L'ipogeo della chiesa di S.Domenico alla Barra di Napoli

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Angelo Renzi

L’IPOGEO DELLA CHIESA DI S. DOMENICO ALLA BARRA DI NAPOLI

La Barra di Napoli, 2019


PRIMA RICOGNIZIONE (novembre 2019) Nell’ipogeo vi sono: ➢ 5 grandi fosse comuni ➢ una cassettina in legno addossata al muro, con i resti mortali di Francesco

Solimena

➢ una fossa più piccola, chiusa da due lapidi, per la sepoltura dei frati

domenicani

➢ una lapide grande della famiglia Cantelmo-Stuart e Tocco di Montemiletto ➢ una lapide piccola rettangolare della medesima famiglia ➢ un altare addossato al muro

****** Le 5 grandi fosse comuni contengono i resti mortali degli abitanti la zona nel 1600, nel 1700 e fino al 1817, quando furono i Borboni a dare attuazione alla Legge napoleonica che vietava di seppellire i morti sotto le chiese ed imponeva l’apertura di appositi cimiteri. Il convento, peraltro, era già stato soppresso dai Francesi nel 1809. Venne ripristinato solo nel 1852 e nuovamente soppresso nel 1866, dai Governi liberali massonici dopo l’unità d’Italia. Nel 1894, i Domenicani lo ricomprarono, versando al Comune di Barra “in moneta sonante, con i risparmi dei religiosi” la bella cifra di 19.000 lire in contanti.


I RESTI MORTALI DI FRANCESCO SOLIMENA La cassettina con i resti mortali di Francesco Solimena (nato a Canale di SerinoAvellino il 4 ottobre 1657 e morto a Barra il 5 aprile 1747), identificato con il nome nell’ampollina, contiene: ➢ frammenti di ossa e di vestiti ➢ maschera del cranio ➢ resti della parrucca

Il suo atto di morte, contenuto nei registri della parrocchia “Ave Gratia PlenaS.Anna” di Barra, riporta testualmente: “A dì 5 aprile 1747, il Sig. D.Franc.co Solimena, celebre pittore, dei Sig.ri d’Altavilla, è morto in età d’anni 89, mesi 6, ed un giorno, in questa villa della Barra, nel proprio palazzo. E’ stato inumato nella ven/le Chiesa della Sanità (= S. Domenico), nella Sua cappella gentilizia sotto il titolo del nome di Gesù, e quella proprio che sta in cornu Evangelii, dopo aver ricevuto tutti i Sant/mi Sagramenti, per mano di Don Salvatore Roselli Par/co”. Il Solimena era dunque sepolto nella chiesa, in una cappella propria, sita a destra dell’altare maggiore; in seguito poi a lavori di ristrutturazione interna della chiesa, la cappella venne abbattuta ed i suoi resti mortali portati nell’ipogeo. Nel 1997, in occasione del 250° anniversario della sua morte, fu apposta una lapide sul luogo della sua ex sepoltura: QUI RIPOSA FRANCESCO SOLIMENA GRANDE PITTORE E ARCHITETTO NATO A CANALE DI SERINO (AV) IL 4-10-1657 MORTO A BARRA IL 5-4-1747 COMUNE DI NAPOLI PADRI DOMENICANI E CIRCOSCRIZIONE DI BARRA POSERO NEL 250° ANNIVERSARIO DELLA MORTE 5-4-1997


