L'anno che non c'era

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Annalisa Ferrari

L’ANNO CHE NON C’ERA

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Già usciti: agosto 2008 Gli incontri 2004-2007

gennaio 2011 senza titolo (2008-2010)

ottobre 2015 Gli anni che furono ricordi di dodici anni in 133 copertine e qualche film.

Natale 2020 L’anno che è stato Tutte le letture, al posto delle schede-libro

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Premessa Quello appena passato è stato, superfluo dirlo, un anno difficile. Ah, no, questo era l’attacco dell’anno scorso… Epperò siamo ancora qui, dopo un anno che non c’è stato perché, in qualche modo, si è cercato di rivivere quello che era sparito nel buco nero del 2020, e si è cercato di far finta di dimenticare che questo è (è stato) il 2021. E se, in aprile, l’elicottero della NASA Ingenuity (parte della missione Mars 2020) si leva in volo su Marte, diventando il primo velivolo a motore nella storia a decollare su di un pianeta alieno, noi, con altrettanta ingenuity, cerchiamo di credere che ogni cosa si possa recuperare. Su tutto, le XXXII Olimpiadi, che infatti continuano a chiamarsi “Tokyo 2020” anche se si svolgono tra il luglio e l’agosto del 2021. Allora, a far da intervallo sportivo ai nostri incontri letterari, ho pensato questa volta di inserire il ricordo di questo recupero olimpico, tanto per ricordarci che le cose belle (e le vittorie) ci sono anche nei momenti bui. Sì, stavolta i libri lasciano più ampio spazio allo sport, ma credo sia comunque un modo per ricordarci di quest’anno che c’è stato e non c’è stato. Sempre in attesa di tempi migliori.

p.s.: gli intermezzi olimpici sono dell’avvocato Alessandro Tozzi (scrittore a tempo perso, grande creatore di aforismi e un tempo campione di jorkyball: se solo si sapesse cos’è, sarebbe famoso).

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Bernard Malamud (11 gennaio - Sonia) L’anno inizia nella bottega di Morris Bober, commerciante ebreo che fatica a tirare avanti con il suo negozietto di quartiere nella New York degli anni ‘50, schiacciato dalla concorrenza, dalla sfortuna che sembra accanirsi su di lui (che accetta in silenzio senza mai ribellarsi), ma anche dal senso di colpa per la vita misera che senza volerlo sta obbligando a vivere alla moglie Ida e alla figlia Helen. E inizia con le visite in biblioteca di Helen, che si rifugia nei libri per cercare di distrarsi da tutte le insoddisfazioni della vita. Lei si recava in biblioteca in media due volte alla settimana, prendendo solo un libro o due per volta, perché ritornare per un altro libero era una delle sue poche gioie. Anche quando era più sola le piaceva trovarsi in mezzo ai libri, sebbene qualche volta fosse deprimente vedere il numero dei libri che non aveva letto. Ma soprattutto, inizia con Frank Alpine, il commesso, che si ritrova suo malgrado coinvolto nella vita di questa famiglia, a causa del suo eterno conflitto tra cose giuste e cose sbagliate, del suo compiere quasi involontariamente le une e le altre indistintamente, per poi cercare sempre di rimediare. Sarà lui, un goy1 di cui all’apparenza nessuno della famiglia Bober si vuole fidare, a stravolgere il destino segnato di tutti i suoi membri. 1

È termine della Bibbia in lingua ebraica usato per indicare un "popolo" ma successivamente utilizzato per indicare i non ebrei. [NdT]

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Sarà lui a ribellarsi al posto loro di fronte a tutte le ingiustizie che la vita mette loro di fronte. Sarà lui, alla fine, a capire più di tutti il vero significato dei libri che Helen gli presterà e a cambiare per lei e per il suo amore. La vicenda è intrecciata intorno alle emozioni, ai segreti, al destino di queste tre esistenze. Il ritmo della narrazione, la capacità di attenzione al dettaglio, lo stile limpido danno al romanzo un’atmosfera a metà fra il tragico e il comico. “Appena Bernard Malamud seppe di aver vinto il National Book Award si mise in strada e passeggiò a lungo. Camminò per le vie che conosceva e proseguì per alcuni isolati sperduti, quando sentì di essere stanco si inoltrò in un parco pubblico. Si sedette su una panchina, era quasi sera e ci pensò su. Non rifletté sulle conseguenze del premio letterario più importante d’America, gli venne in mente la madre. Era morta giovane lasciandolo solo con il padre, un droghiere gentile di Brooklyn senza lamenti e con la devozione per la famiglia. La madre e il padre, festeggiò così lo scrittore ebreo più importante e discreto degli Stati Uniti. Era il 1959 e lui aveva quarantacinque anni, un’esistenza alle spalle […] che gli aveva portato dozzine di mestieri, dalla fabbrica ai negozi alimentari, fino al concepimento di un romanzo capolavoro: Il commesso. Lo aveva pubblicato due anni prima, l’effetto che generò fu lo stesso che si avvera nelle scorribande tra ragazzini, quando il più fragile della compagnia compie un’impresa inaspettata. E produce sgomento. Così il narratore che veniva dalla tetra Brooklyn, ebreo di irrisorio fascino, divenne il maestro indiscusso di un giovane Philip Roth e il collega cui guardare con ammirazione, il riferimento è a Saul Bellow. L’intero mondo letterario seppe che la grande potenza di Malamud covava nella semplicità, e nell’onestà. Per lo sguardo e per la scrittura. Per l’azzardo di restare nella modestia degli uomini. Il commesso è questo”. Queste le parole che Marco Missiroli dedica a questo romanzo, il lavoro più celebre di Malamud (pubblicato da Minimum Fax nella traduzione di Giancarlo Buzzi), considerato un vero gioiello letterario nel cui sommesso respiro narrativo palpita un intero mondo. Lo squallore del vecchio e polveroso negozio di alimentari, la drogheria schiacciata dal peso degli anni e dall’indigenza di un quartiere, di una città, forse addirittura del mondo, e l’appartamento che le è collegato, sono il nudo palcoscenico dove Morris Bober giorno dopo giorno interpreta se stesso; armato di una pazienza che i più giudicano alla stregua di una patetica forma di 8


sottomissione ma che in realtà è coraggio, e coraggio non comune perché è resistenza alla sostanziale assenza di misericordia di ciò che chiamiamo vita (e che Missiroli definisce “lotta tra un omino giusto e un immenso dio impietoso”), quest’uomo consumato, sconfitto eppure non ancora completamente vinto, trascina accanto a sé, come fosse un compagno cui si è giurata fedeltà, con il quale si è impegnata parola, la propria esistenza fatta di irrinunciabili valori, di una moralità dalla quale non è concesso derogare, pena l’impossibilità di riconoscersi come essere umano.

Olimpiadi giorno 1 L’attesa è finita, finalmente si comincia quella che verrà ricordata per sempre come l’Olimpiade senza pubblico, forse quella più problematica e perfino la più odiata dallo stesso Paese ospitante, al netto di Roma che quelle del 2024 non le ha proprio volute per merito del meccanico di Di Battista2, che la sapeva lunga sulla pandemia. L’Italia ci arriva con l’onda lunga dell’Europeo vinto, di una finale di Wimbledon storica e la qualificazione della Nazionale di Basket del tutto inattesa, è un bel momento per lo sport italiano senza dubbio. Nelle gare di oggi due medaglie nostrane: è d’oro quella del taekwon-do, d’argento quella della sciabola. Vinte da due appartenenti alle Forze Armate, come sono il 90% dei partecipanti italiani ai giochi olimpici, professionisti a parte (sport di squadra, ciclisti, tennisti e poco altro). Un 2

Ci si riferisce al fatto che Alessandro Di Battista, in un suo libro, racconta che avrebbe telefonato a Massimo, il suo meccanico, perché radunasse alcuni amici per prendere una decisione politica (sulle Olimpiadi a Roma, appunto) [N.d.T.]

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discorso su questo ci porterebbe lontano, ma non è un caso che queste storie di sport, spesso mescolate al riscatto sociale, nascano al Sud, dal quale proviene l’assoluta maggioranza dei militari in senso ampio di tutta Italia: ricordo ancora che appena vinta la medaglia d’oro, ormai 40 anni fa, gli Abbagnale si lamentarono perché erano obbligati a conciliare il lavoro in banca con gli allenamenti. Altri tempi. Oggi se sei forte vieni assunto dalle Forze Armate, e destinato da subito allo sport. Comincerai a lavorare quando smetti di essere un atleta, sempre che non ti mettano ad allenare quelli che verranno. Del resto, tali performances sul campo poco si addicono a un dilettante, a meno che non si tratti di ricchi di famiglia che possono permettersi di allenarsi senza lavorare. Il taekwon-do è stato da poco introdotto ai giochi olimpici. Disciplina sostanzialmente incomprensibile per lo spettatore (a meno che uno dei due non malmeni l’altro), anche oggi ha confermato che per l’osservatore esterno, ma anche per lo stesso telecronista, l’unico modo di seguire il match è il punteggio: l’italiano ha rimontato 6 punti nel finale, andando a vincere, senza che il telecronista nemmeno l’abbia detto se non a punteggio assegnato (ma anche se lo avesse fatto non l’avremmo capito ugualmente). Idem per la sciabola, dove la maggior parte dei duelli finisce inevitabilmente con entrambi gli sciabolatori che urlano e alzano il pugno, forse non ci capiscono un cazzo nemmeno loro, figuriamoci gli spettatori. La Rai si segnala sempre per alcuni telecronisti sciammanati, e per alcuni invece bravi, magari usciti dal nulla, che ti chiedi dove li risurgeleranno dopo le Olimpiadi per altri quattro anni (anzi, nello specifico solo tre). Ma forse in fondo anche per loro l’importante è partecipare.

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John Windham (2 febbraio - Angela) Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete stare certi che qualcosa non va. Il libro inizia con questa frase, e la storia catapulta il lettore, in modo brusco, nell’ospedale dove si trova Bill Masen, di professione biologo, che si risveglia in una Londra quasi deserta e abitata da una massa di persone rimaste cieche, tranne qualche eccezione. L’autore è molto bravo nello svelare a poco a poco la causa della bizzarra invasione, mentre riesce nell’intento di descrivere un’atmosfera suggestiva: il primo segnale è una straordinaria pioggia di meteoriti verdi che scende su Londra illuminandone il cielo notturno e toglie la vista a chiunque vi assista. Poi, l’invasione: quei corpi celesti contengono infatti i semi di piante mostruose che crescono a una velocità mai vista, si spostano e inghiottono qualunque essere vivente, umani compresi. Solo una piccola colonia sull’isola di Wight è ancora immune, ma la civiltà, impazzita di terrore, per sopravvivere si è riassestata su spietate basi feudali. Ospitato a puntate sulla rivista americana “Colier’s” nel 1951, Il giorno dei Trifidi è stato un immediato successo, la prima affermazione di massa della fantascienza al di fuori del ristretto ambiente degli appassionati, dopo gli 11


ormai lontani trionfi di H.G. Wells. Da un giorno all’altro, i silenziosi e letali trifidi si sono conquistati un posto nell’ampia galleria di creature mostruose che l’uomo è andato nei secoli evocando per dare corpo ai più nascosti fantasmi della propria immaginazione. Verso i tre quarti del romanzo la trama rallenta, ma ciò non dispiace. La storia appassiona come poche altre e nonostante l’assurdità degli eventi e la macabra seppur malcelata ironia mantiene un buon grado di drammaticità. Nell’Inghilterra di questo futuro apocalittico, come nel resto del mondo, la spietata lotta per la sopravvivenza è all’ordine del giorno e si gioca su due fronti: gli sventurati abitanti del pianeta dovranno guardarsi sia dagli orrendi trifidi che dagli individui della loro stessa specie perché ovunque regna la barbarie, tanto per ricordarci quanto la civiltà sia una fragile conquista che richiede un continuo sostegno economico e culturale. I mostri creati da John Wyndham sono creature terribili e buffe allo stesso tempo, anche se quest’ultima è solo una caratteristica superficiale che analizzata più a fondo accentua il loro lato orripilante. Sarà proprio quella loro apparente innocenza, quella loro fisionomia pacioccona (i trifidi sembrano delle simpatiche trombe ambulanti goffe e dondolanti) che li renderà degli antagonisti surreali e che indurrà l’umanità a sottovalutarli finché non sarà troppo tardi. Il giorno dei trifidi è entrato con merito tra i classici imperdibili della fantascienza, genere che proprio negli anni ‘50 ha raggiunto uno dei suoi massimi splendori, e malgrado l’età mantiene ancora oggi una forza non

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indifferente. Lungi dall’essere un romanzo di azione fine a sé stessa, l’opera di Wyndham mette in evidenza i possibili rischi di un progresso e uno sviluppo tecnologico senza etica né controllo, come del resto fa buona parte della letteratura fantascientifica distopica e post-apocalittica. Negli anni Sessanta il romanzo viene trasposto in film (adattamento approssimativo, con soluzione finale semplicistica) e in un serial.

Olimpiadi giorno 2 Mentre pian piano stiamo cambiando fuso, e fra una settimana mangeremo solo sushi, le Olimpiadi avanzano. L’armata italiana del nuoto, accreditata di medaglie e risultati, fin qui ha prodotto poco, ma c’è ancora tutto il tempo. Ciò che mi sorprende da parte di atleti molto simili ormai a dei meccanismi perfetti teleguidati dal loro staff è che, per giustificare in qualche modo i risultati negativi, gli atleti indicano l’orario mattutino delle finali, come se non si sapesse da tempo che le finali fossero di mattina. Ricordo, sempre nel nuoto, che alle Olimpiadi del 1984, un nuotatore italiano all’epoca primatista e molto atteso, tal Giovanni Franceschi, disse che in vasca era andato male perché nel villaggio era obbligato a lunghe camminate per arrivare ovunque, e gli erano venute le vesciche, inficiando i suoi risultati sportivi. Sempre dal nuoto la squalifica per sgambata irregolare della ranista italiana Pilato, fra le favorite, fa da contraltare alla vittoria di uno sconosciuto atleta tunisino nei 400 stile libero maschili: è la dura legge dello sport.

