Energia per la Vita - 2° edizione 2015

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Energia per la Vita

Alessandro Quasimodo, presidente onorario, con Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio

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WE SERVE

THE INTERNATIONAL ASSOCIATION OF LIONS CLUB

LIONS CLUB RHO

Energia per la Vita PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE 2a Edizione 2015

ANTOLOGIA DEL PREMIO a cura di Anna Montella

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“Energia per la Vita” Antologia Premio Letterario Internazionale 2a Edizione 2015 ©2015Lions Club Rho www.lionsclubrho.org Curatrice della pubblicazione Anna Montella Grafica di copertina Michele Manisi

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Premio Letterario Internazionale “Energia Per la Vita” 2° edizione 2015, promosso ed organizzato dal Lions Club Rho con il patrocinio del comune di RHO e della Regione Lombardia.

Un evento Service Lions Club Rho 46° Anno Sociale con la presidenza di Valter Bovati maturato negli ambiti delle attività Lions atte al miglioramento civico, culturale, sociale e morale delle comunità. Ideatrice del Premio e presidente esecutivo della prima edizione 2014 e della seconda edizione 2015, la poetessa Rita Iacomino, socia Lions Club Rho. Presidente onorario del Premio Energia per la Vita l’attore e regista Alessandro Quasimodo, testimonial nel mondo della Poesia del padre, il premio Nobel Salvatore Quasimodo. Direttore Artistico: Armando Muti

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La Giuria del Premio: Fabiano Braccini – Poeta e operatore culturale; Antonio Colandrea – Poeta; Carmelo Consoli – Poeta; Deborah Coron - Operatore culturale; Maurizio Di Benedetto – Poeta e scrittore; Hafez Haidar – Docente universitario; Anna Montella – Scrittore e operatore culturale; Mina Rusconi – Operatore culturale; Rodolfo Vettorello – Poeta e operatore culturale. Il Comitato d’Onore Lions Club Rho: Giulio Maggioni - Socio fondatore Lions Club Rho Valter Bovati – Presidente Lions Club Rho Alfredo Di Cerbo – Past President Lions Club Rho Questa seconda edizione del Premio articolata in più sezioni a tema libero - bissando il successo della prima edizione - ha ottenuto un grande riscontro partecipativo con 941 lavori pervenuti da tutta Italia tra poesia inedita (597 poesie), narrativa inedita (171 racconti), dialetto inedito (82 poesie), poesia edita (81 volumi), dialetto edito (10 volumi). A seguire, in ordine di posizione in classifica, gli autori premiati, cinque per ciascuna sezione. I primi tre classificati delle sezioni A – B – C ricevono premi in denaro, così come i primi classificati delle sezioni D ed E per la poesia dialettale edita ed inedita. Per la sezione A - Poesia inedita: Tullio Mariani, Angelo Taioli, Michele Paoletti, Lida De Polzer, Maria Grazia Frassi. Premio della Giuria: Dario Marelli

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Per la Sezione B - Narrativa Inedita: Daniela Raimondi, Bianca Paola Leone, Anastasia Laurelli, Filippo Taddia, Antonio Bonelli. Premio della Giuria: Francesco Destro Premio della Critica: Carlo Costanzelli Premio del Comitato d’Onore: Phyllis Margaret Dyason Per la sezione C – poesia edita: Guido Zavanone, Ivan Fedeli, Paolo Senna, Vanes Ferlini, Michele Paoletti. Premio della Giuria: Ignazio Gaudiosi Premio della Critica: Mario Viola Premio del Comitato d’Onore: Giusy Frisina Per la sezione D – poesia dialettale edita: Nico Bertoncello Per la sezione E – poesia dialettale inedita: Giuseppe Tirotto Premio del Comitato d’Onore: Luigi Salustri Negli ambiti della 2° edizione del Premio “Energia per la Vita” in un gemellaggio simbolico con gli organismi culturali ospiti, per un percorso di crescita comune, sono stati assegnati, altresì, i seguenti riconoscimenti: Premio Thesaurus: Nicoletta Romanelli Premio Iplac: Egizia Malatesta Premio La Luna e il Drago: Maria Felicetti

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Nota a cura di Rita Iacomino Presidente esecutivo del Premio Come presidente esecutivo senza potere di voto, mi ero ripromessa di non leggere gli elaborati invece, mentre registravo poesie e racconti, la curiosità ha preso il sopravvento e ho letto quasi tutto. Confesso che, fosse dipeso da me, avrei premiato ogni singolo testo e avrei voluto conoscere tutti gli splendidi Autori che, con le loro opere, sono riusciti a trasmettermi le loro emozioni. Comprendo, dunque, quanto possa essere stato difficile il lavoro della Giuria che ha dovuto scegliere i testi da premiare, trovandosi ad esaminare lavori di altissimo livello. -0Sembra ieri, il momento in cui, dentro la bellissima sala di Villa Burba, l’emozione mi stringeva la gola, mentre attendevo trepidante l’arrivo degli Autori, provenienti da varie regioni d’Italia e non solo, che avevano partecipato e vinto la prima edizione del nostro Premio Letterario Internazionale “ENERGIA PER LA VITA”. Cercavo di immaginare i loro volti, coglierne i sorrisi e raccogliere il loro orgoglioso e adrenalinico entusiasmo in attesa di ricevere il meritatissimo premio. E’ passato esattamente un anno da allora, è cambiata la location, ma non è sparita affatto la trepidazione di un’altra giornata memorabile. Temevo non si ripetesse la presenza al concorso delle centinaia di Autori della passata edizione, invece ora sono qui a ringraziare i numerosissimi partecipanti (545) che hanno deciso di far parte di questo progetto.

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Il mio grazie, insieme alla qualificata Giuria, al presidente onorario Alessandro Quasimodo e il Lions Club Rho con gli organizzatori, è tutto per voi AUTORI e alle bellissime opere che vi hanno permesso di essere qui, a condividere con noi, la vostra emozione e il vostro innegabile talento. Rho, 18 ottobre 2015

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Casette d’Ete Mais où sont les neiges d'antan? (François Villon)

Opera prima classificata Tullio Mariani 1 Ricordi le piccole case che diedero il nome al paese? I muri a mattoni scoperti, gli infissi di poche pretese le tende davanti alle porte socchiuse d'estate e d'inverno la placida calma di vita, la calda illusione di eterno. Ricordi, a guardarle dal monte sembravano un gregge nel verde un verde di piana e di colli fin dove la vista si perde. Non chiedere a me dov'è oggi quel mondo mai più ritrovato ma chiedi a te stesso: dov'è la neve dell'anno passato? Ricordi la candida strada di ghiaia, di polvere e sassi? Parlava alla tua solitudine, cantava al ritmo dei passi brillava nel sole di luglio che quasi dolevano gli occhi. 1

Tullio Mariani è nato nel 1947 a Casette d’Ete, una frazione di Sant’Elpidio a Mare. Dagli anni ’70 lavora per il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa, dapprima in Genetica e Citogenetica, passando poi alla Biofisica e infine alla Fisica applicata, con qualche incursione nella Statistica e nella progettazione elettronica analogica, collezionando pubblicazioni un po’ in tutti gli ambiti. Problemi di salute lo hanno costretto nel 2013 a un pensionamento non desiderato. Da circa un decennio si dedica alla poesia ottenendo numerosi e prestigiosi riconoscimenti.

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Ricordi le corse, le grida, i giochi, i bisticci un po' sciocchi, le bande di bimbi per strada a vivere liberi e veri, gli sguardi d'invidia dei grandi legati dagli obblighi austeri? Mi chiedi se in un qualche altrove vive quel mondo incantato e io chiedo a te: dov'è oggi la neve dell'anno passato? Ricordi le sere d'estate assorti a guardare le stelle seduti sull'uscio di casa, il cantico di raganelle i cori dei grilli nei campi, l'odore del grano maturo, le lucciole a manto di luce, i sogni di un grato futuro? Poi gli anni di ansie e di lotte in nome del grande avvenire e i rantoli tristi di un mondo che abbiamo aiutato a morire. E forse ci sarà reso quel placido esistere lieve quando saremo ormai stanchi e andremo via con la neve.

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“Casette d’Ete” di Tullio Mariani Commento critico a cura di Carmelo Consoli La poesia di Tullio Mariani che riporta alcuni celebri versi di François Villon (mais ou sont le neiges d'antan?) è un pregevole quadro dove la dolcezza dei ricordi delle dimore estive giovanili si intreccia armoniosamente con l'amarezza e la consapevolezza del presente. Tutta la composizione lirica è attentamente strutturata per risaltare le fasi esistenziali dell'uomo con il suo apice e la relativa decadenza, con lo sfolgorio cromatico dell'estate della giovinezza e l'abbandono candido a una neve foriera di dolci distacchi nel pensiero di “quel placido esistere lieve” come scrive il poeta. In poche righe il racconto di una vita denso di vive immagini, particolari e dettagli di un territorio e di una stagione i cui fotogrammi si caricano di cromie e fragranze in modo formidabile ma dove tutto poi volge verso la resa e la disillusione, verso il cambio cromatico mirabilmente individuato in quel bianco placido e inquietante della neve, presente e consapevole della sua simbologia terminale che conduce il cammino finale della vita, al suo spegnersi, ed in cui avvolgersi nell'abbraccio dei ricordi.

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C’è la nebbia, Piero Opera seconda classificata Angelo Taioli 2 C’è la nebbia, Piero, che ti sarebbe piaciuta, che confondeva il passo ed il sentiero e le nostre parole e ci avvolgeva nel suo mantello mentre salivamo con le nostre domande al sacro monte... Mi piace pensarti - là dove sei tra cavolfiori e occhi di radicchio, o con la forbice in mano sulla scala a decidere quale ramo vedrà un'altra primavera... (Ha dato frutto finalmente il tuo parlare al fico sterile? e a quest'ora il vino di tuo padre che luna aspetterà? e tua madre ancora te? - quel figlio così pronto ad ubbidirle, dove trovò la forza e la dolcezza per strapparsi alla sua terra, alla sua vigna, al miele aspro di tarassaco?) È che mi mancano, Piero, tutti i tuoi capelli, il coltello del tuo naso, il tuo sorriso dentro il palmo della mano... (nella nebbia di Novembre, che ha tempo e pazienza e pietà per tutto... per l'urlo delle guerre le parole dei morti, le morte parole dei vivi...) È che le corde sono sempre tese... 2

Angelo Taioli, nato a Mortara, nel pavese, vive a Voghera (Pv). Nel corso del tempo ha ottenuto più riconoscimenti in diversi concorsi letterari, anche con pubblicazione bonus primo premio.

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- quelle che innalzavano le croci sul calvario sopra il pianto di gesso delle donne ed io non so più, Piero, quali libri interrogare, quale il segno che ci parli in un abbaglio, quale il nome di Dio tatuato sulla pelle di questo giorno orribile e bellissimo... (Come il lenzuolo macchiato di sangue che la nebbia confondeva prima dell'ultima salita, della volta d'oro, prima che la mano dell’angelo comparisse ad indicarci la discesa ed il ritorno.)

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“C’è La nebbia, Piero” di Angelo Taioli Commento critico a cura di Carmelo Consoli Immaginifico dialogo, in uno scenario di nebbia, in cui la persona amata magicamente prende corpo riemergendo dal passato, collocandosi negli ameni territori di un tempo agreste e sacrale. Ottimo quindi lo spunto di un ambiente nebbioso in cui si alternano gli squarci vivi di un vivere tra domande e operosità nella dolcezza di una terra e le nostalgie di un corpo rievocato in pochi ma significati tratti. Impianto iniziale, tutto questo, abilmente impostato e propedeutico ai successivi versi ben più drammatici e simbolici di un presente vissuto nel segno della incertezza e dello smarrimento, nella propria inquietudine solitaria. La poesia si fa apprezzare oltre che per il travaglio esistenziale, ben evidenziato, anche per il cromatismo pittorico dove emerge e risalta dal grigiore soffuso: “quel lenzuolo macchiato di sangue, prima dell'ultima salita, della volta d'oro”, vera pennellata finale che impreziosisce tutta la lirica.

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Quando arriverai avvertirò il profumo Opera terza classificata Michele Paoletti 3

Quando arriverai avvertirò il profumo, i passi leggeri sul pietrisco e il tuo sorriso invaderà le stanze a riportare indietro il tempo al primo incastro degli sguardi quando la luna ci bastava appena. Prima la voglia di strappare le lenzuola per incoronarti di candore poi percorreremo gli argini dei corpi le loro imperfezioni levigate dalla furia di mani sconosciute e la notte sarà una lunga danza incerti se sciogliere le mani o sconfinare gola contro gola. Finché l'abbraccio non si chiuderà in un cerchio, perfetto simulacro del ricordo assenza di dolore che mi scolora dentro.

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Michele Paoletti è nato nel 1982 a Piombino dove vive e lavora. Si occupa di teatro per passione da sempre. La sua opera di esordio “Come fosse giovedì” si è classificata quinta, negli ambiti di questo stesso concorso, nella sezione della poesia edita.

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“Quando arriverai avvertirò il profumo” di Michele Paoletti Commento critico a cura di Carmelo Consoli Colpisce questa poesia per il suo contenitore di fresca vitalità e forte sensualità. Un vero trionfo dell'amore vissuto con intensità di intesa e in simbiosi di corpi. L'autore, con indubbia abilità linguistica ed un uso appropriato della musicalità, accende la luce dei ricordi da cui filtrano le immagini di passioni amorose vissute che il poeta ci presenta nei dettagli più esaurienti e significativi fino a coinvolgerci fortemente nell'emozione. Sapiente la successione degli eventi. Dalla delicatezza nell'avvertire i profumi all'intesa degli sguardi al chiarore lunare, fino all'esplosione voluttuosa dei sensi. Poi nei quattro versi finali, la chiusa esemplare di questa lirica, densa di significati e inno al gesto amoroso che diviene “perfetto simulacro del ricordo” e lenimento alla propria esistenza con la “sua assenza di dolore” ma anche consapevolezza di un tempo ormai trascorso.

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Notte di luci Opera quarta classificata Lida De Polzer 4

Non chiudere la porta sul giardino voglio veder entrare, questa notte gli elfi delle memorie che ho smarrito ognuna col suo lume ancora acceso e il suo respiro leggero. Vorrei conoscere lo sguardo di mio padre sui miei piccoli anni, lo stormire dei pioppi al primo soffio della sera il profumo dell'uva di settembre; i dolori invisibili per cui non ho avuto parole le carezze rimaste nelle pieghe della mia lunga timidezza, i sogni che non ho osato accendere. E d'ogni fiamma nuova, in questa notte di luci sconosciute deporre una scintilla nel braciere dell'amore da vivere; e i sogni acerbi, non toccati ancora avranno forse un piccolo sospiro come di legna verde nel camino. 4

Lida de Polzer è nata a Ferrara il 14 aprile 1938, da padre italoviennese e madre elvetico-triestina, vive da molto tempo a Varese. È appassionata di sport (nuoto, pallanuoto, sincronizzato) di cui si è occupata e si occupa in vario modo. Al suo attivo numerose pubblicazioni e diversi riconoscimenti in concorsi di poesia e di narrativa. È presente con liriche e racconti su riviste e antologie.

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Notte di luci di Lida De Polzer Commento critico a cura di Antonio Colandrea Nell'oscuro presente, solo le vivide braci del ricordo possono dissolvere le nebbie, spostare i pesi che gravano sul petto. L'autrice ritorna così a respirare aria pura, a fare scorta di scintille per riscaldarsi l'anima e illuminare il cammino. Una lirica memoriale calda e avvolgente che trasporta il lettore in un mondo fatato, distante ma vicino, da cui attingere nutrimento e vigore.

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Spioveva dalle gracili spighe di perla Opera quinta classificata Maria Grazia Frassi 5

Finiva lo scroscio e spioveva dalle gracili spighe di perla piegate minuti salici biondi insieme assiepati. L’ho sfiorata l'ho colta la spiga di riso e il colore era luce dorata d'un giallo che brucia a nascondere tesori più acerbi. Non è altera come spiga di grano, si posava tremula sulle mie dita e tutto sembrava brusio di rugiada o gioielli abbelliti dal sole. A noi ora è concesso dono gratuito, a noi che soltanto facciamo due passi, godere di queste dolci e frementi distese che rapiscono bagliori al tramonto. Ma come spiegare quel canto o il sorriso che ancora nasceva prima e dopo ogni giorno di duro lavoro delle nostre madri, le loro amiche o sorelle? Eran forse quei campi dorati al tramonto a suscitarne e a rapirne armoniosa la voce a lenirne la pena? 5

Maria Grazia Frassi nasce nel 1945 a Pontevico (BS) e vive da sempre a Robecco d’Oglio (Cr). Insegnante in pensione, coltiva da tempo l’interesse per la poesia, compone sulla natura e sul ricordo e prova ad esprimersi attraverso alcuni racconti. Ha partecipato a vari concorsi letterari ottenendo lusinghieri riconoscimenti.

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Poche immagini giungevano a casa di arti immersi in paludi di spighe e altre parlavan di soste coi visi ridenti concedersi al sole con tre stracci al rovescio i grandi cappelli dai nastri sicuri. Li risenti quei canti nei cori paesani le rivedi le donne alla monda nei quadri di grandi pittori grandi non per il nome ma per il tratto ed i colori sofferti sembra si chinino insieme a condividere intensi in pieghe vive e dolenti e torture di insetti fangosi. Par di sentire fruscio d'acqua e di paglia e voce di erbe, di spighe e di canti, più ancora se ascolti Lucia nelle sere ai filos che racconta...

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Spioveva dalle gracili spighe di perla Di Maria Grazia Frassi Commento critico a cura di Antonio Colandrea Scriveva Neruda: "Il tempo chiaro è l'amore, il tempo perduto è il pianto... non mi chiedete, toccate qui sul panciotto e vedrete come mi palpita un sacco di pietre oscure." Soltanto la poesia sa dissolvere il velo, squarciare il diaframma tra un passato dorato e un presente vissuto con nostalgia e pena. Qui però, non pietre oscure ma preziose. Grazie al grimaldello di un incipit magistrale, l'autrice ci conduce, verso dopo verso, al suo scrigno raffinato e raro dei ricordi.