Della villa-palazzo di Solimena in Barra, da lui stesso disegnata, rimane solo il nome della strada lungo la quale essa sorgeva, che ancora si chiama: via Pini di Solimena. Di questa villa, e del circostante “podere del Solimena detto Le Pigne”, è nota l'esatta collocazione, grazie alla carta topografica di Napoli e dintorni, disegnata nel 1775 da Giovanni Carafa, duca di Noja. Una bella immagine se ne può vedere, in incisione, nei volumi del “Voyage en Italie” dell’abate di Saint-Non (1781); ed un'altra, a vivaci colori, nell'acquerello del pittore romantico inglese William Turner (1775-1851), che vide la villa durante il suo viaggio in Italia nel 1819-20. Nella sua villa alla Barra, pur possedendo palazzo e case in Napoli, il Solimena visse gran parte della sua lunga esistenza. Qui tenne la sua celebre scuola di pittura e di vita, alla quale accorrevano figli di nobili napoletani ed europei i quali pagavano salatissimo il privilegio di averlo come maestro per i propri rampolli: furono allievi, fra gli altri, Ferdinando Sanfelice, Paolo de Majo e Giuseppe de’ Liguori, il padre di S. Alfonso Maria de’ Liguori. Ma la frequentò anche, a titolo gratuito, un ragazzo Barrese di povera famiglia: Giambattista Vela (1707-1800) che ha lasciato nel paese natìo alcune importanti tele nonché il nome della Via G.B. Vela (= Vico di S. Lucia). Il Solimena frequentava assiduamente la chiesa dei Domenicani di Barra, che anzi contribuì a completare disegnandone la facciata, ed era iscritto alla confraternita laicale del SS. Rosario, istituita da quei Padri; era, inoltre, “terziario” domenicano, aveva fatto voto di castità e portava l’abito religioso e perciò veniva anche chiamato “l’abate Ciccio”. Di lui restano in Barra la “Madonna delle Grazie con anime purganti” (1697) che regalò per devozione alla chiesa parrocchiale di S. Anna; ed un’altra tela del 1746, che fu l’ultima che dipinse, collocata sull’altar maggiore della cappella gentilizia dei Pignatelli di Monteleone (attualmente, parrocchia “Maria SS. di Caravaggio”) raffigurante l’apparizione della Vergine alla donna di nome Giovannetta de’ Vacchi, avvenuta nella località di Caravaggio (provincia di Bergamo, diocesi di Cremona) al tramonto del lunedì 26 maggio 1432.



LA SEPOLTURA DEI FRATI DOMENICANI


La prima lapide sulla fossa per i frati domenicani reca l’immagine di un frate con la scritta, che gli fa da cuscino, “expecto donec veniat immutatio mea (Gb 14, 14)” ovvero, dal latino della Vulgàta di S. Gerolamo, “aspetto fino a che venga la mia mutazione (= la mia resurrezione)”. Fra le mani, ha il libro delle Scritture aperto con la scritta: “reposita est haec spes mea in sinu meo (Gb 19, 27)” ovvero “riposta è questa mia speranza nel mio seno”.

La seconda lapide sulla fossa per i frati domenicani reca lo stemma dei dòminicànes ovvero il cane con in bocca una fiaccola ardente (= la predicazione della Parola di Dio che incendia il mondo) secondo la Parola di Iesous: “Sono venuto a portare un fuoco sulla terra (il fuoco dello Spirito Santo) e come vorrei che fosse tutto acceso!” (Lc 12, 49). Vi è anche l’iscrizione “quasi morientes et ecce vivimus (2 Cor 6, 9)” ovvero “(siamo) come morenti ed (invece) ecco viviamo”.


LE DUE LAPIDI NOBILIARI La lapide nobiliare più grande è relativa alla sepoltura di Donna CAMILLA CANTELMO STUART (nata a Napoli il 25 aprile del 1700 e morta a Barra il 24 settembre del 1750).

Per comprendere questa lapide, occorre sapere che la nobile famiglia napoletana dei CANTELMO ebbe origine da un condottiero di truppe mercenarie della Provenza (Francia) che giunse nell’Italia meridionale combattendo al soldo di Carlo II d’Angiò nella spedizione con la quale quest’ultimo si impadronì del Regno di Napoli togliendolo alla casa di Svevia (Battaglia di Benevento nel 1266 e morte di Manfredi di Svevia).