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Oggi tre bronzi italiani, di vario genere: ciclismo femminile su strada, sollevamento pesi maschile, judo femminile. Meno lo sport è famoso, più gli atleti vivono davvero questo momento come riscatto di un’intera vita sportiva, per loro e per lo sport che rappresentano, che grazie a quella medaglia avrà probabilmente dei finanziamenti suppletivi dal Coni. Davvero alcuni sport acquistano un senso per il grande pubblico solo con le Olimpiadi, venendo poi relegati, bene che vada per i restanti quattro anni, in fasce orarie impossibili. E comprendo che essere per un giorno su tutti i giornali, sportivi e non, fornisce un senso all’esistenza sportiva di un atleta, talvolta perfino di un uomo o una donna, che se non avesse vinto avrebbe trascorso anni e anni a rimuginare su quell’attimo che magari ha determinato l’insuccesso. Ci ha delusi il fioretto femminile, riserva di caccia da sempre, che oggi non ha dato medaglie. Succede. L’italiana che ha perso, finendo quarta all’ultimo assalto, sin dalla prima sfida però urlava come un’ossessa per qualsiasi punto: dove sono finite le campionesse di una volta che urlavano solo dopo la vittoria? Continuo a pensare che buona parte dei telecronisti Rai sia inadeguato, per il semplice fatto che a fronte di sport comunque minori, non spendano un secondo per fornire allo spettatore, spesso ignaro, le basi della disciplina (sempre che loro le sappiano, beninteso), come dando per assodato che lo spettatore sia stato azzurro della disciplina anche lui. Capita così di passare dieci minuti vedendo il judo, senza sapere proprio cosa dovrebbe fare l’atleta per vincere, a parte prendere di peso l’avversario e ucciderlo, ma dovendo sentire un tizio che grida «ippon, ippon, ma bastava anche un wazari». Assegnata la prima medaglia olimpica dello skateboard, che come disciplina olimpica lascia parecchio a desiderare e ci porterebbe assai lontano per argomentare su cosa abbia diritto di essere uno sport olimpico e cosa no: quando metteranno gli scacchi, avanzerò la candidatura del tresette, avulso da ogni forma di doping alcolico. Momenti di commozione sull’esercizio della ginnasta italiana Ferrari, reduce da gravi infortuni, che si muove sulle note della canzone di Bocelli 14


Con te partirò, esportando nel mondo l’italian style: per il momento è prima. Saranno più interessanti che mai in questa edizione gli sport di squadra, visto che ormai le distanze fra gli extraterrestri e il resto del mondo sono diminuite (non per qualsiasi sport: a pallanuoto maschile abbiamo battuto il Sudafrica 21/2, mentre in contemporanea la Francia batteva a calcio il Sudafrica 4/3 con un gol nel recupero): ieri l’Iran ha battuto a pallavolo i campioni del mondo polacchi, oggi a basket la Francia ha battuto la nazionale statunitense, che non perdeva alle Olimpiadi da 17 anni. L’Italia per il momento c’è. Gli spettatori italiani un po’ meno, perché ormai sono tutti rimbambiti a fare nottata.

Cesare Cremonini (23 febbraio - Mariella) C’è un pezzo di Cesare Cremonini che spiega quanto lui sia stato un ragazzo cresciuto troppo in fretta. Si chiama PadreMadre, è abbastanza un classico del repertorio e risale al 2002, a quando aveva ventidue anni. Rientra nella cerchia dei brani insolitamente precoci, come Gli anni (di un Max Pezzali nemmeno trentenne) e Canzone delle osterie fuori porta (di un Francesco Guccini di appena 34 anni). 15


Ma non riguarda né la malinconia né l’adolescenza. C’è semmai il rapporto coi genitori, tutto. Conflitto, allontanamento per andare a starsene da sé, infine riconciliazione con mamma e papà ormai nostri “pari”. Così, di botto: tesi, antitesi, sintesi. All’età in cui gran parte degli italiani si fanno ancora rifare il letto. E Cremonini ce lo spiega bene, tutto questo, in Let Them Talk, il suo libro uscito per Mondadori. Il volume – un po’ autobiografia e un po’ memorie, un po’ flusso di coscienza e bilancio esistenziale e un po’ canzoniere spiegato – ripercorre in prima persona la vita dell’artista attraverso i suoi pezzi più importanti, in ordine cronologico dagli esordi all’ultima Ciao, usandoli come appigli narrativi (spesso citando gli stessi versi) per descriverne i retroscena, l’ispirazione, soprattutto il contesto in cui sono nati, le divagazioni di sorta. E, quando si tratta dell’emblematica PadreMadre, evoca il momento preciso del distacco dai genitori: l’arrivo di un assegno, il primo, da sessanta milioni di lire (era il 2000, lui viveva coi genitori) dalla SIAE per i diritti sui brani dei Lùnapop; la madre che si alza da tavola, scura in volto, e capisce che lì, con quei soldi, qualcosa è finito per sempre. Ma non c’è da girarci intorno: la parte più interessante dell’opera – perlomeno a livello umano, oltre che narrativo – è la prima, quella che appunto racconta l’esordio eclatante di …Squérez? e il tentennamento da solista (Bagus, Maggese), una volta che il giocattolo si è rotto, i pregiudizi piovono a grappoli e tutti pensano che Cremonini sia ormai bruciato, dall’essere abbastanza giovane per suonare adolescenziale all’essere ancora così giovane per presentarsi come maturo. Dopo la scoperta del mondo, quindi, da parte di una band di ragazzi che andava nei salotti televisivi come in gita («in ogni città in cui ci trovavamo organizzavamo divertenti festini in camera», «alcune volte ne uscivamo [dai camerini, nda] rubando la biancheria intima ai presentatori o alle soubrette più famose per portarle a casa come simbolici trofei da regalare agli amici») arriva la crisi. Con la necessità di doversi inventare “vecchio”, dimostrare di essere bravo cercando composizioni sempre più ambiziose, che avranno il loro culmine nel complesso Il primo bacio sulla Luna (2008). Educazione alla vita, si direbbe. Per lui, semplicemente, «dieci anni di improvvisazione, di curiosità per ogni uomo o donna che incontravo».

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Eppure anche in questa fase di singhiozzi (di horror vacui, la definisce), dal racconto che ne fa Cremonini esce sempre bene, con lo sguardo sornione e romantico a cui ci ha abituati anche davanti agli schiaffi, quasi fosse un bellissimo perdente. Nelle canzoni, come in amore (i dettagli sentimentali non mancano, ecco). Poi qualcosa, in questo tipo di narrazione molto sfumata e dai toni colloquiali, si inceppa. E lo fa sul più bello, dopo che con Mondo, nel 2010, ha trovato la formula di un pop adulto, personale e traversale – quindi dai grandi numeri, e quindi degli stadi pieni. Il resto, raccontato con tono colloquiale e scorrevole, ogni tanto si perde fra qualche dettaglio un po’ così (Sardegna, che nasce «dopo una notte d’amore passata con Selene, una ragazza semplice, gioiosa, incontrata in un locale notturno, seduta su una panchina rivolta verso il mare, che convinsi a struccarsi e svestirsi della paura di non essere bella» e «un pomeriggio davvero surreale passato insieme a Marta Marzotto sulla sua barca») e altri particolari un po’ troppo compiaciuti (la sua casa che, ai tempi di Maggese, «aveva un che di sacro», con «la luce che entrava dalle finestre era densa e rassicurante, e una volta che eri dentro ti avvolgeva come in una favola»). Ma rimane, comunque, il romanzo di formazione lucido di una popstar precoce, che rischiava di essere divorata dagli squali.

Olimpiadi giorno 4 A Tokyo sta arrivando il tifone, che si porterà via direttamente tutta questa Olimpiade anomala, senza pubblico e senza abbracci. Oggi per l’Italia tre argenti e un bronzo, è mancato l’acuto, ma le storie dietro a quelle medaglie sono sempre notevoli. Ne esce il quadro di un’Italia familiare, fatta di nonni che accompagnano i nipoti in palestra per anni e di figli che dedicano la vittoria ai genitori, mentre loro ridendo si litigano la dedica: il quadro dello sportivo introverso, tutto genio e sregolatezza, non trova spazio nella fatica di una disciplina olimpica. Perché di fatica si tratta, provate voi a sparare ogni giorno per decenni a migliaia di piattelli, per poi perdere la medaglia d’oro che cinque anni fa avete vinto perché dopo averne colpiti 149 su 150 ne sbagliate uno, e quella cazzo di robot cinese a fianco a te che non sbaglia mai, mortacci sua, mo je sparo e vinco! 17


Provate voi a combattere con i crampi l’ultimo assalto, vincere 4 a 1, finire sotto in un batter d’occhio per 9 a 5 con un lungagnone di Hong Kong e sentire il tuo allenatore che per spronarti ride e ti dice: «Te la devi sudare la medaglia, pensavi fosse facile?» Allenatore che tuttavia, dopo la sconfitta, è al tuo fianco nell’ombra a raccogliere il tuo sfogo, pronto a rimanerci per i prossimi 4 anni. Il nuoto sembra un’altra cosa, questi ragazzi paiono tutti attori del cinema, nonostante le mezze mascherine sulla faccia, che non si è ancora capito se mentre li intervistano possano averle o no: e sono tutti deliziosamente e genuinamente felici di aver portato a casa qualcosa, tanto più se come nel caso della 4x100 stile libero davvero si tratta di un risultato storico da raccontare ai nipoti. L’Olimpiade è una storia nelle storie, e porta a galla un mondo che all’apparenza non c’è, quello di decine e decine di sport quasi inesistenti, almeno nel panorama italiano, che come per magia trovano qui la loro sede ideale. Per questo ci interessano meno le storie di quelli ricchi e famosi che sono qui, magari anche per esigenze dello sponsor di turno, e bisogna andare a farsi raccontare dai nonni com’era il ragazzo a dodici anni, sperando che di nonni ce ne siano ancora tanti negli anni a venire, altrimenti non contano niente gli sforzi del Coni e di Malagò (che fin qui comunque porta un po’ sfiga perché dove arriva lui ad assistere l’italiano arriva secondo) se non c’è una base sulla quale lavorare. Oggi era il giorno della Pellegrini alla sua quinta Olimpiade, che è davvero tanta roba nella vita di un’atleta, ma 18


nell’intervista dava l’idea di essere annoiata, capitata qui per traiettorie che poco hanno a che vedere con un sano risultato sportivo da coltivare, speriamo per lei che la notte la aiuti a ritrovare le emozioni che aveva a quindici anni, le stesse che fece venire a tutti noi. Intanto nella ginnastica maschile ha vinto la Russia-non Russia, ovvero il Comitato Olimpico Russo sotto al quale gareggiano gli atleti russi a causa della squalifica della nazione russa: pensate se voi, dopo una vita passata ad allenarvi, magari anche da dopati, vinceste le Olimpiadi e non suonassero nemmeno l’inno di Mameli... Visto ieri anche lo skateboard, con una ragazza bolognese che più volte è caduta sulle scale del percorso, finendo per fare una figura abbastanza barbina lei e facendola fare anche allo skateboard, poi vinto da una banda di tredicenni: ma davvero non si trovano sport più adatti a un palcoscenico olimpico? Se è bello che nello stesso contesto ci siano Djokovic, Kevin Durant e la ragazzina tredicenne, forse l’Olimpiade davvero non appartiene a nessuno dei tre: ai primi due perché il loro sport ha portato centinaia di milioni di euro nelle loro tasche, all’ultimo perché non ha una nonna che l’ha portata a otto anni a schiantarsi sullo skateboard, o se ce l’avesse portata l’avrebbe anche riportata a casa, e oggi quella ragazzina sarebbe una normale judoka giapponese campione condominiale e non campionessa olimpica.

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Stefania Auci (16 marzo - Mimo) C’è stata una famiglia che ha sfidato il mondo. Una famiglia che ha conquistato tutto. Una famiglia che è diventata leggenda. Questa è la sua storia. Dal momento in cui sbarcano a Palermo da Bagnara Calabra, nel 1799, i Florio guardano avanti, irrequieti e ambiziosi, decisi ad arrivare più in alto di tutti. A essere i più ricchi, i più potenti. E ci riescono: in breve tempo, i fratelli Paolo e Ignazio rendono la loro bottega di spezie la migliore della città, poi avviano il commercio di zolfo, acquistano case e terreni dagli spiantati nobili palermitani, creano una loro compagnia di navigazione... E quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende in mano Casa Florio, lo slancio continua, inarrestabile: nelle cantine Florio, un vino da poveri - il marsala - viene trasformato in un nettare degno della tavola di un re; a Favignana, un metodo rivoluzionario per conservare il tonno - sott’olio e in lattina - ne rilancia il consumo... In tutto ciò, Palermo osserva con stupore l’espansione dei Florio, ma l’orgoglio si stempera nell’invidia e nel disprezzo: quegli uomini di successo rimangono comunque «stranieri», «facchini» il cui «sangue puzza di sudore». Non sa, 20


Palermo, che proprio un bruciante desiderio di riscatto sociale sta alla base dell’ambizione dei Florio e segna nel bene e nel male la loro vita. I leoni di Sicilia è la loro storia, vera e documentata, con la potenza della saga, ed è una storia di passione e di riscatto, di amori e di successi, di sofferenze e di sogni. C’è un’Italia che si trasforma, dalla fine del settecento, attraverso i moti e le rivolte del 48, fino a Garibaldi. Un’Italia che spinge per il rinnovamento, un fuoco di indipendenza, che risveglia anche Palermo. “Sembra quasi che Palermo lasci che le cose le accadano addosso. Che sia spettatrice di sé stessa. E invece no, perché Palermo è soltanto addormentata. Sotto la pelle di sabbia e pietra, c’è un corpo che pulsa, una corrente di sangue e segreti. Pensieri che vibrano da una parte all’altra.” Sono i Florio a far vibrare il commercio, dialogando con gli stranieri, imparando lo spirito industriale inglese, non fermandosi mai, sfidando il mondo: dalle spezie al marsala, dallo zolfo al tonno sott’olio, esportazioni che si allargano sempre di più, fuori da Palermo, fuori dalla Sicilia, attraversano il mare e poi l’Oceano, fino in America. I facchinari diventano ricchi, ben vestiti, acquistano dimore lussuose, si istruiscono: per gli aristocratici rimangono sempre bifolchi, da guardare con distacco. Ma i Florio fanno matrimoni importanti, con armatori, grandi commercianti e professionisti. La loro Palazzina dei Quattro Pizzi all’Arenella consacra la loro ascesa, e il loro prestigio, impreziosendo la città. Quella dei Florio è un’Italia borghese che conosce il sudore e dà valore a quanto conquistato, un insegnamento da trasmettere ai figli, insieme ai patrimoni: «Non lo sai, non te l’immagini, quanto mi è costato». Accanto alle vicende politiche, e a quelle imprenditoriali, la storia della famiglia Florio è raccontata anche nel privato, dove emergono i ritratti di due donne esemplari, artefici del successo quanto gli uomini. Perché gli uomini della famiglia sono individui eccezionali ma anche fragili e - sebbene non lo possano ammettere - hanno bisogno di avere accanto donne altrettanto eccezionali: come Giuseppina, la moglie di Paolo, che sacrifica tutto - compreso l’amore - per la stabilità della famiglia, oppure Giulia, la giovane milanese che entra come un vortice nella vita di Vincenzo e ne diventa il porto sicuro, la roccia inattaccabile.

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Giuseppina e Giulia Florio, la calabrese e la milanese, sono dunque donne forti e pazienti, capaci di affermare il loro pensiero e soffrire per amore. La loro è una storia di dolori taciuti, generosi sacrifici e grande tenacia. Intrecciando il percorso dell’ascesa commerciale e sociale dei Florio con le loro tumultuose vicende private, sullo sfondo degli anni più inquieti della Storia italiana - dai moti del 1818 allo sbarco di Garibaldi in Sicilia Stefania Auci dipana una saga familiare viva e pulsante.