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Ho bussato alla tua porta Opera Premio della Giuria Dario Marelli 6 Ho bussato sbandato alla tua porta come un'onda nella rada scampata alla bufera. Nel cesto vuoto il profumo degli ulivi le lettere non scritte, le radici, il sogno disperato di un ritorno il bacio di mia madre, il saluto degli amici. Ho bussato con coraggio alla tua porta chiedendo in prestito una mano senza domandare altro. Mi sono volto indietro e ho scorto la mia ombra salpare incerta, contro il vento. Ho bussato invano alla tua porta chiusa dietro a un muro di silenzi ma non te ne farò una colpa. Mi chiedo invece dove sia finito il sole se mi rimanga il fango per dimora. Oggi io abito il mio nome e un sorriso a denti stretti è il mio portone. Domani radunerò i miei stracci e andrò a bussare al mare. Per riprendermi il mio cuore ancora vivo dopo il temporale. 6

Dario Marelli nasce a Seregno (MB) nel 1967, dove tuttora vive, dopo avere trascorso gli anni dell’infanzia e della gioventù a Meda. Laureato in Economia Aziendale è dirigente presso una multinazionale. Nel 2014 inizia a partecipare ai concorsi letterari conseguendo numerosi riconoscimenti. Nel 2014 pubblica la raccolta di poesie e racconti: “Sulla vetta del cuore” (Edizioni Helicon).

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Ho bussato alla tua porta di Dario Marelli Commento critico a cura di Fabiano Braccini Il miraggio di poter raggiungere una migliore condizione di vita costringe alla sofferta decisione di salpare verso nuovi, sconosciuti lidi. Il prezzo di tale sacrificio è altissimo, sia in termini pratici, sia per il distacco dalle proprie radici e da una terra certamente avara di risorse e di prospettive ma generosa di genuini sentimenti e di ricordi indelebili. È cocente poi la delusione di incontrare soltanto porte chiuse e mani che si ritraggono di fronte a richieste di solidarietà. E tanto profondamente amara è la sensazione della sconfitta da indurre perfino a desiderare di tornare indietro, a quel passato gramo e senza avvenire che si pensava abbandonato per sempre. Il Poeta Dario Morelli, attingendo dalle attuali vicende l’ispirazione per questo suo commovente componimento e volgendole in bella metafora- è riuscito a dipingere con mirabile delicatezza, attenta misura ed efficace incisività, tutte le sfumature della frustrazione per un sogno infranto e lo smarrimento per un futuro di sconforto e solitudine.

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L’odore della neve Opera prima classificata Daniela Raimondi 7

“Quello che vogliamo è sempre altrove.” Me lo diceva sempre mia madre. Me lo ha detto anche poco prima di morire. Cosa volevo io, allora? Non me lo ricordo più. Forse una casa più grande, un vestito di seta, un amore importante; o forse solo le focacce di cipolla che vendevano al mercato il giovedì. A quei tempi non c’era la guerra. D’estate dormivamo con le porte di casa aperte. Sognavamo insieme al latrare lontano dei cani, alla corsa delle linci dietro l’orto. Eppure, anche allora, quello che desideravo era altro. Non so più cosa volevo a vent’anni, né a trenta, o a quaranta. Ora l’unica cosa che voglio la sto toccando con le dita. La respiro fra le mani, come un fuoco. Ti guardo. Accarezzo la tua testa che dorme sul mio grembo come facevo tanti anni fa con tua madre. La paura si addensa di colpo nelle dita insieme all’amore. Non volevo svegliarti, ma ecco che apri di colpo gli occhi. I tuoi occhi neri contro il nero della notte. I tuoi occhi aperti nei miei, come un grido. “Shhh… Non è niente. Dormi…” Mi guardi. Poi richiudi le palpebre e ti addormenti di nuovo. Il tuo fiato mi lascia un’impronta dolce nella mano. 7

Daniela Raimondi ha vissuto per trent’anni in Inghilterra, dove si è laureata e dove ha conseguito un Master in Letteratura Ispano Americana. Ha pubblicato otto raccolte di poesie che hanno ottenuto importanti riconoscimenti letterari, come il Mario Luzi, il Premio Caput Gauri e il Premio Sartoli Salis per opera prima. Alcuni suoi racconti sono presenti in antologie di Baldini Castoldi e Dalai e Marcos y Marcos. Ha pubblicato un romanzo "L’ultimo canto d’amore", risultato fra i 10 vincitori di un torneo organizzato dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, che contava oltre duemila manoscritti.

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I fari del camion illuminano la strada. Fuori c’è solo il freddo dell’inverno e la ghiaia sporca ai bordi dell’asfalto. C’è il cielo opaco, l’ombra dei pini, il tonfo delle ruote dentro a ogni buca. Chi direbbe che domani è Natale. Il camion frena di colpo. Tu sussulti, ma poi continui a dormire. Guardo fuori: c’è un cinghiale in mezzo alla strada. Resta immobile, colpito dalla luce rotonda dei fari. L’autista bestemmia, suona più volte il clacson. L’animale alla fine si scuote, fugge nel buio. Voglio correre anch’io dentro a quel buio. Dimenticare questo orrore; dimenticare gli occhi immobili di Snezana. Il tempo si sbriciola nel ronzio del motore, il ghiaccio sembra gemere sui campi. Ti guardo: hai la bocca di tua madre, lo stesso broncio di Snezana quando lei aveva la tua età. Sarebbe bello continuare così, all’infinito, in un viaggio che ci porti a una terra così lontana, Mihrija, così lontana e bella che non riesco nemmeno a pensarla. Io e te, cercarci un piccolo paese con le case bianche e i gerani alle finestre. Gli occhi mi si chiudono. Ciondolo la testa a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Sogno un paese bagnato dal sole, una terra fertile, il suono delle campane. Nel sonno sembra raggiungermi la voce allegra di Snezana. All’alba il camionista ci sveglia: “Siamo arrivati. Più avanti non si va.” Non ci sono case bianche qui intorno. I segni dell’odio sono inchiodati ai muri sfatti, ai vetri rotti, ai mucchi di calce e detriti posti lungo le strade. Scendiamo dal camion con le ossa indolenzite. “Nonna, ho fame.” Mi guardi, e mi chiedi la vita. Ti do un pezzo di pane. È raffermo ma tu lo divori. “Ho ancora fame”. “Forse è solo sete. Vieni.” C’è una fontana. L’acqua che esce sa di ferro e di terra. Ci scorre rossa dentro la bocca. 31


Saranno le sette. Non c’è nessuno in giro. Solo un vecchio che cammina contro un muro: la schiena curva, la testa bassa: “Dov’è la strada per il confine? – gli chiedo. Lui indica con un dito la montagna. Ha gli occhi di chi ha pianto per qualche figlio morto, o per una figlia violentata, o forse gli hanno fucilato la moglie davanti alla porta di casa. Ci sono dolori che si portano sulla faccia come un marchio a fuoco. I segni del male impressi per sempre sulla pelle, nitidi e precisi come in una fotografia appena fatta. Il vecchio guarda lontano. È come se non mi vedesse. Poi abbassa lo sguardo su Mihrija: “Lascia perdere – mi dice alla fine. – non puoi arrivarci a piedi. C’è la neve alta lassù e con una bambina piccola non ce la farai mai.” Ma io gli giro le spalle. Ti prendo per mano e ti porto via da questo orrore, via da questa guerra. Su, verso il sentiero, verso la montagna. È quella laggiù, la vedi? È così alta, riempie il cielo a guardarla. Riesci a malapena a seguirmi. Inciampi di continuo. Ti aggrappi alla mia mano e io ti trascino con più forza. Sono solo le otto e se camminiamo di lena raggiungeremo il confine prima che faccia buio. “Nonna, ho freddo.” “Il freddo passa quando si cammina svelte.” Camminiamo per ore. Avanziamo a fatica fra le rocce del sentiero, in silenzio. Nemmeno una parola per salvare il fiato, per fare più in fretta. “Devo fare pipì.” Ti sei accovacciata sulla neve. La sciarpa gialla che ti ho legato sulla testa ti circonda il viso. Guardi in su, verso di me. Hai gli occhi grandi, le guance arrossate. Sento il cuore fermarsi. E so che la grazia e la bellezza vivono anche fra la violenza, fra la bruttura di una guerra dove parole come sonno, pane, cielo, non hanno memoria. 32


Nevica forte. Il sentiero è bianco. Scivoliamo sulla lastra di ghiaccio che si è formata sotto lo strato di neve. “Nonna, quando arriviamo?” “Sei molto stanca?” “Sì. Ci riposiamo?” Guardo indietro: intravedo a malapena il paese in mezzo alla neve che adesso ci soffia intorno. Vedo bianco. Solo bianco. “No. Dobbiamo arrivare prima del buio”. Ripeti che sei stanca ma io non ti rispondo. Ho paura. Se parlassi questa paura la sentiresti tutta dentro la mia voce. Così sto zitta e ti tiro più forte. Gli strattoni ti fanno male e tu cominci a piangere. Quasi non mi accorgo del corpo riverso al bordo del sentiero. Lo schivo a malapena poi lo guardo di sottocchio: è solo un ragazzino. Ha un buco nel petto, una pozza piena di neve e sangue rappreso. Gli occhi sono spalancati. Ha il viso devastato dall’acne e dal gelo. C’è un cane lì vicino. Cammina su tre zampe, gli annusa la ferita. Ti sollevo fra le braccia e voglio solo correre via, via da lì! Ma gli stivali affondano fino al polpaccio. Dov’è il sentiero? Dove, dove? *** Quante ore sono passate? La neve non ha smesso di scendere. Siamo lontane dal paese e lontane dal confine. Vedo solo bianco. Il vento si è fermato. Ascolto il silenzio che c’è intorno. Il silenzio fa paura più di ogni altra cosa. Ti parlo per farmi coraggio: “Quando tua madre aveva la tua età la spingevo sull’altalena. Su e giù, su e giù, fino a raggiungere il cielo. Lei stringeva forte la catena. Aveva paura, ma io la spingevo in alto, più in su, fin dentro l’azzurro.” Snezana… Fatico a parlare di te, anche se so che devo farlo. Lo devo alla tua memoria, e alla tua bambina. Avevo sentito gli spari quel giorno. Poi sono corsi tutti 33


da me, e gridavano soltanto due parole: “Tua figlia, tua figlia!” Sono corsa nei campi così com’ero: in ciabatte e col grembiule bianco di farina. Correvo tra i fuochi, fra il granoturco maturo che crepitava nell’aria. Persi una ciabatta. Inciampai. Vidi per terra la scia del sangue e poi... ...poi sentii il tuo odore, Snezana. Il tuo odore in quel sangue impastato alla terra. Buttai via la ciabatta che mi era rimasta e mi trascinai a carponi lungo quella scia rossa. La seguii strisciando per terra, avanzando sulle mani e sulle ginocchia come avrebbe fatto un animale. Fino alla fine. Fino a che il filo di sangue mi portò a incontrare la tua testa. Non trovai il tuo corpo. Solo la tua testa. La avvolsi nel grembiule e corsi indietro. Senza fiato, coi piedi feriti e quel peso stretto al ventre che era il mio peso, che era ancora mio. Come prima di figliarti. Correvo con la bocca chiusa, il grido stretto dentro. Arrivai dal prete e aprii il grembiule insanguinato: “Padre, si può seppellire una testa? Solo la testa? E lì che risiede la sua anima?” Non disse niente. Mi abbracciò e si mise a piangere. Piangeva lui, io niente. Ti seppellimmo io e quel prete. Scavammo una buca al camposanto e ci mettemmo dentro la tua testa e il tuo violino. *** Ci siamo perse. Non so più dove sono. Dove sia il Nord o il Sud, il confine o il paese. C’è poca luce ormai, è quasi sera. Faccio un passo e affondo fino al ginocchio. C’è solo neve qui intorno. Neve e alberi, alberi e neve. Ti sollevo e ti carico sulle spalle come un agnellino. Muovo un passo, poi un altro. Le gambe cedono al bianco. Non ce la faremo mai. Mai! Questa frase mi rimbomba nella testa. Non possiamo raggiungere il confine. È inutile continuare. 34


Ci sediamo sotto un pino. È buio. La neve scende ancora. Ti do l’ultimo pezzo di pane, poi pulisco il barattolo vuoto che ho in fondo alla borsa. Lo riempio di neve e ci metto sopra un poco di zucchero. “Tieni, senti com’è dolce.” Lo porti alle labbra. Ti riempi la bocca e sorridi. Mangi, poi ci stendiamo sotto l’abete. Penso che la paura è come la neve: senza confini precisi, senza odore, o suono. Saranno passate un paio d’ore, forse meno. Non sento più le dita delle mani. Provo a muovere i piedi ma non ci riesco. Guardo in su: nevica ancora. Non ci sono stelle stanotte. Non importa, le stelle sono fredde nel cielo di dicembre. Stai stretta a me, accovacciata come un gattino contro il mio ventre. I nostri corpi abbracciati. I nostri corpi legati all’inverno, scolpiti nel bianco di questo spazio doloroso e lieve. Non sento più il freddo adesso. Chiudo gli occhi. Vedo soltanto i campi di granoturco bruciati, sento nell’aria l’odore del fumo. I nostri corpi sono coperti di neve. “Nonna, domani è Natale?” “Sì Mihrija. Non senti le zampogne?” “Io no.” “È perché non ascolti bene.” Stai in silenzio. “Io non sento niente.” “È perché è cambiato il vento. Bisogna aspettare.” Stiamo zitte. Sento che controlli il respiro per non far rumore, per non perderti il suono della gioia. “Le hai sentite le zampogne?” “No, ma…” “Come suonano bene, Mihrija… Le senti?” “Forse… Non sono sicura... E i bambini aprono i regali adesso?” “Prima devono dormire.” “Non ci riesco. Ho troppo freddo.” 35


“Shhh…. Ascolta.” Ti sento tremare e ti stringo più forte. La tua respirazione è faticosa, poi piano piano si calma. Sento il tuo corpo abbandonarsi al mio. La neve mi scende sul viso insieme al silenzio. Non riesco a riaprire gli occhi. Ho sete. Lecco la neve, l’annuso. Che buon odore ha la neve. Sa di arance e di giacinti. Non c’è più dolore adesso. Sento i cani latrare alla luna e là, nel campo, la corsa felice delle linci. Stai tranquilla, Mihrija. Il mio ventre è ancora caldo. Qui riposò tua madre. Riposa, adesso. Dormiamo ancora un poco.

Nota Guerra dei Balcani. Una bambina di cinque anni è trovata morta abbracciata alla nonna. Sono decedute mentre fuggivano in una tormenta di neve. I nomi delle vittime Linda Sakiri e Mihrija Hodza. Dedico questo racconto alla loro memori 36


L’odore della neve Di Daniela Raimondi Commento critico a cura di Mina Rusconi Un racconto toccante d’una tristezza infinita ma nello stesso tempo dolce e quasi serena. Una scrittura abilissima che ci coinvolge talmente in profondità da farci percepire tutto ciò che provano e sentono le due protagoniste. Al di là degli orrori della guerra e della morte, su tutto risulta predominante l’amore della nonna per la nipote.

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La torta di compleanno Opera seconda classificata Bianca Paola Leone 8

A Mariasofia e Edoardo Come preparo una torta? Sempre con mia nonna. Soprattutto se è per un compleanno. Lo so, certo. Tutti rimangono perplessi. Ma che significa che è morta nel '95? Non c'è nulla di sovrannaturale in quel che ho detto. Niente di metafisico. E' che quando impasto farina, uova e zucchero, la sua presenza è ricordo che agisce nelle mani: è un fatto concreto. Così nei miei movimenti vedo i suoi. Identici ma più accelerati, visto che lei era morbida ed io sono frenetica. Quello spennellare lento, le uova fatte sgocciolare per bene... non mi appartengono. Io non riesco a fare con calma, non rallento i miei gesti neanche quando vorrei, e mi nascondo dietro l’idea che la fretta non sia mia, ma del mondo intorno a me. E' colpa della società e di questa Italia qui, che ha provocato in tutti quelli della mia generazione, una trasformazione cromosomica. Dobbiamo correre, scappare, fare in fretta per laurearci e quindi anch'io giù a ingurgitare esami universitari di cui non ricordo più niente. Dovevo terminare prima 8

Bianca Paola Leone laureata in lettere classiche, si specializza in archeologia a Firenze e partecipa a vari scavi in Italia e in Francia. Inizia ad insegnare nel 2003 nella scuola dell'infanzia e nella primaria, poi nella secondaria. Attualmente é docente di latino e greco presso il liceo classico Vitruvio di Formia, dove abita. Collabora inoltre con l'università l'Orientale di Napoli, nell'ambito dei Tfa, con una docenza in didattica della geografia.

