Pompeo Centanni
Angelo Renzi
LA REPUBBLICA NAPOLETANA DEL 1799 E IL CASALE DELLA BARRA
Barra - 1999
Agli abitanti di Barra, repubblicani o realisti, che combatterono e morirono durante gli avvenimenti del 1799, seguendo solo la propria coscienza. Perchè il loro esempio e la loro morte servano a formare le coscienze dei cittadini di oggi e di domani, per il riscatto di Barra dalle oppressioni di sempre.
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L’ epoca delle rivoluzioni borghesi (1790-1860) Nel 1868, dopo l’unità d’Italia, venne inaugurato, in Piazza dei Màrtiri a Napoli, il monumento che tuttora vi si vede, consistente in una colonna sormontata dalla dèa Vittoria alata, per ricordare appunto i “màrtiri” napoletani delle rivoluzioni contro i Borboni. Alla base della colonna, si possono notare 4 leoni, in quattro diversi atteggiamenti: il primo, un leone morente, rappresenta la sconfitta Repubblica napoletana del 1799; il secondo, trafitto da una spada e che però si volge per morderla, rappresenta i moti carbonari del 1820-21; il terzo, che si agita vinto ma non dòmo, rappresenta la sommossa del 1848; ed infine il quarto, un leone che si èrge vittorioso, rappresenta l’epopea garibaldina del 1860. In effetti, sono queste le quattro successive tappe attraverso le quali, alla luce degli ideali proclamati dalla grande rivoluzione francese, la classe borghese meridionale, animata e guidata dalla sua avanguardia intellettuale, condusse la lotta contro il precedente regime aristocratico e feudale e per l’affermazione di una società fatta a sua immagine, pervenendo in ultimo a confluire nell’Italia unita, indipendente dallo straniero e retta da istituzioni di tipo liberale. Nell’Italia meridionale, mancando quasi del tutto un ceto imprenditoriale, a condurre questa lotta fu anzitutto la borghesia agraria (i “possidenti”), i professionisti, i commercianti più agiati: in sostanza, ”il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi proprietari nelle provincie”, per dirla con il Croce. Quella borghesia, cioè, che “in tutti i concetti dei riformatori, nella liquidazione della proprietà ecclesiastica, nella liberazione dai vincoli feudali, nella divisione dei demàni, nella sostituzione dei tribunali règi ai baronali, nella libertà dei commerci, ritrovava i propri interessi” (1). Restavano però “fuori di lei, intatti da lei, non solo l’immensa plebe della capitale e il minuto popolo degli artigiani, e il numeroso sciame di servitori e cortigiani che si moveva attorno ai patrizi e baroni; ma la maggior parte della popolazione del regno, i contadini e pastori...” (2). E’ ben vero che quelle masse erano gravate da secoli di miseria e di ignoranza, e mancavano di una vera e propria educazione politica (anche se questo non aveva però impedito loro di partecipare, ad esempio, alla rivolta di Masaniello) ma è vero soprattutto che esse non trovavano, nelle idee e nei programmi dei “rivoluzionari”, le loro esigenze e le loro aspirazioni sociali più profonde, come poi ben si vide quando (in parte, nel decennio francese e poi, in tutto, nell’Italia unita) quelle idee e quei programmi furono realizzati. iò spiega, tra l’altro, il fatto che anche il Casale della Barra (la cui popolazione era appunto Ccomposta, nella quasi totalità, da contadini e da servi ed artigiani economicamente dipendenti dalla nobiltà) non partecipò attivamente al moto risorgimentale.
Solo poche persone, appartenenti ad alcune famiglie borghesi, furono “militanti” liberali, ma il Casale nel suo complesso tenne costantemente per la parte borbonica: dall’inizio (1799), quando i barresi combatterono contro l’esercito della Repubblica ed a favore di quello della “Santa Fede” del card. Ruffo, fino alla fine (1860) quando la popolazione si rifiutò di partecipare al plebiscito che doveva sancire l’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia.
(1) Benedetto Croce - “Storia del Regno di Napoli”, 1924 - Ed. Adelphi, 1992 - Cap. IV, par. I (2) Croce, op. cit. 3
La Repubblica napoletana (23 gennaio - 13 giugno 1799) La Repubblica napoletana ebbe nascita avventurosa, breve vita, fine tragica e gloriosa. Essa si reggeva sull’alleanza, peraltro conflittuale, tra le truppe francesi di occupazione ed il piccolo gruppo dei “patrioti” napoletani e, quando i francesi abbandonarono la città, fu rapidamente travolta dalle masse della “Santa Fede”: contadini e lazzari, mobilitati dal card. Fabrizio Ruffo in nome del re e della religione, che marciarono sulla capitale muovendo dalla Calabria. Non si presume certamente qui di narrare interamente la vicenda della Repubblica, sulla quale peraltro esiste ampia e prestigiosa bibliografia (3). Scopo del presente opuscolo è semplicemente il cercare di cogliere in qual modo, in quella vicenda, anche Barra in particolare fu implicata. Tuttavia, anche per risparmiare al lettore una faticosa ricerca, riportiamo di seguito alcune notizie circa gli avvenimenti che portarono alla formazione della Repubblica napoletana, a quei 144 giorni scanditi da atti eroici e vili tradimenti, da voli pindàrici e dall’infrangersi di làbili sogni contro il muro della storia.
Avvenimenti che portarono alla formazione della Repubblica Il governo di Napoli, ostinatamente anti-francese, non digerì l’occupazione militare di Roma: il re e la regina cominciarono a sentire sul collo il fiato dei conquistatori, l’odiato nemico era sull’uscio di casa (4). Come ragni pazienti, Maria Carolina e Ferdinando IV di Borbone cominciarono a tessere una rete di alleanze e, tra maggio e dicembre del 1798, riuscirono a stipulare trattati con l’Austria, la Russia e l’Inghilterra. Anticipando il piano di una spedizione francese contro Napoli, il re armò un esercito che doveva liberare Roma e restituire la città al Papa Pio VI esiliato in Francia. “Per finanziare questa dispendiosa spedizione - dice Giovanni Alagi - il re aveva imposto tasse straordinarie e aveva chiesto aiuto e prestito” anche ai casali di Napoli, che contribuirono in misura dimessa. Il 23 novembre 1798, le forze napoletane entrarono nella Repubblica romana. Il generale francese Championnet lasciò un manipolo a presidiare Castel Sant’Angelo e abbandonò Roma: l’esercito borbonico ebbe facilmente ragione di quel pugno di francesi e, dopo appena sei giorni, Ferdinando IV entrò nella città eterna. Dopo questo effimero successo borbonico, i transalpini ebbero il tempo di organizzarsi: il generale austriaco Mack, comandante generale delle armate napoletane, subì una dura lezione a Civita Castellana. Battute anche le colonne che dall’Abruzzo cercarono di entrare nell’Umbria e nelle Marche, per Championnet fu facile raggiungere Capua.
(3) Si veda la bibliografia riportata in appendice. Di seguito si citeranno soprattutto i “classici” (nelle edizioni riportate): Pietro Colletta - “Storia del reame di Napoli”, con introduzione e note di Nino Cortese - Ed. LSE, Napoli, 1957. Vincenzo Cuoco - “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” - Ed. Procaccini, Napoli 1995.
(4) Ricordiamo che la regina di Napoli, Maria Carolina, era sorella della regina di Francia, Maria Antonietta, ghigliottinata pochi anni prima dai francesi.