Olimpiadi giorno 5. L’Olimpiade entra nel vivo, si sarebbe detto un tempo, ma senza spettatori è una formula che non vale più la pena nemmeno pensare: se penso ai poveri genitori degli atleti che non hanno potuto vedere dal vivo la medaglia del figlio, mi dispiaccio per loro. Oggi ancora tre medaglie per noi, sempre non pregiate, Malagò si aggira per il Coni con delle stregone africane per risalire il medagliere: argento nella sciabola a squadre, bronzo nel canottaggio, bronzo nei 200 farfalla. Partiamo dai giganti al passo d’addio, Montano e Pellegrini.

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Montano, anni quarantadue, saluta con una medaglia d’argento a squadre, dopo due assalti finali da psicodramma degno di un film di Dario Argento, con luci rosse e verdi che si accendono in continuazione senza che si capisca quasi mai di chi sia il punto. Nel primo assalto il nostro ultimo sciabolatore si fa rimontare dal 43 a 36 fino al 43 a 43, per poi batterlo 45 a 44: nel secondo vinciamo 45 a 43 al fotofinish. In finale perdiamo praticamente senza combattere, con Montano in campo, in sostituzione di un infortunato: così Aldo, alla quinta olimpiade, si porta via la sua medaglia olimpica, la quinta in totale. Il padre, ex schermidore di livello olimpico, dice: «Aldo non è come me, Aldo non sa smettere, gli è fissato» (son di Livorno, si capisce tutto). Aldo nel frattempo dice che non baratterebbe mai con niente questi venti anni da atleta, e li ricomincerebbe anche ora: e ci credo... Federica arriva settima, ma si sapeva che per i piani alti stavolta lei non c’era, comincia l’intervista ridendo poi piange mentre promette di non farlo. Dopo trova anche il tempo per dire che il suo allenatore fidanzato, annunciato appena ieri come personaggio fondamentale in campo e fuori, è un buon compagno ma non è l’amore della sua vita. La Pellegrini la vedo come un corpo estraneo al movimento del nuoto, nonostante le sue imprese, e finirà per fare tutt’altro. Non so se è al passo d’addio, ma Monica Biles era gigante, anche se è alta 1,43. Lascia per stress, così dice, «per combattere i demoni che ho dentro», e comprendo che la vita di un’atleta di primo piano, condannata sempre a vincere, possa non essere affatto semplice. Ma certo, dirlo durante le Olimpiadi, mentre stai disputando la prova a squadre che a quel punto molli, non è il massimo anche per il rispetto per le compagne. Lei è una specie di donna a molla che salta da una parte all’altra della pedana: l’ultimo suo esercizio al corpo libero, che prende poco meno della nostra Ferrari, è contrassegnato da un salto da canguro impressionante ma del tutto fuori contesto, che la fa finire tre metri fuori la pedana. Siccome atleti di questo livello sono mostri, in tutti i sensi, ci sta che ci sia un giorno della tua vita, o anche tutti i giorni forse, che ti guardi intorno e pensi che cazzo ci stai facendo lì ad allenarti come una bestia da venti anni, per soddisfare chi?

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In questo è significativo il nostro Burdisso: anche lui ha confessato di aver pensato in questi giorni di ritirarsi per lo stress, ma poi ha aggiunto che siccome lui ora sta studiando per laurearsi e non ha così tanto tempo per il nuoto, gli piacerebbe (non fra tre anni, che starà ancora studiando, ma magari fra sette) prendersi quattro anni sabbatici dallo studio, allenarsi per bene e vedere dove può davvero arrivare nel nuoto: e questo ieri in acqua era una palla di cannone finito terzo! Davvero strani pensieri, come strani sono stati i risultati del calcio: eliminate malamente Francia, Argentina e Germania, dentro Egitto, Costa D’Avorio, Nuova Zelanda, Giappone e Corea. Praticamente il mondo alla rovescia, può accadere solo qui alle Olimpiadi. Quasi come nel canottaggio, dove è davvero accaduto di tutto ai nostri: nel 4 senza, un nostro atleta viene fermato un’ora prima della finale per Covid, poi, mentre i nostri erano in linea per arrivare secondi, la barca inglese a 200 metri dal traguardo perde la linea e a momenti ci sperona, facendoci finire terzi; nell’altra gara maschile, il 4 di coppia, ormai lanciati verso il podio praticamente perdiamo quasi un remo, e addio. Ma se pensiamo che il giorno prima la ciclista olandese arrivata seconda era convinta di aver vinto, perché non aveva mai visto la prima involarsi, si comprenderà come lo sport ha anche dei lati comici, o tragici, dipende come li si osserva.

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Francesco Costa (9 aprile - Dario) Ci sono pochi posti nel mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio quanto nel caso degli Stati Uniti. L’influenza statunitense nei nostri consumi è così longeva che pensiamo di conoscere bene l’America quando in realtà, nella gran parte dei casi, la nostra idea è un impasto di luoghi comuni e poche informazioni concrete. Convinti che gli statunitensi siano tutti armati fino ai denti, non sappiamo, per esempio, che la metà delle armi in circolazione in America è posseduta dal 3 per cento della popolazione. Coltiviamo il luogo comune per cui gli Stati Uniti usino la mano pesante contro l’evasione fiscale e i reati dei cosiddetti colletti bianchi, ma in carcere ci vanno ancora soprattutto ragazzi neri. Ragioniamo e discettiamo sulla cultura americana e sulla sua idea di Stato e libertà, paragonando il tutto a quello che succede qui da noi, senza sapere o tener conto che gli Stati Uniti sono un Paese molto poco popolato: ci sono più persone nella sola New York di quante ce ne siano in 40 dei 50 Stati. Siamo abituati a leggere l’intera politica estera statunitense innanzitutto sulla base del petrolio, e della necessità di trovarlo, ma oggi gli Stati Uniti sono pressoché indipendenti dal punto di vista energetico. L’elenco potrebbe continuare. Allo stesso modo, abbiamo accolto il risultato 25


elettorale più clamoroso in quasi tre secoli di storia statunitense, la vittoria del repubblicano Donald Trump alle presidenziali del 2016, a pochi anni di distanza dell’elezione di Barack Obama, primo presidente nero, come la logica e prevedibile conseguenza dei nostri luoghi comuni. Eppure ci sono fatti e cambiamenti profondi e non sempre visibili che spiegano eventi così straordinari. In un anno cruciale per la politica statunitense, che ha portato all’elezione di un nuovo presidente, Francesco Costa riflette sulle trasformazioni e i problemi dell’America, quella vera, raccontandoci il doloroso ma inesorabile smarrimento di un Paese speciale che diventa ogni giorno più normale. Il libro segna l’esordio del giornalista e vicedirettore de Il Post e racconta gli Stati Uniti attraverso la cronaca quotidiana, utilizzando prospettive e argomenti finalizzati a sfatare molti luoghi comuni che spesso ne corrompono l’immagine. Frutto dell’esperienza diretta dell’autore, il volume non intende ristrutturare le chiavi d’interpretazione su cui si regge il dibattito sull’America, né tantomeno redigere un compendio di storia americana. Il suo scopo è quello di fornire un dettagliato e originale vademecum sulla più grande potenza economica e militare mondiale, indugiando con arguzia su determinati particolari, talvolta mistificati dalla vulgata sugli Stati Uniti, che ne mettono in mostra tanto i punti di forza quanto le debolezze. Scegliendo come argomento iniziale l’ondata di tossicodipendenza degli ultimi decenni causata dagli antidolorifici, Costa introduce una metodologia d’analisi induttiva, che procedendo dalla cronaca apparentemente insignificante giunge a definire un quadro generale in cui elementi distanti si rivelano strettamente interdipendenti. È questo un metodo che al contempo ridefinisce gli stessi criteri inerenti al singolo tema. La tossicodipendenza, infatti, non viene più vista come una questione relativa a cartelli messicani o narcos colombiani, così come le vittime non sono più soggetti problematici che vivono ai margini della società. Il dramma oltrepassa le categorie con cui solitamente lo si intende per colpire direttamente il cuore dell’America, dai centri rurali della Virginia dell’Ovest alle grandi metropoli del Nordest, legato e promosso inoltre da una legislazione incerta e soprattutto da affaristi senza scrupoli.

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L’America “narcotizzata” è un Paese dolorante, reduce dalle fatiche dell’hard working che ha prodotto il primato economico americano, piegato dalla povertà che la deindustrializzazione ha disseminato a macchia di leopardo in regioni un tempo fiorenti. È allo stesso modo un’America fortemente individualista, fondata sul mito della libertà ed eternamente sospettosa nei confronti dell’autorità di Washington. È solo attraverso questo modello che Costa può dare un significato universale alla rivolta di un singolo allevatore del Nevada o allo sterminio di una setta religiosa texana. Ogni momento finisce per diventare emblematico non solo delle pulsioni centrifughe che ciclicamente spingono parti dell’America lontane dal suo centro politico-amministrativo, ma anche di uno spirito nazionale tanto rivoluzionario quanto potenzialmente eversivo.

Olimpiadi giorni 6 e 7 Stranamente ad oggi non ci sono stati malori gravi fra gli atleti, a parte una tennista, il caldo di Tokyo è davvero soffocante, penso che chi gareggia all’aperto se la ricorderà a lungo, questa Olimpiade. La parola del giorno comunque è twisties, che cazz’è? Quando ha parlato dei suoi problemi, dopo il ritiro, la Biles ha parlato di “twisties”, in pratica un blocco mentale che le fa perdere l’orientamento nello spazio durante l’esecuzione degli esercizi aerei, risultando pericolosa per la sua stessa incolumità fisica. In pratica è la labirintite dei ginnasti, che dopo venti anni di salti ti prende un giorno e ti toglie buona parte della tua sicurezza, facendoti vivere nella costante incertezza che in qualsiasi momento del volteggio tu possa perdere la stabilità e fare un volo tipo pupazzo di pezza, in pratica facendoti tornare umana come tutti noi, che questo blocco mentale lo abbiamo dalla nascita.

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Umano come Paltrinieri, che uscito dalla mononucleosi un mese fa non sapeva se sarebbe stato in grado o meno di fare una prova ad alti livelli, e oggi ha vinto l’argento negli 800 m dopo una gara tirata tutta in testa, con un cuore e una lucidità che fanno capire che in certi momenti, se ci credi, puoi essere più forte anche delle avversità (o, come scrisse Maurensig, ti fa pensare di poter battere a scacchi perfino Dio concedendogli il vantaggio di un pedone). Oggi quattro medaglie per noi, un buon bottino, siamo arrivati a 19 in totale. Si torna a vincerne una d’oro, era ora, con le donne del canottaggio, dopo una volata mozzafiato, quelle medaglie che se vinci sei contento e se perdi torni a casa e spari al vicino che ti saluta. Un altro bronzo viene dal canottaggio maschile, l’ultima è il bronzo dal fioretto a squadre femminile, con il solito psicodramma in semifinale dove l’azzurra è stata rimontata di brutto dalla francese, anche se i francesi poi hanno perso la finale con le russe; in finale per il terzo posto il Commissario Tecnico della Nazionale italiana a un certo punto ha schierato la figlia (che era riserva) e meno male che ha vinto, altrimenti ci sarebbero state polemiche per anni. Nota di colore: una fiorettista ungherese, riserva, ha 45 anni ed è alla settima olimpiade, credo paghi lei per andare perché a casa non ci sa stare. Anche se non verrà ricordata come una delle Olimpiadi più ricche di soddisfazioni per noi (siamo a 5 medaglie), la cosa buona della scherma è 28


che gli schermidori si accoppiano costantemente fra loro, perpetuando la specie dello schermidore ad alto livello. Stessa cosa stanno facendo i nuotatori, ora si tratta di trovare delle cestiste molto alte che facciano figli con un nostro due metri, per cercare un pivot alto 2.20 per la prossima generazione. Ieri nel judo una ragazza italiana, un donnone grande e grosso, è stata derubata di una medaglia, visto che le hanno chiamato la Var per il punto della sua avversaria tre minuti dopo che era avvenuto e solo quando aveva fatto punto lei; poi, nel dopo gara, fra le lacrime (tutti questi donnoni del judo categoria 70 kg piangono come bambine di quattro anni dopo la sconfitta), ha detto di essere fidanzata con una ragazza, e che è bello sapere che l’Italia fa una legge per evitare la diversità: se lo dice lei dobbiamo crederci, anche perché altrimenti ce mena a tutti. Nelle pause della pallavolo femminile Italia-Argentina, gli altoparlanti giapponesi sparavano musica italiana, fra le altre ho ascoltato Modugno, Celentano, i Lunapop e Colapesce Di Martino, hanno le idee chiarissime sulla nostra musica. Un italiano finisce sesto nei 100 stile libero maschili, la gara per eccellenza del nuoto, e alla fine dice: «ho fatto una stronzata sennò ero a medaglia», quando questo succederà anche nei 100 metri di corsa allora la globalizzazione sarà davvero completata. Interrogazione parlamentare perché durante la gara di Djokovic, la Rai ha mandato in onda lo speakeraggio del doppio maschile, che è una bella forma di doppiaggio visivo per farti venire un twisties a te spettatore: mentre quello tira un dritto vincente, il commentatore parla di smorzata venuta male. Siamo tutti Simona Biles! *** E siamo anche, quasi, al giro di boa, anche perché a questi ritmi non si regge a lungo come spettatori: oggi è partita l’atletica, da sempre la regina delle Olimpiadi, anche di queste senza pubblico. I giapponesi hanno già vinto ad oggi cinque ori in più di tutta la edizione del 2016, e il doppio di quella del 2012; insieme all’Australia sono al momento la nazione con più incremento di medaglie, anche se giocano in casa ma senza il tifo, gli ha detto anche male. 29


La Cina ha ormai superato gli Usa, che a Rio avevano il doppio delle loro medaglie: c’è uno studio economico e sociale assai interessante da approfondire anche dietro un semplice medagliere olimpico. Oggi una sola medaglia per noi, un bronzo nell’arco, una ragazza 24enne che avevo visto tirare l’altro giorno a squadre, alla quale non avrei dato una chance su un milione, e invece freccia dopo freccia ha fatto una bella impresa. La prima cosa che ha fatto, come a togliersi un peso durato 24 anni, è stata ringraziare la sua fidanzata olandese che le è stata molto vicina in questi anni, ormai il coming out femminile non viene nemmeno più quotato, chissà la pugile italiana che sta per vincere la medaglia cosa dirà fra qualche giorno; stiamo però aspettando, per par condicio, anche un coming out maschile che però tarda ad arrivare, siamo pur sempre il Paese delle commedie all’italiana che sfottevano i culattoni. Certamente abbiamo ormai sdoganato gli atleti di colore come utili alla causa una volta che diventano regolari: oggi ce n’erano tre su tre nei 3000 siepi, specialità che è stata per un ventennio un nostro fiore all’occhiello (Scartezzini e Panetta fra gli altri), e uno nei 10000, dominato dai neri: se facessero delle selezioni direttamente a Lampedusa, credo che un 20% entrerebbe senza problemi nel nostro Paese per meriti sportivi. San Marino vince la prima medaglia della sua storia, addirittura nella stessa specialità della nostra portabandiera Jessica Rossi, uno smacco senza precedenti; Jessica che ora per rifarsi è obbligata a cimentarsi nella disciplina mista in coppia con l’ex marito. A proposito, in questa edizione sono partite in diverse specialità come new entry le “discipline miste”, dal nuoto all’atletica (e ora anche nel judo, con 30


una sorta di maxi gara a squadre mista), staffette con due uomini e due donne. Oggi ho visto un 4x400 misti dove i nigeriani avevano invertito uomo e donna rispetto agli altri: l’uomo ha fatto gara da solo e ha lasciato in ultima frazione la donna, con 100, 150 metri di vantaggio su tutti, ma se la sono pian piano divorata ed è arrivata ultima. È un interessante esperimento sportivo anche questo, anche se Stefano Tilli commentava che sembrava di essere a Giochi Senza Frontiere. Due storie parallele da segnare: una judoka araba e una israeliana si abbracciano a fine gara, credo abbiano entrambe chiesto asilo politico in Giappone; e poi il vincitore iraniano dell’oro nella pistola era fra coloro che gli americani avevano messo nella lista dei possibili terroristi.