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possibile e subito inseguire, come su un tapis roulant, stages inconcludenti e approdare ad una firma su un contratto: che fosse co.co.co., a progetto, a tempo determinato, ma che fosse per un lavoro vero. Per carità, mica si può aspettare che arrivi ciò che desideri fare, veloci su su, si deve essere choosy e accontentarsi: al diavolo i sogni adolescenziali, i progetti e le aspettative. Tanto li ho dimenticati mentre correvo: nella nevrosi del traffico, nell’inseguimento di un treno maleodorante e perennemente in ritardo. Questo significa lavorare oggi: arrivare già stanchi prima di cominciare. Così il mio respiro ha smesso di accordarsi all’anima. Ora, poi, che sono diventata mamma un welfare fittizio non mi permette di lavorare: chi starebbe con mia figlia? Il mio compagno, un fisioterapista senza orari fissi e che verrebbe subito rimpiazzato se osasse chiedere dei permessi? Una baby sitter a cui consegnare il mio stipendio? E così sono a casa ad ovattare le mie conoscenze nei cambi dei pannolini. Impacchetto e getto via. Anche così, però, non ce la faccio a fermarmi, sono in perenne agitazione perché il “da fare” mi attanaglia. Soprattutto oggi che è una data importante: mia figlia compie un anno ed io preparo i dolci per la sua festa. Sta qui con me, si intrufola tra le mie gambe e nelle pieghe delle sue ciglia rimangono sospesi i miei pensieri. Quelli negativi diventano un naso che si arriccia. Ma sì, va bene così com'è... che avrei dovuto fare? La grande manager? Proprio io? In un'Italia in cui le cariche importanti, pubbliche o private, sono ereditarie? Così guardo mia figlia. Quando cerca il mio contatto ed io la stringo, mi sembra che l’aria infiltratasi tra noi due, laddove prima c’era liquido amniotico, non ci separi, ma amplifichi, come una cassa armonica, la comunanza delle nostre percezioni. 39


Eppure quando era appena nata, il suo pianto e la mia incapacità di comprenderne la motivazione, mi destabilizzavano. Sotto la doccia, io. Il suo pianto dalla camera da letto. Il mio compagno a lavoro. Una corsa per farla smettere. Cullandola, niente. Allora ho provato ad allattarla. Non succhiava, no. E quindi, da sola, ora, che faccio? Grondavo acqua e nessuna soluzione. Poi ho spento i pensieri e ho cercato soltanto di sentire, e le sue richieste sono scivolate dalla sua alla mia pelle come istinto, nel contatto magnetico dei corpi. E attraverso le carezze il mio respiro si è adeguato al suo. Voleva soltanto un po' d'acqua sul viso. Acqua per noi, e dissetante, non c'è invece quando sono così irrequieta. Mi innervosisce questa vita arida, senza lavoro, senza incontri. Mi manca il respiro, lo vorrei pur anche affannato. E il cielo della mia anima è petrolio vischioso. Prostrata dal silenzio e dalla ripetizione di gesti sempre uguali, mi sento vuota e inadeguata. Allora penso…. mi lascio andare alla riflessione… desidero che in futuro per mia figlia la vita sia diversa... Perché vorrei che lei... e poi sospendo il pensiero, mi impongo di lasciarla alla sua libertà. Ma quanto è complesso l’anello di autonomia e condizionamenti che cinge ogni madre e i suoi figli! Continuo a riflettere e mi chiedo quanto ci sia in lei della mia sensibilità che gli altri mi rimproverano come difetto. Eppure anche mia nonna era sensibile: a volte come un fascio di sensazioni provanti, viveva sulla sua carne il dolore degli altri, lo sentiva vivo, al punto da morire dello stesso male di chi assisteva nel volontariato. E di mia nonna, mia figlia porta metà nome. Una parte significativa, perché anche attraverso le parole, si insinuano ricordi, brandelli di vita vissuta che creano corde tra vivi e morti, quelle dei legami più stringenti nel bene e nel male: i rapporti familiari. Ed io ho un’idea 40


profonda di famiglia, fatta di odori comuni, fragranza di pane e sudore nello sforzo nel produrlo insieme. La condivisione di atti o meglio la complementarietà in un gioco di ruoli in interscambio e allora tutti sono il tutto: oggi farina e domani la sua acqua. La sua, insieme, nel pane. E con questi pensieri e con la mia piccola che gattona sotto il tavolo, tra un gioco e una filastrocca, procedo nella preparazione della torta. Perché mia nonna non è mai entrata in una pasticceria, mia nonna le faceva lei le torte per i compleanni di tutti, anche di quei bambini che la chiamavano nonna senza che lei avesse reali rapporti di parentela con loro. Perché mia nonna andava oltre, abbracciava chi sfiorava la sua anima, silente come in eterna preghiera, perché aveva un senso della famiglia così radicato da avere rami che si allargavano in un sentimento di comunità, profumato della vaniglia dei suoi dolci. E così anch’io cerco di imitarla, preparo secondo le sue istruzioni, la croce sull’impasto da far lievitare, e a mente i gusti degli amici che saranno qui con noi a festeggiare, dei bimbi che aiuteranno la mia piccola a spegnere la sua prima candelina. Tiepido il pan di spagna è pronto per essere imbottito e decorato. Il suo profumo sa di vita, sa di mia nonna. E non solo. Al fianco di mia nonna c’era sempre mio nonno, fedele soldato, che girava la crema pasticciera sul fuoco e toglieva le bucce di limone da far succhiare a noi nipoti. Non ricordo di aver mai visto mia nonna tagliare in due il pan di spagna, era sempre mio nonno a farlo per lei. O con lei. Eppure anche mio nonno aveva il suo mestiere, il suo andar lontano per commerci... Riuscivano comunque ad essere una squadra, un puzzle di gesti che si incastonavano l’uno nell’altro, incorniciati da sguardi muti di comprensione. Ed invece io, ora, non ho un compagno a cucinare con me; la nostra è una generazione maledetta, dico sempre: chi lavora troppo, trascurando i legami, quelli importanti, e chi, come me, è costretto all’inattività. Complicazioni da vita moderna... 41


Per un attimo mi sento triste, nostalgica per un mondo che non c’è più, ma mi riprendo. C’è mia figlia, e lei è tutto. Mi accovaccio per baciarla, cerco di coinvolgerla nella preparazione della torta, con una carezza le disegno sul naso l’idea che l’amore, fatto anche soltanto di passato, esista: è la memoria impressa nel mio dna, nello sguardo reciproco dei miei nonni, nella loro collaborazione, nel loro ultimo bacio al capezzale di un letto già macchiato di morte. E l’amore, un giorno, mi auguro ci sia almeno per mia figlia… visto che per me tutto questo distacco... invece per mia figlia vorrei che… di nuovo il futuro e le speranze. Per evitare sogni e aspettative mi radico nel presente: in effetti l’amore è anche in questa torta, per lei, è nell’aria di questa festa. Ritorno all’opera, spalmo la panna montata e la infiocchetto in morbida golosità, guardo le mie mani, vedo in esse la lunghezza di quelle di mia nonna e la sua fede nuziale striata dal peso del lavoro, ora per tanti motivi indegnamente al mio dito che freme. Guardo l’orologio, mi affretto, spalmo con energia la panna e, terminata la decorazione, mi accingo a riporla in frigo, ma la frenesia mi punisce: mentre mi muovo svelta, la torta mi cade. Non sul pavimento, non sul mio grembiule già screziato di crema. Ma sul faccino contratto dallo stupore di mia figlia. Aggrotta le sopracciglia, cerca nel mio sguardo la risposta alla sua perplessità. Una frazione: e vedo la mia fatica, sprecata, la maldestria delle mie mani che cercano una velocità che non può essere nelle delicatezza dei gesti d’amore, il panico al solo ipotizzare che avrei potuto ustionarla con la crema ancora calda, la voglia di piangere perché sono sola di fronte al mio sconforto, allo sporco ovunque e nonna non c’è più, neanche al di là di un telefono a cui raccontare. Vorrei gridare, chiedere aiuto, ma oltre le pareti non c’è solidarietà. 42


Ma sì ora piango, ora sciolgo in lacrime questo senso di abbandono, l’assenza di una famiglia come dico io, la solitudine arida che mi prosciuga. Ma gli occhi di mia figlia, tremuli, pronti a sciogliersi in lacrime, me lo impediscono. No, non posso piangere, se lo facessi mia figlia si dispererebbe con me, avrebbe paura di tutto quest’umido che le scivola addosso. La soluzione c'è, è lì, basta guardarla. E' un disastro, sedie, pavimento, la mia piccola sono tutte coperte di cibo. Ed io che posso fare? Soltanto una possibilità: con fatica, forzandomi, ridere. La guardo negli occhi ed io rido, rido, rido... Prima per finzione, sentendo il dovere di madre di non farla piangere, poi pian piano mi sciolgo e rido veramente, di cuore. E lei mi indaga con gli occhi grandi, mi sorveglia, finché abbandona ogni incertezza e ride con me, sonora e sporca ovunque di panna e crema. Comincia a prenderci confidenza, ne assaggia la pastosità prima con le mani e poi con il palato, sguazza nel piacere del contatto e del gusto. Evviva: questo sì che è un compleanno speciale: una torta intera per la sola festeggiata! E lo specchio della vita si capovolge: niente pianti, niente angoscia, la torta si rifarà. Al suo posto c’è una bimba felice che ora è stesa e rotola nel pan di spagna, sbellicandosi dalle risa. Perché tutto può essere gioco, anche un simile inconveniente. Gli eventi umani non vivono di univocità; il tutto relativo, il tutto inconcluso trova ora forma nella comicità di un naso all’insù bricioloso di torta. La vita è come ascoltare la radio in auto: all’improvviso, senza nessun atto di volontà, la frequenza cambia, e cambia musica: dal jazz ti scopri catapultato nell’hard rock. E a volte, mi è successo, da blandi discorsi di attualità radiofonica mi sono trovata immersa in uno dei miei brani musicali preferiti… ed è stato come respirare dopo l’apnea. E’ così: una nuova prospettiva si può 43


insinuare nell’attimo di vita e lo ribalta, senza fragore, come un pan di spagna ben lievitato che si rovescia sulla sua panna. Sorrido. Al di là dei condizionamenti e della libertà, ho tanto da insegnare a mia figlia anche nella mia attuale apatia: il rovesciamento del punto di vista per non perdere l’equilibrio, la possibilità di andare oltre gli eventi, la capacità di modificarsi per il bene degli altri, e l’enorme meraviglia di essere, prima di fare. Sorrido ancora. E nell’anima torna il respiro. Niente più petrolio, ma soltanto la morbidezza profumata della panna.

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La torta di compleanno di Bianca Paola Leone Commento critico a cura di Mina Rusconi I sogni dell’adolescenza sono spesso destinati ad infrangersi contro la realtà di una vita frenetica dove il respiro smette di accordarsi all’anima. Questo il problema esistenziale della protagonista che troverà soluzione nelle piccole ma importanti occupazioni quotidiane. Nel racconto che pone quesiti di vita fondamentali aleggia la tranquilla costante e concreta presenza della nonna defunta da tempo. Scrittura gradevolissima nella sua essenzialità.

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Destinazione Paradiso Opera terza classificata Anastasia Laurelli 9

Pontecorvo, due aprile, Giovedì Santo, ora di cena. La clinica mi ha confermato la data: mi aspettano lunedì prossimo, alle undici. Mamma non sa niente, non la prenderebbe bene. Come puoi accettare che tua figlia, affetta da SLA ma ancora autosufficiente, preferisca il suicidio assistito ad una lunga agonia? Amedeo, invece, ha capito. Vorrebbe accompagnarmi, sia in Molise che in Svizzera, ma io non voglio che il mio compagno mi veda morire. Voglio farlo da sola. Voglio tornare nei luoghi dove la mia vita ha avuto inizio per poi regalarmi una fine dignitosa, umana. Ho lasciato una lettera a mia madre, non so bene nemmeno io perché. Il cellulare è rimasto a casa, spento, sul comodino. Non voglio che mi chiami, non voglio parlare; non ce la faccio. Spero che il ricordo della Roberta che ha messo al mondo e che ha amato, prevalga su quello della vigliacca che sceglie di morire al posto di provare a combattere contro una malattia che la priverà di tutto. E’ sera, mamma è rientrata a casa da un’ora e probabilmente avrà già letto quelle righe. E le starà rileggendo mille volte, alla ricerca disperata di una 9

Anastasia Laurelli, diciottenne di Campobasso, ha frequentato l'ultimo anno del Liceo Classico ed al momento sta partecipando alla lotteria dei test di ammissione a Medicina. Ha una smodata passione per la lettura e la scrittura; annota qualunque cosa le passi per la testa, prediligendo carta e penna ai supporti informatici. La sua camera è stracolma di diari, quaderni e fogli sparsi, scritti a mano, dai quali fra gli altri ha tratto la raccolta di poesie “Mine vaganti” ed i romanzi “Fear of the dark” e “Io non devo essere niente”.

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traccia, di un indizio per rintracciarmi in qualunque posto del mondo, per fermarmi. Ma io non gliene ho dati. Lei è a Milano, io sono ferma in un autogrill sull’autostrada, fra Roma e Napoli. Troppo lontana, troppo decisa, troppo malata. A mamma e ad Amedeo ho già detto addio, ma ancora non mi congedo da quello che sono sempre stata. Ancora non mi congedo da me stessa. Gambatesa, tre aprile, Venerdì Santo, 09:30. Quando entro nel paesino molisano, la calma è impressionante e il silenzio è qualcosa di così surreale da costringermi quasi a camminare in punta di piedi per non disturbare. È un paese di fantasmi, di apparizioni che ammiccano nei bar, unici luoghi a sprigionare in rigoroso silenzio un po’ di calore umano. Camminando, riconosco la casa dei nonni, riscopro i panorami incorniciati tra i vicoli, vedo in lontananza paesi di cui non ricordo il nome. La bellezza del paesaggio, però, stride con lo stato dimesso del centro abitato; ogni tre metri sono costretta ad uno slalom per un topo schiacciato, per i troppi escrementi di vari quadrupedi, per la pavimentazione sconnessa. Le vecchiette mi guardano di traverso, convinte di essere invisibili dietro le loro tendine a fiori di velo e, in mezzo alla strada, mi fermano mentre fotografo tutto quello che posso, e mi chiedono: «Ch’ iè mo? Altre tasse?», con la paura della miseria negli occhi. I galli cantano, lontani, e il paese mi sembra una gigantesca stalla per pochi animali. Alcune persone mi salutano, perché “qua ci conosciamo tutti e anche se non ti ho mai visto in vita mia, che ne so se non sei il parente di qualcuno che conosco?”. Nel centro cittadino, piante rampicanti ormai secche sostengono case diroccate e fatiscenti, morte come chi le aveva curate e abitate nei secoli. In piazza c’è un carro armato, un monumento ai caduti, 47


una memoria delle Grandi Guerre. Mi fiondo nel secondo bar aperto incontrato lungo la strada e mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, in un’epoca non mia, gli anni Settanta. Non so bene perché proprio i Settanta, ma è questa l’impressione che ho. In quel ritrovo con le pareti rivestite in plastica, vengo avvolta dall’odore della carne di maiale, del cucinato, della legna. La crema del caffè che sorseggio è così corposa da ricordarmi, una volta aggiunto lo zucchero, due labbra carnose e scure, che inghiottiscono golose, quei piccoli granelli. Il listino, noto con stupore, ha ancora il simbolo del “vecchio conio” ed i prezzi con la virgola dell’euro. La cameriera mi scruta, acida, e io non posso fare a meno di notare le macchie di sugo e di caffè sul suo mandazino dalla gonnellina blu e il corpetto a strisce bianche e azzurre. E ripenso, mentre vado via, alla filastrocca con cui nonna prendeva in giro mio padre, originario di questo piccolo paesino: «Iammatesa, brutta gente e male paese. Tant’ so’ malament’ che pure la ierva è pungchente.» Tufara, tre aprile, Venerdì Santo, 12:00 La prima cosa che sento, scesa dall’auto, sono gli sguardi della gente, dubbiosi e malevoli, oserei dire arcigni, come per dire: «Chi sei? Che vuoi?» I bambini giocano in piazza, nonostante la pioggia. Su alcuni tetti crescono tra le tegole quei fiori che spuntano ai cigli delle strade; un gesto di estrema ribellione della Natura sull’uomo. Anche qui il silenzio è surreale, capto il rumore del mio respiro, fino a quando non si alza il vento che comincia a gracchiare nei vicoli, insieme ai piccioni. Un bel duetto. Fra una folata e l’altra, il silenzio torna, forte, come un 48


avvoltoio che mi gira intorno. E mi sento un fantasma che infesta questi luoghi. Alcuni cani – sembrano barboncini - mi corrono incontro ringhiando ed abbaiando forte, ma vogliono solo annusarmi, giocare, strappare una carezza. Vedo una lavanderia in una stanza in un seminterrato; ha solo un’apertura, una porta con una fitta retina al posto del vetro. All’interno una donna sta stirando con una luce così fioca, che entrambe sembrano candele in procinto di spegnersi. Ha appeso tovaglie e vestiti alle travi, mi dà l’impressione di spiare un campo di tende, ma sottoterra. Un camposanto per i patiti del campeggio. Entro nel bar del paese per una camomilla, ma il cameriere si è volatilizzato e, paradossalmente, Radio Orizzonte Molise, ascoltata ad un volume improponibile, sovrasta ogni altro rumore. Ci sono ragazzi poco più piccoli di me che giocano alle slot. Il bar vende caciocavalli. Appena fuori, torno a fotografare le colline; sembrano coperte, rattoppate con tante stoffe di filati e colori diversi. Campobasso, tre aprile, Venerdì Santo, 20:10 Sul Corso di Campobasso suono ad un citofono e chiedo ad una signora di ospitarmi sul suo balcone per vedere la processione. Con mio immenso stupore, mi apre il portone. Mi racconta che anche suo figlio ama la fotografia, quindi vuole che io faccia belle foto dall’alto. Un mormorìo sommesso si alza dalla strada, segno che la processione si sta lentamente avvicinando, dopo aver sfilato per viale Elena e poi sfiorato il Monumento dei Caduti. A quattordici anni mi arrampicai sulle spalle di mio padre per vedere il popolo venerare la Madre ed il Figlio. Già allora ero scettica nei confronti di Dio. Dicevo che era una cosa pazzesca, che non li capivo, però mi affascinavano. Mi affascinava il loro credo, la loro 49


fede cieca. Sento il “Teco Vorrei” sempre più vicino. Mi ricorda il rombo del mare che schiaffeggia gli scogli. Prima piano, un sussurro, poi forte, un urlo nel cuore della notte, poi di nuovo piano, pianissimo, fortissimo. E cresce, cresce, si gonfia, tace, esplode. Nell’osservare il corteo sacro, la mia attenzione viene catturata da un gruppo di medici vestiti con panni da clown e, subito dopo, persone disabili. Due modi per dare modo a chi crede di vedere qualcuno per cui ringraziare Dio e Suo Figlio. Ed eccolo, il coro. Puntini, ecco cosa vedo. Formiche, o forse stormi di uccelli neri, che avanzano verso di me. Maschere imperturbabili che cantano, cantano con un’unica voce struggente, straziante. Un esercito di cristiani che, se volesse, potrebbe espugnare la città a colpi di angoscia. I tamburi che accompagnano il coro mi ricordano i passi di un gigante che si avvicina, minaccioso, per schiacciarmi, per schiacciarci. Tutti. Un bambino scoppia a piangere al passaggio dei Cavalieri di Malta e del Sacro Sepolcro, proprio come facevo anch’io da piccola al passaggio della “Dama in Nero”, la donna che da bambina avevo battezzato in quel modo e che mi spaventava nel ruolo che mi sembrava di vedova a lutto al seguito del feretro dell’amato. «Sciocchina - mi apostrofava nonno - di cosa hai paura?» E rideva affettuosamente di me. Il funerale di Gesù, il suo lungo corteo funebre, mi danno la consapevolezza della mia fine imminente; non ce la faccio, non tollero più quella vista. E scappo, scappo via da quella casa, da quella donna che tanto gentilmente mi ha accolto.

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Berna, sei aprile, 10:45 Forse avrei dovuto regalarmi quel viaggio in Molise molto tempo prima. Molto prima di morire. Forse avrei dovuto portare con me Amedeo, o forse mamma. Forse i miei ultimi giorni li avrei dovuti donare a loro e non alle mie radici. Ho sempre creduto di non sapere chi fossi, una sconosciuta nella nebbia della mia vita. Adesso so chi sono, ma questa certezza non mi servirà più a niente. Roberta De Martinis scomparirà dalla faccia della terra. Tra quindici minuti. Roberta De Martinis non sarà altro che un ricordo. Roberta De Martinis abbandonerà il suo corpo senza avere certezze su quello che succederà dopo. Tra quattordici minuti. Il mio bagaglio, macchina fotografica, chiavi della macchina, questo diario, le mie ceneri, non saranno altro che memento per chi rimarrà, ricordi che faranno soffrire. Ma io, Roberta De Martinis, morirò con la consapevolezza di aver vinto la mia inutile sofferenza e di aver scoperto chi sono.