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Da questo momento, le maggiori resistenze si avranno non tanto da parte dell’esercito regolare, ma da parte dei contadini, che si armavano in modo rudimentale e cercavano di sbarrare la strada ai francesi. Il re e la regina, tradendo la fiducia di tutti, preferirono abbandonare la partita e, imbarcatisi sulla nave ammiraglia di Nelson, fecero vela per Palermo. Il Vicario Generale lasciato a Napoli, il principe Francesco Pignatelli di Stròngoli, non riuscì a fronteggiare la situazione e concluse con Championnet una tregua, firmata a Sparanise l’11 gennaio del 1799, con la quale si riconosceva ai francesi circa metà del Regno occupato; si riconosceva inoltre il versamento di una contribuzione di guerra. La notizia della tregua scatenò le ire dei lazzari che, avendo dichiarato il loro appoggio incondizionato ai Borboni, si sentirono traditi. Il Vicario Pignatelli fuggì a Palermo, il Mack si consegnò ai Francesi; restata senza autorità la città, i lazzari si abbandonarono a saccheggi e trucidarono quanti erano visti come fautori dei francesi. Frattanto, i giacobini napoletani avevano preso contatto con Championnet. Un gruppo di rivoluzionari si impadronì di Castel Sant’Elmo, nonostante la resistenza dei lazzari, guidati da Michele Marino, detto Michele ‘o pazzo e da Giuseppe Paggio. I patrioti di Castel Sant’Elmo appoggiarono l’invasione e scesero a combattere per le strade. La sera del 23 tutta Napoli era occupata dai francesi. Championnet non usò il pugno duro. Anzi. Con i lazzari insorti usò un comportamento di rispetto e, per mostrare al popolo che la spedizione francese a Napoli aveva anche l’approvazione divina, entrò in Duomo per assistere a un miracolo “straordinario” di S.Gennaro. I patrioti di Castel Sant’Elmo avevano proclamato il 22 gennaio la Repubblica napoletana: Championnet la riconobbe ufficialmente due giorni dopo, con un proclama ed un decreto. Il governo provvisorio fu composto da 20 membri, ai quali si aggiunsero successivamente altri cinque componenti. Championnet nominò anche quattro ministri: due francesi, Arcambal e Bassal, alla guerra e alle finanze, e due napoletani, Francesco Conforti all’interno ed Emanuele Mastelloni (barrese) alla giustizia ed alla polizia. Tutte le decisioni dei ministri erano, purtroppo, soggette alla dittatura del generale comandante l’armata francese. Fiorì in quei giorni a Napoli una vivace attività politica e culturale: sorsero molti giornali, tra i quali il “Monitore napoletano” curato da Eleonora Pimentel Fonseca, e si aprirono “Circoli” o “Sale d’istruzione”. La politica moderata adottata da Championnet contrastava con le istruzioni del Direttorio, ostile alla formazione di nuove Repubbliche. Il Direttorio concepiva la conquista di Napoli come mezzo per incamerare nuove ricchezze; e poi Napoli avrebbe potuto servire come base navale del Mediterraneo. Politicamente, la proclamazione della Repubblica poteva essere solo un punto di riferimento dei patrioti italiani, ai quali il Direttorio era profondamente ostile. La “debolezza” di Championnet fu sostituita dall’inflessibilità del commissario Faypoult, che pretendeva la spoliazione completa dello Stato napoletano. Championnet, animo di galantuomo, espulse dal regno di Napoli il Faypoult, ma fu a sua volta richiamato in patria dal Direttorio e sostituito, il 27 febbraio, dal generale MacDonald che si trovava a Roma. La sostituzione di Championnet addolorò i napoletani e soprattutto il governo provvisorio, che decise di dimettersi in massa. Arrivarono allora a Napoli due nuovi commissari francesi, Bodard e Abrial, e la situazione sembrò apparentemente calmarsi. Comincia così la breve vita autonoma della Repubblica napoletana.
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Barra: casale règio della città di Napoli (1797) Come era Barra negli ultimi anni del Settecento? Inserita nel contesto del “miglio d’oro”, essa aveva visto alquanto migliorate le proprie condizioni ed aveva raggiunto proprio in quell’ epoca la sua classica configurazione di “casale règio”, che vediamo disegnata nella carta topografica del duca del Noja (1775) e così descritta dal Giustiniani nel suo “Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli” (1797): “BARRA - casale règio della città di Napoli, alla distanza di miglia 3 in circa, e situato in luogo piano... L’aria, che si respira in detto casale in certi tempi dell’anno è un poco umida, e talvolta i venti vi menano le cattive esalazioni delle paludi, che gli sono d’intorno a picciola distanza. Nulladimeno, vi si veggono belle casine, con eleganti ville di Signori napoletani, e specialmente quelle del principe di Sannicandro, del conte dell’Acerra, e di altri. Fin dallo scorso secolo, Gaspare di Roomer, fiammingo e ricco negoziante, vi fabbricò un grande edificio, ove alloggiò poi la regina di Ungheria nel passaggio all’impero, il quale dopo la sua morte fu abitato dal principe della Roccella Caraffa ed indi dal conte di Chiaromonte Sanseverino. Il suo territorio produce buoni frutti, e vi allignano assai bene gli agrumi. I vini, però, non han che fare con quelli di altri paesi, che si avvicinano più alle radici del Vesuvio. In que’ libri, ove trovasi notato che la Barra fa esquisiti vini e lagrime, è un errore de’ loro scrittori. Gli ortaggi sono similmente buoni. La sua popolazione ascende a circa 5490 individui e, oltre dell’agricoltura, non vi trovo tra essi altra degna manifattura”. Le condizioni ambientali e di vita alla Barra non erano molto diverse da quelle della capitale. Non circolava per le strade l’enorme numero di accattoni e di faccendieri che affollavano le vie di Napoli; non si sentiva lo schiamazzo caratteristico della metropoli: al massimo, si percepiva a volte la voce del mare o il canto di chi zappava e alleviava la sua miseria affidando al vento i suoi sogni e le sue speranze. Trionfavano l’analfabetismo e la filosofia del vivere alla giornata. “L’insediamento dei primi nobili, il sorgere di splendide dimore signorili, quelle carrozze tirate da lucidi cavalli che sempre più spesso passavano pei sentieri polverosi, battuti solo da buoi o da asini malandati, cominciavano ad allargare l’angusto orizzonte. E’ vero che i signori, che venivano a stabilirsi nel verde lussureggiante di Barra, si portavano dietro i fedeli servitori abituati a soddisfare le loro esigenze, ma è anche vero che avevano bisogno, almeno per i lavori più duri, di nuove braccia. Queste venivano inevitabilmente sottratte alla terra. L’economia e i costumi dei barresi cominciavano a cambiare. Giardinieri, garzoni di stalla, mannesi (riparatori di carri e di carrozze) lasciavano le loro anguste abitazioni e si trasferivano nella lussuosa dimora del signore. Mancava loro la libertà dei campi, ma avevano sicuramente tutti i giorni di che mangiare” (5). Tuttavia, il 95% della popolazione rimaneva dèdita all’agricoltura, secondo un sistema tipicamente feudale: i più dissodavano la terra (“signorile”, “padronale” o “demaniale” che fosse) ricavando dalla loro fatica appena il necessario per vivere; pochissimi avevano la fortuna di dissodare un pezzo di terreno di cui erano proprietari, frutto di sacrifici e di sudore.
(5) Pompeo Centanni - “Il nobile casale della Barra” -Ed.Fausto Fiorentino, Napoli 1997.
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“All’ultimo gradino della gerarchia agricola si trovavano i braccianti che, presenti in gran numero, percepivano un salario giornaliero spesso insufficiente alla soddisfazione degli stessi bisogni primari... Il regime alimentare delle classi più disagiate si basava soprattutto su prodotti cerealicoli, accompagnati da un basso consumo di carne, il cui costo ne limitava necessariamente l’ acquisto” (6). Di contro al numero dei salariati, si attestava su posizioni di privilegio una sparuta borghesia: proprietari terrieri e professionisti, che gareggiavano in lusso spesso con gli aristocratici. Famiglie guida di questa particolare borghesia erano i Sannino, i Minichino, i Magliano. Il clero, con una folta rappresentanza, faceva vita indipendente. Era parroco, all’epoca, don Michele Ràiola: conosceva probabilmente tutti i suoi parrocchiani essendo stato in carica per ben 38 anni (a partire dal luglio 1761). Molti sacerdoti furono attratti dalle idee provenienti d’oltralpe anche se spesso, per motivi di convenienza, preferivano rimanere nell’ombra.
Barra nella bufera Il nostro casale dovette subire dapprima le conseguenze del passaggio dell’esercito francese che, nel gennaio 1799, guidato dal generale Championnet, avanzava verso la conquista di Napoli (7). Il casale di Pomigliano d’Arco, che aveva opposto resistenza, fu espugnato, saccheggiato e raso al suolo dai francesi (8); ma anche gli altri casali, fra cui il nostro, furono comunque trattati come terre occupate: furti, violenze, abusi, etc. furono largamente compiuti dai soldati francesi nel cammino verso la città. Entrato poi Championnet in Napoli (dopo aver superato l’aspra ed eroica resistenza opposta, per tre giorni, 20-21-22 gennaio, dai lazzari) e proclamata la Repubblica (9), non si videro nei casali miglioramenti significativi. Anche i più famosi storici di parte repubblicana sono molto critici nel valutare ciò che venne fatto: “Con un proclama del nuovo governo, si ordinò a tutte le antiche autorità costituite delle provincie (e dei casali) che rimanessero in attività fino a nuova disposizione” (10). Nel frattempo, vennero inviati in tutti i paesi i cosiddetti “democratizzatori”.