Dopo la vittoria degli Angioini, i Cantelmo ebbero feudi e titoli in Italia meridionale, venendo anche ascritti al Patriziato napoletano. Nel 1683, Don Giuseppe Cantelmo, Patrizio napoletano, VI Duca di Popoli, III Duca di Belvedere, I principe di Pettorano, ebbe dal Re Carlo II d’Inghilterra il riconoscimento del cognome CANTELMO STUART in quanto presunto discendente dall’omonimo clan scozzese al quale apparteneva lo stesso Re. In realtà, la maggior parte degli studiosi ritiene oggi che tale discendenza fosse del tutto fasulla, non basandosi su alcun documento certo ma solo sulla suggestione di un personaggio che, secondo la fertile fantasia di Torquato Tasso nella “Gerusalemme liberata”, avrebbe partecipato alla Prima Crociata al seguito di Goffredo di Buglione: Carlo II d’Inghilterra concesse il “riconoscimento”, peraltro dietro congruo compenso, solo per motivi diplomatici e di alleanze politico-militari nel complesso scacchiere europeo del Seicento. Comunque, fratello minore di Giuseppe Cantelmo quind’innanzi Stuart fu il CARDINALE GIACOMO CANTELMO (1640-1702), Arcivescovo di Napoli dal 1691 alla morte. Altro fratello minore di Giuseppe fu Restaino Cantelmo Stuart (1651-1723) che ereditò il nome ed i titoli dal fratello Giuseppe alla morte di questi nel 1693. Restaino fu combattente valoroso per gli Spagnoli, tanto che ottenne, fra gli altri, anche il titolo di Grande di Spagna di Prima Classe nonché di Maggiordomo Maggiore del principe delle Asturie. Nel 1690, sposò Donna Beatrice Cantelmo Stuart che era sua nipote in quanto figlia di suo fratello Giuseppe. Restaino e Beatrice ebbero 4 figli, dei quali: il primogenito, che fu un altro Giuseppe Cantelmo Stuart (1692-1749), morì senza figli; la secondogenita Diana si fece monaca nel monastero dei SS. Marcellino e Pietro; il terzogenito Giacomo divenne sacerdote. Rimase così la quartogenita Donna CAMILLA CANTELMO STUART (nata nel 1700 e morta in Barra nel 1750), IV principessa di Pettorano, IX duchessa di Popoli, VI duchessa di Belvedere, Grande di Spagna di Prima Classe, etc etc. la quale, il 16 gennaio 1724, sposò a Montemiletto, con una cerimonia officiata dal Card. Pietro Francesco Orsini, Domenicano col nome di Vincenzo Maria, che il 29 maggio venne poi eletto Papa col nome di Benedetto XIII, Don LEONARDO VII di TOCCO, Principe titolare di Acàja e IV principe di MONTEMILETTO (nato nel 1698 e morto nel 1776),


portando nella casa di Tocco il suo nome ed i suoi titoli ereditari, di modo che la casata dei Tocco divenne, dal 1724, casata dei TOCCO CANTELMO STUART. La lapide grande, dunque, non fa altro che elencare tutti i titoli della nostra Donna Camilla, con la quale de facto si estinse la discendenza diretta dei Cantelmo, nonché menzionare il suo matrimonio con Leonardo di Tocco, assai importante per la “transizione” dinastica. Successivamente, un pronipote di Camilla e Leonardo, ovvero FRANCESCO TOCCO CANTELMO STUART (1790-1877), Principe titolare di Acaja e VII principe di MONTEMILETTO, “restauràvit anno domini 1874” come dice la lapide rettangolare più piccola:

Anche queste due lapidi nobiliari si trovavano dunque in precedenza nella chiesa e solo in seguito sono state portate nell’ipogeo.