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Destinazione Paradiso di Anastasia Laurelli Commento critico a cura di Mina Rusconi Una ricerca di se stessa e delle proprie radici prima di mettere fine alla propria vita, con la consapevolezza di aver scoperta la propria identità. Una narrazione di un’estrema lucidità che tocca l’argomento dell’eutanasia senza pietismi e sdolcinature. Linguaggio asciutto e, dato il tema trattato, estremamente efficace.

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Lo chiamavano Pinnacolo Opera quarta classificata Filippo Taddia 10

All’anagrafe è Eros Tamburini, fu Vittorio, di anni sessantotto. Perché in paese lo chiamino Pinnacolo non si sa con certezza. Un’ipotesi piuttosto accreditata sull’origine del soprannome fa riferimento alla straordinaria capacità di Tamburini nel gioco delle carte. Si dice che, in gioventù, abbia spennato addirittura il Conte Marino Bentivoglio, maestro nell’arte del poker. Si dice che da quella sera iniziarono le sue disgrazie economiche, del Bentivoglio intendo, che com’è finito lo sappiamo tutti ed è superfluo raccontarlo. E’ utile ricordare, invece, che in paese le buone storie come quella di Pinnacolo non hanno alcun bisogno di essere anche vere. Una carpa appena pescata pesa un chilo, domani ne peserà due, dopodomani sarà un salmone e cos’era all’inizio lo abbiamo già dimenticato. Una buona storia allieta la tavola, quando è povera e quando è ricca: questo basta e avanza. Bene. Sappiamo che Eros Tamburini gioca bene a carte, sappiamo che al bar del Borgo fanno a gara a stare in coppia con lui, sappiamo che lo chiamano Pinnacolo. E perché non Briscola, allora? O Scopone? Perché non Poker, giacché a quello Eros deve la sua ricchezza? Andate al Borgo voi stessi e tentate con la domanda 10

Filippo Taddia, nato nel 1982, è originario di Pieve di Cento, nella nebbiosa provincia bolognese, protagonista di tante sue storie. Lavora a Bologna in una caffetteria che è diventata ormai la sua seconda casa. Scrivere per l’autore è un hobby, un divertimento e un sogno.

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secca, a bruciapelo: “Ma a Eros Tamburini perché ci dite Pinnacolo?” Gli uomini, senza alzare la testa dalle carte, risponderanno a mezza bocca: “Dmandal ai dòni.” Chiedilo alle donne. La seconda ipotesi sull’origine del soprannome sposta la nostra attenzione da un mobile, il tavolo, a un altro, altrettanto comune in tutte le case: il letto. E’ nel letto, in particolare quello degli altri, che Pinnacolo ha costruito la sua leggenda e così tante sono state le avventure e tanto sconvenienti che vien quasi da pensare che il padre Vittorio, pace all’anima sua, avesse già in mente qualcosa sul futuro del figlio quando si presentò dal Monsignore per il battesimo e decise di chiamare il piccolino Eros. Avesse scelto Virginio, forse racconterei un’altra storia. Eros Tamburini, da giovane, era di una bellezza che potremmo definire maledetta. Parliamo degli anni sessanta e a Bologna si era tutti poeti, militanti o, più spesso, entrambe le cose. In paese l’onda della città arriva sempre in ritardo eppure anche in campagna le ragazze s’invaghivano già, e piuttosto in fretta, di una zazzera di lunghi capelli neri come quella che Pinnacolo sfoggiava così, senza darci peso. Gli altri giovanotti intanto, la domenica davanti alla chiesa, s’interrogavano sui propri fallimenti d’amore, sistemandosi l’un l’altro i nodi sempre troppo stretti di vecchie cravatte che si credevano senza tempo. Le mamme, poi, dicevano chiaro e tondo alle figlie di stare alla larga da Tamburini, che si accasassero piuttosto con questo o quel partito, ottenendo, com’è ovvio immaginare, l’effetto contrario: insaporire la leggenda, che già correva di bocca in bocca, con il gusto squisito del divieto. Le ragazze cadevano, a una a una, tra le braccia del giovane Eros, ansiose di cibarsi di un piatto così succulento qual è l’amore proibito. Gli anni passano in fretta, le abitudini non cambiano mai. 54


Un tempo erano le mamme a preoccuparsi dell’innocenza delle figlie. Oggi, la vita segue il suo corso, al loro posto ci sono i mariti. Se Pinnacolo una mattina non si presenta al bar, tutti sanno il motivo e si guardano l’un l’altro, cercando di capire chi sia la prescelta. Prima di rientrare i mariti, per sicurezza, avvisano e, una volta a casa, come segugi, fiutano i segni di qualche visita inopportuna. A volte trovano ad attenderli la tavola imbandita, con il vino buono e il brodo caldo, neanche fosse domenica. Allora sanno, capiscono che le loro donne si vogliono scusare. Perdonano con facilità, i maschi, se li metti con le gambe sotto la tavola e, perché no, ringraziano chi, come Pinnacolo, adempie un dovere che a loro risulta ormai ingrato. Tortellini freschi e purè di patate: questi sì sono piaceri buoni per tutte le età. La pancia piena, a volte, conta più dell’orgoglio, che tutto quello che l’occhio non può vedere certo al cuore male non farà. Il cuore, appunto. “180 la massima, 140 la minima. L’ECG mostra degli intervalli sospetti che consigliano un monitoraggio periodico. Per farla breve, Eros, il suo cuore va un po’ troppo in fretta.” La dottoressa non ha più di quarantacinque anni. Volto scavato ma bello. Dolci braccia lisce, fatte per essere accarezzate. Occhi neri. “Il cuore va veloce? Eh, cosa vuole che sia. È peggio se si ferma no?” risponde Pinnacolo, arricciandosi la punta dei baffi con le dita. “Beh, in un certo senso. Vede, il nostro corpo ci manda dei segnali e noi dobbiamo leggerli finché siamo in tempo. Il suo le sta dicendo di non correre.” “Glielo prometto dottoressa: niente più maratone.” “Apprezzo il suo spirito Eros ma è meglio non scherzare sa? Mi ascolti bene.” “Sono tutto orecchie.” “Uractone, una pastiglia a metà mattina, per favorire la 55


diuresi. Cardioaspirina, partiamo con mezza compressa a metà pomeriggio, poi vediamo come va. Si ricordi che il cuore è un muscolo abitudinario, scelga un orario, diciamo le sedici, e provi a essere rigoroso. Una di Selectin 500, un aiutino per il colesterolo, e direi basta per adesso. E’ abituato a prendere medicinali?” “Un bicchiere di Lambrusco, a cena.” “Per quello non ci sono controindicazioni. Solo se è fresco però.” “Farò finta che me l’abbia ordinato il dottore.” “Visto che mi sembra molto attento le aggiungo una compressa di Pantoprazolo per non far soffrire l’apparato gastrointestinale. Le sto scrivendo tutto comunque.” La penna della dottoressa scivola veloce sulla carta, tracciando segni incomprensibili nella grafia propria delle prescrizioni. “Bene. Un po’ di attività fisica ogni giorno potrebbe aiutare. Diciamo una passeggiata di un’oretta, senza stancarsi. Promesso?” “Potrei dirle di no?” “Fumatore?” “No, alle donne non piace.” “Bravo. Bevitore?” “Le ho detto: un bicchiere alla sera. Di più alle donne non piace.” “Parliamo un po’ delle donne allora, Eros. Con il cuore nelle sue condizioni bisogna stare attenti anche a certi sforzi, se mi spiego.” “Sarò delicatissimo.” “Mi raccomando eh? Delicatissimo. Questo alle donne piace.” “Ci conti.” “Ci vediamo fra un mese per un controllo.” “Mi sta dicendo che dovrò aspettare un mese per rivederla? Questa sì è una cosa che fa male al mio cuore.” “Temo che dovrà pazientare con me. Come vede non sono una facile.” 56


“Ottima risposta. Le porterò dei fiori allora, e vedrà che l’appuntamento successivo sarà più ravvicinato.” “La prendo come una piacevole scommessa. Ah Eros, dimenticavo: il caffè è assolutamente vietato.” Questo Pinnacolo non se lo aspettava proprio. Certe giornate ci sono solo in pianura. Primi giorni di luglio. Ti alzi presto e fa già caldo. Poi piove mezz’ora, così tanto che ti chiedi se smetterà mai. Termina l’acquazzone e il sole risucchia vorace l’acqua dai campi, lasciando sospese a mezz’aria gocce che non temono nessuna resistenza, ti penetrano nel corpo e ti bagni così tanto, il tuo sudore mescolato a un’umidità inumana, che se il sole fosse appena più vicino t’inghiottirebbe in una nuvola e diventeresti, tu stesso, goccia prima, pioggia poi e, infine, mare. Era una di quelle giornate quando Eros Tamburini arrivò al bar del Borgo. Si guardò intorno circospetto, tenendo ben nascosto nella tasca della giacca di lino il sacchetto bianco delle medicine. Poi si schiarì la voce e ordinò: “Un orzo.” “Tazza grande o tazza piccola?” “Grande, grazie.” Non che il sapore fosse cattivo, anzi. Sapeva di dolce, di delicato. Sapeva d’infanzia. Come quando si alzava per andare a scuola e c’era la mamma in cucina ad aspettarlo, con il latte mescolato all’orzo solubile, le fette alla marmellata di fichi e, soprattutto, quel bacio sulla fronte. Terminata la tazza, però, le gambe erano stanche, vuote, come capita i primi giorni di primavera. Le braccia non erano elettriche, pronte per afferrare e sostenere, che è il loro mestiere, si tratti di carte o di teneri corpi di donna. Il cuore batteva regolare, unica consolazione per Pinnacolo che, fiutando la tazzina, si era ritrovato bambino ma, appena finita, aveva capito, per la prima volta nella sua vita, di essere vecchio. 57


“Stai con me oggi?” gli chiese Govoni. Gli avversari erano Cavana e Gotti, il gioco la briscola e chi perdeva, la sorte sa essere beffarda quando vuole, pagava il caffè. Il gioco lo conosciamo tutti. La prima mano non si parla, ci sono i segni per comunicare senza essere visti, all’ultima mano ci si scambia le carte e via così, tra carichi, lisci e fermini. E’ un gioco semplice, la briscola. Le abilità richieste si chiamano fortuna e memoria, doti di cui il buon Dio ha fatto dono a Pinnacolo in abbondanza e il Conte Bentivoglio ne sa qualcosa. Quella mattina, però, l’espresso lo pagò Pinnacolo. Né Gotti né Cavana aggiunsero zucchero: Eros aveva perso e il loro caffè non era mai stato così dolce. Il giorno dopo faceva ancora più caldo. Eros appoggiò il gomito al banco del Borgo e ordinò: “Un orzo, in tazza grande.” “Ciao Govoni, facciamo una partita?” chiese. “Siamo già in quattro” rispose l’altro. Intendeva dire: “Oggi voglio vincere.” Quel giorno Pinnacolo non giocò a carte ma poco male. Forse l’avrete già intuito ma sull’origine del soprannome prendo posizione sulla seconda ipotesi, che siano cioè le abilità amatorie all’origine di tutta la vicenda. Gianna Pozzi vedova Testoni aveva messo le lenzuola pulite. Sotto la camicetta viola acceso, il suo colore preferito, risaltavano le forme ruvide di una donna emiliana. La chioma sostenuta sopra, il petto forte sotto, la carne da afferrare intorno, nei posti giusti, un po’abbondante magari, ma piacevole e profumata. Quando Pinnacolo entrò in casa, la moca era già sul fornello. “Oggi niente caffè, grazie Principessa” disse, e la prese per mano accompagnandola verso la stanza da letto. Si studiarono, si accarezzarono, si baciarono, si spogliarono: il rito eterno dell’amore, uguale a ogni età. Poi venne il momento. I loro corpi nudi, assetati l’uno 58


dell’altro. Era tutto perfetto. Quasi tutto. “Spero di non essere io il problema” disse Gianna sorpresa. “Stai tranquillo, non c’è fretta” disse ancora. “Può capitare” aggiunse, infine. Non disse altro e si rivestì. Può capitare, è vero. Non a Pinnacolo, però. “Eccoci qua, Eros, ben ritrovato. Mi aspettavo i fiori.” I capelli sono tagliati di fresco, ieri al massimo. “Mi perdoni dottoressa. È stato un mese difficile per un vecchietto come me.” “Vediamo un po’ se è stato bravo.” Lo strumento avvolge soffice il suo braccio destro appoggiato sul tavolo, ma è il contatto con la mano calda di lei sulla pelle che lo ridesta come da un sogno. I loro occhi s’incrociano, per caso, poi la presa si fa sempre più forte, sopportabile solo perché è lei a decidere quando smettere. “130 su 90, andiamo alla grande. E’ contento?” “Di vederla? Certo.” “Mi fa piacere. E mi dica un po’: come si sente?” “Ho voglia di un caffè.” “Era abituato a berne molti?” “Beh la mattina non si parte senza un caffè. Dopo pranzo mi manca da morire. E ogni tanto la sera, solo se ho programmi seri però.” “E le capita spesso di avere, come ha detto lei, programmi seri?” “Non tanto, ultimamente. Mi sento svuotato. Non ho energie. Sarà la primavera. O forse le primavere.” “Via Eros non faccia così adesso. Uno come lei, con la sua vitalità. Facciamo un tagliando e tornerà quello di prima.” “Mi fido di lei, dottoressa. Ma neanche se ho un programma molto molto serio, non so tipo invitarla a cena, posso farmi un caffettino?” 59


Lei ha un sorriso sottile, non si vedono i denti ma si gonfiano le guance e il piccolo neo nero lì, appena sotto l’occhio destro, brilla nella luce dell’ambulatorio come un chicco appena tostato. “Ci vediamo fra un mese Eros.” Gianna Pozzi vedova Testoni fu solo il primo intoppo, poi ne vennero altri. Sara, Elvira, Letizia, Maria, alcune ne mancano, alcune sono inventate, di una vedova si fa il nome per intero ma di una donna sposata è meglio non parlare. Il telefono di Eros Tamburini non suonava più. Quello che era stato era stato. La gratitudine non ha nulla a che fare con la passione; il ricordo niente da spartire con il desiderio. Toccò ai mariti sfidare l’afa di quel mese di agosto, rispolverando carezze che credevano di non conoscere più e, invece, si ammucchiavano, distrattamente, in qualche cassetto dimenticato del cuore. Il paese visse una nuova primavera a estate inoltrata. Eros Tamburini trascorreva le sue giornate camminando. Osservava la campagna fiorire. Si fermava a fare due chiacchiere con gli uomini che raccoglievano le ultime angurie. Andava a fare la spesa, quasi tutti i giorni, per godersi una mezz’ora di aria condizionata. Si alzava e aspettava che facesse sera per bere un bicchiere di Lambrusco fresco. Al bar ci andava poco ma nessuno s’insospettiva più. Ormai, per tutti, era diventato soltanto Eros. Agosto volò in fretta, poi settembre, poi ottobre. Un mese uguale all’altro. Eros e la Vita, fieri compagni di molte battaglie, si guardavano l’un l’altro, senza parlare. Erano entrambi impotenti, seppur in modo diverso, di fronte alla noia che li stava accartocciando, come morte foglie d’autunno, buone ormai solo per essere sbriciolate. Il tre novembre si svegliò, come sempre, chiedendosi che tempo avrebbe fatto. Accese la televisione e si accorse 60


che era il suo compleanno. Decise di uscire per passeggiare un po’. Davanti alla porta di casa c’era un pacco. Il nastro intorno era di un viola acceso. Il biglietto, anonimo, recitava così: Non si può vivere da malati per morire da sani. Buon compleanno. Il sacco all’interno profumava di un odore dimenticato. Dentro c’era un chilo di caffè. Certe giornate ci sono solo in pianura. Primi giorni di novembre, poco dopo Ognissanti. Ti alzi e fuori c’è un muro grigio, tanto spesso che ci stendi dentro un braccio e subito dopo, impaurito, lo tiri indietro, per vedere se c’è ancora tutto. Ma la nebbia è molto più di questo, in pianura. È uno stratagemma che la natura usa per rimescolare le carte del mondo senza dare nell’occhio, lavori in corso tra stagioni che passano, muto cambiamento, rivoluzione. Respirando la bevi, questa nebbia, la ingoi e ciò che accade fuori succede anche dentro, ti avvolge una trasformazione silenziosa, invisibile, dalla quale non puoi proteggerti. E' l’occasione, insperata, di fermarti e guardarti dentro, senza usare gli occhi. C’è di tutto dentro alla nebbia, tranne quel poco che vedi. Era una di quelle giornate quando Eros Tamburini arrivò al bar del Borgo. Si guardò intorno circospetto con le mani serrate nelle tasche, poi si schiarì la voce e ordinò: “Un espresso.” “Normale o macchiato?” “Normale, grazie.” Pinnacolo non beveva caffè zuccherato da anni ma aveva mantenuto l’abitudine di mescolarlo con il cucchiaino. Amava alla follia quel tintinnio. Quante volte, nei mesi scorsi, aveva girato il cucchiaino nella tazzina vuota. Quante volte se l’era portata alla bocca sperando di scottarsi le labbra. Questa volta, però, la tazzina era piena. Il caffè scese in 61


un attimo: una scarica. Un’emozione bollente. Un colpo al cuore. Si guardò intorno. Tutti i tavoli erano occupati da gruppi di quattro giocatori. Quella mattina non avrebbe giocato, ma poco importava. Le prime tre telefonate andarono a vuoto, la quarta colpì nel segno. Gianna Pozzi vedova Testoni rispose al telefono. Pinnacolo raggiunse la casa e trovò la moca già sul fornello. Si studiarono, si accarezzarono, si baciarono, si spogliarono: il rito eterno dell’amore, uguale a ogni età. Poi venne il momento. I loro corpi nudi, assetati l’uno dell’altro. Tutto andò a meraviglia. Tornarono i caffè e con loro le donne, a una a una, processione orgogliosa e impudica di corpi cui gli uomini, passata l’estate, avevano smesso di dedicare attenzione. Tornarono le occhiate sospette, al bar, tornarono le tavole imbandite della sera e le pance felici dei mariti. Tornò Pinnacolo, insomma. Eppure non tutto andava bene. Il suo cuore batte forte. Troppo forte. Chissà per quanto reggerà ancora. Giorni? Mesi? Anni? Non importa. La prima nebbia dell’anno gli aveva raccontato che non è la lunghezza ciò che rende una storia degna di essere raccontata. Un giorno in più, se vissuto da qualcun altro, non ha nessun senso. Perché non si può essere un’altra cosa. Non si può vivere da malati per morire da sani. “Ti è piaciuto il regalo?” gli chiede lei aprendo la porta di casa. Pinnacolo ha in mente le medicine che ha gettato questa mattina nel bidone davanti al bar. 62


Entra e risponde solo: “Sì, grazie.” La moca è sul fornello. Bevono il caffè. Poi fanno l’amore. Lui, con un cuore malato che ha scelto di amare nonostante tutto, e lei, con quel chicco nero che le brilla sotto l’occhio destro. Berranno caffè ancora mille volte, mille volte faranno l’amore: ecco il nostro augurio. Che la vita, in fin dei conti, non è nient’altro che questo: una tazzina bollente da gustare fino in fondo.