I “democratizzatori” Chi erano costoro? In linea di principio, erano delle persone inviate dal nuovo governo con lo scopo (per così dire) di “evangelizzare” le popolazioni contadine, portando loro il nuovo credo rivoluzionario, illustrando i vantaggi del nuovo regime ed infervorando gli animi a sostenere la repubblica. In realtà, le cose non andarono come si sperava.
(6) Elisa Filesi - “Storia d’Italia” - Ed. Istituto Geografico De Agostini, Novara. (7) “La città fu investita (dai francesi) dalla parte orientale” : Alberto Consiglio - “Lazzari e Santa Fede” - Napoli, 1936. (8) Consiglio, op. cit. (9) Championnet entrò in Napoli il 23 gennaio ma, fin dal giorno prima, un piccolo gruppo di “patrioti” napoletani, occupato Castel S. Elmo con uno stratagemma, aveva proclamato la fine della monarchia borbonica ed aveva issato la bandiera della Repubblica napoletana, che era il tricolore rosso, giallo e blu (il rosso e il giallo erano i colori dello stemma del Seggio del Popolo, e sono tuttora i colori dello stemma del Comune di Napoli; il blu era tolto dalla bandiera francese).
(10) Cuoco, op. cit.
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“Giovanetti inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono le provincie con una carta di democratizzazione, che Bisceglia, allora membro del Comitato centrale, concedeva a chiunque la dimandava. Essi non erano accompagnati da verun nome; fortunati, quando non erano preceduti da uno poco decoroso! Non aveano veruna istruzione del governo; ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che egli desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi; chi ai semplici e severi costumi dei provinciali, che chiamò rozzezze. S’incominciò dal disprezzare quella stessa nazione che si dovea elevare all’energia repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione straniera (la Francia) che non ancora conosceva se non perchè era stata vincitrice; si urtò tutto ciò che i popoli hanno di più sacro, i loro dèi, i loro costumi, il loro nome” (11).
L’albero della libertà Anche il casale della Barra vide, dunque, arrivare il suo democratizzatore. Come di solito questi facevano, egli per prima cosa innalzò il cosiddetto “albero della libertà”, che era il simbolo del nuovo regime e doveva pertanto costituire il nuovo centro attorno al quale si doveva svolgere la vita civile. Il luogo dove l’albero venne posto fu, quasi certamente, il Largo Parrocchia. Questo per vari motivi: perchè era il centro anche geografico del paese; perchè doveva fare da “contraltare” laico alla chiesa principale; ed infine, perchè lì, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale, sorgeva Palazzo Magliano, che apparteneva ad una famiglia borghese simpatizzante per la repubblica (12). Intorno all’albero, che veniva innalzato fra vibranti discorsi, musiche travolgenti e danze sfrenate, si tenevano poi le riunioni del “catechismo repubblicano”, si criticavano in pubblico le idee, le istituzioni (e le persone) del vecchio regime, si siglavano i contratti, si facevano i giuramenti e si celebravano le nozze secondo il nuovo rito civile; napoletanamente, si vendevano anche “spassatiempi” e brodi di polpo.
Simpatia e odio per i “giacobini” Non sembra però che il messaggio portato dai democratizzatori riuscisse a farsi accettare e, a volte, neppure a farsi comprendere. “Un patriota insegnava il nuovo calendario repubblicano a dei popolani: - Tu lo sai che mese è chisto? - Febbraro. - Nonsignore. Se dice Piovoso. Marzo è Ventoso. Aprile è Germinale. E sai Luglio comme se chiamma? Se chiamma Termidoro. Hai capito?
(11) Cuoco, op. cit. (12) Si veda nel successivo paragrafo “Barresi nella repubblica napoletana del 1799”, a proposito della figura di Nicola Magliano.
- Gnorsì, eccellenza. Luglio è pommodoro: perchè è lo tiempo de li pommarole” (13). 8
Questa di voler cambiare il calendario, abolendo fra l’altro la domenica e le feste dei Santi, non era l’unica stranezza che il popolo contadino non riusciva a digerire. I democratizzatori parlavano di libertà sessuale; di unioni matrimoniali solamente civili; di divorzi; di nullità dei testamenti lasciati dai defunti; dicevano che bisognava abolire i conventi, che i monaci avrebbero dovuto sposarsi; criticavano il re, la Chiesa ed i “signori” nobili, ma non spiegavano come, senza di questi, i contadini avrebbero potuto, in quel momento, sopravvivere. Alle orecchie dei popolani, tutto ciò suonava molto astratto quando non addirittura scandaloso ed empio. I contadini avrebbero ascoltato volentieri chi avesse parlato di riduzione delle tasse sui frutti del loro lavoro, di distribuzione delle terre mettendo tutti in grado di lavorarle, di maggiore giustizia nelle liti e magari anche di servizi religiosi a più basso costo, ma che cos’ erano queste “libertè” ed “egalitè”? L’unica cosa chiara era che comunque, intanto, bisognava pagare nuove tasse, per sostenere questa famosa “repubblica” che era in difficoltà e mantenere l’esercito dei “liberatori” francesi, che erano in guerra e lontano da casa... Giorgio Candeloro ravvisa la morte dell’effimera Repubblica proprio nella “...contraddittorietà tra la politica di spoliazione effettivamente seguita in Italia dai francesi e i motivi correnti della propaganda repubblicana”. Il popolo, fedele alla dinastia borbonica e al cattolicesimo tradizionale dei padri, avvertì questa presenza che invadeva più che liberare. La situazione precipitò proprio quando il governo provvisorio impose nuove tasse. Slogan di offese su improvvisate musiche circolavano per le strade. Ci piace citarne due, riportati da Giovanni Alagi (14):
“So’ venute li francise aute tasse ‘nce hanno mise. Libertè...Egalitè... Tu arruobbe a me, io arrobbo a ‘tte”. e “Li francise so’ arrivate, ci hanno buono carusàte: e vualà, e vualà cavece ‘nculo alla libertà”.
(13) Enzo Striano- ”Il resto di niente”- Ed.Loffredo, Napoli- III edizione, 1986. (14) Giovanni Alagi - “S.Giorgio a Cremano: vicende e luoghi” - Ed. Parrocchia S.Maria del Principio, S.Giorgio a Cremano, 1981.
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Analogie e differenze tra i Casali di Barra e di S.Giorgio a Cremano Nei paesi circonvicini il movimento incontrò più favore. Fu qualche esponente del clero e della borghesia ad accendere la miccia della rivoluzione nel Casale di S.Giorgio a Cremano: il notaio Scodes, il prete trentasettenne don Domenico De Somma e i due fratelli sacerdoti, originari di Resina, Antonio e Cristofaro Formisano. A Barra, invece, i sacerdoti non si esposero mai in prima persona e, accanto alle famiglie borghesi parteggianti per il giacobinismo, come i Sannino, i Minichino, i Magliano, si schierò solo qualche nobile (come il Mastellone, il giovane Pignatelli di Monteleone...) Il clero barrese, rispetto a quello sangiorgese, non solo restò inerte, ma bandì addirittura una vera e propria crociata contro i francesi invasori. Terreno fertile trovavano le parole dei sacerdoti, durante la confessioni, negli animi semplici dei contadini, fedeli al principio del “Re Travicello” e convinti che nessuno avrebbe potuto cambiare la loro condizione di miseria. Dissacratori, eversori, pagani, diavoli venivano definiti i francesi: e le angherie perpetrate convalidavano quanto andava predicando il clero e spingevano sempre più il popolo su sponde opposte. “Non mancò qualche malversazione; non mancò qualche abuso di novella autorità, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le famiglie principali dei piccoli paesi. Gli animi si inasprirono... Una popolazione scosse il giogo del democratizzatore; le altre la seguirono; le popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuto la fortuna di non aver democratizzatori o di averli avuti savi, si armarono contro le insorgenti...” (15). E la guerra civile iniziò.
La guerra civile L’ 8 maggio 1799, i francesi lasciarono Napoli e da quel momento le sorti della repubblica poterono dirsi praticamente segnate. Le masse della “Santa Fede”, guidate dal card. Fabrizio Ruffo (16), molto più numerose ed agguerrite delle esigue forze repubblicane, avanzavano inarrestabilmente dal Sud, conquistando paesi su paesi, che abbattevano l’ “albero della libertà” e suonavano le campane a stormo.