Donatella Di Pietrantonio (3 maggio - Giovanna) Siamo nell’Abruzzo di fine anni ‘70, al fianco dell’Arminuta (la Ritornata), una ragazza che rientra nella sua famiglia di origine dopo aver vissuto più di un decennio presso quella che aveva sempre ritenuto la sua vera e unica famiglia. Una piccola nata in una famiglia troppo numerosa per accoglierla nel modo corretto, e affidata a chi poteva prendersi davvero cura di lei. Il rientro della giovane protagonista è ruvido e brutale, così come lo è la realtà che l’ha colta quasi all’improvviso; coloro che era abituata a chiamare “mamma” e “papà” 31


diventano improvvisamente dei parenti alla lontana, destinati a esser visti solo raramente, e i veri genitori si presentano ben diversi da quelli con i quali era cresciuta. Nessuna spiegazione, nessuna carezza che allievi questo doloroso distacco, solo una valigia carica di vestiti nuovi e i ricordi a fare da compagni. L’Arminuta deve combattere per ritagliarsi la sua posizione nella nuovavecchia famiglia, per riprendere contatto con una realtà che non ha mai conosciuto se non per pochi mesi della sua esistenza e soprattutto per venire a patti con la verità dietro la sua restituzione. Al suo fianco, una sorella appena riscoperta, capace di addolcire una nuova vita altrimenti amara e di farsi largo, pian piano, nel suo cuore e nei suoi pensieri. Il romanzo racconta una storia ruvida e dolorosa, spiccia come è spiccio il linguaggio con il quale è narrata. Brutale quasi, eppure capace di una dolcezza fatta di piccoli gesti e piccole frasi, di una carezza che pare quasi uno scappellotto e di un sorriso offerto quando non si ha nient’altro da donare. Un romanzo di formazione che parla di famiglia e di povertà, di legami e verità, ma è anche la storia di una terra che ha visto in modo così nitido questa distinzione sociale. È la realtà che si apre davanti agli occhi di chi ha sempre vissuto da privilegiato e improvvisamente viene catapultato in una casa minuscola con una cucina strapiena di fratelli litiganti e un letto diviso in due che sa di ammoniaca e sorellanza. L’Abruzzo raccontato dalla Di Pietrantonio è uno stridente miscuglio di due realtà; da un lato, quella delle case al mare, delle lezioni di danza e delle feste con le amiche e, dall’altro, quello della raccolta delle fave nei campi, delle corse pazze in motorino per evitare la polizia e del lento e soffocante scorrere di una vita monotona e sempre uguale, nella quale l’unico punto fisso è il desiderio di continuare a sopravvivere.

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Olimpiadi giorno 9 Giornata in fondo normale per noi, a parte i due ori nell’atletica in dieci minuti... Ma andiamo con ordine. Nella notte del definitivo addio della Pellegrini mentre la staffetta 4x100 mista maschile nel nuoto ha fatto meraviglie, con una medaglia di bronzo che mette il sigillo alla bontà del movimento natatorio italiano di questa edizione. Peccato solo per il quarto posto di Paltrinieri, che avrebbe meritato di più, ma la malattia non gli ha consentito di essere al meglio, e l’argento negli 800 stile è già qualcosa di grande. In quest’Italia che lotta e non si piange addosso, non rientrano stavolta quelli della scherma, ultima delusione il fioretto maschile a squadre. Non so se sia un problema di talento, certamente lo è di testa: arriviamo spesso a giocarcela fino alla fine, e poi negli ultimi assalti andiamo in bambola: cercasi mental coach che porti gli azzurri ad uccidere direttamente l’avversario con una spadata finale e definitiva. L’Italbasket martedì gioca nei quarti con la Francia una sfida proibitiva, ma la palla è rotonda e il canestro pure, chiedete informazioni ai serbi; attendiamo notizie anche sugli accoppiamenti del volley e della pallanuoto, che puntano decisi a una medaglia. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, all’atletica. Dove una venezuelana fa il record del mondo nel salto triplo, e un americano ha vinto i Trials sia nel salto in lungo che nel salto in alto, che è una roba da superman, considerando la differenza sostanziale fra le due discipline. E l’Italia? L’Italia si presenta in batteria con Jacobs, ventiseienne di colore, che in semifinale stampa un 9.84 di record europeo (finendo addirittura terzo nella sua batteria dietro a un cinese che pare una palla di cannone per come esce dai blocchi). La storia di Jacobs è particolare: aveva iniziato come lunghista, con un personale di 8.48 ventoso, poi negli ultimi anni ha scelto la velocità pura, con risultati buoni, ma non eccezionali (fino al 9.95 di qualche mese fa a Savona, cosa che lo indica come possibile outsider per un posto in finale che nessun italiano ha mai raggiunto. E lui con 9.84 33


ce la fa, è nella storia, nemmeno Mennea aveva mai corso la finale dei 100. Ma passiamo a Tamberi, la cui storia invece è forse più nota. Figlio di un saltatore olimpico, nel 2016 a Rio era fra i favoriti per una vittoria, ma nell’ultimo meeting prima delle Olimpiadi per cercare di saltare 2,41 cm gli parte la caviglia. Olimpiadi saltate. Da lì anni difficili per lui, che è praticamente pazzo, e non arriva più ai risultati del 2016. Arriva a queste Olimpiadi a fari spenti, e salto dopo salto trova fiducia, ma non sembra essere fra i favoriti a quelle altezze via via più alte. Ma lui non sbaglia mai, anche se Bashir, il qatariota che ha leve allucinanti, salta le sue misure con facilità irrisoria. Ma i 2,33 e i 2,35 saltati al primo tentativo lo portano avanti, a pari merito con Bashir. Poi saltano entrambi 2,37 al primo tentativo e sbagliano i 2,39 (per Bashir non l’avrei detto mai). Nell’ultimo salto, che poteva portarlo dritto all’oro, Tamberi pone accanto a sè il gambaletto del 2016, con scritto Road to Tokyo 2020, poi divenuto 2021 con una cancellatura: una pioggia di lacrime inondava le televisioni di tutta Italia, ma non bastava a lanciarlo sopra i 2.39. L’ultimo salto sbagliato gli regalava però l’argento, salvo lo spareggio con lo strafavorito Bashir, almeno così dicevano i telecronisti, ma è bastato un 34


attimo a entrambi per accordarsi sull’ex aequo, è medaglia d’oro, e follia totale di Tamberi, che per venti minuti piange, si inginocchia, bacia tutti, si stende per terra, sono quelle gioie attese cinque anni che non sai nemmeno come affrontare, anche se quel momento l’hai vissuto per cinque anni ogni giorno della tua vita. Mentre Tamberi è lì che festeggia impazzito con la bandiera italiana, sullo slancio gli arriva accanto il vincitore dei 100 metri, e lui se lo abbraccia unendolo alla festa italiana: è Jacobs, che con 9.80 arriva primo con mezzo metro di vantaggio, stracciando il resto del mondo. È una vittoria pazzesca che non sarà possibile dimenticare, mentre Jacobs nell’intervista in perfetto italiano con un pizzico di dialetto lombardo è tranquillissimo, quasi ignaro di aver migliorato il proprio personale di quindici centesimi in un giorno. Due ori così, nei 100 metri e nel salto in alto, non si erano visti mai da queste parti, tanto più nell’atletica dove a Rio avevamo fatto zero medaglie. Ultimo oro è stato quello del povero Schwazer nella marcia a Pechino 2008, che mi piace oggi accomunare a questi due per quanto è avvenuto in questi anni, una storia davvero poco chiara dove le analisi in sede penale hanno dimostrato che le sue provette sono state alterate, vai a capire da chi e perché. Oggi queste tre storie, tutte molto italiane, dove le lacrime per diversi motivi superano i sorrisi, sono riunite nel ricordo, almeno nel mio: l’ultima medaglia olimpica nell’atletica, e le due odierne. E allora Viva l’Italia, stavolta con gli occhi lucidi, e non asciutti, nella notte scura. L’Italia che non ha paura. 35


Pippo Russo (3 giugno - Annalisa) Estate 1989. Nel calcio italiano imperversa la guerra di religione fra Uomo e Zona. Nedo Ludi, stopper 28enne dell’Empoli, reduce dalla migliore stagione della sua carriera, scopre che la sua squadra è stata affidata a un allenatore “sacchiano”. È l’inizio della sua fine. Come ogni stopper che stenti a adeguarsi alla Zona, Nedo si accorge presto di essere giudicato inadatto dal nuovo allenatore. Coglie anche di trovarsi dentro un mutamento che sta facendo del calcio una cosa a lui irriconoscibile, nel mezzo di un paese calato dentro la sua ultima, rampante ondata di modernizzazione. Animato da suggestioni luddite, dal mito della rivolta dell’uomo contro la macchina industriale, Nedo organizza una congiura contro la Zona. Sullo sfondo, l’appuntamento con la Storia per un’Italia alla ricerca di una vetrina internazionale come potenza economica di prima grandezza: i mondiali di Italia ‘90. E non solo, perché gli avvenimenti si svolgono nell’89, e l’89 è sinonimo di profondi cambiamenti, di porta che si apre su un futuro tumultuante e vorticoso, al termine del quale nulla è così come prima. Lo fu nel XVIII secolo, con la presa della Bastiglia (1789, appunto), la Rivoluzione francese, il ciclone Napoleone, il seme della Repubblica e 36


della democrazia sparso su un continente dove regnava comunque l’assolutismo, che fosse illuminato o no. E lo è stato anche nel secolo XX, l’anno 1989, uno spartiacque. La caduta del muro di Berlino, improvvisa, segnò la fine della Guerra Fredda, un nuovo modo di ridisegnare l’Europa e il Mondo. Perché anche le nuove tecnologie comunicative – cellulari, internet – contribuirono a determinare il nuovo verbo, globalizzazione a tutti i costi. L’autore, Pippo Russo, trova nel 1989 il terreno fecondo per il suo primo, accattivante romanzo, unendo i suoi due background culturali tanto visitati e amati, sociologia e calcio appunto. Perché anche il calcio conosce il suo 1989, permeato da un passaggio brusco dalla marcatura a uomo alla zona, dalla lentezza della fantasia alla frenesia della fisicità del pressing. Il profeta Sacchi con il suo Milan oliato dal denaro berlusconiano domina la scena, e tutti si adeguano. O vengono clamorosamente emarginati. La storia è stralunata e malinconica. Una galleria di personaggi grotteschi, pronti a mettere in gioco tutto tranne la dignità. Una vicenda che forse non è mai accaduta, o forse sì. Il percorso del mutamento italiano nell’ultimo quindicennio come non ve l’avevano mai raccontato, letto attraverso l’unica chiave d’interpretazione forse davvero efficace: il calcio.

Olimpiadi giorno 10 Dopo la tempesta di ieri torna la calma, anche troppa: un solo argento, ma pesante, quello di Vanessa Ferrari, nel corpo libero. È la prima volta di un’italiana sul podio nella storia della ginnastica: nel 1928 la squadra italiana, composta da dodici ragazze, aveva vinto l’argento nel concorso a squadre. Qualche anno dopo le quattro ragazze ebree della squadra vennero deportate ad Auschwitz, nemmeno vincere una medaglia olimpica dava la certezza di essere al sicuro. A proposito di regimi, è assai triste la storia della duecentista bielorussa, che critica la scelta tecnica della Federazione del suo 37


paese di schierarla nella staffetta dei 400 metri, tanto che Federazione l’ha subito cancellata dai giochi, obbligandola a rientrare coattivamente a casa. Si è ribellata, chiedendo l’aiuto del CIO e delle autorità giapponesi, aiuto che è arrivato mentre lei si stava già reimbarcando per l’Ucraina e alla fine ha vinto lei, ottenendo anche un visto per la Polonia: storie del terzo millennio. Ieri la doppia medaglia d’oro nell’atletica ha calamitato l’attenzione nei confronti di Tamberi e Jacobs, e rispettive famiglie, con tanto di telefonata di Draghi compresa (col saltatore che diceva veniamo, ci fa piacere, non si preoccupi); la nostra Simeoni come rivedeva le immagini cominciava a piangere, chissà se fra quarant’anni Tamberi piangerà in tv per la medaglia di un saltatore con la stessa partecipazione emotiva. Mentre la storia di Tamberi era nota a tutti, quella di Jacobs era ignota ai più, tanto che qualche giornale straniero ha ipotizzato l’ombra del doping sulla sua vittoria, considerando che appena tre mesi fa non lo conosceva nessuno. Certo che mentre la vittoria di Tamberi è quella del cuore, quella di Jacobs è talmente sorprendente da lasciare tutto il mondo, e non solo l’Italia, a bocca aperta: mai avrei pensato nella mia vita di vedere un atleta italiano dominare i 100 metri olimpici. Vero che la metà degli atleti olimpici della nostra atletica attuale hanno origine in parte straniera o naturalizzata, ma questo è figlio anche della globalizzazione, oltre che della singola disciplina sportiva. Ieri Malagò, che ha detto che la giornata di ieri è la più grande giornata dello sport italiano che si ricordi (e in effetti, nonostante l’affermazione sia coatta, debbo dire che ne conto poche di simile planetaria gratificazione sportiva), si è 38


lanciato sulla necessità di concedere agli atleti diciottenni figli di immigrati lo ius soli, per dare loro al compimento dei 18 anni la cittadinanza italiana. La questione, già trita e ritrita, in realtà è assai più ampia, anche perché rilasciare la cittadinanza per meriti sportivi, a fronte di altre centinaia di migliaia di ragazzi che magari hanno valori altrettanto rispettabili come lo studio o il lavoro, sarebbe all’evidenza figlia di una disparità di trattamento: tu che corri i 3000 siepi sei italiano, e tuo fratello che fa il geometra no? E veniamo all’argento di oggi, Vanessa Ferrari, un’altra storia di sofferenza

e resurrezione italica, ormai ci stiamo specializzando nel settore feuilleton. Considerando l’abbandono della Biles, forse lei avrebbe sperato in qualcosa di più, e tutti noi che abbiamo visto i due esercizi abbiamo difficoltà a capire quali siano le differenze fra il suo esercizio sulle note di Con te partirò e quello dell’altra americana, ma Yuri Chechi stasera ha messo fine al chiacchiericcio dell’italiano medio da pop corn in salotto: ragazzi, lei è stata bravissima, ma l’americana l’oro l’ha meritato ampiamente.