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Lo chiamavano Pinnacolo di Filippo Taddia Commento critico a cura di Maurizio Di Benedetto

Un'ottima narrazione, con venature ironiche che regalano al lettore alcuni minuti di piacevole relax; nonostante non si possa fare a meno di – cadere - nel dilemma proposto nel finale, ovverosia: “Sarà giusto curare gli acciacchi dovuti all'avanzamento dell'età, fino al punto di fare, proprio delle cure, una vera e propria malattia? Oppure è consigliabile continuare a vivere, trascurando, seppure nei limiti del buon senso, quei segnali che vorrebbero farci rinunciare ai piccoli/grandi piaceri della vita?” Eros Tamburini, il protagonista del racconto, soprannominato “Pinnacolo” per via delle sue doti amatorie, ben note ai mariti del paese, a tale quesito, da amante incallito qual è, ha dato una sua risposta. E ognuno, dopo questa piacevole lettura, è libero di darne una propria.

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L’uomo di vetro Opera quinta classificata Antonio Bonelli 11

L'incubo più spaventoso che un uomo possa immaginare è venire sepolto vivo. Ritrovarsi lucido e cosciente rinchiuso in una bara, con la consapevolezza di essere ricoperto da un paio di metri di terriccio. Costretto in un'angusta prigione di mogano che impedisce ogni minimo movimento. Se alzi appena la testa subito urti con la fronte il coperchio del tuo sarcofago. Buio e silenzio sono assoluti. Avverti solo il battito del tuo cuore, sempre più furibondo, sempre più disperato, quasi volesse ribellarsi, fuggire, aprire le ali e librarsi in volo come un uccello, uscire infine fuori dalla gabbia toracica in cui è imprigionato. L'aria si fa sempre più stretta fino a diventare irrespirabile. La consapevolezza della fine imminente, ineluttabile perché nessuno può ascoltare le tue grida d'aiuto ti assale, ti stringe la gola. L’angoscia ti attanaglia, rende i tuoi pensieri incoerenti fino a farti precipitare in un vortice di pietosa follia. Sai perfettamente che nessuno verrà in tuo soccorso. Fra una decina d'anni o poco più qualcuno aprirà la cassa e finalmente il sole o la pioggia inonderanno di nuovo il tuo corpo. Ma sarà troppo tardi: gli occhi saranno scomparsi, al loro posto solo orbite vuote, incapaci di cogliere ancora la luce. La pelle ridotta a residui incartapecoriti non potrà trasmetterti più alcuna sensazione di freddo o di calore. 11

Antonio Bonelli, nato a Milano nel 1954, medico chirurgo specialista otorinolaringoiatra. Ha pubblicato 6 romanzi (Racconto Esistenziale; l'uomo di Mu; Ahres; Meteore; il Liber Niger e La Comune). Vincitore e/o finalista in circa 40 Concorsi Letterari nazionali e internazionali.

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Questa è la mia situazione, ma senza nemmeno la tiepida consolazione della certezza di un’agonia di breve durata. Sono un uomo di vetro e come tale destinato a rimanere per anni, forse decenni, in questo sepolcro che è il mio corpo. Nessuna possibilità di fuga. Nessuna speranza. La mia mente urla costantemente la propria ribellione contro un destino beffardo. Si scaglia furibonda, gli artigli protesi verso il nulla, ma i responsabili di questo mio essere appaiono incorporei come esili volute di fumo. Deridono la mia sterile collera, fuggono nelle tenebre dileguandosi senza subire alcun danno. Non riesco nemmeno a identificarli, ad attribuire loro un volto, un nome. Dio, che ha inteso punirmi per chissà quale colpa commessa ancor prima della mia nascita? O piuttosto i miei genitori, colpevoli di avermi trasmesso inconsapevolmente questi geni impazziti, aberranti? Sono affetto da una patologia molto rara: le mie ossa sono fragili come vetro. Sono resistenti, ma è sufficiente un piccolo urto per spezzarle. Non esiste terapia: d'altronde le ricerche scientifiche hanno ben altre priorità. Il cancro. Le malattie neurologiche degenerative. In fondo, quello della salute è un mercato come tutti gli altri. Vive di investimenti, di utili, di profitti. Che giustificano costose sperimentazioni solo se esiste una richiesta numericamente significativa. Le multinazionali del farmaco devono rendere conto ai loro investitori, agli azionisti. Non sono certo associazioni filantropiche, che diamine! Perché quindi dovrebbero aprire i loro laboratori, impegnare i loro scienziati dai nomi altisonanti, avviare studi lunghi e costosissimi solo per riuscire a scoprire una cura che potranno vendere al massimo a qualche decina di sventurati?

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I miei genitori erano consapevoli della mia condizione fin dalla nascita. Il trauma del parto mi aveva causato tre o quattro fratture assolutamente inesplicabili. Sono stati sufficienti alcuni esami di laboratorio, una biopsia per confermare la diagnosi. E per emettere una sentenza che mi condannava a vita, senza speranza di grazia o di indulto. Quindi... mi è stato precluso tutto. Dal mio balcone vedevo i miei coetanei giocare a pallone giù nel cortile, ma non mi era permesso raggiungerli, unirmi a loro. L'ora di ginnastica mi era vietata: ne ero esonerato. Mentre i miei compagni si cimentavano al quadro svedese o salivano la fune a forza di braccia io rimanevo in aula a ripassare matematica. O, più spesso, a riflettere sulla mia diversità. A quel tempo non ne ero ancora cosciente, non me ne facevo una ragione. Perché queste proibizioni? Il mio corpo infantile era sano, ne ero certo. In forze. Mi sentivo uguale in tutto e per tutto ai miei compagni. Ero sicuro di essere perfettamente in grado di affrontare quegli esercizi fisici che interrompevano la monotonia dello studio e che, potevo giurarlo, mi avrebbero giovato. Perché dunque vietarmeli? Ben presto venni isolato. La mia diversità era un deterrente formidabile. Mi trovai estromesso non solo dall'attività fisica, ma anche dalla vita sociale. Per i miei coetanei ero un individuo anormale, differente. Qualcuno di cui diffidare. Non erano in grado di analizzare il perché: le spiegazioni cliniche o scientifiche erano fuori dalla loro portata, ma lo avvertivano chiaramente e questa sensazione epidermica era sufficiente per emarginarmi. I bambini, si sa, sanno essere crudeli: amano socializzare, ma solo con i loro simili. Chi, per qualche ragione, appare diverso viene escluso, non gli è concesso aggregarsi al branco. Io ero in questa situazione. Pertanto trascorsi un'infanzia senza amici. La mia casa era un utero protettivo, ma anche 67


soffocante. I miei genitori mi colmavano di attenzioni; tentavano di compensare quel che non potevo avere soddisfacendo ogni mio desiderio. La mia cameretta era piena di giocattoli costosi. Ad ogni occasione se ne aggiungevano di nuovi. Bastava chiedere, magari distrattamente, a tavola, e il giorno successivo un nuovo oggetto inutile si materializzava di fianco al mio letto. Talvolta, ad esempio in occasione del mio compleanno, mia madre organizzava una festicciola in mio onore. Venivano invitati un paio di ragazzi della mia età che non facevano nulla per dissimulare il loro disappunto di trovarsi lì. Obbligati dai loro genitori ai quali mia madre aveva telefonato pregandoli di aderire all'invito, facendo sfoggio di quelle arti persuasive che tutte le madri possiedono. I ragazzi vivevano quell'esperienza come una costrizione, qualcosa di spiacevole che, speravano, sarebbe terminata in fretta. Mi mettevano in mano il loro dono e subito si chiudevano in un mutismo interrotto solo da pochi monosillabi, gli occhi permanentemente tenuti bassi. A un cenno di mia madre ci chiudevamo nella mia camera e io mostravo loro la mia collezione di giocattoli, stupendomi del loro stupore. Vivevamo in mondi differenti. Quegli oggetti per loro erano desideri irrealizzabili, ambiti, preziosi, solo sognati, e allora li maneggiavano con cura, timorosi di romperli e di pagarne poi le relative conseguenze. Quei trenini che viaggiavano veloci fra montagne di cartapesta e villaggi in miniatura, quelle auto radiocomandate dai colori accesi: sapevano che non li avrebbero mai posseduti, che erano al di fuori delle loro possibilità, e me li invidiavano con tutta l'intensità, il livore di cui sono capaci i ragazzini. Per me, invece, erano solo una compensazione, una sorta di risarcimento per tutto ciò che mi era precluso. E io, a mia volta, invidiavo loro: con quale felicità avrei barattato tutti quegli oggetti, venutimi a noia già immediatamente dopo esserne entrato in possesso, con 68


un'ora, un'ora soltanto di normalità! Una partita di pallone o un giro in bicicletta. Un'ora sola, non di più. Non era forse uno scambio equo?Ecco: ripensandoci adesso, fu allora che realizzai consapevolmente la mia diversità. Fra noi c'era un muro. Appartenevamo a due razze differenti. Io, condannato a vivere in un inutile agio, in un paradiso dorato del quale tuttavia ero l'unico abitante. Essi, per contro, possedevano un tesoro inestimabile del cui valore, nella loro miopia, non si rendevano conto: avevano la vita! Nulla gli era precluso. Che valore può avere tutta la ricchezza del mondo se non puoi condividerla? Mi immagino nelle vesti dell'ultimo uomo sopravvissuto. Potrei entrare in qualunque museo e dichiarare, senza tema di smentita, che tutti quei capolavori unici ed inestimabili sono miei. Nessuno potrebbe confutarmi. Ma che me ne farei? Mi renderebbe felice la consapevolezza del loro possesso? Neppure per un secondo. Dopo un paio d'ore scarse mi ritrovavo di nuovo solo. Quel breve tempo trascorso in compagnia dei miei coetanei era soltanto un pallido barlume di felicità, ma mi bastava. Doveva bastarmi: dovevo farne tesoro fino alla prossima remota occasione. Gli anni trascorsero. Divenni adolescente, quindi uomo fatto. Un uomo a metà. Non ebbi mai una ragazza. Il mio processo di crescita si svolse sempre fra mille attenzioni, scrupolosamente protetto da qualsiasi minimo pericolo. Io avevo finito per accettare quella situazione, me ne ero rassegnato. Soggiacendo alla legge delle probabilità ero rimasto vittima di due incidenti domestici. Una volta, ricordo, volli aiutare mio padre intento ad addobbare l'albero di Natale. All'improvviso afferrai una sedia e vi salii in piedi per collocare fra i rami una stella lucente di plastica. Il grido di allarme di mia madre mi distolse, 69


distrasse la mia attenzione. E allora persi l'equilibrio e caddi al suolo. Un'altra volta mi svegliai nel cuore della notte colto da una necessità fisiologica impellente. Non accesi la luce per non rischiare di svegliare i miei. D'altronde conoscevo a memoria ogni millimetro della mia prigione: sarei stato in grado di aggirarmi in ogni dove nell'oscurità più assoluta, come un cieco, con la massima precisione. Inciampai in qualcosa. Un giocattolo che non avevo riposto nel cestone, e caddi rovinosamente in avanti. In quelle due occasioni constatai dolorosamente quanto fosse vulnerabile il mio corpo e quanto penoso fosse il processo di guarigione di quelle ossa fragili che si erano infrante tanto facilmente e che mi costrinsero a lunghi mesi di immobilità e dipendenza quasi assoluta dai miei genitori. Quelle due esperienze impressero un marchio a fuoco nella mia mente. Fu lì che capii che avrei dovuto rassegnarmi. Ero un ragazzo di vetro; sarei diventato un uomo di vetro. E fu così. Smisi di sognare una vita normale. Seppellii sotto una tonnellata di considerazioni logiche ogni mio desiderio. Mi allenai scrupolosamente, meticolosamente. Questo processo di elaborazione mi impegnava costantemente: ogni minuto qualcosa mi riportava ad una realtà che non mi apparteneva. Il rombo di una motocicletta. Le risa di una ragazza. Le immagini di una corsa podistica trasmesse dalla televisione... Ecco: la televisione. Riuscii a convincermi che la mia condizione sarebbe stata, ora e sempre, quella di uno spettatore passivo. Un tifoso seduto in tribuna intento ad osservare una partita di calcio, ma mai chiamato a parteciparvi. Fu lunga, dura, ma alla fine ci riuscii. Divenne così automatico che tutte quelle esperienze a me precluse cessarono d'interessarmi. 70


Anzi, ora sortivano l'effetto opposto: mi disgustavano. La logica conseguenza fu lo sviluppo di una progressiva misantropia. Ero diverso dagli altri? Ebbene: ne ero consapevole. E, da diverso, non provavo alcun interesse per gli altri bipedi, maschi o femmine che fossero, che sciamavano schiamazzando per le strade. I miei genitori se ne andarono quasi insieme, a pochi mesi di distanza l'uno dall'altra. Fu giusto così: si amavano teneramente; erano indissolubili, un'unica entità, e nessuno dei due avrebbe sopportato la perdita dell'altro. Mio padre era un avvocato di successo e aveva accumulato un discreto patrimonio. L'eredità mi liberò per sempre da qualsiasi preoccupazione economica. E allora iniziai il mio secondo cambiamento. Non c'era più nessuno a prendersi cura di me. La governante che veniva ogni mattina a sbrigare le incombenze domestiche si occupava solo degli aspetti pratici della casa. Io, per lei, ero solo un mobile, una suppellettile dotata della singolare capacità di muoversi e parlare. Uscivo sempre più di rado e solo se era strettamente necessario. Per strada venivo colto da attacchi di ansia acuta, di agorafobia che quasi mi facevano perdere i sensi. Tutto attorno a me rappresentava una minaccia. Un'auto in corsa avrebbe potuto sbandare all'improvviso e travolgermi. Un passante distratto urtarmi e farmi cadere. Un vaso di fiori piombarmi addosso da un cornicione... Finì che rinunciai ad uscire. Volontariamente, mi rinchiusi in questa prigione di sei vani e, consapevolmente, ne gettai la chiave dalla finestra. Naturalmente, mi organizzai. La casa era sempre pulita ed in ordine: la domestica se ne occupava meticolosamente. Ordinavo ciò che mi necessitava tramite telefono o computer e tutto, dai cibi ai libri agli abiti nuovi, mi veniva puntualmente recapitato a domicilio. 71


Come trascorsi le mie giornate? Gli anni, uno ad uno, come pagine bianche distaccatesi da un blocco e subito disperse dal vento? Da spettatore distratto. Avevo i miei amati libri, la televisione e, al mattino, il quotidiano fresco di stampa posato sullo zerbino all'ingresso. E le emozioni, mi chiederete? I desideri? Quisquilie! Sono solo parti della nostra mente. E' sufficiente ignorarli e, dopo un certo tempo, come uccelli annoiati si leveranno in volo e scompariranno all'orizzonte. Per non infastidirti mai più. Ho ritrovato questi vecchi appunti dimenticati nel fondo di un cassetto. L'inchiostro sbiadito, la carta ingiallita. Al rileggerli mi si sono inumiditi gli occhi. Per la prima volta, dopo troppi decenni ho riassaporato la strana, dimenticata sensazione di un'emozione. Di un'ondata anomala che stravolge le acque placide di una perenne apatia. Sono vecchio e, credo, prossimo alla fine naturale. Sono seduto qui, su questa poltrona di pelle consunta dove ho trascorso ogni pomeriggio degli ultimi quarant’anni. Strani pensieri mi assillano. Mi torna alla mente "Aspettando Godot", la nota commedia di Beckett. Beffardo pensiero, nato da chissà quale strana associazione mentale. Mi ci ritrovo, non posso farci nulla. Quella parte mi s'attaglia alla perfezione. Godot sono io, senza alcun dubbio. Un paradosso vivente. Il protagonista che rimane fuori dalla scena per tutta la durata della rappresentazione, che non compare mai. Neppure per un istante. Un fantasma incorporeo attorno al quale, tuttavia, ruota tutta la trama dell'opera. Anch'io non ho mai realmente vissuto; sono stato soltanto un parassita delle vite altrui. Un insignificante voyeur. Cosa lascio dietro di me? Assolutamente nulla. Se analizzo la mia intera esistenza, ogni attimo, mi 72


accorgo solo ora di averli sprecati tutti. Tutti, senza alcuna eccezione. Sono rimasto alla finestra, al sicuro, dietro le persiane, osservando la vita passare sotto di me. Finché non è fuggita dedicandomi un sorriso di scherno prima di scomparire dietro l'angolo. Mi ripeto che non è stata colpa mia: la mia salute mi ha costretto a una scelta tanto drastica, tuttavia... Navigare necesse est. Vivere non est necesse. Non è necessario sopravvivere; lo è il vivere, in una libera traduzione. E' un motto inciso sul faro di Belem, in Portogallo, ad incitazione e monito per i naviganti, e venne ripreso da Gabriele d'Annunzio come incipit di uno dei suoi capolavori. Un ideale romantico, francamente demodé al giorno d'oggi. O no? I dubbi mi assalgono. E' stato giusto vivere così? E, soprattutto, che significato dare a questa mia vitanon-vita? Un pesciolino rosso in una boccia di vetro. Le necessità biologiche elementari puntualmente esaudite da una mano amica. L'acqua cambiata ogni giorno. Il mangime, polvere fine, sparso sulla superficie a intervalli regolari, prestabiliti. E per il resto? Un inutile interminabile girare e girare, schivare le piantine di plastica incollate sul fondo, e osservare con occhi vacui, forse disinteressati, la realtà circostante, deformata dall'acqua e dalla curvatura della boccia. Al suo interno, nessun pericolo. Una bolla di sicurezza assoluta. Ma a che prezzo? Mi sento quel pesce. Mi sono costretto a diventarlo. Non c'è alcuna differenza fra noi due: esso rappresenta l'essere vivente più simile a me, molto più di ognuno dei sette miliardi di persone che popolano il nostro pianeta. A quale scopo? Non ne trovo nessuno. Credo in Dio, anche se per la verità non sono un cattolico fervente. Se dovessi giudicare il mio operato con gli occhi del Sommo Giudice, come mi pronuncerei? Quali azioni descriverei 73


per giustificare il mio ingresso nel Mondo dei Giusti? Per quanto mi sforzi non me ne viene in mente nessuna. Se avessi avuto un figlio, o magari più di uno, almeno avrei contribuito al perpetuarsi della mia specie. In fondo, l'etica della vita, lo scopo ultimo di ogni essere vivente è il rinnovo generazionale attraverso la riproduzione. La vita non ha altra etica se non la vita stessa: può essere definita un sistema chiuso. Io non ho mai avuto un amore, neppure nell'adolescenza. Non ho mai baciato una ragazza né provato quelle emozioni indicibili che tanti scrittori hanno tentato di descrivere nei loro libri e che io ho solo potuto immaginare. Lascerò qualcosa ai miei posteri? Solo la mia casa e i miei averi ad eredi che neppure conosco. Oggetti che finiranno in case estranee, oppure venduti all'asta. Oggetti, sempre e solo oggetti. Cose inanimate cui noi e solo noi attribuiamo un valore, un significato. Comunque, i soli amici, gli unici compagni di viaggio che io abbia avuto ma che, pur ridimensionati, pur nell’imminenza di un nuovo destino, seguiteranno ad esistere. A sopravvivermi. Le mie giornate sono trascorse una ad una tutte uguali, direi identiche al secondo. Ho fatto tesoro del mio tempo libero? La risposta è ancora negativa. Di nuovo mi sono comportato da parassita, da voyeur, leggendo e assimilando ciò che altri avevano prodotto, ma senza mai creare qualcosa di mio. Ho letto migliaia di libri; non lascio scritto neppure un rigo. Ho sfogliato migliaia di riviste scientifiche; non lascio neppure una semplice considerazione elementare. E allora? Questo pesce rosso con il dono dell'autoconsapevolezza, una volta giunto al termine del proprio cammino (cammino: che buffa parola! In realtà si è trattato soltanto di trasferirsi da una stanza all'altra: pochi sterili passi), che bilancio può trarre dal proprio vivere? 74