(15) Cuoco, op. cit. (16) Fabrizio Ruffo (16 settembre 1744 - 13 dicembre 1827). Nacque a S.Lucido di Calabria, dal duca Don Litterio Ruffo di Baranello e da Donna Giustiniana dei prìncipi Colonna. Nel 1748 venne portato a Roma per essere educato dallo zio, card. Tommaso Ruffo. Nominato nel 1781 chierico di camera e nel 1785 tesoriere generale dal papa Pio VI (che così mostrò di non avere dimenticato i benefici ricevuti molti anni prima dal card. Tommaso), egli si lasciò conquistare dalla facile bellezza della marchesa Girolama Lepri e forse approfittò delle larghe rendite del suo ufficio, ma fu nel complesso un buon amministratore dello Stato Pontificio. Creato cardinale, nel 1794 rientrò in Napoli al servizio di Ferdinando IV di Borbone che, il 25 gennaio 1799, lo nominò suo Vicario Generale allo scopo di riconquistare il regno invaso dai francesi. Portato a termine l’incarico, continuò a lavorare come ambasciatore ed amministratore del re di Napoli e dei pontefici Pio VII e Leone XII, finchè morì in Napoli. E’ da rilevare che il Ruffo era cardinale ma non prete (era solo diacono: non poteva quindi dir Messa o confessare). Ironia della storia: nel 1813 venne nominato, proprio dal francese Napoleone Bonaparte, “Ufficiale della Legion d’onore”.
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Capo supremo dell’esercito repubblicano venne allora designato il capitano di artiglieria Gabriele Manthonè (17), “buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente per animo ed arte nei duelli, d’ingegno non basso nè sublime, per natura eloquente” il quale, però, “inesperto delle rivoluzioni, misurando dal valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo e giusto, diceva che 10 repubblicani vincerebbero 1000 contrari, che non abbisognavano i francesi, però che andrebbe Schipani (18) contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e Fra’ Diavolo, Spanò contro de Cesare, egli medesimo contro Ruffo, e resterebbe in città ed in riserva il generale Wirtz” (19). Ognuna, però, di queste spedizioni si concluse con una sconfitta dei repubblicani.
Si combatte a Barra In particolare, sia il Colletta (di parte liberale) che il Carta (di parte borbonica) riportano un episodio concernente Barra: ”Manthonè, con 3000 soldati, giunse appena alla Barra e, dopo breve guerra, soperchiato da numero infinito, percosso dai tetti delle case, menomato d’uomini, tornò vinto” (Colletta). “La cavalleria retta da Manthonè, disertata, passò a far parte delle milizie della Santa Fede.... Manthonè cercò scampo alla Barra ma quivi assalito dagli abitanti fu costretto a fuggire” (Carta). Al di là delle piccole sfumature che differenziano le due versioni, non sembra comunque dubbio l’atteggiamento dei barresi, che si batterono spontaneamente, e con tutti i mezzi a loro disposizione, contro i “francesi” ed a favore del card. Ruffo e del re Borbone. Si stringeva pertanto la morsa intorno alla città. “La guerriglia intorno a Napoli cominciò ai primi di giugno... il 3 si ebbe uno scontro a Capodimonte... il 5 si combattè ad Afragola ed a Casoria... Il giorno 6 il generale repubblicano Bassetti (20) prese Barra; ma il giorno dopo fu battuto a Ponticelli e dovette ritirarsi. Contemporaneamente, si combattè a Melito ed a Portici” (21).
(17) Gabriele Manthonè, nato a Pescara il 23 ottobre 1764. Fu poi giustiziato, nella repressione borbonica, il 24 settembre 1799, a Napoli.
(18) Schipani, Bassetti, Spanò e Wirtz erano, naturalmente, comandanti dell’esercito repubblicano, mentre Sciarpa, Mammone, Fra Diavolo e de Cesare erano capi-briganti, che combattevano per il cardinale e per il re. In particolare: Giuseppe Schipani ed Agamennone Spanò, ex ufficiali dell’esercito borbonico, furono poi giustiziati insieme, ad Ischia, il 19 luglio 1799. Per Francesco Bassetti, vedi nota (20). Per Filippo Wirtz, vedi nota (28).
(19) Colletta, op. cit. (20) Francesco Bassetti o Basset, oriundo francese, capitano nell’esercito borbonico nel 1798, era divenuto generale della repubblica, per la quale combattè con lealtà anche se con scarsa abilità. Condannato a morte durante la repressione borbonica, per aver salva la vita fece il nome di vari repubblicani della città e delle provincie. Ottenne che la condanna gli fosse commutata e fu inviato al carcere della Favignana. Uscito dopo qualche anno, si recò prima a Costantinopoli e poi a Parigi (1806), da dove chiedeva al governo francese di tornare a Napoli. Non si sa se gli fu concesso. Certamente non fece parte del nuovo esercito napoletano e morì durante il decennio francese (1806-1815).
(21) Nino Cortese, in Colletta op. cit. 11
L’attacco finale Il card. Ruffo si accampò a Nola l’ 11 giugno ed il giorno 13 (festa di S.Antonio di Padova, che era stato proclamato patrono dell’armata sanfedista) ordinò l’attacco alla città, investendola proprio dalla zona orientale. I repubblicani erano attestati al ponte della Maddalena, sul fiume Sebèto e nel fortino del Vigliena (22), presso l’edificio dei Granili. Le navi dell’ammiraglio Francesco Caracciolo cannoneggiavano dal mare l’ala sinistra dello schieramento di Ruffo, mentre “il generale Bassetti, con piccola mano, correva il poggio di Capodichino, minacciando, per le viste più che per l’armi, l’ala diritta dell’immensa torma che avanzava ne’ fertili giardini della Barra” (23). Si combattè aspramente tutto il giorno 13 giugno, con grande determinazione e sprezzo della vita da entrambe le parti. “Ed incerta pendeva la vittoria, stando sopra una sponda numero infinito e, su l’altra, virtù estrema e maggior arte” (24).
Il fortino del Vigliena I sanfedisti assalirono dapprima il fortino del Vigliena “ma, per grandissima resistenza, bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni” e quindi “entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese dei nemici e dei compagni” (25). Molti dei repubblicani erano morti; “gli altri, feriti nè bramosi di vivere; cosicchè il prete Toscano (26) di Cosenza, capo del presidio, reggendosi a fatica perchè in più parti trafitto, si avvicina alla polveriera e, invocando Dio e la libertà, getta il fuoco nella polvere e, ad uno istante, con iscoppio e scroscio terribile, muoiono quanti erano tra quelle mura, oppressi dalle rovine o lanciati in aria o percossi dai sassi: nemici, amici, orribilmente consorti” (27).
(22) L’ultimo vicerè spagnolo di Napoli, Giovanni Emanuele Fernàndez Pacheco, duca di Escalona e marchese di Villena (1702-1707), lasciò la città il 7 luglio 1707 e si arrese agli austriaci nella fortezza di Gaeta il 30 settembre, dopo aver invano chiesto ripetutamente ai napoletani di battersi per fermare l’avanzata dell’esercito dell’imperatore austriaco Giuseppe I (1705-1711), un corpo di spedizione di 8000 uomini guidato dal feld-maresciallo Wierech Philipp Daun. Il popolo napoletano, però, non aveva in realtà alcun motivo per preferire gli spagnoli agli austriaci, ed in sostanza si limitò semplicemente ad assistere al passaggio dei poteri fra i vecchi ed i nuovi arrivati. Il marchese di Villena non potè far altro che tornarsene amareggiato in Spagna, lasciando però il suo nome al fortino da lui fatto costruire, in quei perigliosi frangenti, presso il ponte della Maddalena e risultato, in quel momento, praticamente inutile. Il fortino del Villena rimase però parte della struttura difensiva della città di Napoli per tutto il Settecento ed ebbe il suo momento di gloria (e la sua fine) nel corso delle vicende belliche legate alla repubblica napoletana del 1799.
(23) - (24) - (25) Colletta, op. cit. (26) Antonio Toscano era un prete di Corigliano Calabro (Cosenza) ed era a capo del gruppo di volontari della “legione calabra” repubblicana che presidiavano il fortino del Vigliena.