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Marco Balzano (23 giugno - Sonia) Quando tornerò è il quarto romanzo di Marco Balzano, libro che già prima dell’uscita ha suscitato curiosità e interesse visti i lavori precedenti dello scrittore. L’attenzione verso il lavoro di Balzano ha molte motivazioni: alcune riguardano il talento, altre il punto di vista. Sul talento narrativo di Marco Balzano si sono espressi molti, ma vale sempre la pena di ricordare la capacità dell’autore di Resto qui di far arrivare dalla composizione delle sue parole emozioni scaturite dai particolari minimi, quelli che fanno di un buon racconto un disegno in cui immaginarsi, in cui immergersi. Sul punto di vista è lo stesso Marco Balzano ad affidare alle note del libro una chiave di interpretazione al proprio lavoro: «Una storia prima di raccontarla bisogna saperla ascoltare». In questa frase ci sono millenni di lavoro, non solo letterario ma anche teatrale, e di narrazione civile. Ascoltare le storie mettendo l’orecchio dove nessuno lo aveva messo prima, dove forse neanche si pensava di dovercelo mettere. Ed è proprio questa la sensazione di profondità che emerge accostandosi ai libri di Marco Balzano, l’orecchio rivolto verso quello che prima era silente, solitario, abbandonato, dimenticato. 40


Lo erano di sicuro le storie di milioni di donne migranti (si definirebbero ‘economiche’ sui giornali), che negli anni hanno abbandonato le loro famiglie per poi mantenerle da lontano. Un fenomeno che ha riguardato Est Europa, Asia, Africa e Sud America. Un fenomeno che in silenzio ha mosso soldi e persone, offrendo denaro in cambio del bene che non possiamo più permetterci: quello di curare le persone più deboli. L’Occidente opulento (e non, va detto) si è comprato la cura ed insieme ha comprato migliaia di storie di abbandono e sogni mescolati a pannoloni. Così succede per Daniela, protagonista del libro, che abbandona una vita mediocre in Romania per poter permettere un futuro migliore ai propri figli. Un lavoro a termine, un periodo di sacrificio per poi accedere alle grandi gioie della realizzazione economica. Daniela parte senza un biglietto di addio, senza un messaggio, senza che il minimo dubbio attraversi la mente di chi sente la necessità del proprio agire. Ad aspettarla in Romania rimarranno Angelica, ragazza responsabile ma cresciuta troppo in fretta, e Manuel, ragazzino fragile e impulsivo. C’è anche un uomo, il marito di Daniela, ma è una figura sbiadita, ingrigita dalla mancanza di volontà. Nella seconda parte del libro scopriamo il racconto si arricchisce della voce di Manuel, il figlio più fragile, che fa da controcanto a Daniela. Nell’ultima parte del libro anche Angelica racconterà un’altra parte della storia, costruendo magicamente una storia stratificata negli anni e stesa su mezza Europa. Colpisce l’apparente semplicità di una storia come quella di Daniela quando, ascoltandola, si scopre che racconta il nostro tempo, molto più di un quotidiano, molto più di un approfondimento giornalistico, perché sono le storie a dare movimento al mondo, a costruire la Storia.

Olimpiadi giorno 11 È il giorno del ciclismo, uno dei nostri sport nazionali per definizione, anche se su strada non ci siamo mai ripresi dalla morte di Pantani. Nell’inseguimento su pista c’è una gara per coronarie forti da parte del nostro quartetto, che parte in testa, piano piano arriva a perdere fino a 8 41


decimi dai danesi, e poi negli ultimi 3 giri fa un recupero eccezionale, finendo col battere il record del mondo appena fatto ieri. Ganna guida il gruppo a velocità sopra i 70 all’ora di punta, e alla fine è esultanza nazionale, guidata in pista dal solito onnipresente Malagò, che sembra ormai un po’ Paolini che te lo ritrovi un po’ dappertutto, considerando anche che le distanze di Tokyo non sono banali. Dopo le note liete quelle pessime. Il volley femminile e la pallanuoto maschile vengono entrambi suonati come un tamburo dalla Serbia, apparsa a un livello superiore come nei videogiochi. Si aspettava molto dal volley, forse anche troppo, e la nostra Egonu era stata anche portabandiera azzurra, ma dopo un buon inizio di Olimpiadi la Nazionale si è persa, per motivi poco comprensibili: non posso credere che Silla non sia più in grado di ricevere un pallone. La cultura del sorriso portata avanti dal Ct Mazzanti è parsa alla fine stucchevole, e quasi un alibi per le nostre, che sono andate avanti sorridendo nelle ultime 3 partite prendendo mazzate, col Ct che nei time out rideva, e alla fine tutto questo volemose bene molto politically correct non ha pagato: urge un Carletto Mazzone, dopo Mazzanti, che rimetta le cose a posto. 42


La pallanuoto è la più grande delusione, considerando che siamo campioni del mondo, ma oggi davvero la Serbia ha dominato, insaccando tiri in parità numerica da distanze siderali: vediamo come va a finire il Torneo, potrebbe essere stata sfiga nel sorteggio. Per finire perdono anche Lupo e Nicolai nel beach volley, da una coppia africana naturalizzata qatariota fisicamente imbarazzante, che pone ancora più interrogativi sul fatto che in alcuni sport tu gli atleti non li devi crescere, ma andare a trovare in giro per il mondo da Paesi poveri. Emblematico un articolo ieri sulla Grecia, che raccontava la triste sorte dei campioni di atletica greci, uno dei quali ieri ha vinto il lungo, costretto a mendicare la cena nelle taverne di Atene per campare, visto che il sussidio che gli passano è appena sufficiente per gli altri bisogni. Come forse non è un caso che la Norvegia stia trovando grandi atleti nell’atletica, senza mai aver avuto tradizione: i soldi contano più della cultura sportiva sempre più, e a volte se la comprano pure. A proposito della cultura sportiva, San Marino e India sono pari nel medagliere, e abbiamo detto tutto. Bella l’intervista del padre padrone di Tamberi, ex saltatore in alto anche lui poi infortunatosi per un incidente: non è facile fare il coach di nessuno, figuriamoci del proprio figlio. Al quale a quattordici anni disse la seguente frase: «Capisco che ti piaccia il basket, ma devi sapere che se giocherai a basket lo farai a livelli molto bassi, se farai salto in alto sicuramente andrai alle Olimpiadi: che scegli?» In effetti questa è una domanda che un ragazzo a quattordici anni non so se è in grado di porsi con sufficiente lucidità: ho sempre pensato che se rinascessi andrei a fare una specialità praticata da pochi, dove comunque se ti piace lo sport hai infinitamente chances di prendere il tuo spazio. E gli allenatori a questo servono, in fondo, a darti una prospettiva. Qualche giorno fa nell’ippica, riservata a uomini e donne, ha vinto una donna, seguita da un australiano sessantaduenne: c’è speranza per tutti. Ieri giorno di addii: Juantorena nella pallavolo, Scola e Gasol nel basket, un giapponese quarantunenne con sei Olimpiadi nei tuffi. Per Scola, quarantun anni anche lui, centro dell’Argentina di basket, si è fermata per 43


due minuti la partita, una cosa da brividi, e alla fine ha pianto anche lui, El General, forse non voleva deludere chi lo applaudiva. L’episodio del giorno avviene nell’eptathlon femminile. Una ragazza inglese nei 200 metri si infortuna e cade, invadendo la corsia della vicina. Dopo un paio di minuti si rialza, e saltellando finisce la gara, pur sapendo di essere stata squalificata. Si chiama spirito olimpico. E senza Malagò sullo sfondo viene decisamente meglio.

Edith Bruck (13 settembre - Angela) È la storia di una bambina scalza, una piccola ebrea in uno sperduto villaggio ungherese. Dikte ha tanti fratelli, sei; sono poverissimi; è brava a scuola, ma è emarginata perché la persecuzione hitleriana si sta già facendo pesante e i fascisti ungheresi sono crudeli quanto i nazisti invasori. Presto l’intera famiglia sarà deportata e la madre che aveva messo a lievitare il pane dovrà abbandonarlo nella casa deserta. Un evento simbolico che segnerà la vita e la personalità di Dikte. Prima il ghetto, poi Auschwitz, dove periranno la madre, il padre e il fratellino Jonas. Lei sopravvive, 44


appena tredicenne, alle infinite privazioni, torture, fame, malattie, insieme alla sorella Judit, che le fa da madre. La scrittrice racconta con il consueto stile asciutto, essenziale, fortemente simbolico, la rinascita attraverso una serie di peregrinazioni: il mito della Terra Promessa, che era stato il sogno della amatissima madre, si rivelerà per lei una delusione. Dikte non ottiene l’accoglienza affettuosa dai fratelli che aveva sperato, non vuole entrare nell’esercito e per evitare il servizio militare si sposa frettolosamente. Non accetterà la violenza del giovane marito marinaio, povero e ignorante. Lascia Israele, va in Grecia al seguito di una strampalata compagnia di ballo, contrae un nuovo matrimonio che le lascia in eredità solo il cognome, Bruck, e finalmente, dopo una serie di peregrinazioni, dopo Zurigo (che non le piace), arriva in Italia, a Napoli. Qui comincia la sua nuova vita, qui decide che l’italiano sarà la lingua in cui scrivere, il suo sogno da sempre. Trasferitasi a Roma, incontra l’uomo che sarà suo marito, amato per oltre sessant’anni, il poeta regista Nelo Risi. È (probabilmente) l’ultimo libro, forse davvero quello conclusivo della carriera della Bruck e lo si sente fin dalle prime righe. In effetti l’autrice ormai ha 89 anni e un’esperienza di vita alle spalle molto particolare e tragica. Il lascito dell’esperienza ha permeato tutta la sua vita, dal momento che fin dal primo istante fuori “dall’Inferno” la sua volontà è stata quella di scrivere, di ricordare, di sensibilizzare un mondo che, specialmente nell’immediato dopoguerra, sembrava voler dimenticare. Ed è qui che l’incontro con una realtà che non sa, non capisce, non ha provato lo stesso dolore inumano, e che nel frattempo ha soltanto continuato ad andare avanti sperando che prima o poi la guerra finisse, diventa complicato. Un mondo che non ha visto il proprio vicino morire per un tozzo di pane o per un dito puntato. Un mondo che non può sapere e in molti casi non vuole sapere, evita, chiude gli occhi di fronte a chi nascosto nei propri ha invece ancora le atrocità dello sterminio e l’abisso della morte. Un “dopo”, quel “dopo”, che ha portato quasi tutti i sopravvissuti che lo hanno poi raccontato nei libri a porsi la domanda: e ora? Una vita, una tragedia, una professione, un mandato: tutto converge in un finale, un epilogo, che però implora ancora un po’ di tempo, magari l’eternità, purché la memoria continui e non si spenga con le ultime persone che quell’abominio lo hanno provato sulla loro pelle. Insomma, Il pane perduto pare essere un po’ la riflessione finale sull’accaduto. Allo stesso tempo però qui emerge un forte vitalismo sia dell’autrice che della 45


parola, che non vuole soltanto relegare sé stessa in una dimensione puramente testimoniale, ma andare oltre, al di là, e diventare l’ultimo manifesto di chi, nonostante tutto, ha ancora la forza di gridare in faccia alla morte la parola «vita».

Olimpiadi giorni 12 e 13 La giornata comincia nella nottata italiana con la gara dei 10 km di nuoto di fondo. Siccome sono in macchina che torno a casa, cerco se per radio trasmettono la cronaca, e la trovo su Rai 1, la fa quello che si occupava del calcio di serie C. In un momento proustiano ricordo che l’ultima, ma direi meglio l’unica, volta che ascoltai le Olimpiadi per radio fu per Montreal 1976, e sono riproiettato al mare con mia madre e mia sorella che ascolto le sorti della gara di salto in alto di Sara Simeoni, poi finita seconda dietro la tedesca Ackermann; ci vuole molta fantasia per ascoltare lo sport alla radio, ma se la voce del cronista ci sa fare, è come per un bambino ascoltare le favole, grosso modo. Com’è, come non è, Gregorio (che a Roma peraltro è sinonimo di fortuna) Paltrinieri vince il bronzo, ed è un altro mezzo miracolo dopo l’argento negli 800 metri. Per me è lui il vero dominatore italiano, e non solo, di queste Olimpiadi, e mi spiace che la bandiera alla cerimonia di chiusura la porti Jacobs, mossa piaciona dei vertici, nessuno lo meritava e merita più di lui. La medaglia della notte arriva dal baffuto Rizza nella canoa, è uno sparo nel buio alle quattro di mattina che lo porta all’argento nella velocità, a cinque centesimi dall’oro. Quasi in contemporanea, la staffetta 4x100 italica, con Jacobs in seconda frazione (come da gerarchie preolimpiche batte il record italiano scendendo per la prima volta sotto i 48 secondi, e domani punta a un risultato storico, considerando che gli Usa finiscono il disastro nel settore della velocità rimanendo fuori dalla finale, pur senza aver perso il testimone, come accaduto in passato: davvero qui siamo al mondo alla rovescia.