E' stato giusto? Sopravviversi, assecondare quel perverso istinto di conservazione rifuggendo ogni rischio solo per giungere, infine, a questo traguardo? Io incanutito, ingrassato, imbolsito, che dalla mia poltrona irrido il destino illudendomi di averlo beffato semplicemente sopravvivendo? O non sarebbe stato meglio lasciarsi andare una volta, una volta sola, tanti anni fa, e bruciare la mia esistenza in pochi istanti di pura emozione, come una falena attratta dalla fiamma? Forse sì. Ma ormai è troppo tardi. In fondo, c'è un aspetto positivo. La totalità dei miei simili ha terrore della morte. La cessazione della propria esistenza, lo spegnersi della propria autocoscienza sono intollerabili, inaccettabili per qualsiasi mente. La mia, al contrario, ne è indifferente, rassegnata. Addirittura quasi lieta. Perché vedo in essa il compimento della perfezione. Il mio disegno portato, infine, a termine. Il mio corpo sigillato in una cassa di legno delle mie misure. Chiusa accuratamente con viti e chiodi robusti. Sotto il mio capo un cuscino morbido di raso. Io, in comoda posizione supina. Per l'eternità. E, infine, tutto il mondo fuori. Quel mondo irto di pericoli tenuti accuratamente all'esterno dell'uscio di casa, ma pur sempre minacciosi, sempre in procinto di trovare una strada o un pertugio. Di irrompere. Bene: quel pericolo non ci sarà più. Tra me e il mondo ci sarà una barriera insormontabile di legno e terra, con l'ultimo suggello di una robusta lastra di marmo. Solo allora sarò davvero al sicuro. E le mie ossa di vetro infine non correranno più alcun rischio.

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L’uomo di vetro di Antonio Bonelli Commento critico A cura di Maurizio Di Benedetto Cattura già dall'incipit, tanto per la drammaticità dei contenuti, quanto per l'originalità dell'esposizione. Il protagonista racconta la sua storia in due momenti diversi della vita: il primo, in gioventù, nel quale, a causa di una rara malattia che lo costringe all'esilio tra le proprie mura domestiche, rinuncia a vivere e del suo stato se ne fa persino una ragione: “E le emozioni, i desideri? Quisquilie! È sufficiente ignorarli e dopo un certo tempo, come uccelli annoiati, si leveranno in volo e scompariranno all'orizzonte”. È nel secondo che invece, ormai prossimo alla fine naturale, si domanda: “E' stato giusto sopravvivere? O non sarebbe stato meglio lasciarsi andare, anche una sola volta, tanti anni fa, e bruciare la mia esistenza in pochi attimi di pura emozione, come una falena attratta dalla fiamma?” Un vero concentrato di emozioni, perfettamente trasmesse.

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Il robivecchi e il pescatore Premio della Giuria Francesco Destro 12

Non li dimenticherò mai, quel suo sguardo e quel suo sorriso stracco, di quando tornava a casa la sera calpestando sommessamente i ciottoli del cortiletto senza fiori. È una storia ormai vecchia, questa, di quando mio padre era pescatore e io robivecchi, di quando mia madre era ancora viva e la vita sembrava fatta di sempre. Sempre la povertà sembrava la casa in cui avrei abitato, sempre mio padre rincasava tardi e io, in piedi o inginocchiato su una sedia, sempre lo aspettavo nel silenzio più perfetto, scandagliando senza sosta il piccolo lembo di mondo visibile dalla finestra della mia camera da letto: il mio cuore aveva sempre un balzo, quando finalmente lo scorgevo nel buio o nella gelida carezza della nebbia, se d’inverno, quando allora rimaneva visibile solo che un gruppo di alberi spogli, quasi sculture sullo sfondo del limitare del prato davanti al cortile. Camminava sempre piano, in avanti, quasi poggiando le mani sul dorso di quel terreno screpolato dal salnitro, spesso risalendo l’ultima parte del promontorio come se fosse quella del destino: la risaliva col fiato corto, quella china, improvvisamente spoglio di tutto, soltanto stupito o forse affranto da come talvolta si passa il tempo a mietere mali che non si sono seminati. E all’improvviso era come se dentro sé si riscuotesse, protendendo il naso verso un fievole odore proveniente dalla cucina e lo 12

Francesco Destro, nato a Padova nel 1994, studente di Lettere Moderne presso l’università degli studi di Padova, dove risiede. Ha cominciato a scrivere poesie e racconti quattro anni fa. Nel 2014 uno dei suoi lavori riceveva una menzione d’onore al premio Thesaurus, mentre una poesia è risultata tra le opere vincitrici nell’ultima edizione del Premio in memoria di Lorenzo Cresti.

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sguardo verso l’alto, verso la mia finestra, verso i miei occhi carichi di aspettative: nasceva allora sul suo viso quel sorriso stanco se vedeva che io lo aspettavo, e se non lo vedevo lo sentivo, quel suo sorriso da cui non toglievo gli occhi, giusto il tempo di raggiungerlo lì in strada, senza attendere che entrasse; correvo giù per la scala ripida e stretta, spalancando la porta e lasciando che l’aria fredda turbinasse nella stanza, terminando la corsa tra le sue braccia ancora avvolte in una cerata che sapeva di pesce vecchio, troppo vecchio. Solo allora, stringendolo per lungo tempo, solo allora curioso e talvolta speranzoso gli chiedevo che cosa ci avesse portato, sebbene già i suoi occhi dalla strada mi avessero detto che anche per quella sera non si sarebbe mangiato che quel qualcosa da me pescato o guadagnato con gli spiccioli del giorno. Non che fosse stato sempre così, eravamo poveri anche prima, sebbene di una povertà dignitosa che ci aveva sempre permesso di vivere senza troppe preoccupazioni, così come il resto delle famiglie del villaggio, d’altronde, l’unico su quell’isola non troppo grande e non troppo vicina alle rive del continente. Ma con l’arrivo della cattiva stagione di quell’anno le cose cominciarono ad andare male, sebbene nessuno riuscì - né al momento né in seguito - a capire il motivo della carenza di pesce. Del resto, parve a tutti un inverno uguale agli altri, né più mite né più rigido di quelli che lo avevano preceduto, e non c’era motivo di sospettare un calo della riproduzione dei pesci, anche fra quelli più pescati. Non a tutti andò male, però: il problema aveva colpito tutto l’isolotto, certo, ma non in modo eguale: ci fu comunque chi ebbe più fortuna di altri, forte delle scorte fatte in estate per affrontare al meglio i rigori dell’inverno o di piccoli risparmi, intaccati per resistere alla carenza di pesce da vendere o barattare. Nel nostro caso, eravamo tra le famiglie meno fortunate, e mio padre faceva parte di quel piccolo gruppo di pescatori che meno ricavava dalle loro uscite in mare. Ogni sera rientrava sempre più sfibrato, 78


disilluso, forse in rabbia col buon Dio, eppure aveva ancora la forza di ridere e di portarmi di peso a letto, sollevandomi come una bambola di pezza di cui lui era il padrone, stanco, con la barba lunga, una giacca sbrindellata, pantaloni rattoppati e una moglie malata da tanto, troppo tempo. Era allora che senza farmi notare lo osservavo bene, studiando quasi con rigore clinico quei suoi occhi arrossati dal salso e quella pelle raggrinzita dal freddo, dal vento, dalla fame, la stessa che io e mia madre covavamo nello stomaco e nel cuore. Fame di cibo, fame di tempi migliori, quando il mare avrebbe ricominciato ad essere generoso donando pesche fruttuose a chi mai, come noi, l’aveva maltrattato. Quand’ero piccolo mio padre andava anche di notte a pescare: era raro che lo facesse, però, non essendo mai stato un vero amante della pesca in notturna, e durante quel periodo di magra parve rifiutarsi di farlo più del solito. Non occorreva aggiungere sfortuna ad altra sfortuna, credo volesse dire con la sua rinuncia a tentare: la speranza sembrava essere un concetto distante, fuori da quell’esistenza con cui faticava a riappacificarsi. Dormiva male, la notte, dalla mia camera lo sentivo spesso rigirarsi nel letto e quasi sempre, se mi alzavo per controllare mia madre, lo sorprendevo a guardare nel buio fuori dalla finestra, le mani screpolate strette dietro la schiena. Pregava? Meditava? Piangeva interiormente, maledicendo il mare e il Cielo? Ancora adesso lo ignoro: né io né mia madre facemmo mai cenno a quelle sue inquietudini notturne. A ogni buon conto, lui non ci diceva niente e anche noi tacevamo, tenendoci dentro qualsiasi suggerimento di provare a pescare anche di notte: bastava incrociare quel suo sguardo sul volto triste e rabbioso al tempo stesso per ricacciarli giù, deglutendoli assieme alla saliva e a un sempre più presente desiderio di piangere. Anche mia madre parlava poco, tenendo dentro sé i suoi dolori e le sue paure. Non sospirava nemmeno più, 79


pareva quasi avesse smesso di lottare, rinunciando a prendere attivamente parte alla sfida tra il marito e il mare che però colpiva anche lei, lei e me, il suo bambino di tredici anni che ogni giorno s’alzava prima dell’alba per andare a lavorare come robivecchi, frugando fra i rifiuti che il mare con la bassa marea lasciava sulle sponde dell’isola nella speranza di rivenderli al rigattiere del villaggio o, settimanalmente, a qualcuno di quelli sulla costa del continente. Non che ci ricavassi granché, ma mio padre mi era comunque grato per questo, diviso fra il dolore di vedermi fare quel lavoro e il sollievo del sapermi per la maggior parte del giorno a casa con lei. Non mi voleva con lui a pescare, e allora io, talvolta in compagnia di qualche altro bambino, dalla barca di famiglia provavo a pescare qualche triglia o qualche spigola vicino a riva, setacciando prima gli scogli in cerca di qualche granchio da usare come esca. Il resto del tempo, come detto, lo passavo a casa con mia madre: la scuola ancora non esisteva, se non per qualche lezione di italiano, aritmetica e talvolta storia impartiteci da un’insegnante in pensione che nei primi tre giorni della settimana veniva dalla terraferma per farci lezione. Era esile e minuta, mia madre, bella e triste come una primavera incerta, già da anni incapace di fare più di quel poco che abitualmente faceva: dare da mangiare alle poche e macilente galline che avevamo, rimboccarci le coperte, spazzare un poco qui e un poco là e cucinare quel qualcosa che io e mio padre racimolavamo: era già tanto per lei lavare e stendere i panni o attingere l’acqua dal pozzo comune, e non di rado doveva chiedere aiuto a qualche vicina benevola che nulla pretendeva se non un grazie, talvolta goffo e piagnucolato. E si trovava a sera, spossata, quasi diafana su quella poltrona della stanza che faceva da soggiorno e cucina, non fosse stato per quella sua greve serietà inespressiva e quel suo stringersi nelle spalle, le braccia stanche, sciolte da qualsiasi volontà di reagire, solo decisa ad affogare nel niente tutto il suo dispiacere, la sua stanchezza, la sua sofferenza, la 80


sua debole e docile esistenza. A volte la scoprivo ad osservare il mare: in quei momenti i suoi occhi sembravano farsi specchio e domanda sul senso della vita, e in loro si parlava di rinuncia e sfida al tempo stesso, in un tenero miscuglio di tristezza e drammaticità. Il suo sguardo si perdeva guardando dabbasso, facendosi largo fra le poche imbarcazioni del piccolo porto; si faceva invece attento scrutando l’indefinito, lontano, sullo sfocato estremo dorso del mare. E per qualche istante, ogni sera, guardavo mio padre abbracciarsi a lei e con lei perdersi in un quieto fissare la piccola fiamma del caminetto, rischiarante quei due cuori che all’unisono battevano di un suono simile al tuono e me, ritto dietro di loro a guardarli, a schiantarmi dolcemente sui respiri del loro silenzio come il mare che si frange sugli scogli e si fa spuma. Non si dicevano niente, si capivano così, con un abbraccio, con mio padre che poggiava la sua fronte sulle labbra o sulla fronte di lei, dimenticandosi anche solo per un momento del resto dei pescatori che come lui tornavano affranti alle proprie case, del mare avaro e forse anche di me, del suo figliolo. Ma io non me ne risentivo, anzi, colmavo quella sua piccola mancanza cercando con il pensiero di trasmettergli il doppio dell’amore e del conforto che potevo dargli con quel quotidiano abbraccio serale, quando lui tornava. Ogni sera, poi, dopo essersi staccato da mia madre si accovacciava accanto al focolare, dove per qualche minuto si assopiva nel frattempo levandosi il freddo dalle ossa; ridestatosi quindi si alzava, a volte grugnendo, e sollevando dolcemente mia madre dalla poltrona si portava a tavola, dove io avevo disposto sui piatti quello che poco prima lei aveva finito di cucinare. Il menù non era mai granché, e in quel periodo le poche conserve che ancora avevamo erano quelle di pomodori e di carciofi sott’olio; le uniche cose che invece avevamo a sufficienza erano uova, aglio e prezzemolo, senza contare qualche soldo e qualche gallina con cui comprare o 81


barattare altra carne e frutta di stagione. E in mezzo a quelle lunghe sere tutte uguali improvvisamente se ne distinse una, unicamente per via di mio padre. Ancora oggi non so quale fu il motivo che lo spinse a fare quel che ha fatto, né mai forse mi sarà chiaro, nonostante i miei sforzi di capire e i vari discorsi avuti con lui, mai avvicinatisi a una vera e propria spiegazione. Fu forse l’eccessivo pallore sul volto di mia madre? Il mio sguardo non volutamente patito, chino sul piatto di polenta freddatasi nell’attesa di lui, quell’uomo, quel capofamiglia segretamente sull’orlo delle lacrime? La decisione di riacciuffare quel destino benevolo che per sempre pareva essere scappato da lui, da noi, da tutti? Non ricordo a quali motivazioni pensai, lì per lì; ricordo invece che, terminata la cena e aiutata mia madre a salire le scale fino alla loro stanza, mi impose di andare a coricarmi. Il tono era severo e del tutto fuori luogo, per me, ma avevo percepito qualcosa di diverso nel suo sguardo: si era fatto più deciso e taciturno al tempo stesso e io, notandolo, non osai chiedergli spiegazioni, filando in camera e mettendomi al riparo sotto le coperte. Mia madre, nella stanza accanto, già dormiva. Mi girai e rigirai nel letto, incapace di addormentarmi; alla fine mi coricai su un fianco, tenendo comunque gli occhi aperti. Non passò molto tempo prima che mio padre salisse a controllare: si fermò dapprima sulla soglia della camera matrimoniale per poi, silenziosamente, avvicinarsi alla mia. Finsi allora di essere addormentato, regolando il respiro; il volto era dalla parte della finestra, e dalla porta non aveva modo di cogliere i guizzi delle pupille dietro le palpebre o quant’altro potesse tradire il mio esser sveglio. Lo sentii allontanarsi con un sospiro profondo. Ma cosa sta succedendo?, mi chiesi fra me e me, senza osare girarmi per timore che fosse ancora lì. Poco dopo, udii aprirsi e chiudersi la porta dell’ingresso, in un tentativo che doveva essere il più silenzioso possibile. Balzai subito fuori dal letto e mi precipitai alla 82


finestra. Mio padre, con indosso la cerata e in mano una lanterna, si stava dirigendo fuori dal cortile di casa. Allora capii. Stava andando a pescare. Ma perché, perché non ci aveva detto niente? Non aveva mica pensato alle reazioni mie e di mia madre, non trovandolo nel suo letto? Come se sapesse, si girò verso la mia finestra. Non ci fu niente da fare, mi vide. Ci fissammo per un lungo istante. Lui incappucciato, con i lembi della cerata che si muovevano per un forte vento che aveva cominciato a soffiare, io al caldo, in pigiama, apparentemente pronto a dormire. Non feci gesti, e lui nemmeno. Il silenzio aveva completamente avvolto la casa, nemmeno il vento e la risacca del mare si udivano più. E alla fine, senza dire o fare nulla si volse e si allontanò spedito. Continuai a guardarlo senza osare seguirlo o quantomeno aprire la finestra per dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, fino a quando non sparì lungo la discesa che conduceva al porto. Ma anche quando non ebbi davvero più modo di vederlo - o richiamarlo - mi parve comunque di continuare a scorgerlo, fiocamente illuminato dalla luce della lanterna, e poco m’importò se la mia era realtà o immaginazione, fu per me comunque uno stargli vicino, mentre cogli occhi lacrimanti per le raffiche di vento salmastro usciva dal riparo delle ultime case per dirigersi alla barchetta col legno scrostato e, slegatala dal molo, cominciava a remare contro le onde che si aprivano davanti alla prua. E che fosse stata vera o irreale la mia visione io pregai, pregai con lo sguardo fisso su quella lucciola che nella baia tutta sola aveva cominciato a baluginare, mentre dentro me sentivo che mio padre, lì, solo sopra la fosforescenza del mare, stanco e sconfortato finalmente piangeva, pregando il buon Dio di ricevere il potere di far saltare in barca i pesci semplicemente chiamandoli per nome, mentre con le mani gonfie dal freddo ancora una volta issava a bordo la lenza grondante acqua gelata e priva del boccone che un pesce s’era portato via. Ma ce l’aveva, l’attrezzatura adatta? E perché era lì, solo? Cosa 83