FEDERIGO ZUCCARI (1783-1817) Al momento, né in ipogeo né in chiesa, si rinvengono invece tracce della sepoltura del grande astronomo Federigo Zùccari, nato a Isola di Sora il 26 agosto 1783 e morto a Barra il 15 dicembre 1817, che tuttavia sappiamo per certo essere qui sepolto.

“A metà del 1816 Zùccari si ammalò, recuperò a fatica le forze, ma a metà dell'anno successivo i medici gli consigliarono di trasferirsi dalla casa di Miradois in un luogo dove poter respirare aure più tiepide e salubri. Si spostò a Barra in casa di Angelo Cheibis. Qui morì il 17 dicembre 1817 di tise prodotta dalle lunghe e continue angustie dell'animo, assistito dall'amico Giosuè Sangiovanni. Fu sepolto nella chiesa di san Domenico a Barra, nella Cong.ne del Sa.mo Rosario come fratello” (Mauro Gargano) … “in un muro vicino l’altare della Congregazione”. Riproduciamo nella pagina seguente il suo certificato di morte, il cui originale si trova in “Archivio di Stato di Napoli – Registro dello stato civile di Barra – Morti nel 1817”:



Numero d’ordine 337 L’anno 1817, addì 16 di dicembre, ad ore 16, avanti di noi Francesco Cirella, Sindaco ed Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Barra, Provincia di Napoli, sono comparsi: Tommaso Napolitano, di anni 32, di professione sarto, domiciliato in detto Comune, Strada Parrocchia, Raffaele De Matteo, di anni 38, di professione calzolaio, domiciliato in detto Comune, Strada S. Antonio, i quali han dichiarato che nel dì 15 del mese corrente, ad ore 22, il Sig. Cavalier D. Federico Zuccari, celibe, di anni 34, figlio della Signora D. Maria Celli e del Sig.D. Carlo, Professore di Astronomia della Règia Università di Napoli e Direttore dell’Osservatorio, domiciliato Strada Sopra La Barra, nativo dell’Isola di Sora, Provincia Terra di Lavoro, è morto nella sua propria casa. Per esecuzione della Legge, ci siamo trasferiti presso il defunto, ed avendo conosciuto insieme con i dichiaranti la sua effettiva morte, ne abbiamo formato il presente atto, di cui si è fatta lettura ai dichiaranti, ed indi si è segnato da noi e dai dichiaranti. Seguono le firme. Lo Zùccari ricevette gli ultimi Sacramenti da Don Gaetano Ascione, Parroco di Barra dal gennaio 1806 all’aprile 1825.


Sulla figura dello Zùccari, si può vedere l’esauriente sito “L’astronomo gentile”, curato da Mauro Gargano in occasione del 200° anniversario della morte (18172017): http://www.beniculturali.inaf.it/mostre/zuccari/ Ne riportiamo qui alcune notizie essenziali: “Nel 1807, l’allora Re di Napoli Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, concesse all’astronomo Giuseppe Cassella i locali del monastero delle monache di S. Gaudioso per trasformarli nel primo Osservatorio astronomico di Napoli. Nel marzo del 1812, il suo successore Gioacchino Murat, su consiglio del Ministro dell’Interno Giuseppe Zurlo e dell’astronomo Federigo Zùccari, deliberò la costruzione di un nuovo e più grande Osservatorio astronomico sulla collina di Miradois a Capodimonte. “Ed allora, magnifico sia l’edificio” esclamò il Monarca. “Magnifico sia” ripeterono i Consiglieri e i Ministri “opera di Federigo, che l’astronomica scienza da’ tugùrii a règio stato innalzasse.” Purtroppo, la prematura morte non consentì né a Murat né allo Zùccari di vedere terminata l’opera. Tuttavia, finito il Decennio francese (1806-1815), Ferdinando I di Borbone, tornato sul trono di Napoli, nello stesso anno 1817 ordinò all’astronomo P. Giuseppe Piazzi di portare a termine i lavori; e Carlo Brioschi, succeduto allo Zùccari come Direttore, poté iniziarvi le osservazioni nel dicembre del 1819”. Non sappiamo chi fosse Angelo Cheibis che nel secondo semestre del 1817 ospitò lo Zùccari nella sua casa posta “Sopra la Barra”. Il contesto sembrerebbe quello della piccola minoranza di borghesia benestante (proprietari terrieri non nobili, professionisti, funzionari civili e militari dello Stato, etc.), di tendenza liberale e di simpatie massoniche, che anche a Barra iniziava allora ad affiancare, per poi prenderne il posto, l’antica nobiltà di feudo. Questo ceto borghese aveva ovviamente sostenuto con convinzione i due Re francesi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, che nel cruciale Decennio 1806-1815 avevano largamente smantellato il predente regime feudale ed introdotto anche presso di noi quel “Codice Napoleonico” che poneva invece a suoi càrdini il concetto di “proprietà privata” e l’accesso alle più alte cariche pubbliche non più riservato ai nobili. Riportiamo di seguito alcune note sulla interessante figura di Giosuè Sangiovanni, l’amico che assistette lo Zùccari negli ultimi mesi della sua vita.