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Sentito nella notte lanciatore di peso italiano, nato in Sudafrica e finito quinto in finale con un miglioramento di quasi mezzo metro, rilasciare buona parte dell’intervista direttamente in inglese, perché con l’italiano se la cava male: è la risposta migliore ai decreti Salvini che prevedono l’esame di italiano per avere la cittadinanza. La giornata prosegue con un inaspettato oro nella 20 km di marcia, corsi (e spesso nella marcia non è un modo di dire) in una umidissima Sapporo, marcia dove abbiamo una tradizione ormai solida: raggiungiamo così le tre medaglie d’oro nell’atletica di Mosca e Los Angeles. È ancora un pugliese ad affermarsi davanti a due giapponesi, ricordando che le medaglie non si vincono se non col lavoro di squadra, tormentone di tutti questi giorni, il che è perfettamente vero, ma se poi non c’è la materia prima il lavoro del team lo prendi e lo butti direttamente nel cesso. Ultima medaglia italiana della giornata, il bronzo nel karate femminile. Il karate è quella disciplina dove non si combatte, ma si fanno solamente le posizioni nella maniera migliore, urlando anche come ossessi come si portasse il colpo: disciplina millenaria e rispettabilissima, introdotta in Giappone come omaggio alla nazione ospitante, ma francamente assai poco televisiva e olimpica. Peccato per il lottatore italo cubano Chamizo, sconfitto in semifinale, che a fine della gara è un uomo finito, il suo orizzonte di cinque anni di sacrifici per vincere l’oro finisce 9 a 7 in sei minuti, e lui non se ne dà pace: è davvero un eroe sconfitto degno della tragedia greca mentre lascia i microfoni. 47


Goliarda Sapienza (12 ottobre - Mariella) Tutto ruota intorno alla figura di Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto, che attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: «l’arte della gioia». Modesta nasce il primo gennaio del 1900 in una casa povera. Ma fin dall’inizio è consapevole di essere destinata a una vita che va ben oltre i confini del suo villaggio. Ancora ragazzina è mandata in un convento e da lì in un palazzo di nobili. Qui il suo talento e la sua intelligenza, le permettono di controllare i cordoni della borsa di casa, e di convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza mai smettere di sedurre uomini e donne. Travagliatissima è stata la vicenda editoriale di questo romanzo che viene oggi definito un capolavoro. L’arte della gioia è comunque un libro inatteso, sia per contenuto che per stile narrativo. Tra queste pagine viaggia la storia di una donna che, con il suo carisma e la tenace rivendicazione della propria libertà (anche di tipo sessuale), attraversa i decenni sullo sfondo della grande Storia e di una Sicilia sempre indiscutibilmente affascinante. Quella di Modesta, la 48


protagonista, è una figura che a poco a poco emerge nella sua straordinarietà: un personaggio certo sfortunato, ma che ha saputo giocare al meglio le carte del destino, riuscendo a costruire un’esistenza vissuta e assaporata appieno, senza apparenti rimorsi né rimpianti, senza cedere ai ricatti né dei vecchi né dei giovani, fino a scoprire che gli anni della maturità sono di gran lunga migliori rispetto a quelli acerbi e inquieti della giovinezza. Inutile addentrarsi nella trama, sia pure a grandi linee: occorre leggere il libro, dall’inizio alla fine, non ci sono anticipazioni che possano spiegare l’essenza di un’opera come questa. Ricca di un fascino per buona parte quasi ottocentesco, sebbene l’ambientazione temporale rientri pienamente nel secolo scorso, la prosa intreccia, insieme all’asettica e più convenzionale terza persona, un io narrante intimo e suggestivo per dare forse al lettore la sensazione di accedere alle emozioni e ai pensieri più profondi di chi racconta. Numerosi i personaggi che ruotano attorno a quello della “principessa”, e diversi quelli degni di nota. Un romanzo-fiume, dove tanti sono i temi trattati, alcuni dei quali avranno forse fatto storcere il naso a quegli editori che, in un ventennio di ferrei rifiuti editoriali, s’erano degnati di leggere almeno in parte il corposo dattiloscritto nel quale l’autrice, fermamente convinta del valore del proprio lavoro, aveva riposto molte speranze. Purtroppo per lei, il libro è stato infine pubblicato postumo e il successo in patria è giunto soltanto dopo la sua scoperta all’estero. Nel complesso, una storia che può e che per giorni può tenere incollati alle pagine; tuttavia, non si può nascondere che, se la lettura può assorbita fino a oltre la metà del libro, da un certo punto in poi a narrazione in generale, a parte qualche eccezione, non riesce a tenere desta l’attenzione come in precedenza.

Olimpiadi giorno 14 Oggi si rifiata un po’ dopo le emozioni di ieri (almeno qui in Italia, che lì a Tokyo è sempre come entrare in forno mentre gareggi). La medaglia di oggi è un piccolo bronzo nella lotta di Coneydo, cubano naturalizzato (proprio come Ringhio Chamizo), che riesce ad uscire vincente dopo il ripescaggio e un salvifico Var a dodici secondi dalla fine 49


del match precedente, Var che, se fosse andato male, ne avrebbe segnato la sconfitta. Lui, esattamente come Chamizo, dice che la sua vita in questi cinque anni è stato l’obiettivo di Tokyo, il che fa anche capire che per gli sport cosiddetti minori i traguardi fra un’Olimpiade e l’altra sono solo una tappa di avvicinamento olimpica, l’unica in grado di metterti sotto ai riflettori e farti vincere qualcosa che gli stessi atleti considerano importante. Tornando alle medaglie di ieri, ne abbiamo viste tante di storie italiane. Quella di Busà (che parla come Aldo di Aldo Giovanni e Giacomo), il karateka siciliano col padre che ha una palestra, e lui che gli ha dedicato la medaglia perché quando a tredici anni era un bambino

ciccione il padre ha creduto in lui. Quella di Tortu, ex ragazzo prodigio della velocità italiana, messo in disparte dall’ascesa di Jacobs, che si ritrova nella staffetta e va a vincere in rimonta una gara che se vedi 100 volte non ti basta, e la vuoi vedere anche la 50


centunesima, perché hai paura che possa cambiare l’esito finale di quel centesimo di differenza (stiamo parlando della quinta prestazione di una squadra nella staffetta, peraltro, sui livelli degli Usa di Carl Lewis). Quella di Desalu, con la madre badante nigeriana approdata in Italia che non può partecipare alla trasmissione perché sta lavorando, e lui che da ragazzo le aveva promesso che sarebbe diventato qualcuno anche per lei (peraltro parla un italiano forbito e perfetto). Quella di Patta, che a 16 anni giocava a calcio, e che per le troppe panchine ha deciso quasi per caso di provare la velocità. Quella della Palmisano che la notte prima ha sognato di vincere la sua gara, si è svegliata e ha detto che a quel punto si trattava solo di vincerla, e ce l’ha fatta. Quella di Jacobs, che sul podio si è messo a cantare l’inno insieme agli altri tre così forte sotto quelle mascherine che lo sentivamo anche da casa come fossimo lì, ed è stata davvero la chiosa più bella. Ieri abbiamo sfiorato una medaglia nel pentathlon femminile, per cinque secondi. Pentathlon che per esigenze televisive ha riunito la gara di tiro e di corsa in una sola, come fosse il biathlon, snaturando l’intera competizione: in pratica nell’ultima prova si corrono quattro volte gli 800 metri, ci si ferma e bisogna sparare ai bersagli, solo quando li si prende tutti si riparte: così per me è una gara che tradisce la tradizione e diventa far west, come altre gare olimpiche. A un’atleta tedesca, prima in classifica, hanno dato un cavallo che non gli andava di saltare gli ostacoli, è finita con lei ultima in crisi di pianto, e l’allenatore squalificato perché le ha detto di picchiarlo; agli animali ci pensano tutti, ma agli atleti chi ci pensa? Assegnate le medaglie nel calcio. In quello femminile ha vinto ai rigori il Canada con rigore decisivo di Grosso (e chi sennò?); in quello maschile il Brasile ha superato la Spagna ai supplementari per 2 a 1, con in squadra il trentottenne Dani Alves, uno che ha vinto tutto e che è andato a fare il fuori quota alle Olimpiadi, un po’ come ci andasse Chiellini alle prossime. Nella pallavolo vince la Francia, che era assai meno accreditata di noi alla vigilia, in volata sulla Russia; la Rai non ne trasmette nemmeno un minuto, 51


preferendo trasmettere il nuoto artistico nel quale ci sono le italiane: qualcuno ha spiegato a Via Teulada che la pallavolo è lo sport più praticato in Italia? Comunque peccato, una medaglia d’oro a squadre, altra medaglia che non vale esattamente come altre, avrebbe fatto diventare davvero indimenticabile questa Olimpiade. Nella notte gli Usa del basket soffrendo battono la Francia, per loro fortuna: una seconda sconfitta non sarebbe passata inosservata, visto che qui a Tokyo hanno portato una squadra di altissimo livello, guidata da quel fenomeno di Durant. I risultati del torneo, compresa la medaglia di bronzo australiana, fanno ancor più pensare che il torneo italiano sia stato davvero di buon livello, speriamo che il futuro ci riservi qualche soddisfazione in questo sport dove da troppi anni siamo nella serie B del mondo. Nella maratona femminile primi due posti per due kenyane, ma una delle due partiva da favorita e quindi l’altra per tutta la gara le ha fatto da gregario, andando ai rifornimenti a prendere l’acqua e le spugne per tutte e due; poi siccome aveva più benzina, per fortuna le hanno dato via libera per vincere, è una bella storia di gerarchie che saltano, e che fa capire che le gerarchie nella vita spesso servono a ben poco se non a costruire gabbie mentali. Un indiano vince il giavellotto, e scopriamo così dopo anni quale sia l’inno indiano; la figlia di Springsteen vince l’argento nell’equitazione a squadre. 52


Chiudo con la ginnastica ritmica, siamo in finale con il terzo risultato, e puntiamo alla quarantesima medaglia. Vedere quello che fanno queste ragazze con i vari attrezzi è qualcosa di sconvolgente, salvo poi scoprire che si allenano otto ore al giorno per undici mesi all’anno, una volta che scegli quella strada la tua vita è quella e solo quella, e parliamo di ragazze avviate allo sport sin da bambine: siamo in un mondo che tutela un cavallo da un sacrosanto cazziatone, e lascia queste ragazze fin troppo esposte nel loro tragitto umano nel coltivare un loro sogno. Non credo De Coubertin ne sarebbe stato felice.

Javier Cercas (9 novembre - Mimo) Un percorso che pare caotico ma è circolare, tra diverse epoche storiche. Le vicende trattate partono da quelle del protagonista, Javier Cercas, un giornalista della provincia catalana alla ricerca di una rinascita professionale dopo il fallimento dei suoi due romanzi. Esse passano attraverso le vite dei personaggi che il giornalista vuole raccontare nel suo nuovo libro e di quelle che lo guidano nella ricerca tramite gli scritti che hanno lasciato nel tempo; infine tornano ai tormenti personali del solito Cercas. Un accumularsi di vite, di gesta eroiche e quotidiane che si intrecciano e danno senso a un’opera inizialmente lenta ma sempre più 53


incalzante man mano che passato e presente si fondono in un unico interrogativo che costituisce il cuore del libro: «cos’è un eroe?». Alcune parti di Soldati di Salamina sono infatti dedicate al racconto del Cercas giornalista che si imbatte per caso in una strana storia risalente alla guerra civile spagnola (1936-1939) e al modo in cui decide di provare a raccontarla in un nuovo libro nonostante la paura di un altro insuccesso. Altre sono dedicate, come si trattasse di un reportage, ai viaggi che conducono il giornalista sulle tracce dei protagonisti di quello che lui chiama «racconto reale», per distinguerlo dall’ambizione di scrivere un romanzo, definizione che gli ha portato ben poca fortuna in passato. Nelle pagine centrali di Soldati di Salamina, dunque, troviamo l’evento su cui si concentra Cercas e, in buona parte, il libro che il giornalista inizia a scrivere. Si tratta della storia di Sanchez Mázas, un aristocratico spagnolo di inizio Novecento, «scrittore minore», teorico e fondatore della Falange spagnola, il partito da cui emersero le parole d’ordine che innescarono il massacro della guerra civile. Cercas racconta di quando Sanchez Mázas riuscì a sfuggire alla fucilazione da parte delle brigate dell’esercito repubblicano scappando in un bosco della montagna catalana, e sopravvivendo anche grazie a un soldato che, sulle sue tracce e incaricato di ucciderlo, lo lasciò scappare salvandogli la vita. Da quel momento Mázas vaga per giorni nei boschi, elemosinando cibo nelle masserie della zona, nascondendosi dai repubblicani ormai in ritirata, nell’attesa della vittoria dei nazionalisti. In questi giorni di fuga, il fondatore della Falange trova una famiglia disposta ad aiutarlo e si unisce a tre disertori dell’esercito repubblicano ormai stanchi della guerra, anche loro in attesa dell’ormai imminente vittoria dei fascisti. Il patto che li unisce prevede che Mázas, in quanto personaggio politico influente, una volta finita la guerra garantisca, in cambio dell’aiuto ricevuto, protezione ai tre giovani e alla famiglia in qualsiasi situazione si venga a creare nel momento della rappresaglia franchista. Mázas onorerà il patto con gli «amici del bosco» (questo il nome che si diedero durante quei giorni di fuga) tirandoli fuori di prigione una volta divenuto ministro del governo di Francisco Franco. Un’esperienza politica di breve durata, questa: deluso dall’ignoranza del Caudillo e del suo entourage, considerati dai falangisti della prima ora traditori degli ideali che li portarono alla sollevazione contro la Repubblica, Mázas si ritira ben presto a vita privata, dedicandosi alla scrittura e alla botanica. 54


Questa è la storia raccontata nel libro del Cercas giornalista, che si chiama a sua volta Soldati di Salamina. Questo titolo, però, oltre a essere quello che compare anche sulla copertina di chi se lo procura “nel mondo reale”, viene dato anche perché Sanchez Mázas, in tono solenne, a quanto pare disse ai suoi amici del bosco che avrebbe raccontato la loro avventura in un libro chiamato proprio Soldati di Salamina. Un libro che però il falangista non scrisse mai.

Olimpiadi giorno 15 Aria di tifone a Tokyio, mentre cala il sipario sulla 3trentaduesima edizione dei Giochi Olimpici, sicuramente la più difficile fin qui (forse Monaco 1972 a parte). Anche oggi arriva una medaglia che porta a 40 il totale (10-10-20): è un bronzo dalla ginnastica ritmica che arriva proprio al penultimo esercizio quando non ci speravamo quasi più, per un errore della Bielorussia che ci era davanti. Il giorno prima l’individuale lo aveva vinto una atleta israeliana, e la federazione russa aveva accusato la giuria di essere dei banditi, cosa che si è ripetuta anche nella gara a squadre, dove a ogni esibizione sono volati ricorsi un po’ da parte di tutti. Spiegava l’atleta seconda voce Rai che nella ricerca di oggettività della prestazione si è cambiato il codice del punteggio, andando ulteriormente a complicare il lavoro del giudice, che si trova a dover decodificare un 55


esercizio a lui sconosciuto andandosi a vedere da solo tutti i punteggi che l’esibizione delle ragazze ha generato, badando nel frattempo anche all’esecuzione: il tutto risulta praticamente impossibile anche all’occhio del giudice, figuriamoci dello spettatore. Con tutto il rispetto per le ragazze (una è la figlia di Centofanti, un terzinaccio dai capelli lunghi passato anche nell’Inter), atlete davvero clamorose e inferiori a nessuno, bisognerebbe ripensare alla scelta di portare queste discipline in un contesto olimpico, ma considerando che a Parigi 2024 lo sport dimostrativo sarà la breakdance capisci che vi sono dietro una serie di istanze che poco hanno a che vedere con l’idea di sport, e molto ben poco olimpiche. Comunque, oggi ultime gare. Maratona di Sapporo al solito Keniota con una facilità disarmante, bello l’atleta olandese che nella volata finale con l’altro keniota invoca a gran voce l’amico belga a seguirlo per superarlo e prendersi il bronzo (sia belga che olandese sono ovviamente africani). In gara per gli italiani anche un trentanovenne di origini marocchine che di lavoro fa l’operaio e si allena nei ritagli di tempo, una bella storia di maratona che passa in second’ordine perché lui è arrivato solo cinquantesimo. Resta altro? Certo. Ma è difficile anche solo accennare molta parte delle