dovevo fare? Queste e altre domande mi feci, incapace di tornare a letto e impossibilitato a raggiungerlo, senza osare svegliare mia madre ma limitandomi a vegliarlo dalla mia finestra; e intanto tentavo di indovinare i suoi pensieri e le sue emozioni, forse riuscendoci, forse no. Ricordo solo che improvvisamente lo immaginai ripensare ad altri tempi più felici, forse addirittura quelli in cui era lui il bambino e non io, quando l’aria fremeva ai suoi primi gridolini di emozione per la lenza che si tendeva sotto il vigile sguardo di suo padre, anch’egli pescatore, del quale aveva ereditato le spalle larghe, l’uso di tenersi i capelli lunghi sulla nuca e una buona dose di fede. Come lui lo insegnò a me, così il nonno gli aveva insegnato a leggere le nuvole e il volo degli uccelli, a passare a setaccio il mare con la rete a strascico nella speranza di ritirarla gonfia e ad amare quell’amico e quel rivale che da sempre è stato lui, il mare. O forse non stava ricordando, forse stava sognando, sognando isole lontane, dove il vento soffia caldo e le acque verdi e blu sono popolate di pesci magnifici, dove le onde che s’infrangono su sabbia lucente sono il respiro di foreste marine e gli scogli sono pieni di fiori selvatici nascondenti molluschi giganti, ostriche con perle grosse come uova di gabbiani, di quei tanti gabbiani appollaiati tra palmizi e fresche cascate. O forse semplicemente pregava, lì, incurvando le spalle tra i fischi del vento di quel mare gelido di metà febbraio, che lui me l’aveva sempre detto che a pregare non ci vuole tanto, basta un cuore buono, nemmeno disperato. Non so di preciso per quanto tempo stetti lì a fissare la baia, ricordo solo che quella notte, eccezion fatta per quei pochi minuti in obbedienza all’ordine impartitomi poche ore prima, non sfiorai il cuscino. E in quella veglia, in quell’inutile stare di vedetta, pensai a molte cose. Pensai a come sarebbe stato se fosse tornato vittorioso, creandomi nella mente l’immagine di mia madre con gli occhi brillanti e improvvisamente tornati giovani, tali e quali a quelli di mio padre, il quale senza neanche 84


attendere le prime luci del giorno sarebbe tornato da noi con uno, due, no, tre pesci, tre enormi pesci da cuocere sulla grossa padella di casa annerita dalla fuliggine, poggiandoli fiero e vittorioso sul tavolo della cucina accanto agli attrezzi per squamare il pesce, mentre già si poteva sentire - e vedere - un fumo fragrante e bluastro diffondersi in tutta la stanza; pensai a me nell’indomani, all’alba, fra le alghe e i relitti sulla spiaggia della bassa marea col sacco in mano, pronto a litigare per un mozzico di gomena o un pezzo di rete invece che essere in mare a cercarlo, se non fosse tornato, e cominciai poi a pensarmi lì con lui, a incitarlo o magari aiutarlo, spronando il mio pensiero a cavalcare le onde che ci dividevano per raggiungerlo come quando riposava accanto a mia madre. E forse a un certo punto non pensai più a niente, semplicemente stetti ritto in piedi davanti a quella finestra, a quel buio fattosi impenetrabile. O forse sì, pensai anche a un futuro più lontano, a come sarebbe stato se non fosse più tornato, e per quanto assurdo non pensai a mia madre, ma a me stesso più in là nel tempo, a cosa avrei pensato di quella notte a distanza di giorni, mesi, anni, quando gli angeli già da tempo fossero planati sui loro corpi portando via le loro anime, una alla volta, come effettivamente è stato. E ancor più pazzamente pensai se ci avrei ripensato, a questa storia, e pensai che forse quando ci avrei ripensato il cortile sarebbe stato fiorito e forse avrei capito quale fosse stata la speranza o la pazzia che in quella lontana notte aveva animato mio padre, lì, solo, ancora solo. E nuovamente allora mi riconcentrai su di lui, cercando di essere lì, di materializzare la mia anima su quella barca lontana e vicina al tempo stesso. Ma a fargli compagnia c’era solo il faro dell’isola che, comunque distante, lampeggiava indifferente contro un cielo nuvoloso. Quella notte nessuno era in mare, o se c’era non lo scorgevo: la mia mente mi faceva vedere solo lui, mio padre. 85


Il robivecchi e il pescatore di Francesco Destro Commento critico a cura di Alessandro Quasimodo

Con il suo racconto “Il robivecchi e il pescatore”, il giovanissimo, ha infatti solo vent’anni, Francesco Destro si è guadagnato una meritatissima e particolare segnalazione nel nostro concorso: il premio della giuria. Con questo riconoscimento, conferito all’unanimità, si è voluto segnalare il talento di un ragazzo di oggi, che ha già ottenuto lusinghieri risultati in vari concorsi, sia in poesia che in prosa. Francesco Destro ha saputo, in questo racconto, suscitare forti emozioni con uno stile semplice ma sorvegliato, ricco di inventiva in cui ci colpiscono e sorprendono alcune immagini che rimangono nella nostra memoria : “mia madre, bella e triste come una primavera incerta” o “un grazie goffo e piagnucolato” o la straordinaria espressione con cui si apre la narrazione: “la nostra vita sembrava fatta di sempre..” a cui segue una lunga sequenza che ripropone l’avverbio “sempre” in una ossessiva, drammatica ripetitività che ci fa pensare all’ora pro nobis delle litanie.

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La ricezione della parola poetica come elemento autonomo (saggio) Premio della Critica Carlo Costanzelli 13

«A me mi piaceva pure quando avete detto: “Sono stanco di essere uomo”, perché è una cosa che pure a me mi succede però non lo sapevo dire... ». Con queste parole Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) si rivolgeva a Pablo Neruda (Philippe Noiret) ne Il postino (M. Radford, 1994). Una frase sicuramente densa d’interesse ai fini di una riflessione sul rapporto tra pensiero e linguaggio (in ottica comunicativa). La prima domanda che sovviene è: Ruoppolo sapeva già quanto espresso poeticamente da Neruda? Oppure lo apprende dal poeta nel momento in cui legge i suoi versi? Rileggendo la battuta del film, si è portati a pensare che il postino fosse già al corrente della condizione esistenziale racchiusa in quelle cinque parole, ma inconsapevolmente. In altri termini, aveva già esperito quell’emozione, però non era in grado di formularla, non lo sapeva dire. Ne consegue che tra il pensiero (o i pensieri) e la loro enunciazione in forma verbale si collochi una barriera difficilmente sormontabile. Si potrebbe, già a questo punto, trarre una conclusione forse azzardata: la sfera del cognitivo (e dell’emotivo) non è esprimibile in modo del tutto esauriente dal linguaggio verbale. Conclusione che pare rafforzata dalla presenza, nel nostro vocabolario, di 13

Carlo Costanzelli nasce il 10 settembre 1990 a Ferrara. Fin da bambino coltiva una grande passione per il disegno e la scrittura: i due linguaggi convivono nei molti racconti illustrati, ma trovano anche una dimensione autonoma. Nel 2008, infatti, pubblica il romanzo Era buio (Ed. Pendragon), mentre nel 2012 espone i propri dipinti al Caffè delle Giubbe Rosse di Firenze. Attualmente risiede a Bologna, dove frequenta la Facoltà di Lettere.

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termini come “indescrivibile”, “inenarrabile”, etc., termini che paradossalmente danno la dimensione (positiva o negativa) dell’oggetto a cui si riferiscono proprio dichiarando l’impossibilità di delinearlo. È bene, tuttavia, procedere con ordine dando spazio a un altro quesito di primaria importanza: perché Neruda è in grado di formulare con parole quella particolare condizione esistenziale, mentre Ruoppolo non ne è capace? Rifacendosi ai dettami delle scienze cognitive tradizionali, si potrebbe frettolosamente supporre che l’“hardware” di Neruda, cioè il suo cervello (e la sua sensibilità), sia più potente e sviluppato rispetto a quello di Ruoppolo, e sia quindi in grado di supportare “software” più sofisticati abili ad articolare verbalmente concetti complessi. A questa asserzione si può però immediatamente obiettare, sostenendo che comunque Ruoppolo capisce quanto scritto da Neruda. La sua mente, o meglio la sua sensibilità, quindi, non sarebbe da meno. Resta comunque innegabile che il poeta sia in qualche modo fornito di strumenti d’indagine più sviluppati, altrimenti anch’egli come il postino sarebbe solamente in grado di intuire in un pensiero non codificato, e quindi non verbale, la condizione della stanchezza di essere uomo. In quest’ottica si può concepire il poeta come un “esploratore dell’indescrivibile” che, di ritorno dalle sue ricognizioni, fa dono di quanto ha conosciuto e guadagnato al non-poeta, servendosi proprio della poesia. A patto che il non-poeta sia capace di comprendere, di ricevere il messaggio. È possibile considerare la comprensione in due accezioni distinte: comprensione dei versi poetici o comprensione del poeta stesso. Pur trattandosi di momenti l’uno contiguo all’altro è innegabile che l’acquisizione del primo non determini affatto un’automatica comprensione del secondo. A questo proposito, è fondamentale il contributo di Kendall Walton, filosofo statunitense che si è occupato 88


ampiamente del discorso che intercorre fra il prodotto artistico e la sua ricezione da parte del fruitore. Nella sua opera speculativa, egli mette in relazione la figura del thoughtwriter (letteralmente “scrittore di pensieri”) e quella dello speechwriter (scrittore di discorsi su commissione). La definizione thoughtwriter è di particolare interesse nel nostro discorso perché sintetizza i due elementi cardine del ragionamento: il pensiero e la scrittura, o meglio il pensiero che si fa scrittura. Un altro, fondamentale elemento del discorso è il destinatario del messaggio poetico: il lettore, o ascoltatore, che nel confronto con il testo può rispondere intellettualmente ed emotivamente (Walton include nella definizione “pensieri” – thoughts – anche sentimenti, suggestioni, etc.) a seconda delle sue proprie caratteristiche, arrivando non di rado (ed è il caso del postino Ruoppolo) a simpatizzare con i pensieri del poeta. Ma simpatizzare con le parole del poeta non vuol dire per forza simpatizzare con il poeta. È quindi fondamentale a questo punto focalizzarsi sul ragionamento di Walton che, collocando momentaneamente in secondo piano le palesi differenze tra thoughtwriter e speechwriter, tenta di metterne in risalto alcune inattese analogie. Walton propone di considerare l’esperienza della lettura di una poesia al pari dell’uso proprio che un cliente fa del discorso redatto da uno scrivente di professione. Il lettore si appropria delle parole altrui senza curarsi della loro origine: la sua attenzione si rivolge infatti alla loro qualità intrinseca, alla loro utilità nel perseguire l’obiettivo preposto. La figura del poeta – come quella, non sempre sovrapponibile, dell’io poetante – scompare. Può apparire assurdo, in prima istanza, che ci si disinteressi dell’autore dei versi di cui ci appropriamo, soprattutto per chi ha una formazione esegetica, e dedito dunque all’esame della sfera più squisitamente letteraria della poesia. Tuttavia, possiamo ritrovare anche nella nostra semplice esperienza quotidiana un moto d’interesse verso alcune parole, che consideriamo 89


veritiere, illuminanti, in sintonia con la nostra sensibilità. Non sempre, però, andiamo a ricercarne l’autore, ad analizzare la sua intera poetica. Può addirittura capitare che quelle parole noi le intendiamo e le usiamo in una situazione o con motivazioni ben diverse da quelle in virtù delle quali l’autore le aveva pensate – e scritte. Walton spiega appunto come esistano due modi di appropriarsi della parola altrui, anche della parola poetica: un primo modo, che consiste nel riferimento a essa in quanto frutto della penna – e della mente – di un determinato poeta; un secondo modo che, invece, si limita alla parola in quanto tale, liberata dal suo rapporto di figliolanza con l’autore. In questo secondo caso, il verso guadagna un’autonomia assoluta rispetto a quanto ne ha permesso la genesi, e si presta di conseguenza a una pluralità d’uso prima impensabile. Possiamo, così, riprendere parole altrui e farle nostre nel senso più totale del termine, e cioè usandole o addirittura interpretandole secondo le nostre esigenze e la nostra sensibilità. Dando alle parole poetiche un nuovo contesto e un nuovo significato, ne diventiamo in un certo senso i nuovi autori. Ecco allora che, con tutte le cautele del caso, si può tenere in valida considerazione l’ipotesi di Walton: il poeta sta al lettore come l’autore di discorsi sta al suo cliente. In ogni caso, la definizione del poeta come thoughtwriter tout-court è inequivocabilmente degradata rispetto alla figura canonica dell’artista, dell’immaginifico e arguto creatore di senso. Tornando ai nostri protagonisti, dunque, ci pare ragionevole affermare che Neruda ha scritto «Sono stanco di essere uomo» non perché il suo lettore, Ruoppolo o chi per lui, potesse riutilizzare tali parole in un suo discorso personale. Certo, questa è una conseguenza dell’attività letteraria di Neruda, ma non certo il motore che lo ha spinto a dedicarsi alla poesia. Altrimenti, come scrive Walton, il poeta sarebbe sì 90


sovrapponibile allo speechwriter, così come all’autore di cartoline d’auguri, di slogan politici, etc. È il filosofo stesso che ci mette in guardia dal forzare certe riflessioni fino alle loro estreme possibilità: correremmo facilmente il rischio di giungere a conclusioni difficilmente condivisibili. L’apprezzamento che il lettore riserva al poeta, infatti, va ben oltre al suo lavoro di “artigiano delle parole”: esso risente delle già citate qualità di arguzia, sensibilità e padronanza linguistica, che possono rafforzarsi per mezzo dell’immedesimazione, ma che non sono tuttavia necessariamente vincolate a essa. Sopraggiunge ora un dubbio di fondamentale importanza, che ci porta gradualmente alla conclusione del nostro ragionamento: c’è davvero tutta questa differenza tra le due tipologie di appropriazione proposte da Walton? È chiaro che nella trama de Il postino, Ruoppolo si avvicina tanto al Neruda poeta quanto al Neruda uomo (ammesso che sia possibile compiere una tale distinzione senza dilungarsi in speculazioni che non fanno ora al caso nostro); tuttavia, tralasciando volontariamente quel magistero poetico-filosoficoesistenziale che Neruda esercita su Ruoppolo, e ipotizzando che il personaggio di Troisi abbia trovato quelle parole tanto familiari, per esempio, nel biglietto di un Bacio Perugina, avremmo davvero da parte sua una reazione del tutto incomparabile a quella che ci racconta, invece, il film? Per certi versi, no. È scontato che il rapporto umano con il poeta aggiunge qualcosa di insostituibile all’effetto che il verso ha sulle corde emotive di Ruoppolo; eppure il postino avrebbe comunque percepito come proprio quel pensiero, dal momento che esso si esplicava così chiaramente – nonostante la sua reale complessità – nelle parole, indipendentemente dalla loro paternità originaria. Stanco di essere uomo, Ruoppolo, già si sentiva per suo conto: è stata senza dubbio una grande fortuna quella di apprenderlo tramite il contatto diretto con un poeta della 91


caratura di Neruda, ma questo non toglie che tale condizione esistenziale albergava di per sé nell’animo del postino. È legittimo pensare che, leggendo quel verso per caso, al di fuori del suo contesto, Ruoppolo difficilmente si sarebbe avventurato nella ricerca del loro autore e ne avrebbe studiato scrupolosamente la poetica. Tutto ciò ci dà il pieno diritto di pensare che, nonostante la condivisione di uno stato emotivo, tra Neruda e Ruoppolo si collochi un incolmabile divario culturale, frutto dell’educazione, del milieu e della formazione intellettuale dell’uno e dell’altro personaggio. Non solo. È lecito supporre che senza l’operare poetico, senza le ricognizioni a livelli di profondità possibili solo a menti nate adatte, il genere umano non saprebbe cogliere le infinite sfaccettature e le innumerevoli sfumature che lo caratterizzano intimamente. Infine, consapevoli del peso non indifferente di una simile affermazione, possiamo dire che, per certi versi e rispetto a determinati destinatari, il poeta, una volta portata a termine ed enunciata con parole adeguatamente espressive la sua spedizione cognoscitiva, ha esaurito il suo lavoro e può defilarsi. I suoi versi si sono infatti guadagnati una sorta di indipendenza ermeneutica, che si manifesta in modo sempre nuovo e differente a seconda di chi, tali versi, li incontra e li fa propri. Certo questo non riguarda, o sfiora soltanto, coloro che si pongono di fronte alla poesia nell’ambito di studi approfonditi, personali o accademici che siano: questo genere di destinatari non può e non vuole spezzare il vincolo che lega un’opera poetica al suo autore, al suo contesto culturale, al suo periodo storico, etc. Ma è chiaro che tali indagini interessano un numero assai ridotto dell’intera popolazione. La maggioranza dei lettori, invece, si rapporta alla poesia in misura limitata, e soprattutto con un approccio che ha molto dell’emotivo e ben poco dello scientifico. La vita, la poetica e l’ambiente storico-culturale del poeta non sono oggetto del loro interesse: ciò che conta è la stoccata con cui la poesia sa colpirli, le immagini che sa plasmare nelle loro 92


menti, i pensieri torbidi che risolleva dall’alveo dell’animo alla luce della coscienza. Per queste sensazioni, siano esse gradevoli o perturbanti; per queste soste di riflessione e di vertigine; per l’impressione consolatoria di ritrovare fuori da sé qualcosa che si coltiva, trepidamente, nella propria coscienza; per tutto ciò i suddetti lettori debbono essere grati alla straordinaria capacità della lingua poetica di andare oltre alla facciata delle cose e di ritornarvici, una capacità che è frutto sorprendentemente autonomo della sensibilità interrogativa di un essere umano: il poeta, l’esploratore, il fantasma. Bibliografia Walton, “Thoughtwriting—in Poetry and Music”, New Literary History 42 (2011). Liuzza, Cimatti, Borghi, Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee (Roma, Carocci 2010) Filmografia Radford, Il postino (1994).