(27) Colletta, op. cit. 12
L’ eroico episodio del Vigliena colpì il cuore e la fantasia di più generazioni. Molti parlarono di questo fatto d’armi: non consentirono che passasse sotto silenzio sia i rivoluzionari che i sanfedisti. Colpisce la narrazione, a volte commossa, a volte fredda e distaccata, di quanti furono testimoni diretti e indiretti dell’avvenimento: il patriota Francesco Lomonaco di Montalbano, Gaetano Rodinò, Giacinto Paulini (cappellano dell’esercito sanfedista), Fra Antonio Cimbalo (domenicano, fedele compagno del card. Ruffo), Domenico Sacchinelli, il marchese Filippo Malaspina... L’episodio in sé fu esaltato; l’entità dei numeri fu minimizzata o ingigantita a seconda dell’ottica del narratore. Secondo alcuni, gli eroici difensori del fortino erano 150, secondo altri appena 60. Uguale discordanza esiste sul numero di quanti, nel forte del Vigliena, trovarono la morte: il patriota Amedeo Ricciardi parla di ben 400 morti tra i sanfedisti, il Paulini sostiene che persero la vita appena 20 realisti, il Petromasi minimizza ancor di più e parla di una perdita di appena 13 uomini. Ma, per mettere ordine nella ridda di notizie, preferiamo riportare un brano delle “Memorie” di Guglielmo Pepe, citato dal padre Cristofaro Lucarella nel suo volume “S. Giovanni a Teduccio”. La versione del Pepe, raccontata alcuni anni dopo, presenta obiettività e chiarezza, dati indispensabili per le notizie storiche: “A tali provvedimenti un altro ne aggiunse (Ruffo), spiar facendo da un corpo calabrese il forte di Vigliena, non già perché ne temesse il debolissimo presidio, ma perchè l’ammiraglio Caracciolo avrebbe potuto ingrossarlo, sbarcandovi aiuti o da Napoli o dal campo di Schipani”. Il Pepe passa poi a ricordare le grandi perdite dei borbonici, alla presa del forte di Vigliena e alla morte del Wirtz, quali cause della sconfitta dei repubblicani. Proseguendo afferma: “Ma prima di accennare la fine sua (dello Schipani) e de’ suoi seguaci, cade in acconcio ch’io dica quale fu il fato dell’immortale presidio di Vigliena. Era esso forte di 150 valorosi, distaccati dalla Legione Càlabra, composta di studenti ed altri giovani nativi delle Calabrie, ed ardenti amatori di libertà, i quali trovavansi nella capitale all’entrar che vi fece Championnet. Tutti i legionari appartenevano a famiglie più o meno agiate, ed i 150 furono scelti tra i più destri cacciatori. Il forte di Vigliena altro non era se non una batteria chiusa, costruita a solo oggetto di difendere la costa. Allorché, nel giorno 13, il cardinale ebbe osservato le sue schiere esposte a’ fuochi di quella, ordinò che fosse assaltata da scelte bande calabresi, onde fu miseranda cosa il vedere Calabresi contro Calabresi gareggiar in valor di fratricida pugna. Gli assalitori ravvisavano i loro concittadini all’ostinata difesa, da cui ridondò loro tanta perdita in feriti e morti, che dovettero suonare a raccolta e chiedere aiuto. Il porporato spedì, a favore de’ suoi, compagnie scelte, battaglioni regolari ed alcune centinaia di Russi con parecchie bocche da fuoco. Fatta allora un larga breccia, e ributtata dai repubblicani ogni parola di resa, i sanfedisti vennero all’assalto e, respinti due volte, alla terza entrarono. Ma i difensori, benchè ridotti a 60, continuarono a combattere gagliardamente, asserragliati in un angolo del forte. Ivi, il loro numero scemando ad ogni istante, il Toscano, giovane prete di Cosenza, capo del presidio, già gravemente ferito in testa, perch’egli e i suoi compagni non rimanessero inutili, strascinandosi fino alle polveri, vi appicca impavido il fuoco. All’orrendo scoppio saltano in aria i cadaveri de’ vinti confusi con quelli de’ vincitori, in numero di parecchia centinaia. Uno del presidio, per nome Fabiani, accòrtosi del disegno del Toscano, mentre questi approssimavasi stentatamente alle polveri, buttossi in mare, e nuotando andò a ricoverarsi entro Castel Nuovo, ove raccontò i particolari di quel fiero ed ammirabile fatto. Il cardinale, inorridito dal sùbito sparir di Vigliena, con tanta perdita de’ suoi, vide quali sarebbero stati le conseguenze della riunione dello Schipani con gli altri propugnatori della repubblica ritiratisi ne’ castelli e in San Martino”.
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Lungo il fiume Sebéto Caduto così eroicamente il Vigliena, i repubblicani continuarono a resistere lungo il fiume Sebéto al ponte della Maddalena, sotto la guida del generale Wirtz (28). “Al dechinare del giorno, ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti (29); ed al partir di lui su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggì confusamente in città. Ed allora i borboniani ed i lazzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono dalle case per andar armati contro la schiera del Bassetti; la quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il campo fugato, si ritirò, aprendosi il varco fra le torme plebee, nel Castelnuovo” (30). Questi furono, dunque, i più notevoli fatti d’arme, narrati dagli storici, avvenuti in Barra e nelle sue vicinanze in occasione della fine della Repubblica napoletana del 1799.
Dai registri parrocchiali della Barra Oltre a quanto narrato dagli storici “ufficiali”, anche i libri parrocchiali, attraverso le loro scarne notizie (semplici annotazioni, solo di tanto in tanto qualche particolare), parlano della storia del nostro Casale. Basta scorrerli e decifrare le grafie incerte per rivivere un dramma o una gioia (31). Dalle registrazioni dell’anno 1799, possiamo ricavare il comportamento del nostro clero nei confronti di quelle idee che i giacobini cercavano con ogni mezzo di diffondere. E’ da notare che, dopo il tramonto della Repubblica, la Curia ordinò una “Correzione generale” dei registri parrocchiali: tale correzione cominciò ai primi di ottobre. Con essa, si cercò di eliminare tutti i fogli scritti dopo il 22 gennaio. Ma, mentre nei registri della parrocchia di S.Giorgio a Cremano, si nota addirittura il taglio di alcuni fogli, i nostri libri si presentano integri. Quello dei battezzati non presenta vuoti: i battesimi si susseguono con la cadenza di sempre. Qualcosa di interessante ci offrono invece i libri dei matrimoni e dei morti. Il primo registra appena 9 matrimoni tra il 21 gennaio ed il 24 marzo e presenta addirittura un vuoto totale tra il 25 marzo ed il 1° agosto: probabilmente, aveva più effetto il matrimonio celebrato civilmente ai piedi dell’albero della libertà!
(28) Filippo Wirtz, di origini svizzere, aveva fatto carriera nell’esercito borbonico, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Dopo la fuga del re in Sicilia, si arruolò “per amore di libertà” nell’esercito repubblicano e morì combattendo strenuamente.
(29) Nella battaglia al ponte della Maddalena, morì eroicamente, fra gli altri, anche il dotto ed ormai anziano poeta LUIGI SERIO (1744-1799). “Morì sulle sponde del Sebèto: nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili dell’ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato nè cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che, su questa pagina, le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di maraviglia” (Colletta).
(30) Colletta, op. cit. (31) Alcuni libri parrocchiali mancano. Nel 1631, data di una delle più tremende eruzioni del Vesuvio, dopo quella catastrofica del 79 d.C., probabilmente qualche sacerdote zelante o qualcuno dei mastri dell’estaurìta, preoccupato da un probabile incendio, portò via i pochi libri, che non furono più restituiti. Attualmente, l’ultimo libro dei battezzati porta il numero LII, quello dei morti il numero XVIII, quello dei matrimoni il numero IL.
