L'anno che è stato

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Già usciti:

agosto 2008 Gli incontri 2004-2007

gennaio 2011 senza titolo (2008-2010)

ottobre 2015 Gli anni che furono

ricordi di dodici anni in 133 copertine e qualche film.

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Premessa Quello appena passato è stato, superfluo dirlo, un anno difficile. Ci siamo visti una volta, a gennaio, e poi, di corsa, mascherati, a settembre, sempre sospesi tra l’”andrà tutto bene” (eh, sì, lallero) e la fine del mondo conosciuto. In ogni modo, oltre agli incontri fisicamente espletati, sono mancate le schede libro che volta per volta ci ricordano che cosa abbiamo letto. Allora le ho riunite qui, infarcendole però stavolta di curiosità, notizie a latere, forse anche qualche pettegolezzo sui nostri autori e sui nostri libri. E allora, per dirla con Marquez, che è stato uno degli autori del 2020, visto che “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”, ecco, quella di queste pagine è stata la nostra vita dell’anno scorso. E già che ci siamo, visto che per la maggior parte dell’anno siamo stati costretti fra quattro mura, l’augurio è che ognuno di noi possa dire che “i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità”. In attesa di tempi migliori.

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‘Ala al-Aswani Il 2020 è iniziato con la proposta di Mariella sul signor ‘Ala al-Aswani, e con un libro che l’autore stesso ha definito un reality, cioè “il racconto della realtà con un po’ d’immaginazione”. E i personaggi sono invisibili, è vero, con nomi e cognomi inventati, ma esistono davvero. Chi ha vissuto la rivolta di piazza Tahrir del gennaio 2011, nei giorni e nei mesi seguenti fino al suo fallimento, di quei personaggi può riconoscere volti e nomi reali. Sono corso verso il Nilo non è però un reality. È la scena dalla quale entrano, escono e rientrano i protagonisti, tutti veri, a parte i nomi, appunto. Il luogo dell’azione è Il Cairo. Cadente e bellissima come sempre, se non fosse che piazza Tahrir, la Corniche, Maspero, Talaat Harb, Al Kasr Al Aini, il ponte 6 Ottobre, sono i luoghi del massacro. Il romanzo è forse meno bello di Palazzo Yacoubian, dello stesso autore, ma è più potente. Qualcuno lo ha paragonato a Guerra e pace: l’affresco di un grande fatto storico del quale è nota la fine, e ciò nonostante è letto e riletto: nonostante la tristezza per la prevista sconfitta, la descrizione di un regime bugiardo e brutale, l’uso ipocrita della religione, la mediocrità di un popolo sottomesso, la tragica fine di una generazione. Questo è stato Piazza Tahrir che al-Aswani ha vissuto in prima linea, e questo è Sono corso verso il Nilo. Era l’estate del 2013 e la “rivoluzione” era già andata oltre il punto in cui finisce il romanzo. La rivolta di piazza Tahrir era stata una sommossa spontanea contro 7


la palude del regime. Il web, alJazeera, Cnn e le pressioni internazionali avevano impedito a Hosni Mubarak di usare fino in fondo la tradizionale violenza poliziesca. Poi, di fronte al pericolo, i militari hanno sacrificato Mubarak, dando alla rivoluzione l’abbaglio della vittoria. Intanto l’apparato che governava l’Egitto dai tempi di Nasser, rimetteva in piedi la sua macchina della falsificazione e del consenso. Per questo Piazza Tahrir era tornata a riempirsi e a rappresentare un clima di crescente malcontento popolare: migliaia di persone erano affluite nella zona per partecipare alla protesta indetta dagli attivisti e sostenitori della rivoluzione, contro la sentenza per l’uccisione dei manifestanti durante le rivolte di piazza che avevano portato alla caduta del vecchio regime. Tuttavia, ancor più che le condanne all’ergastolo pronunciate nei confronti dell’ex presidente deposto Hosni Mubarak e dell’ex ministro degli Interni Habib el Adly, a provocare la rabbia dell’opinione pubblica egiziana era stata l’assoluzione di cinque dei sei generali responsabili della sicurezza nei giorni delle proteste. Il generale al-Sisi stava già organizzando il golpe per esautorare il governo dei Fratelli musulmani. Era sostenuto da milioni di egiziani, compresi molti giovani di piazza Tahrir. E alla fine al-Sisi non ha fatto che riportare al potere il vecchio regime militare, ancora più brutale di quello di Mubarak. “Abbiamo fatto una rivoluzione di cui nessuno aveva bisogno e che nessuno voleva. E siccome noi abbiamo mostrato la verità agli egiziani, loro ci odiano dal profondo del cuore”, dice un personaggio 8


femminile che per essere stata fra “quelli di Tahrir” è arrestata, umiliata e torturata per settimane. “Non si meritano il mio sacrificio”, conclude dopo essere partita per l’esilio. Poi c’è il coro, i cairoti, sintesi dell’intero Egitto. La loro natura gregaria è racchiusa in un personaggio: un ex militante comunista diventato alto funzionario del regime che lo aveva incarcerato e torturato per dieci anni. “Il popolo egiziano – dice – non si ribella e se anche si ribellasse, la sua rivoluzione fallirebbe perché gli egiziani sono dei codardi, sottomessi per natura all’autorità. Sono l’unico popolo nella storia del mondo che ha elevato i suoi re al rango di divinità e li ha resi oggetto di culto. La cultura che abbiamo ereditato dai faraoni è una cultura di totale obbedienza al sovrano. Il popolo egiziano adora i dittatori, assoggettarsi a un despota lo fa sentire al sicuro”. E se ogni capitolo narra in via autonoma un frammento di storia, è il colto Ashraf Wissa, cattolico copto, e autentico alter ego dell’autore, che descrive impietosamente le dinamiche interne, direi intime e domestiche, della società egiziana. Ashraf Wissa è un artista di estrazione altoborghese che vive ai margini della società. È l’attore di teatro costretto, con sommo disgusto, a fare piccole apparizioni nelle serie televisive popolari che squarcia il velo attorno alle problematiche più delicate della società egiziana, all’estero trascurate e, stante la presenza maggioritaria dell’Islam, considerate in forma monolitica. Per contro, è questo personaggio che descrive, con finezza psicologica, la problematicità dei matrimoni misti, le doppiezze della vita coniugale e le rigide quanto anacronistiche distinzioni sociali esistenti nel paese tra classi abbienti e meno abbienti. ‘Ala al-Aswani (che è nato a Il Cairo da un'abbiente famiglia borghese, ed è dentista e scrittore), dopo il successo di Cairo Automobil Club sentiva “il dovere morale e politico di scrivere un romanzo sulla rivoluzione. Lo devo fare anche se so che potrebbe costarmi”.

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Lo scrittore ora vive negli Stati Uniti. È convinto che il regime di al-Sisi cadrà: “Applica le vecchie formule di potere ma in una realtà nuova”. Nemmeno lui però si sente di dire quando gli egiziani se ne accorgeranno. I dati cronologici successivi, quelli delle elezioni legislative con un Parlamento composto da un rilevante numero di rappresentanti dei Fratelli Musulmani, quelli delle elezioni presidenziali che portarono la vittoria a Mohamed Morsi, e infine i fatti determinanti l’ascesa del maresciallo Abdel Fattah Al-Sisi, non trovano posto nel libro, ma vengono narrati in un’opera già pubblicata dall’editore libanese dal titolo Joumouriyyat ka’anna (La Repubblica come se),- di prossima pubblicazione in Italia- nella quale l’autore, continuando denunce su denunce, afferma che l’attuale regime finge, ai danni della collettività, di essere una Repubblica. È notizia del marzo 2019 che lo scrittore sia stato citato in giudizio dai generali del proprio paese per rispondere di offese derivanti sostanzialmente dall’attività di romanziere. Le accuse erano un chiaro messaggio intimidatorio a chi, proprio in ragione del forte impegno intellettuale, operava manifestando liberamente il proprio pensiero. Così lo scrittore-dentista, pluripremiato e molto amato sia in Egitto sia in occidente, è costretto a vivere in America, in una sorta di esilio volontario; è costretto a usare Twitter per denunciare i ripetuti controlli alla frontiera quando tenta di rientrare nel paese del quale è cittadino; è costretto a pubblicare i propri scritti presso una 10


casa editrice libanese, la Dar Al-Adab, nonostante sia un autore da milioni di copie vendute nel mondo e attualmente subisce l’ostracismo e la censura proprio nel luogo dove sono ambientati tutti i suoi libri: l’Egitto. Anche il romanzo Sono corso verso il Nilo è stato rifiutato dagli editori egiziani per il timore di inimicarsi i potenti del momento, ed è stato pubblicato in Libano nel gennaio 2018 mentre in Italia l’opera è stata tradotta dall’arabo da Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio ed è comparsa nelle librerie per i tipi Feltrinelli, nell’ottobre dello stesso anno.

‘Ala al-Aswani, Sono corso verso il Nilo Feltrinelli, Milano 2018 pagg. 382, euro 18

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gennaio 2020 Mentre, leggendo leggiadri, apprendiamo dei fatti d’Egitto, in questo mese gli incendi in Australia che sono partiti nel 2019, e che hanno già ucciso 500 milioni di animali, iniziano ad essere controllati e parzialmente domati. I primi del mese, l'Iran lancia missili contro basi militari statunitensi in Iraq in rappresaglia all'uccisione di Qasem Soleimani avvenuta il 3 gennaio all'aeroporto internazionale di Baghdad: due basi militari statunitensi situate in Iraq vengono danneggiate, ma viene anche abbattuto per errore l'Ukraine International Airlines 752 uccidendo 176 persone. Il 23 gennaio, sotto gli occhi tutto sommato abbastanza indifferenti del mondo, il governo cinese, a causa di un'epidemia di un nuovo ceppo di coronavirus, mette in quarantena la metropoli di Wuhan, e successivamente espande il provvedimento a quasi tutta la provincia di Hubei. Si tratta della più grande quarantena mai disposta nella storia umana per estensione e numero di persone coinvolte. Il 30 gennaio, l'Organizzazione mondiale della sanità dichiara l'epidemia del nuovo coronavirus "emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale". Il 31 gennaio, a mezzanotte, il Regno Unito cessa ufficialmente di essere uno Stato membro dell'Unione europea, iniziando così un periodo di transizione lungo 11 mesi.

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febbraio 2020 Mentre navighiamo per i sette mari, un certo Donald Trump, presidente degli USA, viene assolto dal Senato dall’impeachment a suo carico, e questo non è un errore di datazione, è proprio successo un anno prima, è il primo impeachment, e riguarda le pressioni fatte dal suo governo sull’Ucraina (e su altri leader stranieri) per avviare un’indagine sulla corruzione nei confronti dell’ex-vicepresidente Biden (sì, quello che oggi è presidente) e di suo figlio Hunter. Il processo per impeachment è iniziato al Senato il 16 gennaio 2020, e si è concluso con la sua assoluzione il 5 febbraio, poiché non ha ottenuto il sostegno della maggioranza dei due terzi dei senatori (i repubblicani hanno votato contro). A fine mese, il Dow Jones precipita di 1.190,95 punti, pari a una perdita del 4,4% registrando il suo più grande tracollo in un solo giorno nella storia. Ciò segue diversi giorni di crisi segnando la peggior settimana dalla crisi del 2008. Tutto ciò è innescato dal timore dei mercati nei confronti dell'epidemia di COVID-19. Eh, sì, perché intanto, nel sottopancia del telegiornale, la sera del 20 febbraio, è stato indicato un caso di virus a Codogno. Si parla perciò di Codogno dappertutto, in ogni angolo del mondo, anche sul New York Times; il 22 febbraio, su RaiNews avvisano che rimarranno chiuse le stazioni di Codogno, Castiglione d'Adda e Casalpusterlengo. Colpiti dalla notizia gli abitanti di Codogno e Casalpusterlengo, mentre i castiglionesi (almeno di questo) se ne fregano, perché a loro non risulta nessuna stazione dalle loro parti. Ma, insomma, l’epidemia, poi pandemia, parte ufficialmente qui e ora. Perciò l’incontro di febbraio slitta a marzo.