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La ricezione della parola poetica come elemento autonomo (saggio) di Carlo Costanzelli Commento critico a cura di Anna Montella Nel proporci questo suo pregevole lavoro l'autore ha posto in essere, in primis, una intelligente operazione di strategia comunicativa. Non sempre, anzi, quasi mai, il saggio riesce a raggiungere il grande pubblico perché, per sua natura, è rivolto ad un target selezionato di lettori. Utilizzando, in una sorta di espediente narrativo, un dialogo del film "Il postino" (M.Radford, 1994), che vede protagonisti Pablo Neruda (Philippe Noiret) e l'amatissimo Massimo Troisi nella interpretazione di Ruoppolo, il postino, l'autore riesce ad attualizzare il suo scritto e a colpire in maniera immediata l'immaginario di chi legge, catturandone l'attenzione, più di quanto avrebbe potuto fare il riferimento ad una pellicola d'essai, riservata ad un pubblico di nicchia. In Ruoppolo che recepisce le parole del poeta "sono stanco di essere uomo", e le fa sue a livello emotivo, ciascuno di noi ritrova un po' il se stesso non-poeta che tende ad "appropriarsi" della parola poetica altrui che va ad esprimere un pensiero comune e condivisibile ma di cui, spesso, non conosce la provenienza o l'autore né, il più delle volte, gli interessa conoscerlo. La parola poetica viene, così, recepita "come elemento autonomo" indipendentemente dall'autore i cui versi "si sono guadagnati una sorta di indipendenza ermeneutica, che si manifesta in modo sempre nuovo e differente a seconda di chi, tali versi, li incontra e li fa propri".

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Phyllicia nel paese delle meraviglie Premio del Comitato d’Onore Phyllis Margaret Dyason 14

Una partita a carte Piove e subentra tanta noia. Fuori la finestra, quel tronchetto della felicità, che oggi è diventato un piccolo albero, snocciola gocce di pioggia sui lunghi carnosi rami che in contrasto con il grigio del cielo sembrano essere perle iridescenti. La fantasia va oltre, perfora quel velo e si ferma curiosa sulle appuntite bellissime Apuane, scende fino alla loro pancia e si perde in essa, segue tunnel e grotte scintillanti di bianco in quel maestoso mondo di marmo. Phyllicia si aggira incantata … Sa benissimo di essere piccola piccola in questo grande spettacolo della natura che ha costruito una delle opere più belle a due passi dal mare … Ne sente la risacca che, con la sua musica, la riporta alla realtà, ma lei vuole perdersi qui, come fece Alice, nel sogno, inseguendo il coniglio bianco. Ricorda un palazzo costruito nei ghiacci della Jungfrau, ma qui… qui… questo marmo non si scioglierà mai, non diventerà mai acqua, ma solo preziosità ovunque sarà posato e poi intorno non ci sono nevi perenni, ma pini marittimi odorosi di resina e boschi lascivi che si specchiano nelle ultime onde del fiume che penetra sensuale il mare… 14

Phyllis Margaret Dyason - Nasce in Italia. Figlia di un Ufficiale dello Stato Maggiore di Montgomery, frequenta scuole italiane e acquisisce diverse esperienze lavorative sia a Londra che a Roma. Scrive poesie e racconti. Il suo libro di esordio: “Non aspetterò i tuoi novant’anni” sta riscuotendo notevoli consensi.

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Fischia il bollitore dell’acqua, ed un caso vuole che, anche Phyllicia adori bere una tazza di the ben sapendo che resterà sempre piccola piccola, quella che é, dinanzi al creato, ma forse grande abbastanza per donare accoglienza nel suo cuore a chi è capace di entrarvi. Le fragole sono state private del loro cuore bianco e affettate per accogliere morbida vellutata panna liquida e nel tegame, mentre Phyllicia sorseggia il suo the, sfrigola l’olio con l’aglio fresco ed i peperoni gialli, ma non sa cosa mangerà… perché vuole restare lì nella sua candida splendente fantasia marmorea a dispetto del grande orologio. Non ci sono conigli disperati che cercano guanti bianchi e ventagli, che quelli di velluto li ha rubati Phyllicia per trattare con le streghe che incontrerà, mentre il grande ventaglio simbolico rinfresca parole sempre più calzanti e incalzanti… Pensa al bruco sul cappello del fungo, quello allucinogeno che porta trasformazioni e isterismi al settimo cielo nel settimo capitolo e, fumando il narghilé, azzarda pareri su metamorfosi kafkiane e trasformazioni burrachiane di chi si vende anche l’anima. Il Giocolaio è Matto e la lepre furtiva nasconde le carte… sono di meno, ma sono di più e tutti sanno che la lepre è marzolina… ci sono tanti tavoli e tanti posti, ma solo un paio bevono il the della saggezza e della capacità vera… oppure… ottimi caffè gussiani. Fuori nel giardino, della casina nella pineta, è ancora freddo… Non c’è Edward mani di forbici né le carte giardiniere che tingono i fiori, la decapitazione è nelle mani del Giocolaio Matto e delle sue ancelle… mentre la Regina buona dagli occhi azzurri invita Phyllicia ad una passeggiata sul mare per conoscerne le sue creature. 96


La visione corre a graziole, brugnole, antognole, cristignole, merignole, a odori cattivi veri e metaforici di anime nane, ma anche di anime lunghe, a streghe rauche e donne a metà… a mezze donne… a un quarto di donne… Il pensiero corre a fate sorridenti, sorrisi splendenti, lunghe cosce che spuntano dai veli degli abiti di tulle delle fate, capelli biondi o neri lucenti, alla immensa graziosità di merlina fratina, alla dinamica castellina, all’orobica silvestra, alla bionda delle morene … alla Momò … alla giuliesca nonna, alla piccola maridina … alle laure aureate, alla contessa castiglione e alle tante e di più fate sorridenti e ai maestri fiorellini, ai culatelli apuani, ai brontoli viola, ai pierrot loquaci, ai nonni silvieschi … a chi non c’è più … ai buoni … ai limoni … a chi mancherò… Ma inizia il processo… non si sa chi abbia rubato le belle bellissime torte della Regina che ricama da regina ogni cosa colorata e dolce … anche se veste gli abiti della Donna di Cuori… Phyllicia non accetterà i veli di zucchero… è ben sveglia… sapendo che il Giocolaio Matto sarà tenuto vivo nella realtà della favola e che Phyllicia sarà viva solo nel ricordo della favola. L’orologio ha scandito l’inizio… sono già lì e… la risacca lontana li accompagna portando Phyllicia, invece, nel cuore delle montagne dove tutto è puro e scintillante… lontano dagli attori venduti. ______________ Questo racconto é un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti, persone e luoghi ha soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione, ed è quindi utilizzato in modo fantasioso. 97


Phyllicia nel paese delle meraviglie di Phyllis Margaret Dyason Nota critica a cura del Comitato d’Onore Il titolo farebbe subito pensare ad una rivisitazione della nota fiaba di Lewis Carroll ma, a volte, “ciò che non è sarebbe e ciò che è non sarebbe”, come compiterebbe sussiegoso il Brucaliffo, sbuffando nuvole di fumo dal suo narghilè. Il paesaggio onirico in cui si muove Alice non è, infatti, lo stesso in cui si muove Phyllicia. Innegabili i riferimenti ai personaggi della fiaba ma Phyllicia, a differenza di Alice, non può lasciare la dimensione onirica per tornare in una realtà, per molti versi rassicurante, perché il suo “paese delle meraviglie” non si trova in un improbabile luogo “altro”, ma proprio in quella realtà a cui Alice vorrebbe tornare e da cui, forse, Phyllicia vorrebbe fuggire. Se può essere relativamente facile entrare in un sogno in fondo Alice ha dovuto solo addormentarsi sotto un albero - assai più difficile è portare il sogno nella dimensione del quotidiano fatta di decisioni difficili da prendere, bollette da pagare, piccole e grandi meschinità, gioie, dolori, speranze, illusioni… Ed è questo che riesce a fare l’autrice con un narrato fantastico a cui fanno da sfondo le Alpi Apuane dove i colori del sogno e della fiaba vanno a mescolarsi con i toni melanconici del disincanto che rafforza la consapevolezza di essere. Nonostante tutto.

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Negli ambiti del Premio “Energia per la Vita” 2° edizione 2015, in un gemellaggio simbolico con gli Organismi culturali ospiti dell’evento, per un percorso di crescita comune e di condivisione, sono stati assegnati i seguenti riconoscimenti:

Premio Thesaurus

(Cenacolo Letterario Internazionale AltreVoci)

Premio IPLAC

(I.P.La C., Insieme Per La Cultura)

Premio La Luna e il Drago (Caffè Letterario La Luna e il Drago)

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Assegna il Premio Speciale “THESAURUS” Al racconto inedito “UNA PAROLA AL GIORNO” di Nicoletta Romanelli

con le seguenti motivazioni In poche pagine viene riassunta una storia di fallimenti, attese, sconforti, dubbi, sentimenti d'amore e di risentimento nei confronti della vita. E questo, in modi ironici e brillanti, a conferma della capacità comunicativa e della "verve" dell'autrice già rivelatesi nel suo primo romanzo: "Le mie sorelle erano innamorate di Andrea Giordana (e io no)". Mina Rusconi www.cenacoloaltrevoci.weebly.com

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Una parola al giorno Opera Premio Thesaurus Nicoletta Romanelli 15 Lunedì Ventotto anni, studente fuori sede e fuori corso. Mi sono da poco trasferito al Nord, a Milano, per tentare l’ultima carta. Ingegneria, che mio padre avrebbe tanto desiderato per me e per il mio futuro, mi ha visto protagonista di una serie inenarrabile di fallimenti. E di figuracce. Ora sto provando con Lettere Antiche, laurea che certamente mi spalancherà le porte di un call-center, di sostituto spingi-carrello in un Carrefour di periferia, di portatore di pizze a domicilio, se tutto va bene. Anche lì, vi garantisco, c’è una concorrenza spietata. Divido un minuscolo appartamentino nella Chinatown milanese con un compagno di Università che vive come un clochard: valigie aperte ovunque, calzini e mutande persino nel frigorifero (bollenti spiriti…), resti di cibo mummificati e nauseabondi dimenticati per mesi sul tavolo della cucina. Ragazze? Deserto più deserto del Sahara. L’ultima della serie mi ha da poco piantato a favore di un palestrato con un solido conto in banca e anellino di fidanzamento. Come darle torto? Ah, dimenticavo la ciliegina sulla torta: la sera, per 15

Nicoletta Romanelli vive e lavora a Milano. Dopo gli studi classici e musicali (Diploma di pianoforte al Conservatorio di Milano) si è dedicata principalmente alla didattica musicale e strumentale. Parallelamente ha sviluppato l'interesse per la Calligrafia. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, sia in ambito musicale che calligrafico. È di recente pubblicazione il suo primo romanzo, "Le mie sorelle erano innamorate di Andrea Giordana (e io no). Una guida alla felicità" Edizioni Luoghinteriori. Suoi racconti sono stati pubblicati in diverse rassegne e antologie e hanno ottenuto premi e riconoscimenti.

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pagarmi gli studi, (Papi, carino, ha sequestrato il bancomat) faccio il cameriere in un pub irlandese gestito da un cinese sposato a un’irlandese, frequentato da studenti con tanta voglia di divertirsi, figli di papà perlopiù, iscritti a facoltà serie e in pari con gli esami: Economia e Commercio, Medicina, Ingegneria. Appunto. Che ve ne pare? Uno schifo. Martedì Avrebbe potuto essere una giornata come tutte le altre: ugualmente triste, ugualmente ripetitiva, ugualmente rassegnata. E invece no. Durante il consueto slalom tra i tavoli, al pub, fra le urla, le risate dei giovani-bene e la musica a palla, l’ho vista. Un angelo? Un’apparizione? La controfigura della Venere del Botticelli? Tutte queste cose insieme, a giudicare dal repentino direzionarsi degli sguardi di tutti i presenti verso di lei. Accompagnata da un’amica, si è seduta a un tavolino un po’ defilato, l’unico libero. Non ho mai smesso di puntarla, come il peggiore degli stalker, ma no, come nella scena più bella di “West Side Story”, quando i due protagonisti, lui polacco e lei portoricana, sfidando gli sguardi ostili delle rispettive famiglie, sono entrambi vittime di una folgorazione. Non sentono più nulla, non vedono altro che loro stessi, tutt’intorno buio, un riflettore piazzato sulle loro teste. Uguale. Totale estraniazione. Peccato che in questa versione casereccia e in salsa irlandese del film, la fascinazione coinvolga solo me. Lei, l’Apparizione, non sembra affatto scossa dalla mia presenza. Vengo riportato con i piedi su questa terra dalle parole dell’amica che, con un marcato accento tedesco, mi ordina… che cosa mi ordina? Me lo faccio ripetere 103


un’altra volta, mentre osservo Lei. E’ bellissima. Capto anche, di sfuggita, che si chiama Petra. E’ tedesca. Non ho mai amato il tedesco, una lingua che considero per molti versi lontana, aspra e inarrivabile. D’altronde non parlo bene neanche l’inglese, quindi tanto vale farsene una ragione. Appena rientrato a casa, in Chinatown, agguanto il dizionario di tedesco dalla copertina gialla su uno scaffale della libreria del co-inquilino e decido sui due piedi: per poterla capire, una parola al giorno. Che se non toglie il medico di torno, almeno mi avvicinerà a Lei. E alla speranza di poterla incontrare di nuovo. La parola di oggi è HOFFNUNG: “Speranza”. La ripeto come un mantra, chissà mai che funzioni. Mercoledì Non posso circolare a piede libero vestito così. E con questo taglio di capelli. Improvvisamente mi rendo conto di essere obsoleto, antico, fuori moda, fuori target, fuori tutto… Farò degli straordinari per raggranellare qualcosa, ma devo assolutamente comperare un paio di pantaloni, scarpe “giuste”, maglie decenti. E tagliare i capelli. Oggi è la giornata del restyling, devo presentarmi nuovo, gradevole, appetibile. Quando mi ci metto so essere carino, che diamine! La sera, stessa scena. Si ripresentano entrambe, Petra e l’amica. Si siedono allo stesso tavolo. Stessi sguardi famelici del pubblico-bene, stessa faccia da triglia. La mia. Corro al loro tavolo, ignorando le precedenze di chi è arrivato mezz’ora prima, e gli sguardi carichi d’odio del cinese che, sono certo, mi sottoporrà ad una risciacquata epocale. Parla l’amica, come sempre. 104


Lei è taciturna, quasi seccata, non proferisce parola. Ma mi guarda, posso giurarlo. Butta lì un’occhiata distratta, ma carichissima di dove? quando? perchè? come mai? Prendo le ordinazioni e me ne vado. Inebetito. Frastornato. Innamorato. La parola di oggi è GLAUBE: “Fede” Giovedì Una nonna umbra con propensione all’esoterismo, alla divinazione e allo sguardo benevolo nei confronti di segni, premonizioni, indicazioni più o meno velate che ci vengono lanciate quotidianamente dai pianeti variamente allineati, si era più volte premurata di mettermi in guardia: occhio ai presagi. Avrei dovuto ricordarmelo quando, lavato e vestito di tutto punto e pronto per affrontare un’altra serata al pub, quella nella quale ero deciso ad attaccare finalmente discorso con l’Angelo biondo, avrei dovuto ricordarmelo quando la tazza colma di caffè incandescente mi era scivolata dalle mani e mi si era rovesciata addosso, frantumandosi a terra. Addio restyling, abiti nuovi da portare subito in lavanderia, addio largo anticipo calcolato a tavolino per consentirmi di essere sul posto un’ora prima, addio calma zen esercitata per tutto il pomeriggio. Raccolti i cocci della tazza e quelli, più difficili da ricomporre, di me stesso, do una ripulita e corro ad agguantare la bici a nolo al parcheggio BikeMi sotto casa. La bicicletta assegnatami dal display è una di quelle nelle quali non ti augureresti mai di imbatterti in momenti come questo: un pedale mancante, sellino smodatamente alto, quindi da riposizionare, sporca (di cosa? Meglio non indagare). Ce n’è a sufficienza per un bel dietro-front in grande stile, con dissolvenza all’orizzonte, al limitare del lungo 105


viale alberato. Dignitoso, nulla da eccepire. E invece no. Nonna, ma perché non ti ho mai dato retta? Corro al pub pedalando come un ossesso, sudando a più non posso, ergo vanificando ogni tentativo di equipaggiamento estetico messo in piedi nel corso di un intero pomeriggio. Il cinese non mi risparmia l’ennesima ramanzina: sono sempre in ritardo, mi vesto male, non rispetto le consegne, tratto i clienti a pesci in faccia, e in più ho pestato una cacca che ho introdotto, maledizione! nel suo trendyssimo locale. Prorogo di qualche giorno, forse settimane, il momento di mandarlo a quel paese, giusto il tempo necessario a creare un contatto con l’Angelo, e poi vedi come mi vesto male e come non rispetto le consegne, caro il mio cinese… Corro da un tavolo all’altro in preda a un’agitazione da dodicenne al suo primo appuntamento della scuola media, e non stacco gli occhi da quel tavolo, il “suo” tavolo, nemmeno per un istante. Una coppia di mezza età (ma che ci fate qui, il locale non è per voi, avete sbagliato target) mi chiede un tavolo. Esito, ma alla mia risposta, secca come una fucilata, “No, sold out, tutto esaurito, mi spiace!”, il cinese mi sente e mi punta l’indice della mano sinistra (è mancino) sul petto, con fare a dir poco intimidatorio: “Plovaci ancola e sei molto!”. Molto che? Molto bravo? Molto sexy? Molto intelligente? No. Sono moRto, moRto, moRto, inesorabilmente MORTO. Dalla Cina con furore. Col passare delle ore Lei non arriva. Né Lei, né l’amica, né nessun altro che parli tedesco. Solo due amici dell’irlandese, la padrona, la moglie del cinese che, dopo aver occupato il “suo” tavolo, ormai per me entrato nella mitologia, si ubriacano di birra e, regalino, alla fine della serata mi tocca pure portarli fuori 106


a braccia perché incapaci di reggersi in piedi. Non verrà più, ne sono certo. Morto, morto, morto. Ha ragione Bruce Lee. La parola di oggi è TOT: “Morto”. Venerdì Come tutti i locali che si rispettino, anche il pub cinoirlandese non è esente dalla fascinazione del venerdì sera, avendo compreso anzitempo che quella è la serata top, quella dove si raccatta al massimo, dove si capitalizza per i mesi a venire, quella in cui anche i posti in piedi sono presi d’assalto a suon di spintoni, meglio se sul marciapiede antistante, che così ci vede il mondo intero mentre ingolliamo improbabili cocktail verdeazzurrognolo e inaliamo di tutto. L’irlandese, la padrona, viene folgorata dall’idea di organizzare la “serata a tema”, che tanto piace alla massa impiegatizia in libera uscita. E quale potrebbe mai essere il tema in questione? Ma l’Irlanda, naturalmente! