazione, sull’esempio della Madre di Gesù che “da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole, nel suo cuore” immacolato (cfr Lc 2, 19; 2, 51). E, ad entrambe, accompagnino la preghiera, affinché rimangano in continuo dialogo con il Signore e possano gustare, se Lui vuole, le gioie della contemplazione. 20. In tal modo, adorando il Signore, Cristo, nei loro cuori, tutte le religiose siano sempre pronte a rispondere, con dolcezza e rispetto, a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro (cfr 1Pt 3, 15), rendendo testimonianza della Sua resurrezione. Sappiano spiegare con semplicità il Vangelo ai fratelli, soprattutto ai più poveri ed incolti, e dare anche l’istruzione catechistica, quando richieste. Ognuna ripeta a se stessa: “Narrerò le glorie del Tuo Nome ai miei fratelli” (Sal 21, 23). 21. Se lo spazio della casa lo consente, ogni religiosa abbia perciò la propria stanza, in cui possa stare lontano da’ tumulti del mondo e, chiusa la porta, ritirarsi per il riposo, lo studio e la preghiera personale, sotto gli occhi del Padre che vede nel segreto (cfr Mt 6, 6). Tuttavia, salvo in caso di malattia o di grave indisposizione, a nessuna religiosa sia consentito di rimanere nella sua stanza nell’orario dei pasti e delle preghiere comuni. La stanza sia assegnata dalla Superiora, e non possa mai essere cambiata, o permutata con altre, senza il suo consenso. Il còmpito sacerdotale 22. Assidue, poi, nella frazione del pane e nelle preghiere, le religiose adempiano per la loro parte al còmpito sacerdotale proprio di tutto il popolo di Dio, che consiste nell’offrire il mondo a Dio e Dio al mondo. 23. A tal fine, essendo la Liturgia l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo (cfr SC n.7c), il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa ed insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù (cfr SC n.10a), procùrino anzitutto di partecipare attivamente, consapevolmente e fruttuosamente (cfr SC n.11, n.14a, n.48) alle celebrazioni liturgiche della Chiesa, in modo specialissimo alla Liturgia Eucaristica. Abbiano perciò una sufficiente formazione in materia liturgica, in modo da poter anche istruire il popolo, se necessario. Amino sempre la musica e il canto, e l’arte sacra, e tutto ciò che può favorire e circondare di sobria bellezza l’incontro fra Dio e le anime. 24. Ogni mattina, prima di intraprendere qualsiasi altra attività, si riuniscano per partecipare insieme alla S. Messa: se possibile, nella propria chiesa; o altrimenti, in altra chiesa vicina. La Domenica, poi, partecipino preferibilmente, insieme agli altri fedeli, alla Messa parrocchiale ordinariamente prevista. 25. Inoltre, poiché l’Ufficio Divino (Liturgia delle ore) è veramente la voce della Sposa che parla allo Sposo, anzi è la preghiera che Cristo, unito al suo Corpo, eleva al Padre (cfr SC n.84), le religiose recitino in comune almeno una delle Ore principali (Lodi mattutine o Vespri serali), se possibile anche insieme al popolo. Il còmpito regale 26. Essendo Cristo, Re dell’universo (cfr Gv 1, 1), venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1, 14), non per essere servito ma per servire, dare la propria vita in riscatto per molti (cfr Mc 10, 45; Mt 20, 28), ed in tal modo instaurare il Regno del Padre “come in cielo così in terra”, le religiose


adempiano per la loro parte al còmpito regale proprio di tutto il popolo di Dio, che consiste nel servire i fratelli con umile amore. 27. A tal fine, attendano non solo alla perfezione del loro spirito, ma altresì ad accogliere (vedi n.3) nella loro casa gli orfani e le vedove, e tutti coloro che, per qualsiasi motivo, siano rimasti, in tutto o in parte, provvisoriamente o stabilmente, privi del bene della propria famiglia. Perché sta scritto: “Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora” (Sal 68, 6). Ed anche: “Il Signore protegge lo straniero, Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi” (Sal 146, 9). Perciò, la loro casa sia, per quanto possibile, la famiglia di chi ne è rimasto privo; ed il loro affetto supplisca l’amore ad essi venuto a mancare. 28. Cercando di preservarli dai pericoli, materiali e spirituali, che “il prìncipe di questo mondo” fa incombere su di loro, si pongano al loro fianco, condividendo con essi la propria vita, affinché possano rialzare il capo (cfr Lc 21, 28) e camminare insieme, come veri figli dell’unico Padre. 29. Per fare questo, consapevoli che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr At 5, 29) e che non si può servire contemporaneamente a Dio e a Mammona (cfr Mt 6, 24), non ripongano le loro speranze nei poteri politici o economici di questo mondo (cfr Sal 118, 8-9), ma cerchino prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte le altre cose saranno loro date in aggiunta (cfr Mt 6, 33). Come sta scritto: “Difendete il debole e l’orfano, al misero ed al povero fate giustizia. Salvate il debole e l’indigente, liberateli dalle mani degli empi” (Sal 82, 3-4). 30. Abbiano di mira soltanto la gloria di Dio, che è l’uomo vivente, nonché il bene spirituale e temporale della società. 31. Allontanando da sé ogni attaccamento ai beni di questo mondo, confidino pienamente nella Provvidenza Divina, in modo che la loro comunità religiosa possa dire in ogni tempo, a tutti coloro che troverà sulla propria strada: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!” (At 3, 6) Conclusione 32. Tutte le religiose chiedano a Dio il dono di saper costantemente distinguere i segni dei tempi (cfr Mt 16, 3). Sappiano, però, che sempre “adesso” è il tempo, “adesso specialmente”, per ridestare nel cuore di molti la carità, lo zelo della gloria di Dio, lo spirito veramente religioso e il bene delle anime. 33. Così Dio benedica, e la celeste protezione dell’Immacolata Vergine Maria e di S. Francesco assista, tutte coloro che intraprenderanno ad osservare fedelmente questa regola, per vivere e morire in essa.


Bibliografia Davide Palomba - “Memorie storiche di S. Giorgio a Cremano” (1881) - Ed. Atesa, Bologna, 1984. Pompeo Centanni – “Il nobile Casale della Barra” – Ed. Fiorentino, Napoli, 1997. Pasquale Cozzolino - “La Barra e sue origini storiche (nella Napoli sub urbana) – 1889; Nicola Lapegna - “Origini e storia di Barra” – 1929; Entrambi ristampati in: Angelo Renzi – “Barra - Ristampa, analisi ed approfondimenti di due documenti sulla storia di Barra” – Ed Magna Graecia, Napoli, 1999. Romano Marino – “La Sirena racconta – Aneddoti e curiosità inedite del Comune di Barra (16001926) – Napoli, 2003. Tommaso Lomonaco – “Barra da Comune a Circoscrizione” – Ed. Magna Graecia, Napoli, 2004. Théodule Rey-Mermet – “Alfonso de’ Liguori, il Santo del secolo dei lumi” – Ed. Città Nuova, 1990. Documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965): LG: “Lumen gentium” (su “La Chiesa”), del 21 novembre 1964. PO: “Presbyterorum ordinis” (su “Il ministero e la vita sacerdotale”), del 7 dicembre 1965. AA: “Apostolicam actuositatem” (su “L’apostolato dei laici”), del 18 novembre 1965.



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