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Patrick O’Brian

La seconda proposta viene da Mimo, e riguarda Richard Patrick Russ, scrittore conosciuto con lo pseudonimo di Patrick O’Brian. Nato nel 1914 in Inghilterra, e morto a Dublino nel 2000, deve la sua fama nel mondo alla saga storica ambientata durante le Guerre napoleoniche, incentrata sui personaggi del capitano della Royal Navy Jack Aubrey e del suo 14


fraterno amico e inseparabile compagno di viaggio Stephen Maturin, medico di bordo, naturalista, letterato nonché agente segreto. E proprio la saga è stata oggetto delle nostre letture: c’è chi ha letto Primo comando, chi I cento giorni, chi Bottino di guerra, eccetera eccetera. E siccome pare difficile parlare di un romanzo soltanto, parleremo della saga intera, che è famosa per l'alta qualità delle ricerche storiche, per l'accurata esposizione delle complesse manovre navali all'epoca della marineria velica (al centro dei romanzi di Patrick O’Brian vi sono sempre scontri in mare aperto) e per la descrizione dettagliata della vita nel XIX secolo. A volte grandi battaglie, a volte agili duelli. Aggiungiamo, ché non guasta, uno stile evocativo e a volte ironico. L’ultimo libro completo scritto da O’Brian è Blu oltre la prua, ventesimo capitolo della serie. Gibilterra: la guerra è finita, Napoleone è stato sconfitto, ma per il capitano di vascello Jack Aubrey pace significa solo guai. Ora che mancano le occasioni di distinguersi in azioni di guerra sul mare non può più sperare di diventare ammiraglio. Non gli resta che portare a termine l’ennesima missione idrografica: partire alla volta del Cile per scandagliare i fondali di Capo Horn e i suoi temibili stretti, con il fedele amico Stephen Maturin, chirurgo di bordo. Ma quella che dovrebbe essere una banale spedizione si rivela molto più insidiosa del previsto. In realtà, va detto, esiste un ventunesimo libro, L’ultimo viaggio di Jack Aubrey, uscito postumo, dopo la morte dell’autore. Ricomposto sulla base di alcuni dattiloscritti e manoscritti, resta tuttavia un romanzo incompiuto. Jack Aubrey e Stephen Maturin sono in Cile, dove vengono raggiunti dalla moglie e dalle figlie di Aubrey, e da un’affascinante amica di Stephen. È in programma un viaggio in Sudafrica: la rotta è per lo stretto di Magellano, poi la Terra del Fuoco, per fare provviste di cibo e acqua. Ma la meta potrebbe anche diventare Sant’Elena, dove si trova in esilio Napoleone. 15


Il primo romanzo della saga, Master and Commander il titolo originale, è diventato anche un film con lo stesso titolo, e con protagonista Russel Crowe. Master and Commander ha ricevuto ben dieci candidature ai Premi Oscar 2004, comprese quelle per il miglior film e il miglior regista (il sempre ottimo Peter Weir), ma ha dovuto soccombere all'insuperabile concorrenza del kolossal fantasy Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re. Infine, vale forse la pena di accennare che l’autore ha avuto una vita misteriosa, e forse altrettanto avventurosa: intanto non si sa di sicuro dove sia nato: la sua biografia indica come città natale un villaggio del Buckinghamshire, in Inghilterra, Chalfont St.Peter. Tuttavia, alcune fonti lo definiscono irlandese e lui stesso parlava di sé come di “un britannico di origine irlandese”. In ogni modo, nato nel 1924, era figlio di Charles Russ, medico inglese di origine tedesca, e Jessie Russ, inglese di origine irlandese. Ottavo di nove figli, O'Brian perde la madre all'età di quattro anni, e i suoi biografi descrivono un'infanzia piuttosto isolata, limitata dalla povertà, con una sporadica scolarizzazione dal 1924 al 1926, mentre viveva a Putney, e poi, dal settembre 1926 al luglio 1929, dopo che la famiglia si è trasferita a Lewes, ma con intervalli a casa con il padre e la matrigna Zoe Center. 16


La sua carriera letteraria inizia nell’infanzia, con la pubblicazione delle sue prime opere, tra cui alcuni racconti. Il libro Hussein, An Entertainment e la raccolta di racconti Beasts Royal sono stati elogiati soprattutto in considerazione della sua giovinezza. Pubblica il suo primo romanzo (Caesar: La storia della vita di un leopardo panda) a 15 anni, con l'aiuto di suo padre. Nel 1927 fa domanda, senza successo, per entrare al Royal Naval College di Dartmouth. Allo stesso modo, la sua domanda di arruolamento nella Royal Navy viene respinta per motivi di salute. Nel 1934 si sottopone a un breve periodo di addestramento per piloti della Royal Air Force, ma non ha successo. Nel 1935 vive a Londra, dove nel 1936 sposa la sua prima moglie, Elizabeth Jones. Ha due figli. La seconda è una bimba che soffre di spina bifida e che muore nel 1942, all'età di tre anni, in un villaggio di campagna nel Sussex. Quando la bambina muore, O'Brian è già tornato a Londra, dove lavora per tutta la durate della guerra. I dettagli del suo lavoro durante la seconda guerra mondiale sono oscuri: lavora come autista di ambulanze, e ha anche dichiarato di aver lavorato nell'intelligence. Il decano King ha affermato che era attivamente coinvolto nel lavoro di intelligence e forse in operazioni speciali all'estero durante la guerra. In effetti, nonostante la solita estrema reticenza sul suo passato, lo stesso O'Brian ha scritto in un saggio (Nero, collerico e sposato?, incluso nel libro Patrick O'Brian: Apprezzamenti critici e una Bibliografia) che: “Qualche tempo dopo la fine del blitz mi sono unito a una di quelle organizzazioni di intelligence che fiorirono durante la guerra, cambiando continuamente le loro iniziali e facendo concorrenza l’una all’altra. Il nostro lavoro aveva a che fare con la Francia, e non dirò altro, poiché rivelare metodi e stratagemmi che hanno ingannato il nemico una volta e che possono ingannarlo di nuovo mi sembra sciocco. Dopo la guerra ci ritirammo in Galles (dico noi perché io e mia moglie avevamo guidato ambulanze e servito insieme nei servizi 17


segreti) dove vivemmo per un po' in una valle di lingua gallese...”. Questo passaggio, dunque, conferma in prima persona il legame con i servizi segreti, oltre a presentare sua moglie Mary Wicksteed Tolstoy (moglie separata del nobile di origine russa, e avvocato, conte Dimitri Tolstoy) come collaboratrice e collega dei servizi segreti. Tuttavia, Nikolai Tolstoy, figliastro del matrimonio di O'Brian con Mary Tolstoy, contesta questo resoconto, confermando solo che O'Brian ha lavorato come autista volontario di ambulanze. In ogni modo, O’Brian e Mary Tolstoy vivono insieme l'ultima parte della guerra e, dopo che entrambi hanno divorziato dai loro precedenti coniugi, si sposano nel luglio del 1945. Il mese successivo l’autore cambia il suo nome di nascita con quello con cui lo conosciamo oggi. Tra il 1946 e il 1949 gli O'Brian vivono in una valle sperduta nel nord del Galles, dove inizialmente affittano un cottage. O'Brian segue il suo interesse per la storia naturale: pesca, fa birdwatching e segue la caccia locale. Durante questo periodo vivono del piccolo reddito di Mary O'Brian e dei limitati guadagni degli scritti di O'Brian. Nel 1949 O'Brian e Mary si trasferiscono a Collioure, una città catalana nel sud della Francia. Lui e Mary rimangono insieme a Collioure fino alla morte di lei, avvenuta nel 1998. La morte della moglie è stato un duro colpo per O'Brian. Negli ultimi due anni della sua vita, soprattutto una volta che i dettagli della sua prima vita sono stati rivelati al mondo, diventa una “figura solitaria, torturata, e in ultimo forse paranoica” (sempre secondo la testimonianza del figliastro). O'Brian ha sempre ferocemente protetto la sua privacy ed è riluttante a rivelare qualsiasi dettaglio della sua vita privata o del suo passato, preferendo, ad esempio, non includere dettagli biografici sulle copertine dei suoi libri e fornendo solo un minimo di informazioni personali quando gli viene richiesto di farlo. Per molti anni i recensori e i giornalisti hanno creduto che fosse irlandese, e lui non 18


ha mai fatto nulla per correggere l'impressione. Un intervistatore ha descritto l'uomo, alla fine dei suoi settant'anni, come “un signore austero... i suoi occhi pallidi sono chiari e vigili”, sempre educato, formale ed erudito nella conversazione, ma utilizzando proprio l’erudizione in modo intimidatorio. Richard Ollard, uno storico della marina, chiama questa sua particolare abitudine come tendenza a “mettere la gente fuori gioco”. Ollard, che cura i primi romanzi di Aubrey/Maturin, esorta O'Brian a smorzare le allusioni più oscure, ma i libri rimangono pieni di parole latine, di una terminologia medica antiquata e di un flusso infinito di un meraviglioso ma impenetrabile gergo navale. “Come molti che si sono battuti”, dice Ollard del suo amico, “pensava che anche gli altri dovessero lottare”. Un conoscente di lunga data afferma la stessa cosa in modo più diretto: “Patrick può essere un po' snob, socialmente e intellettualmente”. Nella sua biografia di O'Brian, Nikolai Tolstoy afferma di fornire un resoconto più accurato ed equilibrato del carattere, delle azioni e delle motivazioni del suo defunto patrigno, in particolare per quanto riguarda il suo primo matrimonio e la sua famiglia. Un recensore afferma però che Tolstoy “dà il ritratto di un uomo freddo, prepotente, isolato, snob e super sensibile” e che, per questo, è necessario mettersi “d'accordo, noi O'Brianisti, di leggere i romanzi e di dimenticare tutto il resto”.

Patrick O’Brian, Primo comando Longanesi, 2010 pagg. 450, euro 12

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marzo 2020 Rassegnàti a un isolamento che speriamo breve (ah, ingenui), sballottati da una navigazione a vista, apprendiamo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ciò cui stiamo assistendo impotenti non è un’epidemia, ma una pandemia. Il primo del mese siamo chiusi in casa da dieci giorni, tutti parlano di noi, con il tempo di marzo che si è deciso a fare il tempo di marzo, e noi che si diventa insofferenti davanti a due categorie precise di persone: i politici e i giornalisti (ma va'?). I primi, va da sé, paiono ormai irrecuperabili, incapaci di gestire una comunicazione logica, e di dare retta a quello che di sicuro ha sempre detto anche a loro la loro nonna: prima di parlare, si tace. In questo periodo, tutti ci tengono lontani, hanno paura di noi: prima hanno paura dei codognesi, poi dei lodigiani, poi dei lombardi, poi di tutti gli italiani. E così, mentre mi viene da pensare che Salvini o chi per lui indossi sempre più a proposito il suo coglioncino a collo alto, veniamo bombardati da messaggi pseudo-sovranisti che recitano più o meno questo: visto che gli altri Paesi ci schifano, non vogliono avere a che fare con noi, chiudono le (loro) frontiere, noi ora compreremo soltanto prodotti di aziende italiane (gnè gnè gnè). Questi messaggi arrivano tramite Whatsapp, azienda notoriamente ormai di Facebook, che marchia il territorio e ci segnala che tutto ciò che stiamo usando è di Zuckenberg, cioè viene da Menlo Park, che sta in California. Questi messaggi arrivano da cellulari del gruppo Samsung: pronuncia coreana: /sʰamsʰʌŋ ɡɯɾup, e anche qui non siamo in Italia; oppure da iPhone, marca Apple Inc, sempre da California; oppure (ah ah ah) da apparecchi Huawei, con sede a Shenzhen, che sta in Cina. Questi messaggi non tengono conto che la mia lavatrice è Electrolux, che ha aziende in Italia ma è svedese, e ha acquisito anche Castor, Rex, Zanussi, Zoppas. Questi messaggi li vedo sul mio computer, che non è italiano, perché ormai Olivetti è morto e sepolto, e con lui abbiamo assistito alla nascita e alla morte della rivoluzione informatica che ha portato alla progettazione del primo pc e dei primi microprocessori del mondo, che tuttavia non sono più nostri. Non ne usciremo migliori. 20


Dave Eggers In tutto questo marasma, Dario, con la sua scelta, ci butta all’interno del Cerchio di Dave Eggers, libro che alcuni considerano l’erede di 1984 di George Orwell. È un romanzo contemporaneo, a metà tra il genere distopico e quello fantascientifico, con una trama sufficientemente originale (va ricordato che esce nel 2014), le descrizioni dense di particolari, i personaggi che dominano l’ambiente attraverso dialoghi, azioni e pensieri: Il Cerchio è senz’altro un romanzo brillante, ma soprattutto offre anche un punto di vista singolare sul rapporto che esseri umani e aziende hanno nei confronti della tecnologia, al giorno d’oggi. La narrazione avviene attraverso gli occhi della protagonista, Mae, ventiquattrenne che viene assunta al Cerchio per occuparsi dell’Assistenza clienti. Il Cerchio è infatti un’azienda di Web Marketing, guidata da Eamon Bailey, da Stenton, lo squalo capitalista e da Ty, il misterioso alternativo. L’azienda investe i propri profitti anche per occuparsi di importanti scoperte e innovazioni in diversi campi, da quello scientifico, a quello tecnologico, umanitario, sociale, medico, dell’educazione… L’azienda è grande quanto una città – viene infatti chiamata “campus” e i dipendenti “circles” – e offre a chi vi lavora dei benefit gratuiti che farebbero invidia a chiunque, persino alle attuali sedi di Google e Facebook. Le innovazioni tecnologiche del Cerchio danno 21


libero accesso a qualsiasi essere umano non soltanto ai dati sensibili dell’intera popolazione mondiale, ma anche a quello che accade alle persone in tempo reale, grazie a una telecamera delle dimensioni di un pollice, che invia tutte le informazioni a un archivio digitale. Tutto ciò, però comporta una quasi totale dipendenza dai social media a discapito della privacy. La privacy è egoismo, la privacy è un reato, e quindi: condivisione continua, annullamento di sé stessi, completa trasparenza. L’essere umano si spoglia del proprio lato oscuro, che, però, è quello che permette di capire i propri limiti, di accettarsi, di essere unico nella propria imperfezione; e diviene un robot, perfetto nella propria condotta. Nel romanzo, il giudizio degli altri diviene lo strumento principale in grado di partorire una realtà priva di qualsiasi male e scorrettezza, in un crescendo di monologhi, ossessioni, lavaggio del cervello, verso una realtà inquietante. Il romanzo è diventato presto un film con Tom Hanks nella parte del carismatico Eamon Bailey, e Emma Watson nella parte della giovane Mae, una Mae che, tuttavia, non è la stessa del romanzo. Una Mae innocente, priva di quel lato torbido che invece spicca tra le pagine scritte da Eggers, una Mae che appare travolta e sopraffatta dagli eventi, mentre i lettori sanno che è stata la sua ambizione a portarla fino al punto di non ritorno. Un film, tutto sommato, superficiale, che sorvola su buona parte delle idee del libro, prendendo quelle più semplici da trasporre in due ore sul grande schermo e cambiando completamente il ruolo di certi personaggi, nonché stravolgendo il finale.