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Perplessi, e non poco, ci lascia il libro dei morti. Tra il 22 ed il 24 gennaio sono registrati alcuni nomi di morti “senza Sacramenti” perchè morti “disgraziatamente”: 21 decessi in appena 72 ore, con una media di gran lunga superiore a quella della mortalità normale. E che cosa significa quell’avverbio “disgraziatamente”? Si trattò di una sciagura collettiva o di omicidi perpretrati dall’esercito invasore? Forse il buon parroco, don Michele Ràiola, ritenendo peccaminoso il solo ricordare un avvenimento tanto funesto per il nostro tranquillo Casale, avrà con quell’avverbio cercato una scappatoia per far sapere che quei poveri barresi non erano morti di morte naturale. I giorni tra il 22 ed il 24 sono proprio quelli nei quali l’esercito francese, occupando la zona ad oriente di Napoli, strinse d’assedio la città, difesa strenuamente dai lazzari (32). Queste persone furono, molto probabilmente, uccise per aver cercato di difendere le loro povere casùpole di campagna dalle “razzìe” di generi alimentari che servivano a nutrire i soldati occupanti. Fa rabbrividire soprattutto l’età di questi màrtiri, che la grande storia, impegnata a spaziare in orizzonti più vasti, non potrà mai ricordare. Ne citiamo alcuni: Angelo NAPPO di anni 28; Gaetano LANGELLA di anni 20; Antonio NAPPO di anni 13; Angelo e Vincenzo NAPPO (padre e figlio) rispettivamente di anni 50 e di anni 21; Salvatore CERRO di anni 22; Domenico CACCIOLA di anni 23; Luigi BORRELLI di appena 12 anni e Angelo VEROLINO addirittura di anni 9; Gennaro PERNA di 34 anni; Salvatore GARGIULO di 30 anni; Giuseppe PUNZO di anni 18; Rocco SORIA di 17 anni. Del resto, quei 144 giorni sembrarono eterni e lasciarono il segno un po' su tutto e su tutti. Lo stesso don Michele Ràiola, che aveva assorbito come una spugna, goccia a goccia, quegli avvenimenti, vecchio e stremato, se ne andò per sempre nel settembre 1799, proprio mentre cominciava la reazione borbonica, addirittura più cruda e sanguinosa dell’invasione francese.
Barresi nella Repubblica napoletana del 1799 Caduta la Repubblica iniziò, per volontà di Ferdinando IV (e soprattutto di sua moglie, Maria Carolina), la feroce repressione, nel corso della quale una Giunta di Stato, appositamente costituita, condannò a morte tutti quelli che avevano avuto compiti di responsabilità nella “ribellione”: ed era, in pratica, tutta l’avanguardia intellettuale del Regno, proveniente dalla borghesia in ascesa ma anche, in cospicua parte, dall’aristocrazia e dal clero più “illuminati”. Vincenzo Cuoco, in appendice al suo celebre “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” pubblicò un “Elenco in ordine alfabetico dei patrioti giustiziati, a Napoli e nelle isole, a seguito della repressione borbonica dopo la caduta della Repubblica napoletana del 1799”. In particolare, nell’elenco, troviamo fra gli altri: -“ROSELLI Clino, nato ad Esperia (Caserta) il 14 marzo 1754; professore di ingegneria nell’Accademia militare. Giustiziato a Napoli il 28 novembre 1799”. Lo storico Gabriele Monaco (33), oltre ad aggiungere il particolare che il Roselli venne afforcato quel giorno in Piazza Mercato insieme ad altre 7 persone, tutti poi sepolti nella chiesa di S.Eligio, riporta anche l’opinione di altri studiosi secondo i quali Clino Roselli sarebbe in realtà nato proprio a Barra (o quantomeno da famiglia barrese).
(32) Vedi il paragrafo “Barra nella bufera”. (33) Gabriele Monaco - “Piazza Mercato: sette secoli di storia” - Ed. Athena Mediterranea, Napoli, 1970.
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Ciò è confermato dal fatto che, in realtà, il cognome Roselli è ben attestato nella Barra del Settecento: basti dire che un don Salvatore Roselli fu parroco di Barra dal 1743 al 1761. Fu questo parroco a dare gli ultimi conforti religiosi a Francesco Solimena, nella sua villa, il 5 aprile del 1747, e a firmarne l’atto di morte, custodito nell’archivio della parrocchia “Ave gratia plena” (AGP, detta popolarmente “di S.Anna”) di Barra. Fu lui, anche, che nel 1743 operò, in qualità di cappellano della confraternita parrocchiale della SS.Annunziata (=“Ave gratia plena”, AGP) il trasferimento della stessa nella vecchia chiesa di S.Atanasio, che fu per l’occasione restaurata con una nuova facciata (che è sostanzialmente quella che ancora oggi vi si vede) e, in seguito, abbellita con tele del maggior allievo barrese del Solimena, Gian Battista Vela (34). E’ molto probabile che Clino Roselli fosse un nipote del parroco Salvatore Roselli. ******* -“MAGLIANO Nicola, nato a Napoli il 1739, avvocato. Giustiziato a Napoli il 19 novembre 1799”. La famiglia Magliano possedeva in Barra un palazzo (palazzo Magliano, appunto), con corte interna e terre agricole di pertinenza, ben visibile nella mappa del duca di Noja, proprio di fronte alla parrocchia “di S. Anna”. Il palazzo fu abbattuto nel 1975 ma il nome rimane a tutt’oggi, nella tradizione orale, per indicare il rione di Barra che è sorto sopra quelle che erano le terre dei Magliano (si dice ancora:”’ncoppa ‘a terra ‘e Magliano” ed anche: “dint’ ‘o palazzo ‘e Magliano”). ******* - Non compreso nell’elenco di Vincenzo Cuoco è invece Annibale MINICHINO, che non fu nè processato nè propriamente giustiziato ma, essendosi messo in evidenza come attivo “giacobino” barrese, fu “semplicemente” assassinato dalla polizia borbonica nel periodo della repressione. Annibale Minichino aveva appreso le idee rivoluzionarie sui libri, provenienti dalla Francia, che aveva avuto modo di leggere nella fornita biblioteca di un suo fratello prete, don Domenico Minichino. Quest’ultimo era uno dei più di 30 preti che vi erano a Barra in quel periodo. Nato il 29 maggio 1768, aveva studiato diritto, desiderando diventare avvocato; ma dopo solo otto giorni di esercizio della professione, abbandonò ogni cosa per entrare in Seminario (proprio come aveva fatto, una sessantina di anni prima, un altro celebre avvocato, il grande S.Alfonso Maria de’ Liguori). Fu ordinato prete nella Pentecoste del 1793. Nel 1799, aveva quindi 31 anni ed era prete da 6, ma non risulta una sua partecipazione particolarmente attiva alle vicende di quell’anno. ******* - Nel primo governo provvisorio della Repubblica, istituito il 23 gennaio 1799, troviamo poi, come ministro della giustizia, Emanuele MASTELLONE. La famiglia Mastellone, come noto, possedeva tra l’altro un palazzo e terre in Barra; che almeno alcuni appartenenti ad essa fossero di sentimenti “patriottici” è comprovato anche dal fatto che, successivamente, un altro esponente della famiglia, Giovanni Mastellone, fu sindaco di Barra dal 1879 al 1882, in periodo liberale. *******
(34) Di Gian Battista Vela (1707-1800) si conserva in particolare la tela raffigurante “La Vergine fra gli angeli” datata 1774 (5).
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- All’alta nobiltà apparteneva , infine, Diego PIGNATELLI, che portava il titolo di marchese del Vaglio ed era il figlio primogenito del duca Pignatelli di MONTELEONE. I Monteleone, come noto, possedevano fra l’altro una grandiosa villa con magnifico giardino in Barra, progressivamente edificata ed ampliata nel corso del Settecento e indicata nella mappa del duca di Noja come “Villa e delizie dei Pignatelli di Monteleone”. Il vecchio duca morì improvvisamente nella notte del 26 febbraio 1800, mentre era in corso il processo nel quale il suo figlio primogenito era il principale imputato. Diego Pignatelli fu in effetti condannato a morte il 28 marzo 1800. In suo favore intervenne, però, nientemeno che lo stesso papa Pio VII, il quale scrisse di suo pugno una lettera al re Ferdinando di Borbone, chiedendo la grazia; il papa, a sua volta, era stato sollecitato ad intervenire dal card. Pignatelli, che era lo zio del condannato. Grazie a “raccomandazioni” così influenti, la pena di morte per Diego Pignatelli venne commutata in quella di prigionìa a vita nell’isola di Favignana.