CHI ERA GIOSUÈ SANGIOVANNI (da Fabio D’Angelo – Dizionario biografico degli italiani - 2017)

Importante zoologo e fautore delle prime teorie evoluzionistiche, massone e rivoluzionario borghese, partecipò ai moti insurrezionali del 1799, del 1820 e del 1848. Nacque a Laurino (Salerno) il 15 gennaio 1775 da Pasquale, medico, e da Agnese Casalburi. Nel febbraio del 1794, si trasferì a Napoli per seguire le lezioni di medicina e di anatomia presso l’ospedale degli Incurabili e di altre discipline all’università (geometria, aritmetica, algebra, “geometria sublime”, lingua francese …). Visse in prima persona l’esperienza del terremoto e dell’eruzione del Vesuvio nel giugno del 1794: “la sera del 15 giugno, alle due di notte, spalancò il Volcàno del Vesuvio una nuova bocca e buttò tanto fuoco e pietre che la lava giunse sino a mare” … seppellendo interamente, fra l’altro, la cittadina di Torre del Greco. “Nel gennaio del 1799, allo scoppio della Rivoluzione napoletana, Sangiovanni sostenne il governo rivoluzionario prestando servizio nell’esercito repubblicano in qualità di medico. Di fronte all’avanzata delle truppe sanfediste guidate dal cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, partecipò alla difesa del forte di Vigliena, espugnato dalle truppe lealiste il 13 giugno 1799. Riuscì ad allontanarsi prima dello scoppio di