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E anche qui, l’autore può risultare forse ancora più interessante della sua opera: nato a Boston nel 1970, Dave Eggers è cresciuto a Lake Forest, un ricco sobborgo di Chicago. I genitori muoiono di cancro a poche settimane l'uno dall'altro quando ha ventun anni. Ha un fratello e una sorella più grandi. Un fratello più piccolo a cui fa da padre da quando restano orfani. Si trasferiscono a Berkeley, e successivamente a Brooklin. Eggers fonda la rivista satirica Might e poi quella letteraria Mc Sweeneys, e disegna cartoons per il San Francisco Weekly. La parte che segue la morte dei genitori è raccontata nel suo primo romanzo, L’opera struggente di un formidabile genio, pubblicato nel 2000. Il romanzo inizia con le successive morti dei genitori di Dave, che rimane solo con Toph, di sette anni. La storia è quella del loro rapporto seguente e della loro condizione di orfani: Dave è padre, fratello maggiore, coetaneo, amico, istitutore. Il primo romanzo contiene, in quest'ordine: una pagina colophon piena di considerazioni e dati anomali, tra cui un grafico sull'orientamento sessuale dell'autore; una pagina di “Regole e suggerimenti per l'apprezzamento di questo libro”; una prefazione che cita testuali tutte le “omissioni” compiute sul testo che segue, e le epigrafi eliminate “perché l'autore non si sente il tipo che usa delle epigrafi”; un indice; una sezione di ringraziamenti; un aneddoto; considerazioni sulla scelta di scrivere un libro sulla morte dei propri genitori e sulle sue implicazioni; una contabilità dei guadagni e delle spese connesse al libro, eccetera, eccetera. 23


C'è una cosa di fondo che lega le molte acrobazie letterarie, le trovate, le situazioni divertenti, le soluzioni originali: Eggers cerca di capire le regole delle cose, di smontarne i pezzi e di metterli in ordine, per mostrarli in un modo diverso e più semplice. Si tratti della condizione di neo-orfani, del suo diventare un padre per Toph, del come si fa un libro, di cosa è un'intervista, di cosa è un racconto. Eggers sa individuare le pecche del suo libro e del suo scriverlo. Le anticipa nell'introduzione. Mette in bocca a Toph le obiezioni possibili. Addirittura anticipa le obiezioni a questo stesso procedimento. Invece di risolverle, le introduce nel libro, le rende parte dell'opera. Eggers vive a Brooklyn e ha rapporti conflittuali col New York Times, con cui di tanto in tanto collabora. Nel marzo 2001 il giornalista Kirkpatrick gli chiede un'intervista, insistendo e adulandolo a lungo. Lui acconsente solo dopo molti rifiuti e controvoglia. Dà interviste solo per email. Chiede esattezze e verifiche. È maniaco delle parole, e odia le approssimazioni sui giornali. Kirkpatrick obbedisce e lo asseconda con correttezza, ma un ritardo di qualche ora impedisce a Eggers un ultimo controllo sul pezzo, che esce con qualche aneddoto falso o sbagliato e con qualche citazione del suo pensiero un po’ forzata. Irritatissimo, lamentando il "tono" secondo lui prevenuto del pezzo, pubblica tutto il carteggio sulle Clarifications della sua rivista (McSweeney's), malgrado le richieste del giornalista di non farlo, sostenendo che questo gli insegnerà a diventare migliore: Kirkpatrick ci fa una figura da leccaculo, Eggers da fanatico megalomane. Eggers sembra comunque avercela con i giornalisti in generale. Li evita come la peste. Recalcitra di fronte a richieste delle maggiori testate. L'articolo “Sono-stato-maltrattato-da-Dave-Eggers” è diventato un genere giornalistico a sé stante. A Eggers piace divertirsi e inventare cose nuove. Quindi è annoiato anche dal continuare a parlare del suo primo romanzo o delle cose che racconta: “Ogni volta che mi capita 24


di sfogliarlo – dice – ci trovo degli errori”. Forse ci fa, e comunque ne esce un geniale snob arrogante ed egocentrico. Alla fine, Dave Eggers è per molti la perfetta incarnazione del mito dello scrittore moderno. Ha fondato la rivista letteraria più invidiata al mondo, la già citata McSweeney’s, e insieme alla moglie Vendela Vida un’altra non meno scintillante, The Believer —quando Isbn ne pubblicò la prima antologia in Italia, sembrò a molti che quelle pagine arrivassero dritte da un altro pianeta —, ma anche un progetto di educazione per i ragazzi delle periferie, 826 Valencia, che da San Francisco si è poi diffuso nel resto del mondo; ha firmato sceneggiature e salmodiato in un disco di Beck; sotto pseudonimo ha pubblicato libri per bambini e sempre per i bambini ha aperto nel quartiere di Mission un negozio a tema piratesco pieno di botole e anfratti e giochi assurdi, imprevedibile e inclassificabile come lui. Immagino sia faticoso, talvolta, essere preceduto da una biografia così composita, perché in fin dei conti Dave Eggers è comunque e prima di tutto uno scrittore di narrativa.

Dave Eggers Il cerchio Mondadori, 2017 Pagg. 396 pagg, euro14,50

p.s.: gli ultimi libri usciti sono La parata, racconto lungo in cui i due personaggi principali sono protagonisti di un’allegoria sulla guerra; e Il Capitano e la Gloria, altro racconto (breve) in cui la Gloria è un bastimento grande come tutti i bastimenti messi insieme.

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Valeria Luiselli Giovanna ci presenta, sempre in aprile, ma verso la fine, sette scatole che stanno nel baule di una macchina che attraversa gli Stati Uniti, e due sono vuote. È questo il minuscolo e perfetto meccanismo narrativo usato da Valeria Luiselli in Archivio dei bambini perduti. Il romanzo ci appare come un’enorme scatola che ne contiene molte altre, quasi senza fondo. Contiene un’auto su cui sale una coppia con due figli per partire da New York e attraversare gli Stati Uniti fino al confine messicano: per scoprire quel che resta delle tribù apache, per indagare sui bambini che arrivano dal Centroamerica. Contiene le voci dei viaggiatori e i suoni dei paesaggi attraversati che il padre registra ad ogni tappa; i pensieri della donna che sconfinano nei libri che legge di notte, nelle notizie intercettate via radio, nelle riflessioni su progetti letterari e crisi di coppia; i ragionamenti originali e intelligenti, insistenti, a volte commoventi, di due bambini di cinque e dieci anni che cercano di capire dove stanno andando e dove vanno quegli altri bambini che viaggiano da soli: «Dopo tutto quel tempo a campionare e registrare, avevamo un archivio pieno di frammenti di vite di estranei ma non avevamo pressoché nulla della nostra vita insieme. Ora che ci stavamo lasciando alle spalle un intero mondo, un mondo che noi avevamo costruito, non c’era quasi nessuna registrazione, nessun paesaggio sonoro di noi quattro, del nostro mutare nel tempo». In questo lavoro l’autrice sconfina tra generi letterari differenti e fluidi con pagine che appaiono reportage, diario intimo, album di 26


istantanee e catalogo di cose e rumori. Amplia la narrazione contestualizzandola a livello sociale e privato. Alla storia personale e familiare infatti si affianca la vecchia storia della tribù apache chiricahua e quella contemporanea dei minori invisibili, in una narrazione continua e a più voci in cui si arriva a non distinguere più tra storie reali o inventate, lette e ascoltate o davvero vissute. Il progetto della protagonista senza nome, che si va delineando e chiarendo lungo strade polverose e motel anonimi, non è quello di indagare da dove vengano i bambini, i motivi che li hanno spinti ad attraversare il deserto senza mappe, i rischi che li hanno fatti scappare da soli, in treno o a piedi, bensì di immaginare dove vanno a finire quelli che scompaiono una volta arrivati, il limbo sospeso di chi non riesce a raggiungere la famiglia americana, la partenza di chi viene rimandato indietro, la vita di chi semplicemente si perde. Come raccontare una storia come questa? La Luiselli inventa un libro nel libro – Elegie dei bambini perduti dell’immaginaria Ella Camposanto – che le viene in soccorso inframezzando la narrazione con una storia nella storia, quella di un gruppo di bambini che superano il confine messicano a bordo di un treno clandestino, e che è in grado di riportare attualità e realtà tra gli sconfinamenti del romanzo; insieme alle polaroid in fondo alla scatola, alla fine del libro, conferma che tutto, o forse solo qualcosa, è vero. Come le incertezze nella vita di una coppia che sembra sul punto critico di incrinarsi, come le domande dei bambini che rimangono sospese senza risposte, come l’eco di uno dei paesaggi sonori che la famiglia attraversa, per tutto il tempo del viaggio sembra di sentire anche l’eco dei dubbi sull’intero lavoro, esitazioni sul senso di una ricerca come questa e sull’utilità del reportage che ne sarà il risultato, emozioni su cui si interroga lo stesso alter ego dell’autrice: «Preoccupazione politica: come può un radiodocumentario aiutare dei bambini senza documenti a trovare aiuto? Problema estetico: 27


d’altro canto, perché un racconto sonoro o una qualsiasi altra forma di narrazione, del resto, dovrebbe essere concepito per il raggiungimento di un fine specifico? […] Esitazione professionale: ma d’altro canto, l’arte per l’arte non si risolve spesso in un più che ridicolo sfoggio di arroganza intellettuale? Preoccupazione etica: e cosa mi autorizza anche solo a pensare che posso o dovrei fare arte con la sofferenza altrui?». Di origini italiane, Valeria Luiselli è nata nel 1983 a Città del Messico, ma si è trasferita negli Stati Uniti, con la sua famiglia, all'età di due anni. Il lavoro del padre nelle ONG, e più tardi come diplomatico, ha portato la famiglia in Costa Rica, Corea del Sud e Sudafrica. Dopo la separazione dei genitori, all'età di 16 anni si è trasferita a Città del Messico con la madre, ha frequentato il College in India e poi è tornata in Messico per frequentare l'università. Si è iscritta all'Università Nazionale Autonoma del Messico per studiare filosofia, e poi ha vissuto in Spagna e in Francia. A New York ha studiato danza contemporanea e ha lavorato come stagista alle Nazioni Unite, poi ha ottenuto un dottorato di ricerca in Letteratura comparata alla Columbia University e attualmente vive nel Bronx con la sua famiglia. Luiselli è autrice del libro di saggi Sidewalks e del romanzo Faces in the Crowd. Il romanzo del 2015, The Story of My Teeth, è stato finalista al National Book Critics Circle Award e ha vinto diversi premi. I libri di Luiselli sono stati tradotti in più di 20 lingue. Il romanzo del 2020 che abbiamo letto, Lost Children Archive, ha vinto la Carnegie Medal per l'eccellenza nella narrativa. Se invece vogliamo sapere di lei direttamente dalla sua voce, questo è quello che rivela di sè: «Ho pubblicato il mio primo libro, Carte false, sette anni fa: non è che non credevo di pubblicarlo, non credevo proprio che sarei mai riuscita a finirlo. Quindi già finirlo mi ha tranquillizzato: se potevo finirlo, mi sono detta, forse potevo anche pubblicarlo. L’ho allora 28


mandato in giro, come fanno tutti all’inizio. Ho beccato due rifiuti ma al terzo editore me lo hanno preso. Non un percorso troppo accidentato, dunque. Quando lavora a un libro, di solito sono contenta se faccio una pagina. Quindi circa duemila, duemilacinquecento battute, anche se non le conto così nel dettaglio. Dato che alla fine conta la qualità, a volte mi va bene anche fare sette righe, se sono buone. Poi ovviamente le attese cambiano a seconda di cosa si sta facendo. L’importante è tenere un passo regolare, cercare di mettersi al tavolo tutti i giorni. Comincio rigorosamente alle ventuno di sera e vado avanti fino alle tre o quattro di notte. A volte, se ho più energie o sono in mezzo a un momento particolarmente importante, anche le cinque. Per scrivere ho bisogno di blocchi di ore considerevoli, ci metto molto a trovare il ritmo, a reinnescarmi. Se mi dai due ore non ci faccio niente, neanche comincio. Faccio preproduzione per molto tempo, anche un anno, prima di cominciare a scrivere un libro. Prendo dei piccoli appunti testuali, leggo libri adatti ai temi che penso di affrontare, e quando il momento di scrivere si avvicina faccio anche moltissimi schemi, sebbene poi non li rispetti: la loro funzione è quella di farmi pensare, di farmi vagliare delle ipotesi. Tutto questo però tende a inquadrare più le premesse e il primo sviluppo del libro che il finale o i temi centrali: se ‘‘sapessi’’ troppo del libro, mi passerebbe la voglia di scriverlo. Scrivere narrativa è un’attività che richiede molta forza di volontà, e quindi motivazione alla scoperta, altrimenti non ce la fai».