Luoghi di Barra dedicati alla memoria del 1799 - Via Francesco Saverio Granata. Porta questo nome la breve strada che, da Via Raffaele Testa (di fronte al Rione Baronessa) sale verso la Via Ferrante Imparato. Francesco Saverio Granata, per nobiltà d’animo, coerenza in vita ed eroismo in morte, meriterebbe certo ben maggiore memoria. Nato a Rionero in Vùlture (Potenza) il 25 novembre 1748, quinto dei sette figli di Ciriaco Granata e Margherita Laurìa, ebbe nel battesimo il nome di Michele, che cambiò in quello di Francesco Saverio quando vestì l’abito monastico nell’Ordine del Carmelo. Fu maestro e dottore in teologia, ma predilesse le scienze matematiche e la filosofia, e queste discipline insegnò nei vari “Studi” dell’Ordine carmelitano e, prima nel periodo 1778-86 e poi di nuovo a partire dal 1789, nella Reale Accademia Militare di Napoli (dove fu quindi collega, nell’insegnamento, di Clino Roselli). Lasciata l’Accademia, divenne Superiore Provinciale dei carmelitani della Provincia di Terra di Lavoro e Basilicata. Nel periodo della Repubblica, la città di Napoli venne suddivisa in 6 “cantòni” (cioè circoscrizioni amministrative) che furono chiamate coi nomi di Sannazaro, Monte Libero, Colle Giannone, Umanità, Sebèto e Masaniello, ed il “padre maestro” Francesco Saverio Granata venne nominato “commissario” responsabile del cantone Sannazaro. Per aver svolto questo ruolo durante la Repubblica, al ritorno dei Borboni fu arrestato nel suo convento di Montesanto, rinchiuso in Castel nuovo e poi impiccato in Piazza Mercato il 12 dicembre 1799, dopo aver subìto la umiliante cerimonia della “spoliazione” dalle vesti sacerdotali, per mano del vescovo di Ugento. Fu anche un apprezzato poeta. - Rione Mario Pagano. Il rione di Barra al quale si accede dalla Via Giuseppe Mercalli è intitolato al grande Mario Pagano. Alcuni barresi continuano ad indicare quel luogo come “palazzine di Mussolini”, ma si tratta di una denominazione quanto meno impropria. In effetti, al tempo del fascismo (durante la seconda guerra mondiale) furono costruiti alcuni edifici a due piani, destinati soprattutto ad ospitare famiglie provenienti dal Borgo Loreto, che avevano perduto la casa in seguito ai bombardamenti. 17
Successivamente, negli anni 60, quegli edifici furono però abbattuti e fu costruito l’attuale rione, al quale venne dato appunto il nome di Mario Pagano. Ma chi fu Mario Pagano? Nel libro di Vincenzo Cuoco, troviamo: “PAGANO Francesco Mario, nato a Brienza (Basilicata) l’8 dicembre 1748; avvocato, professore dell’università. Giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1799. Il suo nome vale un elogio. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano, voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di Vico”. Filosofo, letterato, avvocato, già nel periodo 1783-85 egli aveva pubblicato i “Saggi politici dei princìpi, progressi e decadenze della società”, nei quali si ispirava tanto all’illuminismo francese quanto alla tradizione filosofica e storica della scuola napoletana (soprattutto a Gian Vincenzo Gravina e Gian Battista Vico), ma divenne famoso in tutta Europa soprattutto per le sue “Considerazioni sul processo criminale” (1787) nelle quali indicava la via di un profondo rinnovamento nella legislazione e nelle procedure in materia di diritto penale. Politicamente molto attivo, fu costretto dal regime borbonico a lasciare sia l’insegnamento universitario che l’attività di avvocato e successivamente imprigionato. Dopo un periodo trascorso nel 1798 a Roma e a Milano, tornò a Napoli proprio con l’avvento della Repubblica, nella quale svolse un ruolo di primo piano. Fu, in particolare, il principale estensore del “Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana”, redatto da un comitato del quale facevano parte anche Giuseppe Albanese (1759-1799), il vescovo di Canosa Domenico Forges Davanzati (1742-1810) e Giuseppe Logoteta (1758-1799). Il “Progetto” era già pronto alla fine del marzo 1799, ma le tempestose ed incalzanti vicende della Repubblica non permisero che si svolgesse la discussione su di esso. Il documento rimase, pertanto, essenzialmente come testimonianza del genio di Pagano e come fonte di ispirazione per le lotte successive. In seguito alla caduta della Repubblica, Mario Pagano venne imprigionato “nella fossa profonda di Castel nuovo” e, da lì, tratto alla forca in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799. Insieme a lui, nello stesso giorno, furono giustiziati il medico Domenico Cirillo ed il poeta Ignazio Ciaia. - Esiste poi la Via Domenico Minichino (una delle traverse che collegano il Corso Sirena con il Corso Bruno Buozzi), il cui nome non deve però trarre in inganno. Infatti, il Domenico Minichino al quale essa è intitolata è semplicemente un omonimo parente di quel Domenico Minichino, fratello di Annibale, del quale si è detto in precedenza. Il Domenico Minichino al quale è dedicata la strada ha pertanto nulla a che vedere con la Repubblica napoletana del 1799, anche se può forse interessare, a chi si occupa di cose barresi, il leggerne di seguito qualche notizia. Egli, dunque (il Domenico Minichino a cui è intitolata la strada), nacque nel 1821 e morì nel 1890 e, insieme a don Paolo Riccardi e a don Raffaele Verolino, costituisce la triade dei preti barresi forse più rappresentativi dell’Ottocento. A lui accenna il gesuita Davide Palomba nelle sue “Memorie storiche di S.Giorgio a Cremano” (1881) nelle quali, parlando di don Pasquale Borrelli, parroco di S.Giorgio venuto a morte il 24 luglio 1802 all’età di anni 69, così scrive: “Don Domenico Minichino, sacerdote di Barra e maestro in quelle scuole comunali, conserva presso di sè alcune poesie dettate in latino dal Borrelli, le quali non rifuggirebbero certamente la pubblica luce. Ma come niuno ha mai saputo di esse, così non è a fare meraviglie se stanno aspettando ancora la
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mano generosa ed il cuore amorevole di un qualcheduno, se non altro del nostro paese di S.Giorgio, che ve le tragga”. “Quanto a me” prosegue il Palomba “credo di far cosa nè dis-cara nè inutile se, come a saggio delle altre, ne reco qui la seguente, che è una “alcaica”, la quale allo stesso Minichino è piaciuto di andare annotando qua e là, e tratta del card. Giuseppe Capece Zurlo (1782-1800) che succede al card. Serafino Filangieri (1775-1782) nell’arcivescovado di Napoli”. Segue poi, nel libro del Palomba, la poesia di don Pasquale Borrelli, diligentemente annotata da don Domenico Minichino; anzi, per meglio dire, “Paschalis Borrelli ode, ex mendosis exemplaribus in integrum restituta, ac notulis illustrata Dominici Minichino presbyteri barrensis cura studioque”. Il nostro Domenico Minichino fu dunque appassionato latinista nonchè maestro nelle prime scuole elementari pubbliche, che cominciarono ad istituirsi anche a Barra negli anni successivi all’unità d’Italia. Per questi meriti, alcuni anni dopo la sua morte, gli venne intitolata la strada.
Ferdinando di Borbone rientra in Napoli passando per Barra Solo una volta ultimata l’opera di repressione, Ferdinando IV stimò opportuno rientrare personalmente in Napoli dalla Sicilia: fu accolto trionfalmente dai ”fedelissimi sudditi” ed entrò in città passando per il ponte della Maddalena, teatro della battaglia finale, ed attraversando fra l’altro anche Barra, come detto dal gesuita (e borbonico) Davide Palomba: “Finalmente, il 26 giugno 1802, riavemmo in mezzo a noi lo stesso Re. Invece di sbarcare nel porto di Napoli, si diresse alla rada di Portici, e pigliò terra presso la Favorita, ove fu ricevuto dal Principe ereditario, da tutti i Corpi dello Stato, dal Senato e da un popolo immenso accorsovi da Napoli e da paesi convicini.... S.Giorgio e la Barra si conservarono alla fede antica. Ora Ferdinando, volendo mostrare loro la sua riconoscenza, quando poi entrò in Napoli, volle andarvi per S.Giorgio e per la Barra... Il luogo scelto per la riunione di tutta la comitiva fu S.Giorgio: e così il corteggio reale, in cui facevano principalissima mostra di sè le figure di Ferdinando Borbone e di Fabrizio Ruffo, mosse da quella parrocchia... Il Re, quando entrò a cavallo nella capitale, fu sinceramente acclamato, e si fecero archi di trionfo, illuminazioni e gale per tre giorni”. Ma questa (prima) restaurazione borbonica non durò davvero a lungo. Di lì a poco, anche il regno di Napoli, come tutta l’Europa, fu investito da un nuovo uragano politicomilitare, che proveniva ancora dalla Francia, come la grande rivoluzione, ma aveva stavolta un nome e cognome: Napoleone Bonaparte.