storie olimpiche: mi ero perso quella della quatttordicenne tuffatrice cinese 56


che vince l’oro col punteggio più alto della storia ed è felice perché con i soldi della medaglia aiuterà la madre malata. C’è il Ct indiano della boxe che ha portato l’India alla prima medaglia nella specialità e che è italiano: dice che in India si trova bene perché è come stare a casa sua in Campania. C’è il lottatore ceceno che vince il bronzo e lo dedica alla madre, morta nel 2004 durante l’assedio della scuola di Beslan: la madre morì per salvarlo, lui aveva 7 anni ed oggi è qui che va a medaglia chiudendo un cerchio lungo 17 anni, la vita olimpica è davvero un caleidoscopio incredibile e come tale è bella da raccontare. Tempo di bilanci: per noi è l’edizione più ricca di medaglie della storia, anche se nel medagliere per ori siamo decimi (settimi come numero di medaglie), e non eravamo così in basso su questo parametro dal 1992, ma le 40 medaglie totali, al netto di qualche fallimento imprevisto. sono comunque un ottimo bottino, soprattutto per la presenza fra queste medaglie dei 100 metri uomini, che da sola ne vale almeno 10. Oggi conferenza stampa di Malagò, tutto sommato non tronfia e assai lucida, a parte l’elenco snocciolato di tutti i record italiani in questa edizione, compreso quella della medaglia al giorno che toglie i rivali al Coni di torno e la prima medaglia di una molisana. Dobbiamo partire da questa edizione, sapendo che già a breve (2022) in diverse discipline ci saranno le qualificazioni per le prossime Olimpiadi, quindi non ti puoi distrarre nemmeno un attimo. E il fatto che le ospiti la Francia, che sarà qualificata ovunque di diritto, complica la strada di alcune squadre per qualificarsi in quota europea, squadre che in questa edizione ci sono maledettamente mancate e hanno permesso il sorpasso della Francia, che ha vinto tre ori in queste gare (a proposito, ma perché in Italia non si gioca a pallamano?). Un lucido Malagò ha quindi snocciolato anche il dettaglio dei risultati, ironizzando che stavolta non vengono tutti dalla tradizione del tiro e della scherma come al solito, e quindi si è lavorato generalmente meglio in quasi tutte le discipline, chiudendo con la solita invocazione di semplificare l’iter burocratico per italianizzare gli atleti al diciottesimo anno di età. Su questo, ripensandoci posso essere d’accordo con lui ma a monte, nel senso che (per esperienza personale) il rilascio della cittadinanza è figlio di una burocrazia italiota che in realtà allunga solo dei tempi in cui non deve 57


fare nulla ma solo perché quei tempi li detta la legge: la stessa pratica potrebbe essere trattata in due mesi e non in tre anni, come avviene attualmente; capisco peraltro Malagò che se a un atleta gli togli tre anni di gare con la maglia italiana rischi di perderlo, Ma allora sarebbe buona norma modificare la procedura per tutti e non solo per gli atleti di interesse nazionale, pur comprendendo il suo rodimento di culo se nell’attesa della cittadinanza italiana arriva una nazione e se lo porta a casa sua (potremmo poi discutere anche dei rischi a lunga gittata di questa operazione, ipotizzo che il passo ulteriore a quel punto è fare dei camp in Africa per andare a scegliere i migliori e portarli da noi). Alle ore 13 è poi partita la Cerimonia di chiusura dei Giochi con Jacobs portabandiera, ci si vede tutti a Parigi 2024, e poteva essere davvero Roma 2024, ma il lucido meccanico di Di Battista 3 non la pensava così, e allora non le abbiamo potute organizzare.

Ringraziamenti per tutti, soprattutto ai volontari giapponesi, che immagino si saranno fatti in quarantaquattro come i gatti in questi giorni, che popolo incredibile che sono. La parola più utilizzata è ovviamente speranza, che 3

Vedi nota 2.

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non è il nostro Ministro della Salute, anche se sempre di salute parliamo: speranza di arrivarci tutti, col pubblico finalmente presente, e con un mondo migliore, ma migliore davvero, grazie anche all’esempio dello sport. Lacrimuccia, sipario. Arigatò.

Albert Camus (14 dicembre - Dario) “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Così comincia Lo Straniero, e queste poche parole sono sufficienti per trasmettere una sorta di sconcerto che accompagnerà ogni pagina del libro. Meursault, il modesto impiegato di origine francese protagonista del libro, affronta infatti con la stessa laconicità comunicata da questa prima frase una serie di episodi che lo condurranno ad un epilogo che sarebbe tragico, se non fosse vissuto nella stessa maniera spregiudicatamente attonita. Siamo ad Algeri, dove il sole battente, il caldo soffocante e il sudore pervadono le pagine del romanzo e attanagliano i sensi del protagonista. Alla notizia della morte della madre nell’ospizio presso cui l’aveva ricoverata, segue l’invitabile funerale, al quale Meursault assiste in stato quasi apatico, continuando a pensare di avere caldo, e sonno, e fame. Poi Meursault torna a casa, vede la sua donna la quale, anch’essa quasi con indifferenza, gli 59


chiede di sposarla. Meursault risponde che per lui è lo stesso, e che se proprio lei ci tiene possono farlo, ma il discorso cade, astratto così com’era cominciato. Successivamente irrompe nella lucida solitudine di Meursault il vicino di casa. Costui gli chiede notizie del proprio cane che ha smarrito, disperato e piangente come se quotidianamente non lo maltrattasse e lo picchiasse selvaggiamente come invece fa. L’impiegato prende atto dell’intervento del vicino, ma non ha molto da dire. In seguito Meursault va a passare un fine settimana al mare con degli amici e là, in un caldo dopopranzo sonnacchioso, quasi contro la propria volontà la sua mano spara contro un arabo. Così, impassibile, Meursault si consegna nella stessa maniera attonita alle conseguenze avviate dal suo gesto, lontano come se tutto capitasse ad un altro. Non cerca giustificazioni e afferma di non sapere perché ha commesso quel delitto. Viene celebrato il processo; Meursault viene condannato. A morte. Si celebra anche il ricorso. Meursault viene condannato e giungerà al giorno fatidico silenzioso e apatico, lasciando spazio solo ad uno sfogo contro il sacerdote venuto a raccogliere la sua confessione. Il cinismo, il vuoto e l’indifferenza del protagonista risultano a tratti persino disturbanti perché si tratta di quella che potrebbe essere definita una persona perfettamente normale, ma completamente vuota emotivamente e spiritualmente, totalmente materialista, concentrata solo sui propri piaceri e desideri… Tutta questa indifferenza rimane rigorosamente senza spiegazioni, senza ragioni e tanto meno soluzioni: è una verità “negativa” quella cui arriva Camus, forse non definitiva ma comunque essenziale per giungere ad una consapevolezza reale di sé. E questo, per un libro, ci basta.

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Olimpiadi: appendice, i campioni Marcel Jacobs. Una delle nostre più grandi vittorie sportive di tutti i tempi, almeno rispetto all’importanza della competizione: essere i più veloci al mondo vuol dire essere conosciuti a livello planetario, questa è la medaglia d’oro più pesante di tutte. La sua storia è particolare, visto che nasce lunghista e fino a 3 anni fa i suoi risultati nel salto erano assai migliori di quelli in pista. Poi qualche mese fa, a 26 anni e mezzo, il tempo di 9.95 sui 100 metri, che lo ha posto al centro dell’attenzione, almeno in Italia, anche se nessuno si aspettava quello che è arrivato alle Olimpiadi: 9.94 in batteria da primo, 9.84 in semifinale da terzo con qualche patema sciolto via via, 9.80 in finale col Primato europeo, in una gara dominata in grande scioltezza. E poi, a chiudere una settimana d’oro, una seconda frazione della staffetta 4x100 mostruosa sotto i 9 secondi per correre lanciato 130 metri con punte di 43 km/h, e un secondo oro: sarà tutto merito del mental coach? Dopo la gloria stanno arrivando gli sponsor, ora il problema è solo la gestione da parte di tutti di un qualcosa di incredibile, mai avrei pensato di veder vincere un italiano nei 100 metri: Marcello, che cazzo hai combinato? Marco Cannone e Luca Gregorio: la gara è l’inseguimento a squadre, finale ItaliaDanimarca. Il giorno 61


prima l’Italia ha stabilito il record del mondo, ma la Danimarca nell’altra semifinale stava correndo perfino meglio di noi, prima che uno dei suoi all’ultimo giro si schiantasse su un corridore inglese che lo precedeva: gara vinta ugualmente, non si sa bene in base a quale regola, e finale anche per loro, altrimenti era Italia-Inghilterra un’altra volta. Marco Cannone e Luca Gregorio sono due commentatori di Eurosport, il primo è un ex ciclista. Parte la gara, sono 4 km, nel primo terzo l’Italia è davanti, poi nel secondo terzo di gara la Danimarca arriva ad avere quasi 9 decimi di vantaggio, che è un distacco consistente. A 3 giri dalla fine prende la testa degli italiani Filippo Superpippo Ganna, e in tre giri con una punta di velocità di 73 km/h porta i nostri a vincere di 2 decimi, una impresa fenomenale. I due telecronisti seguono la gara come fossero due ultrà della curva, urlando per tutta la durata, alla fine abbracciandosi come fossero loro gli atleti, col pianto liberatorio di Cannone che con voce flebile dice "anche nuovo record del mondo: ma cosa avete fatto, ma cosa avete fatto?". Momento imperdibile nella storia di queste Olimpiadi, quando il telecronista è parte anche lui della gara: si chiama empatia, se la comunichi hai vinto. Federica Pellegrini. In 15 giorni è stata il sale e il pepe della manifestazione. Ultima Olimpiade, poi in sequenza ultima gara singola, ultima gara in staffetta, ultima intervista, il disvelamento della sua preannunciatissima love story con l’ultimo allenatore, poi la festa d’addio, quella di compleanno, e infine anche l’elezione nella Commissione Atleti, con tanto di partecipazione alla Cerimonia di chiusura in quella veste. I risultati sportivi non sono stati ahinoi all’altezza di quelli giornalistici e gossippari: raggiunge la quinta finale dei 200 stile in cinque Olimpiadi ma arriva solo settima, poi conquista un ottimo ma sfortunato quarto posto nella staffetta 4x100 mista, che le avrebbe consentito davvero di chiudere in bellezza. Se ne va un pezzo di storia del nuoto italiano, sempre sulle prime pagine dei giornali per le sue imprese sportive e non. Ma se ne va davvero? 62


Giovanni Malagò. Il vero dominatore dell’Olimpiade italiana, che nella prima settimana non era cominciata sotto i migliori auspici. Il Presidente del Coni è uno e trino, e lo vediamo un po’ dappertutto in giro per le gare nelle quali sono impegnati gli italiani a medaglia, credo avesse almeno un paio di sosia a disposizione in giro per Tokyo. Il giorno di chiusura, arrivati al record italiano di 40 medaglie, snocciola in conferenza tutti i numeri da record dell’edizione: ce ne sono tanti e lui non se ne fa sfuggire nemmeno uno, compreso quella della prima atleta molisana a medaglia. Combatte una battaglia personale sullo ius soli sportivo per gli atleti stranieri diciottenni, in nome più del buon nome dello sport italiano e del suo che di principi umanitari: alle prossime Olimpiadi toccherà anche essergliene grati, prima di sentire snocciolare tutti i nuovi record. Veronica Desalu. Madre di uno dei componenti della staffetta 4x100, nigeriana arrivata in Italia in cerca di una vita migliore. Non può partecipare alla diretta serale della trasmissione televisiva perché deve lavorare, diventando in breve il simbolo di questa Italia vincente, multietnica e soprattutto operaia: lei ha raccolto pomodori, lavorato in un’azienda di produzione del parmigiano, in un mattatoio, in un ristorante, ha fatto la colf, poi l’operatrice sociosanitaria e infine la badante. Parla sorridendo di rispetto per i valori italiani, visto che viene da un’altra terra, valori che ha insegnato al figlio che ora è un campione nato e cresciuto in Italia, e in tre 63


minuti di sua apparizione Salvini perde il 10% di voti: sarà lei l’icona del Pd alle prossime elezioni. Franco Bragagna. Voce Rai dell’atletica, che a Rio non è mai salita sul podio e a Londra aveva vinto un bronzo, si trova in una settimana a raccontare ben 5 medaglie d’oro (record), entrando anche lui di diritto nella leggenda sportiva collettiva come Nando Martellini ed altri quando urla più volte "Marcello!" (di felliniana memoria) alla vittoria di Jacobs: racconterà dopo che lui Marcello lo conosce sin da bambino perché correva con suo figlio a 12 anni. È la voce di punta della Rai della manifestazione, di quelle che ascolti solo ogni paio d’anni fra Europei, Mondiali e Olimpiadi, e ti chiedi perché tu sia costretto ad ascoltare così spesso delle pippe al sugo conclamate, e non uno dei migliori: con Guido Alessandrini seconda voce mi hanno ricordato da vicino Gianni Clerici e Rino Tommasi, ma a noi ci tocca fisso Varriale, che ce voi fa’. Gianmarco Tamberi. È la Storia con la esse maiuscola di tutta l’Olimpiade. Tamberi cinque anni fa era uno dei candidati alla vittoria a Rio, ma si era infortunato un mese prima delle Olimpiadi. Lui, che non ha tutte le rotelle ben fissate al posto giusto, trova la forza per andare avanti, e sul gesso scrive Road to Tokyo 2020, che poi diventa 2021 con tanto di cancellatura del 2020. Arriva alla gara senza essere più fra i favoriti, ma trova la giornata di grazia, e azzecca 64


tutti i salti fino a 2.37, come l’amico qatariota Bashir, che sembra destinato alla vittoria. A 2.39 sbaglia tutti e tre i tentativi, Jimbo quando fa il suo terzo tira fuori il gambaletto e lo mette accanto a lui in pedana, spingendo i pochi spettatori a cercare di fargli compiere il miracolo, che non arriva, fra le lacrime di tutta Italia. È spareggio fra lui e Bashir, ma la competizione consente il pari merito. è medaglia d’oro per tutti e due. La gioia di Jimbo è talmente esplosiva che diventa perfino straziante a tratti quando si accascia per terra toccandosi il cuore, vagando poi come un pazzo per la pista con la bandiera addosso. È proprio lì, intorno alle due del pomeriggio, che si trova a vivere una storia nella storia scritta dal destino in maniera magistrale, perché si trova letteralmente addosso alla velocità di quaranta km all’ora Jacobs che arriva dopo aver dominato i 100 metri, per quello che è uno dei più bei momenti di sport nella storia italiana. Da lì sono dieci minuti di follia, lì allo stadio e qui in Italia: chi non ci fa un film su questa storia non ci ha capito un cazzo di sport e di vita. Bruno Rosetti. Chi era costui? Canottiere italiano, due volte campione del mondo nel Quattro senza, bi-vaccinato, gli trovano il Covid un’ora prima della gara. Viene sostituito al volo con un altro canottiere, e i compagni nonostante questo e un incredibile tentativo di speronamento da parte degli inglesi, che fa perdere loro attimi preziosi, vincono il bronzo. Che tre giorni dopo vince anche lui, su richiesta del Coni, visto che comunque la batteria l’aveva corsa lui: la medaglia viene ufficialmente consegnata anche a Rosetti. Sotto la porta della stanza di albergo Covid credo, perché lui nel frattempo è in isolamento, e torna a casa solo alla fine delle Olimpiadi con la rabbia di chi ha visto un’impresa solo da lontano e voleva esserci. Capirà col passare dei giorni che ne fa parte anche lui. Sifan Hassan. Etiope naturalizzata olandese, mezzofondista, partecipa a 1500 mt, 5000 mt e 10000 mt, sei gare in nove giorni. Ne vince due e nella terza è di bronzo, per un record difficilmente battibile. Ma la sua impresa 65


assume contorni epici: nella batteria dei 1500, quando all’ultimo giro cade rovinosamente insieme a un’altra atleta e vede il gruppo allontanarsi, ma come se nulla fosse si rialza, al galoppo annulla il distacco ingente e va a dominare la gara con netto vantaggio su tutte le altre. 12 ore dopo ha vinto la finale dei 5000: fenomeno. Tom Daley. Ex enfant prodige britannico dei tuffi, è l’unico dal 2009 ad aver infranto il predominio cinese. Gay dichiarato, nel 2017 si è sposato col compagno e hanno avuto un figlio tre anni fa con la maternità surrogata. Qui festeggia un oro nel sincro, dopo una fantastica gara ovviamente contro i cinesi, finita con 1 punto di vantaggio dopo due tuffi finali che hanno rasentato per entrambe le coppie la perfezione; vince anche il bronzo nella piattaforma, sempre dietro i due cinesi. Iconica la sua foto olimpica, che non è durante un tuffo da 10 come si potrebbe pensare, ma mentre fra una gara e l’altra lavora all’uncinetto, destinando i proventi in beneficenza ad un’associazione contro i tumori al cervello dei bambini: il suo maglione lavorato durante le Olimpiadi ha raccolto all’asta 6000 sterline. Peccato solo che quest’ultima medaglia non entri nel suo palmares, ma vale almeno come le altre.

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Gregorio Paltrinieri. Uno dei più grandi nuotatori italiani di sempre, oro a Rio nei 1500 m. Arriva a Tokyo fra i favoriti in ben tre gare, 800 m, 1500 m e 10000 m di nuoto in acque libere, punta di una formazione che farà benissimo in vasca. Ma a maggio gli viene la mononucleosi, che sembra metterlo fuori gioco per Tokyo, interrompendone l’allenamento nel periodo decisivo. Parte ugualmente senza sapere bene nemmeno lui come sta, e alla prima batteria degli 800 m finisce ottavo, dentro per pochi centesimi, frutto dell’orgoglio e poco più. La sera prima della finale ha l’agnizione, e decide di attaccare giocandosi il tutto per tutto, con la testa ma soprattutto con il cuore, ed è una gara di testa chiusa con un magnifico argento. Peccato che nei 1500 m, che poi sarebbero la sua gara, chiuda solo quarto dietro tre grandi campioni, ma non si sa come riesce ancora a ricaricare le batterie finendo terzo nel nuoto in acque libere nel golfo di Tokio a trenta gradi. Personaggio assoluto dei Giochi, spero sia portabandiera a Parigi 2024, perché è in grado di portarla con la sola forza del pensiero: giù il cappello per Greg. Filippo Tortu. Il primo italiano a scendere sotto i 10 secondi nei 100 metri nel 2018: fece scalpore, eravamo ancora fermi da quasi quarant’anni al 10.01 in altura di Pietro Mennea. Da lì rimane a buoni livelli senza progredire, il che vuol dire essere uno dei nostri migliori velocisti nella storia, forse il migliore, ma comunque lontano dal vertice, troppa la distanza in questa disciplina che non ci ha mai visto non solo primeggiare, ma nemmeno conquistare una finale in centoventi anni di storia. A Tokyo esce in semifinale nei 100 metri con 10.16, una bella delusione, mentre si affaccia alla ribalta Jacobs che in due giorni lo mette in fretta nel cassetto dei ricordi sbiaditi. Ma lui non si abbatte, almeno non troppo, e insieme agli altri nella semifinale della staffetta abbatte il muro dei trentotto secondi guadagnando la finale col quarto tempo, che sarebbe già un ottimo risultato. Tortu corre l’ultima frazione, in realtà perché a Jacobs, che è più veloce, 67


viene assegnata la seconda che è un pochino più lunga. Si corre per una medaglia, ma non osiamo dirlo, ci sembra perfino troppo dopo quanto accaduto. E così in finale, senza gli Usa eliminati, si arriva all’ultimo cambio con la Gran Bretagna davanti all’Italia di mezzo metro, e il Canada, con in pista il terzo classificato nei 100 e vincitore dei 200, immediatamente alle calcagna. Ma Tortu, che fin qui non ha brillato, e mentre tutti – nessuno escluso – saremmo pronti a firmare per un bronzo che sarebbe storico, lui da sardo testone non si accontenta, rintuzza lo scintillante De Grasse (poco scintillante nell’occasione) e all’ultimo istante mette la testa avanti all’inglese, vincendo per un centesimo. Che ha vinto lui, Filippo lo capisce solo 30 secondi dopo, mani nei capelli per una vittoria che lo ripaga di tutto, e di più, aprendo un’altra memorabile pagina di sfottò nei confronti degli inglesi: se perfino la regina Elisabetta è seconda un motivo ci sarà. Simone Biles. La più grande ginnasta di sempre, probabilmente, con buona pace di Nadia Comaneci. Anche lei è una storia nella storia, e non perché è una ginnasta nera in un universo di bianche. Simone è alta 1,43, un fascio di muscoli pronti ad esplodere, che a Rio erano esplosi vincendo 4 ori e un argento. A Tokyo si presenta quindi come favoritissima, ma qualcosa non va, la vediamo fare errori non da lei nel concorso a squadre, benché ottenga punteggi altissimi vista l’oggettiva bellezza dei suoi esercizi, assai più difficili di quelli delle altre. Per la finale si ritira. Vince comunque l’oro a squadre, poi spiega al mondo, come liberandosi di un peso, che ha una malattia assai rara 68


chiamata twisties: in pratica quando è in aria che volteggia, la sua testa per un blocco mentale non le consente di fare degli avvitamenti perché non sa se riuscirà ad atterrare bene rischiando di cadere e procurarsi lesioni permanenti: è come se a Nadal togliessero il rovescio più o meno, dicendogli pure che se lo fa rischia di cadere e farsi molto male. Nonostante questo, si presenta alla trave, cambia esercizio per non fare alcun avvitamento e vince il bronzo, forse alla memoria, ma sicuramente alla memoria di queste Olimpiadi, per il caso che ha sollevato. La aspettiamo a Parigi sicuri che abbia sconfitto il mostro. Osmany Juantorena. Nipote del noto campione cubano olimpionico dei 400 m, italiano dal 2015, uno dei punti di forza della Nazionale di volley, anche in questa sfortunata Olimpiade. Dopo una serie di ottime prestazioni personali, l’Italia cede nei quarti all’Argentina e il trentacinquenne Osmany crolla in lacrime a bordo campo, è la sua ultima partita in Nazionale. Negli spogliatoi si fa fotografare mentre lascia la sua maglia numero 5 al giovane Michieletto, sorpresa di questa spedizione in tono minore, e spunta subito una foto di 10 anni prima, con Juantorena che fa una foto col piccolo Michieletto, figlio di un ex pallavolista poi divenuto team manager della squadra dove militava Osmany. Un pezzo di volley italiano a cinque stelle che se ne va: su le mani per Osmany! Alessandra Perilli. San Marino ha portato a Tokyo cinque atleti, e tre di loro hanno vinto medaglie: se non è un record poco ci manca. Di certo è record assoluto nel medagliere il rapporto medaglie/abitanti, una ogni undicimila abitanti (l’Italia ne ha 69


vinta una ogni milione e mezzo per capirci, le nazioni più brave si attestano sui seicentomila abitanti). Le medaglie sono un bronzo nella lotta, e due nel tiro, uno nella fossa femminile e uno nella fossa mista, sempre con Alessandra Perilli (figlia di un campione italiano nel tiro, e di una sanmarinese: la scelta era fiscalmente dovuta), già quarta a Londra, e che da nove anni aspettava la rivincita col fucile spianato. La sua è la prima medaglia nella storia di San Marino, subito seguita da altre due a dimostrazione che l’entusiasmo è contagioso, come ha poi è successo anche per l’Italia. E se l’uomo che ha sparato con lei fosse stato più preciso in finale, avrebbe portato direttamente all’oro. Lucilla Boari. Arciera ventiquattrenne, alta 1,62 per 82 kg. A Rio arriva giovanissima quarta nella gara a squadre, e la prendono per il culo insieme alle altre, tutte un po’ cicciottelle (del resto sono fra le pochissime atlete che non devono sottostare a un rigoroso regime alimentare per gareggiare). Cinque anni dopo ci riprova, elimina nei quarti una delle favorite, e va a vincere un bronzo storico, il primo nella storia del tiro con l’arco femminile. In conferenza stampa pronti via fa coming out e saluta la compagna, arciera olandese, suo grande amore. In serata la tv si collega con la sua famiglia immaginando di trovarvi il peso o almeno il pudore per questa dichiarazione, ma il padre serafico dice che i genitori non possono far altro che accettare con gioia le scelte dei figli e fare di queste scelte anche la propria felicità, qualsiasi esse siano: una lezione che non dimenticheremo. Intanto sul divano insieme ai suoi la sorella più sfortunata di Lucilla sorrideva. Emma Mc Keon e Allyson Felix. La Mc Keon, nuotatrice australiana, a Rio aveva vinto quattro medaglie in tutto, una sola d’oro, qui ne vince ben sette con quattro ori, record per una donna nel nuoto, atleta più medagliato di questa edizione. La trentacinquenne americana invece porta a casa due 70


medaglie, un bronzo nei 400 mt e un oro nella staffetta, diventando così con undici medaglie l’atleta più medagliato di sempre nell’atletica, battendo nientemeno che Carl Lewis. Questa era la sua quinta Olimpiade, in mezzo ci ha messo una figlia e una querelle con la Nike, che le aveva decurtato del 70% l’ingaggio quando lei aveva partorito. Dopo lo sputtanamento interplanetario la Nike ha cambiato politica e ora aspetta dicotto mesi per decurtarlo, ma la Felix ha cambiato sponsor, peggio per loro. Sara Simeoni. Un pezzo di storia dell’atletica italiana, con tre medaglie olimpiche, oro a Mosca e due argenti, oltre che primatista del mondo, atleta del centenario insieme ad Alberto Tomba, e a diciannove anni perfino campionessa nazionale di pentathlon. Sara si presenta ospite in una trasmissione di commento alle Olimpiadi, con quella sua facciotta veneta sempre sorridente, e nel giro di due settimane, sull’Italia olimpico-televisiva, ha lo stesso impatto di Frate Antonino da Scasazza del buon Frassica in Quelli della Notte. Si commuove per Tamberi come la medaglia l’avesse vinta lei, ma in realtà si commuove un po’ per tutto e tutti, dando spesso l’idea di essere rincoglionita, mentre è più semplicemente una bambina, adulta per caso (ma atleta certamente non per caso), che si diverte a divertire e divertirsi. Il professor Morelli se la ricorderà a lungo col suo libro nelle mani mentre ride come una pazza, speriamo fra tre anni di ritrovarla così in gran forma. Omotenashi4: a chiudere questa edizione pandemica, la proverbiale ospitalità giapponese nel forno a trentotto gradi di Tokyo è stata elogiata da tutti i partecipanti, nonostante le mille difficoltà. I giapponesi, lo 4

Omotenashi è appunto il concetto di ospitalità giapponese, ma in realtà ha un significato più profondo del semplice modo di ospitare una persona. È infatti un sostantivo che significa “intrattenere gli ospiti con tutto il cuore” [NdT]

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sappiamo, erano contrari allo svolgimento di queste Olimpiadi pandemiche, avendo in sostanza paura di non farcela, nella loro idea di perseguire la perfezione assoluta: il Governo giapponese invece ha testardamente tirato avanti come fossero gli ultimi soldati rimasti a combattere sulle isole, trascinandosi dietro tutta la popolazione, che alla fine, pur non potendo fare da spettatore alle gare, si è unita in questa anomala ma comunque straordinaria festa collettiva. Un bell’esempio di omotenashi per tutto il mondo che verrà, qualunque esso sia, da ricordare come lezione a tutti per i giorni ancora non semplici che verranno: il “prossimo” non è necessariamente un pericolo anche se indossa una mascherina. Fra tre anni ci si rivede e sarà una festa meravigliosa. Medaglie. Siamo arrivati a quaranta, che, in totale, è il record assoluto per l’Italia, ma non lo è se guardiamo agli ori, o la classifica nel medagliere (siamo settimi o decimi, a seconda se si conti il numero di medaglie o conti il valore delle stesse). Dobbiamo per onestà considerare che, Olimpiade dopo Olimpiade, si aggiungono gare su gare: in questa edizione da 306 sono diventate 339, e fare paragoni col passato diventa anche complesso sotto questo aspetto; è peraltro vero che i cinque continenti sono ormai tutti sdoganati sotto il profilo olimpico, vi sono eccellenze ovunque di atleti di ogni continente, e siccome le nazioni sono 206 primeggiare non è facile, tanto più pensando che fra Cina, Usa e Giappone hanno vinto circa un terzo delle gare. Ma quanto vale una medaglia? A parte gli sponsor, che per molti arriveranno, un oro vale centottantamila euro, un argento novantamila, un bronzo sessantamila, per un totale di spesa per il Coni di circa sette milioni di euro (lordi). Soldi ben spesi, senza dubbio, ma da queste cifre comprendiamo che la differenza fra un primo e un secondo posto equivale circa a tre anni di stipendio, quella fra un terzo e un quarto posto a due: insomma dove non arriva l’orgoglio infinito dell’atleta, il salvadanaio italico allo sprint decisivo può aiutare. Medaglie di legno italiane: sono sempre una dolente nota, perfino Malagò le ha messe nell’elenco magico per ricordare che ben 12 volte a Tokyo abbiamo fatto quarto posto. Ricordiamole. Alice Volpi (fioretto), Andrea Santarelli (spada), Frank Chamizo (lotta), 4x100 mista nuoto, Stefanie Horn (canoa K1), Sciabola a squadre (donne), Thomas Ceccon (100 dorso), Ginnastica artistica femminile, Quattro di coppia senior femminile (canottaggio), Quattro di coppia senior maschile (canottaggio), Gregorio Paltrinieri (1500 mt nuoto), Alice Sotero (pentathlon femminile). 72


Fra queste alcune sono più quarti posti di altre, penso alla Horn quarta per due centesimi, o al canottaggio maschile che arriva a un’incollatura dopo aver praticamente perso un remo, ma la sostanza non cambia. E in un’Olimpiade dove tanto abbiamo festeggiato, giustamente, le medaglie, mi sento di dire che i veri eroi da festeggiare al ritorno a casa sono proprio loro, senza troppe telecamere festanti al loro passaggio, arrivati a un passo dal traguardo senza afferrarlo, con l’unico obiettivo che questi tre anni passino in fretta per riprovarci. De Coubertin ne sarebbe davvero felice.

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Questo libriccino è stato preparato per ricordare un altro anno in lontananza, senza schede-libro da farci passare, con pochissimi incontri dal vivo, ma sempre con i nostri libri a farci compagnia.

Il libriccino è stato completato il 13 novembre del 2021, giorno in cui, nel 1971, la sonda americana Mariner 9 ha raggiunto Marte e, nel 2009, la NASA ha annunciato ufficialmente che c'è acqua sulla Luna.

(stampato in poche copie per gli aficionados, ancora con l’intento di festeggiare i futuri prossimi rinnovati incontri in presenza)

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