Valeria Luiselli Archivio dei bambini perduti La Nuova frontiera, 2019 416 pp., 20 euro

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aprile 2020 Mentre noi apriamo il mese con un tuffo nel Cerchio di Eamon Bailey, e lo chiudiamo con un viaggio in auto insieme alla famiglia di due documentaristi, il mondo continua a macinare i contagi del virus e Codogno passa ormai in secondo piano, essendo ormai chiaro che il problema è diventato mondiale: ci si barcamena tra reale e virtuale, si trascurano molte delle conoscenze, dei contatti, dei parenti, persino; persino quando possono avere bisogno di aiuto, o quando ad avere bisogno di aiuto siamo magari noi. Particolarmente difficile la cosa, in questi giorni, quando, passata la centralità di Codogno, sta venendo a galla la centralità della Regione Lombardia in quella che sembra oggi una catastrofe che si poteva, sia pure in minima parte, evitare. È faticoso persino parlarne, perché, se alle cretinate di Fontana ci siamo abituati, sentire il Presidente del Consiglio che dice: non voglio fare polemica, ma la Regione poteva fare, chiudere, decidere; e sentire Gallera che sostiene: aspettavamo che decidesse il governo, e poi invece replica: "Ho approfondito e affettivamente c’è una legge che lo consente", ecco, sentire queste cose oltre a farti cadere le braccia va ad aggiungersi alle faccende delle mascherine, delle fabbriche e degli ospizi aperti, delle decisioni improvvide, e, soprattutto, del gran numero di morti che ci tormenterà a lungo. Il 16 aprile muore, per il virus, Sepùlveda, al quale il Tgcom24 attribuisce la stesura di Cent'anni di solitudine (sic e sigh). Non succede altro di notevole, nel mondo, pare, e noi vediamo Salvini con la mascherina nera, la Casellati al Senato con la mascherina arancione, Pierferdi che nel suo scranno si alza e si abbassa la mascherina, si dà una grattatina al naso e poi se la rimette lasciando fuori il nasone mentre Renzi, senza mascherina, insulta il virus vigliacco, piange sui vecchi, e parlando chiaro avvisa che i morti di Bergamo, dal Paradiso, ci stanno dicendo di ripartire, anche per loro. Un mese difficile.

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Carlo Grande In maggio, mentre si apre la nuova fase dopo la nostra quarant settantena, ci arrampichiamo sui monti de La via dei lupi, di Carlo Grande. Visto che stavolta conosco l’autore, prima di parlare del libro e di lui nelle notizie ufficiali, vi conto come l’ho conosciuto: nell’ormai lontano 2002, il portale della narrazione holdenlab.it, quello della Scuola Holden di Torino, ha ospitato un sito che si chiamava Verdeblù: spazio dedicato alla narrazione e all'ambiente. Questo c’entra con Carlo perché si è sempre occupato di cultura, ambiente, ecologia. È stato direttore responsabile della rivista di Italia Nostra, e gli venne l’idea di intrecciare la scrittura, la Scuola Holden e l’ambiente con una specie di concorso: si sarebbe scritto un racconto a più mani, un pezzo dopo l’altro. In che modo? Sandro Veronesi ha dato l'incipit e, nel corso dei mesi, dopo di lui, sono intervenuti altri cinque scrittori: Nico Orengo, Simona Vinci, Marosia Castaldi, Antonio Pascale e Gabriele Romagnoli. Nel mezzo di questi nomi, chiunque poteva scrivere il suo pezzo e spedirlo a Verdeblù, tenendo conto di ciò che c’era prima, e obbligando chi veniva dopo (illustre sconosciuto o grande scrittore) a tener conto di ciò che era stato scritto da lui. Carlo Grande, oltre a essere coordinatore del progetto, si è occupato di selezionare i testi e ha spiegato on-line i criteri della scelta, articolando il tutto con esempi di scrittura. Nel corso dei mesi, è stata selezionata una dozzina di persone (alcuni hanno avuto scelto il loro pezzo più volte) che, alla fine, hanno partecipato a Torino, alla 31


Holden appunto, a un laboratorio con l'attrice Lucilla Giagnoni per trasformare il racconto in monologo teatrale. Siccome ero tra i selezionati, ho fatto su la mia valigetta e sono andata a Torino, e poi alla scuola Holden, dove mi sono venuti incontro due persone: un tizio piccoletto e uno grande e grosso che, quando mi ha visto, ha detto: ah, è lei (cioè una che una volta ha scritto un pezzo che prendeva in giro Carlo, la scuola, il concorso, ecc., e nonostante questo non se la sono legata al dito), e io ho pensato: ah, è lui (cioè Carlo Grande, nomen omen). Invece no. Carlo era il piccoletto, che subito ci ha radunati tutti in una sala, e ha cominciato un interrogatorio: e perché e percome, dite tre cose che, chiedete una cosa che, eccetera. Ecco, di lui mi ricordo questo, e poi che ci ha portati a mangiare in un posto dove andavano tutti gli allievi e i maestri della scuola, e poi che era molto molto attratto da Valentina (una del gruppo), ma questi sono pettegolezzi, perciò basta. Finito il corso, trasformato il racconto in monologo teatrale, il 17 febbraio dell’anno dopo (2003) ci siamo ritrovati tutti a guardare Carlo e Lucilla Giagnoni (la nostra maestra e attrice) sul palco a raccontare questa esperienza e fare una lettura scenica del racconto. Il libro suo, La via dei lupi, è uscito proprio durante quell’esperimento di scrittura, perciò tutti noi lo abbiamo comprato e ce lo siamo fatti autografare. Per il resto, Carlo è stato innanzitutto insegnante, per sei, sette anni, fino a quando, nel 1989, viene assunto a La Stampa. Una decina di anni dopo, più o meno, un suo racconto vince un premio letterario per inediti presieduto da Giuseppe Pontiggia, e da lì comincia a pubblicare. Continua intanto a fare il giornalista, si dedica alla musica, al cinema, alla spiritualità (eh, sì). Nel 2015 ha realizzato il docfilm Last Angeles, girato a Los Angeles e dedicato a Hollywood e al cinema fabbrica dei sogni, e ad alcuni italiani che hanno avuto successo a Hollywood. Nel 2019 Last Angeles è arrivato su AmazonPrime Video (prima negli Usa e in Inghilterra, poi anche in Italia). 32


Mi rendo conto che qui non si è parlato, se non di straforo, del libro che abbiamo letto perciò, visto che ormai ho sforato il numero di pagine che mi ero prefissata, direi che si può almeno dir che Carlo tratta con maestria un argomento che frequenta ormai da molti anni: la montagna, e soprattutto la montagna delle sue parti: così, se uno vuole prendersi la briga di controllare, scoprirà che i luoghi citati stanno tutti in una manciata di chilometri, che molti hanno mantenuto i nomi di allora e che, con poco sforzo, si possono ritrovare nel paesaggio attuale che sta a cavallo tra Piemonte e Francia.

In più, visto che a Carlo piace scrivere di scrivere solo dopo aver visto le cose di persona, come procedimento giornalistico che «serve a creare e poi trasmettere meglio le emozioni», per descrivere gli spostamenti di François de Bardonnéche, protagonista del romanzo, ha compiuto un viaggio di tre giorni fra la valle Varaita e Bardonecchia. La scelta del paesaggio, la montagna, perciò, è conseguente alla storia trattata ma parte anche da una motivazione diversa: con quella storia si sarebbe potuto parlare anche di natura (essendo il 33


Medioevo immerso nell'ambiente molto più di quanto non sia ai giorni nostri: foreste, campagne, animali selvatici...) e in più si trattava di un nobile che viveva in montagna, una delle ambientazioni che l’autore preferisce. Così, nel corso del romanzo s'instaura un rapporto forte fra l'uomo e la montagna: si radicano i valori legati alla montagna, e in genere alla gente che ci vive: la tenacia, la cocciutaggine, lo spirito di sacrificio, i silenzi e le ombre nette, il freddo e il sole più intenso. Tutte cose che oggi abbiamo quasi perso. La montagna, come il lupo, è “dalla parte del torto” da secoli, sfruttata, snobbata, al massimo diventa un luna park per i cittadini. Invece i suoi silenzi, la sua durezza, la sua bellezza, sono un antidoto contro la melassa odierna di sentimenti fasulli. Ma scrivere di montagna non è facile, il rischio di fare altra melassa è sempre in agguato. In questo caso, però, la storia e il Medioevo in particolare hanno consentito un "distacco" più netto da quello che si racconta. Narrare di fatti contemporanei è più difficile, perché stanno spesso sotto un velo di ipocrisia, e poi perché se ne diventa preda e vengono consumati dalla televisione e dai giornali, molto rapidamente. E anche le parole per raccontarli si consumano: ogni panorama è “mozzafiato”, ogni tragedia è “un inferno”, ogni incontro è “intrigante”. Parole che non significano più nulla, che non emozionano più, che scalfiscono appena la superficie dei sentimenti. E forse nemmeno quello. Parole che, alla fine, impediscono di sognare, di lavorare sulle storie e sugli uomini, sulle donne, su quello che accade, con la fantasia. È quasi tutto spiegato, almeno nella mentalità comune. Crediamo di aver capito tutto, abbiamo un gusto artificiale, che ci impedisce di gustare a fondo sapori nuovi, per tentare di capire meglio quello che succede. Forse leggere La via dei lupi può farci apprezzare la storia di questo occitano, che sapeva, come scrisse Simone Weil, «inginocchiarsi senza piegarsi». Questo è forse il messaggio del libro, un messaggio politico, che vale a maggior ragione oggi.

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maggio 2020 Conte dice che dobbiamo essere responsabili e auto-disciplinarci, visto che finora ci ha disciplinato lo Stato. "Non sperperiamo - dice Conte - quello che abbiamo faticosamente guadagnato in cinquanta giorni". Ora, attestato il fatto che, anche se noi siamo chiusi da settantaquattro giorni (settantatré più uno di allarme rosso), ormai non gliene frega niente più a nessuno, mi piacerebbe anche avere l'elenco di quello che abbiamo guadagnato. Sono arrivate mascherine (serie) per tutti? Sono arrivati tamponi e reagenti? Sono arrivate le sanificazioni per i luoghi di lavoro? Ecco, per me questi sarebbero guadagni. Dire che siamo stati chiusi in casa per più di due mesi, e che soltanto così si è in qualche modo arginata la catastrofe completa, no. Nel contempo, si cominciano a (ri)dare i numeri, sia in senso proprio (contagi, morti, terapie intensive…), che in senso figurato: i primi di maggio la ministra dell’Istruzione dice che a settembre si ripartirà con le lezioni: 50% degli studenti in classe e 50 in presenza, anzi, si torna a scuola per l’8 di giugno (ultimo giorno), anzi forse no, eccetera, i decreti legge si susseguono, autocertificazioni, divieti e tutto il mondo che ruota intorno alle rotelle dei banchi.