Qualche considerazione La causa fondamentale della sconfitta della Repubblica napoletana, ben più che la forza dei suoi avversari, fu indubbiamente la condizione di immaturità storica nella quale si trovava la classe borghese meridionale, ancora in quel periodo. E’ lo stesso Benedetto Croce, che di quella classe si può ritenere espressione e massimo interprete culturale, a riconoscerlo con lucida ed insuperata analisi: “La classe sociale che meglio avrebbe dovuto rispondere al pensiero e all’azione della classe intelligente (cioè, di quella avanguardia culturale e politica che fu artefice della rivoluzione) era, com’è naturale, il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi proprietari nelle provincie, dal quale in massima parte la classe intellettuale proveniva e di cui continuamente si alimentava e accresceva.
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E i professionisti furono, infatti, quelli che più alacremente ne accompagnarono gli sforzi; ma la nuova borghesia delle provincie attendeva, come ogni borghesia incipiente, a far denari, ad assorgere economicamente, e perciò le mancava la necessaria elevazione d’animo per appropriarsi un concetto politico, sentirne la bellezza, assumerne i doveri, lavorare, soffrire e sacrificarsi per esso. Troppo era, d’altra parte, impegnata, con tutta la passione ed energia che possedeva, in una duplice lotta: l’una, municipale e intestina e spesso feroce, tra famiglia e famiglia cospicua e ambiziosa dello stesso Comune, del Comune che per secoli era stato l’unica forma di vita pubblica di quelle popolazioni di provincia; l’altra, di sospetto e di difesa contro il contadinàme, che, avverso ai baroni, era anche più avverso ai nuovi proprietari locali, usciti dal suo seno, impinguati delle sue fatiche, più duri verso di esso, come accade ai nuovi arrivati. Sicchè questa borghesia... forniva un aiuto assai scarso alla classe intellettuale, disposta com’era più a ricevere che a dare, a prestar sussidio di parole più che di fatti; e, dall’altro canto, coi suoi comportamenti verso il contadinàme, lo rendeva diffidente e ostile ai novatori.... Era comune la ritrosìa, anche della gente perbene, ad assumere pubblici uffizi, per paura di compromettersi, per pigrizia, per indifferenza; lodevole e onorevole sembrava infatti la massima, che abbiamo udito ripetere fino ai nostri giorni, che il galantuomo deve farsi i fatti propri, ossia non impacciarsi della cosa pubblica” (35). Fu dunque anzitutto la classe borghese a far mancare l’appoggio alla sua stessa avanguardia politica e culturale; cioè, a Barra, ai vari Clino Roselli, Annibale Minichino, Nicola Magliano, etc. che rimasero ben presto del tutto isolati nel loro stesso ambiente di provenienza. Ma l’Ottocento fu il secolo della borghesia in ascesa, e l’obiettivo del potere, che essa aveva mancato nel 1799, riuscì comunque a raggiungerlo in seguito: prima con l’aiuto dell’esercito napoleonico (nel decennio francese, 1805-1815) e poi, attraverso le tappe del 1820-21, del 1848 e del 1860, con l’annessione del Regno meridionale al Regno sabàudo d’Italia. fu la vicenda storica di quello che Croce chiama con sprezzo “il contadinàme”, che era Dpoiiversa la stragrande maggioranza della popolazione del Regno (e, nella fattispecie, di Barra). I contadini, nelle vicende del 1799, si orientarono, in modo irriflesso ma in definitiva del tutto giusto, in senso anti-borghese: essi, in realtà, avevano tutto da perdere e ben poco da guadagnare nel passare dal dominio degli antichi “signori” aristocratici a quello dei nuovi “padroni” borghesi, che li avrebbero sfruttati in modo molto più intenso e, in più, privati dei tradizionali “usi civici” sulle terre demaniali dei quali essi godevano. Ma la mobilitazione in massa dei contadini, sotto le bandiere del re Borbone e della religione cattolica, riuscì in realtà solo a ritardare di qualche anno l’instaurazione dei nuovi rapporti di proprietà nelle campagne: a partire dal decennio francese, le terre degli antichi feudi, laici ed ecclesiastici, passarono lentamente ma inesorabilmente nelle mani dei nuovi padroni borghesi e le terre demaniali cessarono in gran parte di essere “zona franca” per essere a loro volta divise e privatizzate. Il fenomeno del brigantaggio post-unitario (1860-65) fu l’ultimo disperato grido di rivolta dell’antico contadino meridionale. Soffocato questo grido nel sangue dalle baionette dell’esercito piemontese, ai contadini non rimase che prendere silenziosamente, ed in massa, la via dell’emigrazione oltre Oceano. Quelli che rimasero, però, iniziarono a maturare una nuova coscienza dei propri diritti e della propria autonomia come classe. Le loro lotte cominciarono ad essere combattute “in proprio” e non più sotto le bandiere del feudalesimo. Dalle loro file, cominciarono ad uscire gli operai della nascente industria, che furono l’asse portante di una nuova stagione di lotte per il miglioramento complessivo degli strati più poveri della popolazione. Nel 1892 nacque il Partito Socialista dei Lavoratori italiani. 20
Il nostro territorio, come tutta l’area orientale della città, fu interessato alla “Legge speciale per Napoli” n. 351 del 1904, che istituì la “zona industriale”.... ma già nel 1899, proprio a 100 anni dalla vicenda della repubblica napoletana, era sorta, anche nel Comune di Barra, la “Società operaia di mutuo soccorso”, tuttora esistente. entre la classe borghese si avviava ad abbracciare il fascismo, e comunque a venir meno Msempre di più a quegli ideali di “libertè, egalitè, fraternitè” in nome dei quali avevano
combattuto i suoi uomini migliori, il movimento autonomo dei lavoratori diventava erede, allo stesso tempo, degli ideali dei rivoluzionari del 1799 e del desiderio di riscatto economico e sociale delle masse contadine che allora li avversarono. (35) Croce, op. cit.
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Biblio grafia Benedetto Croce - “Storia del Regno di Napoli” (1924) - Ed. Adelphi, Milano 1992. Benedetto Croce - “La rivoluzione napoletana del 1799” (1896) - Ed. Laterza, Bari 1968. Pietro Colletta - “Storia del Reame di Napoli”, con introduzione e note di Nino Cortese - Ed. LSE, Napoli 1957. Vincenzo Cuoco - “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” - Ed. Procaccini, Napoli 1995. Antonino Cimbalo - “La lunga marcia del card. Ruffo alla riconquista del Regno di Napoli” (1799) - Ed. A.Borzi, Roma 1967. Mario Battaglini - “Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica napoletana del 1799” - Ed. SEM, Chiaravalle 1983. Mario Battaglini - “Mario Pagano e il progetto di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799” - Archivio Guido Izzi, Roma 1994. Mario Battaglini - “Il Monitore napolitano 1799” - Ed. Guida, Napoli 1970. N. Rodolico - “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale (1798-1801)” - Ed. Le Monnier, Firenze 1926. P. Pieri - “Il clero meridionale nella rivoluzione del 1799” in “Rassegna storica del Risorgimento”, IV, 1930 (pagg. 180-186). Alberto Consiglio - “Lazzari e Santa Fede” - Napoli, 1936. Gabriele Monaco - “Piazza Mercato: sette secoli di storia” - Ed. Athena Mediterranea, Napoli 1970. Anna Maria Rao - “La Repubblica napoletana del 1799” - Ed. Newton Compton, Roma 1997. Anna Maria Rao - “Il Regno di Napoli nel Settecento” - Ed. Guida, Napoli 1983. Silvio de Majo - “Breve storia del Regno di Napoli” - Ed. Newton Compton, Roma 1996. Silvio de Majo - “Ferdinando IV di Borbone” - Ed. Newton Compton, 1996. A. Lepre - “Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento” - Ed. Riuniti, Roma 1969. Davide Palomba - “Memorie storiche di S.Giorgio a Cremano” (1881) - Riedizione anastatica Ed. Atesa, Bologna 1984. Pompeo Centanni - “Il nobile casale della Barra” - Ed. Fausto Fiorentino, Napoli 1997. Enzo Striano- ”Il resto di niente”- Ed.Loffredo, Napoli 1986 (III edizione).
Gli autori saranno molto grati a chi vorrà segnalare loro ulteriori fonti e documenti relativi al tema specifico di Barra nel periodo della rivoluzione napoletana del 1799. Chi volesse, può rivolgersi a : Angelo Renzi - Tel. 081/572 78 52. Pompeo Centanni - Tel. 081/27 15 59
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