un ordigno che causò la morte di molti compagni e si diresse verso Castel Nuovo, ultimo baluardo della Repubblica napoletana. Riconquistata Napoli dai Borbone, Sangiovanni fu trasferito al palazzo dei Granili, adibito a carcere per i sostenitori del governo rivoluzionario ... Dopo tredici mesi di prigionia, fu costretto all’esilio in Francia”. A Parigi riprese i suoi studi, ma “fu espulso dalla Francia nel 1801 a seguito dell’attentato a Napoleone Bonaparte poiché considerato un simpatizzante degli attentatori; raggiunse Milano, ma anche da qui fu cacciato e indirizzato verso Napoli; riuscì tuttavia a falsificare i documenti e con il nome di José de SaintJean tornò a Parigi”. “Rientrato nella capitale transalpina, frequentò nuovamente le lezioni al Muséum d’histoire naturelle e le dimore dei suoi maestri francesi. Gli incontri fondamentali furono quelli con Jean-Baptiste Lamarck e Georges Cuvier, presso i quali si recava a giorni alterni, intrattenendosi sulle lezioni discusse la mattina al Muséum ... Decisivi furono però i pranzi con Cuvier al Jardin des plantes. È lì che Sangiovanni fu iniziato alla massoneria: «Sono stato ricevuto libero muratore», ricordava nel Diario. E la scalata verso i gradi più alti fu repentina, al punto che in pochi mesi divenne maestro e poi venerabile della Loggia dei figli di Enèa”. Così, anche grazie ai suoi contatti massonici, Sangiovanni ottenne l’oblìo sui suoi precedenti eccessivamente giacobini e l’autorizzazione ad esercitare l’attività di medico a Parigi. Con l’inizio del Decennio francese a Napoli (1806-1815), fu nominato professore di zoologia nell’Università partenopea dal Re Giuseppe Bonaparte, su consiglio appunto del Cuvier e soprattutto del Lamarck che “sperava di trovare nell’allievo un canale di diffusione delle sue teorie (evoluzionistiche) nel Regno di Napoli”, ed ottenne inoltre che la cattedra che andava ad occupare fosse definita “di Anatomia comparata” (Règio Decreto del 21 marzo 1807). “Il 15 febbraio 1808 Sangiovanni entrò a Napoli per via Foria ... Nello stesso anno, iniziò i corsi di Anatomia comparata all’Università di Napoli, ma dopo poco fu costretto a interromperli, colpito da un attacco apoplettico che gli causò la paralisi temporanea della parte sinistra del corpo. Ristabilitosi parzialmente, riprese dal 1812 le sue ricerche, ma rinunziò all’incarico accademico per non aggravare ulteriormente il precario stato di salute.


Trasferitosi sull’isola di Ischia, sperando di curare i suoi acciacchi con le acque termali, effettuò numerosi esperimenti sulla rigenerazione degli invertebrati, argomento che lo aveva già affascinato a Parigi. Con la fine del decennio francese e la riconquista del trono di Napoli da parte di Ferdinando I di Borbone, l’attività scientifica di Sangiovanni non si interruppe, sebbene fosse, per i trascorsi politici, costantemente sorvegliato dalla polizia borbonica e considerato sempre con sospetto. Dal 1816 si interessò ai siti termali di Ischia e successivamente di altre province del Regno. Si impegnò poi nella descrizione, apparsa nel Giornale enciclopedico del 1819, della capacità cromofora dei cefalopodi ... Il 6 luglio 1820 Ferdinando I di Borbone fu costretto a concedere la costituzione sul modello di quella spagnola, accolta a Napoli con leggere modifiche. Ad agosto dello stesso anno fu eletto il nuovo Parlamento napoletano. A norma dell’articolo 221 fu istituito il Consiglio di Stato che designò per ciascuna provincia 24 componenti nominati dal Re. Sangiovanni risultò il più eletto nel distretto di Laurino. Il 24 marzo 1821 Ferdinando I riprese il controllo del Regno e dopo pochi mesi revocò la costituzione. Affidò poi al ministro di Polizia Luigi Capece Minutolo il compito di catturare coloro che erano sospettati o che avevano preso parte ai moti. Sangiovanni fu destituito dalla carica di prefetto della Biblioteca universitaria, che aveva ottenuto nel 1819, e gli fu definitivamente revocata la cattedra di anatomia comparata che proprio lui, al rientro a Napoli nel 1808, aveva creato. Divenne però professore di Zoologia descrittiva e direttore del Museo zoologico (Decreto Governativo del 9 agosto 1832). Freneticamente impegnato nella gestione del Museo, ma gravemente indebolito da numerosi malanni, Sangiovanni fu in prima linea al momento dello scoppio della rivolta nel Cilento nel 1848. Nel febbraio di quell’anno il re Ferdinando II concesse la costituzione che prevedeva l’istituzione di un Parlamento. Sangiovanni risultò tra i deputati eletti nel distretto di Vallo di Diano, con 98 voti. Mentre lo scienziato partecipava alle attività del Parlamento il suo stato di salute si aggravò irrimediabilmente. Affetto da un tumore allo stomaco, morì a Pozzuoli il 17 maggio 1849”.



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