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Jón Kalman Stefánsson Mentre il maggio odoroso lascia il posto a giugno, siamo trasportati in acque scure e fredde: quelle di Paradiso e inferno, che è nello stesso tempo romanzo di formazione, avventura iniziatica, e una storia fatta di tante storie: è viaggio in una terra lontana, l’Islanda selvaggia, racconto di un’amicizia assoluta, di perdita, di morte e di vita, di solitudine, di incertezze e desiderio. Nelle prime pagine, siamo messi davanti a una vita che si spezza per la sbadataggine di un attimo, un’altra che si smarrisce nel dolore, e dà origine a un viaggio fisico e metaforico, alla ricerca di sé, con il passaggio all’età adulta e insieme alla poesia e alla quotidianità in un luogo remoto e fuori dal tempo. Non è un romanzo perfetto, nella seconda parte qualcosa sembra perdersi e l’autore a tratti si dilunga, ma nonostante qualche difetto formale e strutturale, resta una storia intensa. Le chiavi di lettura e gli spunti sono numerosi: in primo luogo la riflessione sulla scrittura, sul potere della letteratura e della poesia, il confronto con il dolore, la morte che si intreccia alla vita, l’età incerta 36


tra adolescenza e maturità, e il racconto di un’amicizia assoluta e intensa come probabilmente solo in quella fase della vita può esistere. Quello di Stefánsson è innanzitutto un inno alla poesia, al potere salvifico della letteratura, a quell’urgenza con cui forse da adulti non si sente più davvero la parola farsi viva, all’intensità del sentimento che suscitano certi versi, che sembrano toccarci dentro e cambiare la percezione che abbiamo del mondo. In questo romanzo, sono dunque i libri, la poesia, ad aprire mondi, a spingere i ragazzi a interrogarsi su loro stessi, su identità, desideri e aspirazioni; e più che risposte, tra le pagine essi trovano altre domande, e grazia e luce. Qualcosa si spezza nel momento in cui il ragazzo perde l’amico, il dolore si fa lacerante, pare annientarlo, e la narrazione si apre alla riflessione su vita e morte, l’una inevitabilmente intrecciata all’altra: sono pagine che portano con sé considerazioni velate di malinconia e tristezza, nel ricordo di chi abbiamo perduto: “la gente vive, ha il suo momento, i suoi baci, le risate, gli abbracci, le sue parole dolci, le sue gioie e i suoi dolori, ogni vita è un universo che poi crolla su se stesso e non lascia niente dietro di sé se non pochi oggetti resi preziosi e attraenti dalla scomparsa del proprietario, diventano importanti, a volte sacri, come se un frammento di quell’esistenza che è sparita si fosse trasferita nella tazza del caffè, sulla sega, sulla spazzola, sulla sciarpa”. Negli oggetti, negli odori, nei luoghi, il ricordo si fa forma, e permette di ritrovare chi si è amato. E nella caducità dell’uomo, proprio lì, sta la vita. Una vita che per il Ragazzo sembra priva di senso dopo la perdita dell’amico e lo spinge a compiere un viaggio, reale e metaforico, per adempiere a una tacita promessa, nel tentativo di tenerlo ancora per un attimo accanto. Il viaggio, per quelle terre selvagge e dentro di lui, alla ricerca di un significato difficile da afferrare. L’autore, Jón Kalman Stefánsson, islandese, è nato a Reykjavík nel 1963. Dal 1975 al 1982 ha vissuto nell'Islanda occidentale, dove si è dedicato a diverse occupazioni dopo aver finito la scuola superiore. 37


Poi, dal 1986 al 1991 ha studiato letteratura all'Università d'Islanda: in quel periodo ha insegnato in alcune scuole superiori e ha scritto articoli per un giornale islandese. Tra il 1992 e il 1995 si è dedicato a diversi lavori a Copenaghen, in Danimarca. Successivamente, è tornato in Islanda e ha lavorato come bibliotecario. Nel 2005 ha vinto il Premio Letterario Islandese con Luce d'estate: ed è subito notte, mentre nel 2012 proprio con il volume Paradiso e Inferno è stato finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane. Nel 2017 il suo romanzo I pesci non hanno gambe è stato candidato al Man Booker International Prize; sempre nel 2017 è anche stato candidato al Premio Nobel per la letteratura dimostrando così di essere uno dei più apprezzati scrittori islandesi del panorama letterario contemporaneo. Le sue opere letterarie gli hanno valso anche quattro nomine al “Nordisk råds litteraturpris” (Premio letterario del Consiglio nordico). Nel 2018, anno in cui il Premio Nobel per la letteratura non è stato consegnato, è stato candidato al New Nobel1. Eppure Stefánsson parla di piccole cose, luoghi sperduti (spesso proprio in Islanda) che sembrano essere assai distanti dal pubblico di paesi molti diversi, che pure ha amato subito la sua scrittura, ha capito subito di cosa parlava. Secondo l’autore, la conclusione più ovvia è che la gente è la stessa dappertutto, i sentimenti – soprattutto - sono gli stessi, il cuore batte sempre allo stesso modo e anche certe sensazioni sono universali. Insomma, forse in Italia c’è un clima migliore che in Islanda, forse la politica è un po’ diversa, ma secondo

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Ufficialmente chiamato New Academy Prize in Literature, il premio è stato concepito e fondato sulla scia dello scandalo degli abusi sessuali che ha scosso l'Accademia svedese e ha portato alla cancellazione del Premio Nobel per la Letteratura nel 2018. La Nuova Accademia ha nominato 46 autori per il suo premio inaugurale, 12 dei quali erano svedesi e 20 dei quali provenivano da nazioni di lingua inglese.

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lui certi meccanismi e soprattutto certe sensazioni e sentimenti personali non cambiano. Stefánsson, tra l’altro, non è arrivato subito al racconto, ma ha prima incontrato la poesia (ha pubblicato tre libri di poesia). Solo in seguito è arrivata la narrativa, anche se, ad esempio, nel suo romanzo Luce d’estate ed è subito notte si incontrano personaggi molto concreti ma al tempo stesso pieni di immaginazione e di poesia. Lui stesso non si aspettava assolutamente che il punto di arrivo sarebbe stato scrivere dei libri di narrativa. È stata una scoperta, un percorso che lo ha portato lì anche se, ha raccontato in un’intervista, “quando guardo indietro ho la sensazione che quello fosse il mio destino fin dall’inizio, che fosse una cosa che mi aspettava e quindi mi piace definirmi un poeta che scrive romanzi”. In questa prospettiva, l’autore ritiene impossibile tracciare il percorso delle parole. Nel suo caso, ad esempio, autobiografia e fiction si confondono e non si può dire di sapere esattamente dove inizia l’una o finisce l’altra. Quando scrive, questi due elementi così diversi entrano in contatto. Anche se inizia a scrivere partendo da una sua storia personale, molto presto nel processo la storia stessa muta e qualcosa di inaspettato si insinua nella scrittura: la sorpresa è (appunto, di nuovo) la poesia. Difficile comunque dire quanto della vita ‘vera’ stia in un libro. Stefànsson racconta, per esempio, che gli è capitato di scrivere partendo da esperienze accadute ad altri, di cui aveva ascoltato i racconti. Ovviamente, in quei casi, ha riportato solo ciò che si ricordava e, soprattutto, ha scritto nel modo in cui ricordavo lui. Il che apre la porta a una questione fondamentale: cosa è veramente successo? Ma secondo l’autore questa è una domanda insidiosa, che può contemplare moltissime risposte, che lui lascia alla sensibilità del lettore (“Quando scrivo non penso mai al lettore, forse mi dispiace, ma non penso mai a come una persona possa approcciare un mio libro, se possa essere troppo difficile oppure no. Quello che cerco di fare è catturare il sentimento che ho dentro di me, oltre che abbracciare nella scrittura tutti i differenti sensi con cui facciamo esperienza della realtà”). 39


giugno 2020 Il professor Zangrillo (altrimenti noto come medico curante di un tal Berlusconi) afferma sicuro che ormai “il virus è scomparso”, poi, sulla coda delle polemiche, parla di “evidenza clinica”, che più o meno significherebbe che la capacità replicativa del virus a maggio si è enormemente indebolita rispetto a quella avuta a marzo. Siamo qui, un anno dopo, con gli stessi numeri, perciò ognuno commenti da sé. Magari come fa il regista Giovanni Veronesi (fratello minore di Sandrino), che, dopo i cortei del 2 giugno, interviene così: "Caro Salvini, il 2 giugno i fiori al milite ignoto li porta il Presidente della Repubblica. Tu chi sei? Sei solo un onorevole che fa male il suo mestiere e ha fatto peggio quello di ministro quando scelleratamente qualcuno ti ha chiamato a farlo. Stai calmo". E aggiunge: “Dunque: io me ne vado via da Roma un'altra volta. Quello che ho visto ieri in piazza è stato qualcosa di schifoso e pericoloso per la comunità, per di più offensivo per la Repubblica. I contagi risaliranno di sicuro per colpa di quegli irresponsabili”. Noi, invece, che non ce ne possiamo andare da nessun’altra parte, assistiamo allo spettacolino dei nostri parlamentari che si inginocchiano dopo che negli Usa sono iniziate le proteste per la morte (il 25 maggio) di George Perry Floyd, afroamericano di 46 anni, avvenuta durante il suo arresto da parte di quattro agenti di polizia intervenuti in seguito alla chiamata di un negoziante. La forma di protesta così particolare viene copiata pari pari da quella nata negli Usa, tanto che viene da dar ragione a chi fa osservare che nell’aula del parlamento non ci si inginocchia, si sta in piedi e si risolvono i problemi. E, a seguire, assistiamo impotenti alla rimozione del film Via col vento dal catalogo HBO (non è politicamente corretto), alla petizione di Flavio Briatore per chiedere i danni al governo, alla lotta intorno al Mes (si usa?, non si usa?, decido io dice la Merkel), e all’aumento dei contagi che già preannuncia una seconda ondata. Insomma, siamo a metà di un anno difficile.

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Uwe Timm Cosa succede nella vita di persone adulte quando l'equilibrio che hanno costruito è messo a repentaglio dalla forza di un’attrazione amorosa più profonda di qualsiasi desiderio momentaneo o bisogno di gratificazione passeggero? Christian Eschenbach, unico abitante di un'isola minuscola del Mare del Nord, nelle lunghe sere che seguono il suo lavoro di birdwatching, vorrebbe coltivare quelle domande come un esercizio di distaccata meditazione. Ma quando Anna telefona a sei anni dalla sua fuga a New York e dice che verrà a trovarlo, lui deve confrontarsi con il passato che lo ha fatto sbarcare lì quasi come un naufrago. Parte così il libro proposto per giugno da Mimo, La volatilità dell’amore, ambientato di nuovo al Nord, a tessere la storia di due coppie stabili – Eschenbach e Selma; Ewald e Anna – che si rompono e ricompongono in maniera imprevedibile. Naturalmente, è una vecchia storia: due coppie che pure non sono infelici si innamorano oltre il loro matrimonio. Forse è questo che ha dato l’idea per la traduzione italiana del titolo: in originale, il romanzo è Vogelweide, che suona un po’ come “il prato degli uccelli” ma è anche il riferimento al menestrello medievale Walther von der Vogelweide, mentre il nome del personaggio principale allude al suo contemporaneo Wolfram von Eschenbach e entrambi appartengono all'opera di Richard Wagner Tannhäuser. 41


Così, è proprio il titolo originale a evocare, più che le storie d’amore, l’atmosfera che pervade le pagine di questo libro insieme alle citazioni culturali quali le derivazioni da Goethe – esplicite e non –, la prosecuzione del Vogelweide, e il libro di Giona; citazioni che tuttavia filtrano attraverso il romanzo, senza condizionarlo, così che se ne sapete, meglio; se non sapete, il libro sta in piedi comunque. Timm contorna per creare l'ambiente, le persone, tutto a somma realistica in situazioni probabili. In questo modo si definiscono esattamente le persone, ma indirettamente si parla del mondo, e non solo tedesco: il cattivo (che in un romanzo d'amore che si rispetti ci dev'essere), il cattivo è un intero settore del mondo, oggi di gran moda, in crescita di forza e importanza: il meccanicismo applicato oltre i limiti ragionevoli. Eppure, nonostante tutti questi (buoni) ingredienti, il libro lascia una sensazione di incompiutezza e fatica di lettura e giudizio contraddittorio: i continui salti temporali, i cambi improvvisi dei soggetti di narrazione creano frammentarietà e confusione. La storia è ondivaga, raccontata con uno stile sobrio ma con il ricorso a decine di personaggi magari ben descritti, come si è detto, ma accessori ai quattro principali suddivisi ulteriormente in due preminenti e uno protagonista assoluto: Christian Eschenbach (probabile alter ego dell’autore). La vicenda, poi, si snoda a ritroso e con una lentezza che può essere piacevole se impone il soffermarsi sugli intensi dialoghi che, da soli, contengono l’essenza di questo sentimento capace di trasformare l’essere umano; ma può diventare irritante se anche qualche 42


osservazione degna di nota rischia di stemperarsi nel chiacchiericcio di fondo. Un romanzo un po’ ‘laterale’, in sostanza, rispetto ad altri dello scrittore centrati su ben altre tematiche: Uwe Timm, infatti, nato ad Amburgo nel 1940, ha trascorso l’infanzia nella Germania sconvolta dai bombardamenti. Soprattutto il decennio successivo alla fine del conflitto, caratterizzato da povertà e miseria, si dev’essere inciso a caratteri indelebili nella sua coscienza. È questa la ragione che spiega la presenza, trasfigurata oppure no, in quasi tutti i libri da lui composti (fra cui Rot, La scoperta della currywurst e Come mio fratello), dei temi legati alla seconda guerra mondiale: la colpa del nazismo, il ruolo dell’intellettuale, le responsabilità della politica. Nel 1978, quando Timm ha appena finito di scrivere il romanzo Morenga, rievocazione di un capo ottentotto in quella che oggi si chiama Namibia ma fu una delle più importanti colonie tedesche in Africa, ha intrapreso un lavoro di studio su alcune comunità libertarie di ispirazione cristiana diffuse negli Stati Uniti durante il diciannovesimo secolo. Esse prendevano spunto da un romanzo di Etienne Cabet, socialista utopista: Viaggio in Icaria (1840). A Timm interessava soprattutto la vicenda di Alfred Ploetz, il quale, dopo aver sfiorato il premio Nobel per certi studi di eugenetica, era diventato uno dei padri della politica razzista hitleriana: singolare figura di scienziato tedesco passato, in modo abbastanza misterioso, dalle comuni socialiste allo sterminio industriale di chiunque non corrispondesse ai criteri cosiddetti ariani. Il lavoro dello scrittore s’interruppe, come lui stesso dichiara, a causa della vastità del materiale raccolto. Era difficile trovare una struttura romanzesca capace di rappresentarlo. Alla fine però Timm è riuscito nell’impresa con Un mondo migliore (Sellerio), che si pone anche simbolicamente al centro della sua opera. Il protagonista, Hansen, ufficiale dell’esercito americano alleato di famiglia tedesca, viene inviato fra le macerie del Terzo Reich sconfitto, a intervistare uno dei collaboratori più fedeli di Ploetz, deceduto nel 1941, proprio quando Hitler invadeva l’Unione 43


Sovietica. Questo antico collaboratore, Wagner, ormai anziano, racconta al giovane Hansen gli esperimenti del medico comunista diventato poi fondatore dell’igiene della razza, senza riuscire a spiegare il motivo di tale trasformazione, se non, forse, in uno spiraglio molto significativo: l’ossessione, da sempre presente in Ploetz, della misurazione: i crani, soprattutto. A ben pensare, tale inclinazione altro non è che il retroterra della selezione. Credere di poter dominare la materia, sociale e umana, piegandola ai propri voleri: da questa illusione discendono, lo sappiamo, i peggiori totalitarismi. Un mondo migliore (titolo originale: Ikarien) alterna i diari di Hansen ai brani dell’intervista a Wagner, lasciando scorrere le quinte della Germania distrutta, quella che lo scrittore vide da bambino. Mentre la documentazione storica non pare sempre completamente sciolta dal punto di vista narrativo, l’atmosfera del dopoguerra, con scorci paesaggistici di grande presa, ci consegna le pagine più belle: in particolare nella relazione amorosa fra Hansen e Molly, una vedova alla disperata ricerca di sopravvivere, filtra lo smarrimento del protagonista, incapace di spiegare il male che ha visto fuori e dentro sé stesso. Sulle orme della storia contemporanea sono anche il romanzo d’esordio (Heißer Sommer, del 1974, trad. lett. Un’estate calda), che rievoca la rivolta studentesca del Sessantotto così come L’amico e lo straniero (titolo originale: Der Freund und der Fremde, del 2005), Kerbels Flucht (trad. lett. La fuga di Kerbel), Rosso (Rot, 2001), sulle utopie perdute, e Penombra (Mondadori 2011, titolo originale: Halbschatten), sul passato della Germania. Uwe Timm La volatilità dell’amore Mondadori 255 pp, 20 euro

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luglio, agosto 2020 Mentre si spera che abbiano ragione quelli che ci spiegavano che con il caldo il virus se ne andrà, dopo quasi due anni dal crollo si parla di ricostruzione del ponte Morandi (crollato il 14 agosto del 2018, provocando 43 vittime fra gli automobilisti che transitavano e tra gli operai presenti nell’area sottostante). Dopo quasi un anno dal crollo, le campate 10 e 11 sono state abbattute (il 28 giugno 2019). Dopo un altro anno, appunto, nel luglio 2020 si discute su come e con chi ricostruire, visto che comunque si parla ancora di Autostrade per l’Italia e di un accordo col governo. È l’estate in cui si torna a parlare persino del Ponte sullo Stretto, visto che il virus sembrerebbe aver diminuito la sua virulenza, mentre in Europa si va verso l’accordo sul Recovery Fund. A proposito, in questo momento il presidente del Consiglio europeo che si dice sicuro di una prossima intesa è Charle Michel, sconosciuto ai più ma deciso ad arrivare alle cronache popolari l’anno successivo (questo 2021), grazie all’incontro con Erdogan insieme a Ursula von der Leyen e a una sedia mancante. Sì, è lo stesso Michel che il 6 aprile 2021 dichiarerà: “La Tunisia ha scelto la democrazia, il pluralismo e il rispetto della libertà individuale” (amen, diremo noi). Nel luglio 2020, negli Stati Uniti i sondaggi danno ancora in svantaggio il presidente Trump sull'ex vice presidente Biden e all'estero si comincia a ragionare sul potenziale impatto che la presidenza Biden eserciterebbe a livello interno statunitense e sui rapporti degli Usa col resto del mondo. È il periodo in cui veniamo a sapere che gli inglesi di Oxford e i cinesi di CanSino stanno lavorando a testa bassa su un possibile vaccino (pubblicano i risultati dei loro prototipi di vaccini sulla rivista medica The Lancet). E già si fanno progetti: prime dosi a ottobre per gli operatori sanitari, vaccinazione più allargata a partire dal 2021.

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Hanya Yanagihara L’estate e il prosieguo del confinamento diventano momento ideale per la lettura di un tomo ponderoso proposto da Sonia: Una vita come tante, di Hanya Yanagihara, nata a Los Angeles da genitori di origini hawaiane e coreane. Il romanzo racconta la storia di quattro amici che, provenendo da varie parti dell’America, si ritrovano a New York, dove a poco a poco iniziano a vivere la loro vita adulta e scoprono la propria strada nel mondo. Nel libro si sente molto la presenza della città, con lo spirito che la sostiene, con la sensazione che ti dona di potercela fare, con le sue strade ariose, i suoi quartieri multietnici, i suoi abitanti; e poi ci sono i ragazzi, tutti diversi uno dall’altro, con Jude, il più fragile, che molto presto diviene il centro e il cuore pulsante della storia. I personaggi sono quelli che ci si aspetta di trovare in un romanzo contemporaneo ambientato a New York, città fremente di stimoli intellettuali e professionali, nella quale a ognuno è consentito di dimostrare quello che vale: artisti, professionisti, docenti universitari: un universo popolato di individui brillanti e indipendenti, che si impongono nella vita grazie al proprio impegno e alle proprie capacità. Ma sono anche personaggi segnati irrimediabilmente dalla storia, che ha lasciato su di loro dei segni indelebili che li rendono fragili e insicuri, esposti all’esistenza con una commovente levità: una levità che si impone anche sulla mole 46


poderosa di questo romanzo e lo può rendere così caro e così avvincente. È poi la stessa autrice a raccontare, in qualche modo, la genesi del romanzo: «Ho scritto il mio secondo romanzo, A Little Life, in quello che ancora considero un sogno febbrile: per 18 mesi non sono stata in grado di concentrarmi adeguatamente su nient'altro». Ma se l'effettiva scrittura del libro è stata breve, Yanagihara spiega di aver pensato a questo romanzo da molto più tempo. Ecco in che modo: «Ho iniziato a collezionare fotografie quando avevo ventisei anni, quattordici anni fa; e quando ho iniziato a scrivere, sono tornata a queste immagini, ancora e ancora: hanno fornito una sorta di sound check tonale, per così dire - stavo trasmettendo con parole e scene quello che ho sentito quando ho visto queste fotografie e questi dipinti. Ora che il libro è finito, mi rendo conto che queste immagini sono ora così intrecciate al libro - e alla mia esperienza di scriverlo - che guardarle di nuovo è in qualche modo sconvolgente: sono diventate un diario visivo di quell'anno e mezzo, e mi trovo incapace di guardarli senza pensare alla vita del mio romanzo». La (bellissima) foto della copertina fa parte di una serie dal titolo Orgasmic man, del 1969 (in questo opuscolo ho inserito un altro scatto, Orgasmic man II), ma l’ispirazione per l’impianto del romanzo viene da un altro fotografo, Chip Kidd (per la copertina "When AIDS Ends" del New York Times Magazine, del 1996). Ecco come: «Una delle cose che volevo fare con questo libro era creare un protagonista che non migliorasse mai. Volevo anche che la narrazione avesse una leggera qualità di gioco di prestigio: il lettore avrebbe iniziato a pensare che fosse un libro post-college di New York City abbastanza standard (un sottogenere letterario che mi è capitato di amare), e poi, mentre la storia andava avanti, avrebbe percepito che stava diventando qualcos'altro, qualcosa di inaspettato. Mi sono rivolta ripetutamente a due opere d'arte per ricordare a me stessa questa sensazione. Uno dei modi in cui avevo 47


sempre descritto il libro (al mio editore e al mio agente) era come un pezzo di stoffa ombré: qualcosa che iniziava a un'estremità come un luminoso, bianco-bluastro chiaro, e terminava come qualcosa di così scuro da sembrare quasi nero. Volevo che si avvicinasse nel linguaggio e nelle sensazioni ai pezzi della collezione del 2007 di Prada: gonne e giacche termofissate, sete di lana stropicciate, i loro colori sfumati da arancio e verde a neri profondi. L'altro pezzo è stata la copertina di Chip Kidd del 1996 per un articolo di Andrew Sullivan sul New York Times Magazine (l’articolo tratta di come le terapie combinate potrebbero significare la cessazione della morte diffusa per AIDS negli Stati Uniti, in particolare tra gli uomini gay). Ricordo di essere rimasta affascinata dall'articolo, ovviamente, ma anche dalla copertina, che rimane uno dei miei pezzi di arte editoriale preferiti di tutti i tempi: in esso, la stampa inizia come "malato" - sfocato, macchiato, appena decifrabile - e poi, mentre si sposta lungo la pagina, diventa più sano, più nitido, più luminoso, più leggibile. Volevo che A Little Life facesse il contrario: iniziasse sana (o sembrasse così) e finisse malata - sia il personaggio principale, Jude, sia la trama stessa».

Hanya Yanagihara Una vita come tante Sellerio, 2016 1104 pagine, 22 euro

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settembre 2020 Ricomincia a settembre la famigerata DaD, ovvero la didattica a distanza (Aaancora tu? ♪♫♫Ma non dovevamo vederci più?): anzi, meglio, didattica con metà alunni in classe e metà a casa. Magari qualcuno si può chiedere: come è possibile fare lezione con metà alunni in classe e metà a casa? La via facile, sulla cui validità didattica ci sarebbero diversi dubbi, sarebbe quella di trasmettere via streaming la lezione a chi resta a casa. Già, però servirebbero una strumentazione tecnica adeguata e una connettività da CNN o Al Jazeera - e in molte scuole, quando la mattina si accendono tutte le LIM (Lavagna Interattiva Multimediale per i non addetti), le si connette tutte alla rete e si parte, ecco, in molte scuole il sistema collassa nel giro di mezz'ora. La via difficile, praticamente impossibile, è quella di pensare a due attività parallele per chi è in classe e chi è a casa, ma qui nascono due questioni: di solito si dedica almeno l'80 del tempo in classe alla lettura, all’analisi e al commento degli argomenti (che siano letterari, matematici o scientifici), riducendo al minimo e affidando a studenti, manuale e altri supporti le parti teoriche: ma, ad esempio, come si fa a lasciare al lavoro autonomo degli studenti testi come La ginestra o Rosso Malpelo o la Prefazione a La coscienza di Zeno? (e mi fermo qui, ma potete aggiungere tutte le altre discipline). Che senso ha affrontare - a scuola, non all'università per un esame da non frequentante - quei passi senza la ricchezza, la varietà, l'imprevedibilità del lavoro di una comunità ermeneutica? La seconda questione riguarda il fatto che un insegnante è certamente in grado di predisporre dei materiali che in qualche modo sostengano e "compensino" il lavoro autonomo di chi lavora da casa: qualcuno lo ha già fatto nella primavera precedente, ma avendo la metà delle ore di lezione, senza il dispendio di tempo di andate e ritorni da scuola, ore buche et similia, ed è stato comunque massacrante. Preparare una doppia lezione, in presenza e a distanza, per tutte le 18 ore di lezione, è un bagno di sangue non sostenibile per più di un paio di settimane. E allora? Allora bentornati a scuola, e si vedrà. 49


Jorge Amado Sempre in settembre, sa di miele, di pepe e di ginepro il libro che ci propone Angela: Dona Flor e i suoi due mariti, di Jorge Amado, a ricordarci che tutti noi abbiamo due aspetti nella nostra personalità: uno razionale ed uno passionale, e troppo spesso tendiamo a enfatizzare il primo e a reprimere il secondo. Donna Flor è il perfetto esempio di questo. Giovanissima, ha sposato Vadinho, il grande amore della sua vita. Lui, però, è un uomo irresponsabile e scapestrato che ama il gioco, la bella vita e le donne e per procurarsi il denaro per le sue passioni è capace di mentire ed imbrogliare chiunque, anche la moglie e i parenti. Non potendo contare sul marito Dona Flor avvia una propria attività, una scuola di cucina tipica bahiana, e con questa riesce a procurarsi le risorse per poter vivere dignitosamente e sostenere le spese del marito, circondata dalla commiserazione delle amiche e delle comari del quartiere. Nonostante tutte le sofferenze e le umiliazioni subite, però, Flor è profondamente legata al marito, che sa toccare le corde del suo cuore e trascinarla nel turbine delle passioni. Improvvisamente, Vadinho muore durante il Carnevale. Rimasta vedova, Flor faticosamente riesce a ricostruire la sua solidità economica e la sua reputazione. Tutte le amiche e le comari del quartiere si congratulano con lei per essersi liberata delle sofferenze impostele dal marito ma, nel fondo dell’animo, Flor non riesce a 50


dimenticare la gioia e la passione che Vadinho sapeva trasmetterle e il sesso appassionato in cui sapeva trascinarla. Nella seconda parte viene rappresentato il ritorno ad una vita pacata e ordinata della vedova ma anche il crescendo di nostalgia per gli amplessi appassionati del marito, carenza di cui Flor, pudica e morigerata, si vergogna e di cui soffre in silenzio. Nello stesso tempo è corteggiata da un pretendente, un farmacista pacato e religioso. I due finiscono per sposarsi. Ma, benché pieno di premure, dal punto di vista sessuale il nuovo marito non soddisfa del tutto Dona Flor, che sempre più rimpiange Vadinho. Nella terza parte, gli eventi si ribaltano e prendono un andamento fantastico, quando lo spirito di Vadinho ritorna sulla terra e incomincia a stuzzicare Dona Flor. Solamente lei vede Vadinho, che quando sta con Dona Flor sembra essere capace di realizzare le stesse cose che faceva a letto quando era vivo. Dona Flor esita se rimanere fedele al suo nuovo marito o cedere allo spirito del primo... Poi, però, si rende conto che ha bisogno di entrambi e che i due uomini si completano a vicenda, come riassunto nelle parole di Vadinho: “Per me la tua ansia, il tuo segreto desiderio, il campo delle tue sregolatezze, il tuo rauco grido d'amore. Per lui tutto ciò che resta: le spese, il turno in farmacia, la tua posizione rispettabile, il lato nobile della faccenda. Tutto perfetto, amor mio: io, tu e lui; che vuoi di più? Il resto è inganno e ipocrisia, perché vuoi continuare ad ingannarti?”. Quando però prende coscienza di ciò è troppo tardi perché gli stregoni del Condomblé, di cui aveva chiesto l’intervento per resistere alle tentazioni di Vadinho, hanno già attivato forze sovrannaturali per riportare il fantasma nell’aldilà. In questo romanzo Amado è riuscito a mescolare con grande maestria tantissimi aspetti. Se la protagonista è Dona Flor e lo scrittore è riuscito a rappresentare perfettamente i suoi tormenti, questo è soprattutto un romanzo corale, con una marea di comprimari che danno una coloratissima descrizione dell’animata vita delle strade della città di Salvator de Bahia ricca di personaggi secondari coloriti; in questo caso tale qualità raggiunge il massimo grado per l'ambiente 51


in cui vive Flor, un quartiere piccolo-borghese dove un vero e proprio coro di comari sorveglia, commenta e propala ai quattro venti ogni minima vicenda della vita dei vicini. Con pochi tratti l'autore dà vita a tutta una galleria ricchissima: Dona Norma, materna amica, confidente e protettrice di Flor, generosa ed invadente benefattrice di tutto il quartiere; Dona Gisa, la yankee innamorata del Brasile dove si mantiene insegnando inglese e tenta invano di predicare ai retrogradi abitanti di Salvador una libertà sessuale che lei stessa non mette in pratica; Dona Rozilda la pestifera e ambiziosa madre di Flor, autrice di scenate epiche contro Vadinho; Dona Magnolia, venere di periferia che tenta invano di sedurre l'integerrimo farmacista; il languido "Principe" abile truffatore specializzato in vedove; la giovane e romantica Marilda dalla voce d'usignolo, che sogna di cantare alla radio; e poi tutte le allieve di Flor, i compagni di bagordi di Vadinho, la società benpensante e pretenziosa in cui Flor viene introdotta dalla sua seconda unione. Nel 1976 vi fu un adattamento cinematografico, Donna Flor e i suoi due mariti, diretto dal regista Bruno Barreto e interpretato da Sônia Braga, José Wilker e Mauro Mendonça. La colonna sonora è di Chico Buarque, con pezzi celebri come O que será. Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti Garzanti, 2003

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ottobre 2020 Il primo ottobre, dopo un’estate un po’ leggerotta con discoteche gremite a ferragosto, contagi al Billionaire e polemiche varie, si assiste a un nuovo picco di contagi, che riporta il tempo indietro alla primavera precedente. Si dispone l’uso di mascherine anche all’aperto, si minaccia un nuovo lockdown, mentre il presidente del consiglio Conte striglia i presidenti di Regione che stanno procedendo in ordine sparso e decide che lo stato d’emergenza proseguirà fino a gennaio. È il mese in cui Aleksej Navalnyj (attivista, politico e blogger russo di origini ucraine, fra i più noti critici del presidente della Russia) accusa apertamente Putin dell’avvelenamento che lo ha colto in agosto e in seguito al quale è stato ricoverato in Germania per più di un mese, uscendone vivo ma segnato da tremori, debolezza, insonnia, ecc. È il mese di allerta per temporali, frane e piene dei corsi d'acqua, anche in pianura. È anche il mese in cui l’Ema (l’Agenzia Europea per i Medicinali) inizia ad analizzare i dati del vaccino contro il Covid-19 messo a punto da AstraZeneca e dall'università di Oxford; è il primo passo dell'iter di approvazione. È il mese del compleanno di Piercamillo Davigo che il giorno dopo, compiuti i 70 anni, va in pensione in seguito (anche) a una legge approvata durante il governo Renzi che ha anticipato il limite per la permanenza in magistratura. A fine mese, Barack Obama e Joe Biden salgono sullo stesso palco in Michigan, per dire no all'America di Donald Trump. L'ex presidente fa la sua apparizione dal vivo insieme al suo ex vice ora candidato democratico in un ultimo sforzo prima del voto del martedì successivo (che noi sappiamo oggi come è andata).

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Sandro Veronesi Il Sandrino nazionale non ha bisogno di presentazioni: è lui che ha aperto il nostro percorso di lettura, nel lontano 13 ottobre 2004 (eh, sì, come passa il tempo quando ci si diverte). E adesso, ancora in ottobre, Dario ci propone l’ultima fatica di Veronesi, Il colibrì. Frutto di uno sforzo durato quasi cinque anni, secondo le stesse parole dell’autore, è il primo romanzo nel quale, dice sempre lui, è riuscito a escludersi completamente: «Non c’è nulla di mio nel protagonista, che quindi è il più libero di tutti i miei personaggi». Il colibrì racconta la storia di un uomo, Marco Carrera, e dei suoi affanni per mantenere immobile la sua vita. Già: proprio come quell’uccellino tropicale riesce a stare immobile in volo grazie alla più frenetica attività delle ali, Carrera punta a eludere ogni cambiamento attraverso tutto ciò che fa. Ma il mutamento è inarrestabile, anche se ogni tanto riusciamo a non percepirne l’imminenza. «È come per la faglia di San Andrea – dice ancora Veronesi: – tutti sanno che presto o tardi la California sprofonderà nell’oceano, ma sembrano essersene dimenticati». 54


Una storia colma di umanissimo dolore raccontata con una struttura sapientemente organizzata ma che, diciamolo, a volte risulta un po’ faticosa da seguire, da riordinare, da comprendere nella decisione di tutti quei salti temporali di cui non sempre si vede la necessità (quasi che fossero semplicemente un esercizio di stile). La struttura narrativa è infatti costruita a capitoli e capitoletti che saltano avanti e indietro nel tempo in un arco temporale fra il 1960 e il 2030 con epistolari e elenchi di mobilia e libri: a volte sembra serva – non so quanto consapevolmente da parte dell’autore – a nascondere la frammentarietà del racconto che pesca da stimoli e “debiti” (correttamente elencati a chiusura) del tutto eterogenei. Fenoglio, Vargas Llosa, fatti di cronaca, Urania e Philip K. Dick, Amarcord, Salman Rushdie, articoli de il manifesto, De André, Pirandello, musiche per aspiranti suicidi, testi scritti dall’autore in altre occasioni, frammenti di culture orientali ecc., per citarne alcuni fra quelli “dichiarati” (ne aggiunge un’altra quindicina) e naturalmente quelli non dichiarati ma impliciti: i richiami a situazioni di romanzi precedenti (ad esempio il lutto familiare come suo standard narrativo). Una storia familiare che parte dagli anni ‘70 e arriva ai giorni nostri con una proiezione nel futuro. Il linguaggio semplice e molto diretto in capitoli che si alternano non solo temporalmente ma anche per stili diversi: il racconto indiretto prevale, poi il dialogo, il flusso di coscienza, le mail, la corrispondenza epistolare, i messaggini, Tante citazioni, di canzoni, libri, film, ma anche di Urania Mondadori (tutti debitamente esplicitati in appendice). Un libro che, per questi particolari, mi ha invogliato a leggerlo, ma come un piatto che divoriamo in fretta perché pieno di golosità e poi, una volta finito, ci si chiede se è veramente piaciuto. Ha vinto lo Strega, ed è infatti un buon prodotto editoriale con gli ingredienti giusti per essere letto, ma non un libro imperdibile. Il tutto, fino a un certo punto, potrebbe anche risultare sopportabile, ma no, qui dobbiamo creare forse il romanzo del secolo, e allora perché non metterci pure la nascita di una bambina tanto surreale da 55


sembrare uscita da una serie fantascientifica di Netflix ed il tema dell’eutanasia, che tanto male non fanno? Gli ultimi capitoli, poi, sono un po' sopra le righe, tra pistolotti progressisti e un’uscita di scena tanto commovente quanto improbabile. Tutto ciò detto di uno scrittore che, alla fine, io amo molto, e al quale perdono molte cose, visto che tutto è sostenuto da una scrittura piana ma capace, fluidissima, e, finalmente, un uso corretto delle virgole. Fa’ conto che io dica estate, scriva la parola “colibrì”, la metta in una busta, la porti giù per la discesa fino alla buca. Quando tu aprirai la lettera, ti riverranno in mente quei giorni e quanto, ma proprio tanto, ti amo. Raymond Carver

Sandro Veronesi Il colibrì La nave di Teseo ottobre 2019, pp. 368, 20 euro

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novembre 2020 Questo, se vogliamo per un momento mettere da parte il virus e le sue conseguenze, che proseguono imperterrite, è il mese delle elezioni statunitensi, con ottanta milioni di persone alle urne per votare Joe Biden e settantaquattro milioni per Donald Trump. Sono i due politici più votati nella storia del Paese. I milioni di persone che hanno votato per Trump lasciano sorpresi, sia per le cose a cui non hanno dato peso sia per le cose a cui hanno dato peso. Non hanno attribuito importanza, per esempio, al fatto che il presidente menta in modo costante e facilmente verificabile. Mentire compulsivamente non dovrebbe essere sufficiente per essere sconfitti nelle urne? A quanto pare, 74 milioni di statunitensi ritengono di no. Non credono che Trump sia un bugiardo, o non gli importa, oppure hanno bisogni e speranze più importanti dell'onestà del presidente. Il fatto che 26 donne abbiano avuto il coraggio di dichiararsi pubblicamente e denunciare Trump per molestie sessuali, e che alcune lo accusino di averle violentate, non avrebbe dovuto fargli perdere il voto femminile? Evidentemente no, visto che quasi la metà delle donne bianche ha votato per Trump. Se ai 74 milioni non importano le molteplici denunce per molestie sessuali, non dovrebbero avere almeno a cuore la salute del pianeta? Pare di no. Trump ha denunciato la lotta contro il riscaldamento globale come una trappola della Cina. Le decisioni del presidente sono state devastanti per l'ambiente. E molto redditizie per le aziende più inquinanti (e i lobbisti che le rappresentano). Importa qualcosa ai suoi elettori che Trump abbia assegnato le cariche più importanti nelle agenzie che si occupano di regolamentare le industrie inquinanti ai lobbisti che rappresentano quelle stesse industrie? Ovviamente no. Importa qualcosa che l'amministrazione Trump sia caotica e inetta e che abbia gestito così male la pandemia? Apparentemente no. E che disdegni la scienza? Neppure. Nel frattempo, a Tigre (provincia di Buenos Aires) muore Diego Armando Maradona. 57


Valerie Pérrin Novembre, diciamolo, è il mese giusto per parlare di cimiteri e visite alle tombe dei morti. Così, Giovanna ci propone Cambiare l’acqua ai fiori, che pure, nonostante l’argomento, procede con delicatezza, ma allo stesso tempo capace di raccontare una storia forte, salda. Rispecchia la protagonista, che all’inizio è ragazza sperduta e fragile ma si trasforma in una donna forte, piena di risorse per affrontare gli scacchi della vita. Il romanzo narra infatti la storia di Violette, guardiana del cimitero di Brancion en Chalon, dalla sua nascita fino al 2017, anno in cui il libro si conclude con la protagonista ormai cinquantenne. Si ritrova la Violette bambina in casa famiglia, la Violette adolescente che si lascia attrarre dal bel Philippe Touissant e se ne innamora. Violette che ama la sua bambina più di ogni altra cosa al punto da sopportare i soprusi del marito, la sua indifferenza, la sua indolenza. Violette che perde la sua bambina e trova il modo di rialzarsi, di riempire le ferite con le storie degli altri e dall'affetto degli altri risorgere. Un romanzo che però ha suscitato reazione contraddittorie, così che adesso anche qui si farà un po’ di avanti e indietro tra ciò che ha funzionato e ciò che forse no. Per esempio, ciò che a volta non funziona è il tono un po’ (troppo?) mélo, e il fatto che tutti gli ingredienti del romanzo siano, in fondo, quelli di un successo editoriale annunciato: qualche banalità passepartout sulla vita e sulla morte, una storia strappalacrime, dei personaggi stereotipati al limite del comico, qualche spruzzatina di sesso da casalinghe inserito qua e là… Eppure, la storia di una donna che non ha mai avuto niente nella vita, che si accontenta degli scarti, che quando perde tutto trova un suo 58


mondo e magari una nuova possibilità di essere felice è una storia forse un po’ già vista ma risolta qui in modo originale. Magari la trama forte con il misterioso infanticidio di quattro bambine, il sospetto che la colpevole sia una specie di leggerotta di provincia che non regge l’affronto subito dal bello e dannato, ecco, magari questo poteva essere lasciato a un altro romanzo, rendendo forse un po’ più coerente questo. D’altra parte, se ci si lascia prendere per mano, vagando per la storia principale e quelle secondarie (come la storia tra l’avvocato e la fiorista che, tra incontri, addii e lettere segrete alla fine chiedono di riposare vicini nella morte), ecco, se ci si abbandona ai racconti di passato, presente, lettere e diario, ne esce una lettura piacevole, fluida, insolita. Come insolita pare essere anche l’autrice, scrittrice ma anche fotografa e sceneggiatrice, e compagna del famoso regista Claude Lelouche2, di trent’anni più vecchio. Da una quindici d’anni i due vivono a Montmartre, a due passi dal Théâtre Lepic, antico covo del regista. Una cucina aperta, un bar, divani, un letto rotondo cosparso di cuscini, un pianoforte e uno schermo gigante scandiscono l’appartamento con vista panoramica su tutta Parigi dall'immensa terrazza. 2

Questo lo devo dire: che Claude Lelouche, oltre ad avere avuto sette figli da tre matrimoni diversi, è stato sposato per diversi anni con l’italiana Alessandra Martines, anche lei di circa trent’anni più giovane. È quella, per capirci, di Fantaghirò, e ha recitato, in Francia, nei film del marito.

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I due si sono incontrati in un modo che Perrin definisce divertente (o comunque degno di un romanzo). Così lei lo racconta: «Ho sempre ammirato i suoi film. Quando sono toccata da un artista, spesso gli mando qualche parola di congratulazioni, come ho fatto recentemente con l'autore del premio Goncourt, Nicolas Mathieu. Con le reti sociali, è così facile! Per Claude, gli ho scritto una lettera, alla vecchia maniera. L'ho dato a un amico comune che si è occupato di consegnargliela. Non mi aspettavo nulla da lui. Era solo per dirgli cosa pensavo del suo cinema, spiegandogli quanto i suoi film mi toccassero. Quando ha chiesto di vedermi, sono rimasta molto sorpreso. Mi disse che non aveva mai ricevuto una lettera che parlasse così bene del suo lavoro. Dopo questo primo incontro, era come una cosa ovvia. Tutto è andato molto veloce tra di noi. Ho lasciato la mia vita ordinata di madre in provincia per andare a vivere con lui, qui a Montmartre». Il romanzo, però, ha preso forma mentre accompagnava il marito alla tomba dei suoi genitori a Auberville, nel Calvados. È in questa occasione che l’autrice comincia a chiedersi come potesse essere il lavoro di un custode di cimitero. In seguito, si trova a descrivere la realtà di un ambiente che ha appreso a conoscere. Perrin stessa, in un’intervista, racconta di non aver incontrato nessun custode di cimitero, ma un direttore di pompe funebri e anche un becchino, un personaggio così straordinario che è stato incluso nel libro. Quello che è stato chiamato Nono è colui che, nella realtà, ha raccontato delle storie incredibili, dove le cose più brutte sono accanto alle più belle: ci sono persone che si picchiano davanti a una bara che viene sepolta a causa di dispute di eredità, ma anche lettere appassionate lasciate sulle lapidi. Ovviamente, con un compagno come Lelouche, Changer l'eau des fleurs ha fatto subito pensare a un adattamento cinematografico. Anche se, prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura, Perrin si sta riservando un po' di tempo, perché il libro sarà tradotto all'estero, soprattutto negli Stati Uniti. Questo infatti faciliterebbe le collaborazioni anche in campo cinematografico. 60


dicembre 2020 Ci si avvia alla fine di un anno difficile. Il 2 dicembre la Juve vince 3 a 0 col Dinamo Kiev, e intanto muore l'ex presidente francese Valery Giscard d'Estaing. Ci si chiede chi vaccinare prima contro il Covid: gli anziani che rischiano di più o i giovani con più contatti? Gli ambulanti protestano (già da ora, sì) contro le misure anti-Covid, che li tagliano fuori dall’attività, ma intanto sono revocate le misure antismog nelle province di Milano, Bergamo, Cremona, Lodi, Monza e Varese: costretti a casa, senza volerlo abbiamo migliorato la qualità dell’aria che ci circonda. In Giappone uno spot racconta la storia di tre ragazzine, tre figlie del Sol Levante. La prima ha i genitori coreani, la seconda un papà di colore e la carnagione scura, la terza sia la mamma che il papà giapponesi. Tutte e tre vengono bullizzate a scuola, per le loro origini o per la loro diversità. Tutte e tre trovano riscatto nel calcio, diventando delle campionesse. Il messaggio finale, griffato Nike: “Non puoi fermare lo sport. Non puoi fermare noi”. Sui social (giapponesi) scoppia la polemica (“Davvero la società giapponese è ancora così? Chi ha pregiudizi è la Nike”), ma a me viene soltanto in mente un film con Mel Gibson (What Women Want) dove l’incantevole australiano, oltre a danzare sulle note di I want dance di Frank Sinatra, inventa per la Nike uno spot che tanto tanto ricorda il pay-off della pubblicità per il Giappone. Vabbè, sciocchezze, di fronte a pandemia, vaccini, l’annuncio della Merkel che non si ricandiderà, il divorzio della Brexit, il governo italiano che vende due fregate al governo egiziano dimenticando Regeni, le trentaduemila persone vaccinate al 31 dicembre e così via. Noi, un po’ per passione un po’ per non pensarci troppo, continuiamo a leggere.

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Frank Thilliez Frank Thilliez è nato ad Annecy e vive nel Pas-de-Calais, nell'estremo Nordest della Francia. È un ingegnere informatico, ed è appassionato, ovvio, di tecnologie telematiche. È anche un grande appassionato di film thriller, e il suo film preferito è 8mm - Delitto a luci rosse di Joel Schumacher. Nel 2004 pubblica il suo primo libro Train d'enfer pour Ange rouge. Ha vinto i premi Prix des lecteurs Quai du polar 2006 e Prix SNCF du polar français 2007 con il libro La chambre des morts. In Italia i suoi romanzi sono stati pubblicati prima dalla Casa Editrice Nord e ora da Fazi Editore. Ho proposto il thriller Il sogno, uscito nel luglio 2020, principalmente perché mi incuriosiva il fatto che usasse, più o meno, la stessa tecnica di montaggio alternato (passato, presente, sogno o realtà) che avevamo da poco visto in Il colibrì di Veronesi, e poi perché mi sembrava una storia densa e, a suo modo, curiosa, capace di lasciare il lettore sospeso tra due mondi (quello vero e quello forse solo immaginato) che si potevano chiarire soltanto alla fine. La protagonista è Abigaël, la psicologa che tutti si contendono per risolvere i casi criminali più intricati. Soffre di una grave narcolessia che le rende tutto più difficile. Spesso per lei il confine tra sogno e realtà si confonde, ed è costretta a ricorrere a bruciature e tatuaggi per assicurarsi di essere sveglia e che quello che vede stia realmente accadendo. L'indagine a cui sta lavorando insieme al fidanzato poliziotto Frédéric riguarda un rapitore seriale di bambini, Freddy. I 62


piccoli scomparsi finora sono tre, a quattro mesi di distanza l'uno dall'altro. Ogni rapimento viene annunciato con uno spaventapasseri che indossa gli abiti del bambino rapito precedentemente. Intanto, Abigaël è l'unica sopravvissuta a un terribile incidente d'auto di cui non ricorda nulla e dove hanno perso la vita suo padre e sua figlia. Presto capirà che molte cose di quell'episodio non tornano, in una storia che sia per lei che per il lettore risulta contorta, un rebus dove sogni e realtà si confondono nella tormentata vita della protagonista, disseminando indizi, codici ed enigmi che rendono ancora più intricata la vicenda ma con il rischio di far perdere la concentrazione a lettori meno attenti. Può piacere o irritare l'idea di trovare all'interno un codice che permette di scoprire un capitolo appositamente saltato e che serve a capire meglio la dinamica della storia, ma che si rivela soltanto alla fine (non è infatti fondamentale per capire cosa succede, anzi, rivelerebbe uno spoiler terribile). La storia, dunque, si sviluppa a "matrioske", interessante dal punto di vista letterario ma impegnativo, per cui si rischia di perdere il filo della vicenda. Indubbiamente un thriller buono ma che presuppone una grande dose di attenzione e costanza da parte del lettore, per arrivare a un finale emozionante ma non eccezionale. Alla fine, infatti, ci si rende conto che, tutto sommato, più che il classico thriller, la storia è un rompicapo, è un congegno di cui non si conosce il meccanismo. Ed è soprattutto la celebrazione delle interconnessioni tra i fatti che accadono. Nel coacervo, inizialmente un po’ confuso, delle notizie che Thilliez ci elargisce, c’è un particolare che sembra buttato lì per caso, che appare insignificante ma che invece non lo è affatto. C’è una notizia, una frase, una semplice parola, che messa insieme ad altri particolari intesse un ricamo inaspettato, una trama che solo alla fine palesa la sua intenzionale carica narrativa, il suo estrinseco significato. Non si tratta più di scoprire il colpevole e i suoi moventi, ma di trovare una costruzione nascosta, una trama nella trama, che vive di espedienti quasi impercettibili, che si coglie solo se riusciamo a 63


mettere insieme gli indizi che l’autore ci dà, solo se siamo pronti ad analizzare i fatti sotto un’altra luce. La trama, quindi, ci mette in un continuo stato di confusione. Distinguere il sogno dalla realtà sarà spesso difficile, non solo per Abigail, ma anche per i lettori. Il tema del sogno, i misteri legati ai meccanismi onirici della nostra mente, i ricordi, così manipolatori e spesso anche insondabili e sfuggenti, il bisogno, a volte insopprimibile, di credere solamente in ciò che sembra essere l’unica soluzione, sono tutti argomenti che Thilliez padroneggia alla perfezione e che manovra con grande sicurezza per creare un gioco di specchi in cui confondere il lettore. Romanzo, quindi, che può piacere ma che può anche lasciare sconcertati.

Frank Thilliez Il sogno Fazi Darkside, 2020 pp. 600, euro 18,50

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Appendice antologica

2006

2004

2005

Quando preparo le schede-libro, salvo sempre le immagini delle copertine, che nomino sul computer come “copeTalDeiTali”. E allora, eccoli qui, dal 2004: libri che non conoscevamo e ringraziamo chi ce li ha proposti, libri completamente dimenticati, libri che pareva non ci piacessero ma siamo contenti ora di averli letti, libri che sembra di averli letti ieri, libri che fanno esclamare come passa il tempo!, libri che ricordano persone, cose situazioni, libri belli e libri brutti, ma tutti belli quando ci riuniscono nel Circolo.

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2008

2007


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2010

2009


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2013

2012

2011


69

2015 2014


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2018

2017

2016


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2020

2019


(196 copertine: dovevano essere 197, ma ne ho saltata una per sbaglio e non ho avuto cuore di smontare tutto per inserirla; dietro lauto compenso, posso anche rivelare di che libro si tratta. Altrimenti, con un po’ di sforzo, potete trovarlo da soli )

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appunti

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Questo libriccino è stato preparato per ricordare un annus horribilis, durante il quale, tuttavia, i libri hanno continuato a illuminare le nostre giornate. Il libriccino è stato completato il 23 aprile del 2021, giornata mondiale del libro: ogni anno, in tutto il mondo, si svolgono celebrazioni per promuovere il piacere dei libri e della lettura e per riconoscere la portata de libri: un legame tra passato e futuro, un ponte tra generazioni e culture. Il Circolo di lettura “Enzo Baldoni”, nel suo piccolo, è anche questo.

(stampato in poche copie per gli aficionados, con l’intento di festeggiare i futuri prossimi rinnovati incontri in presenza)

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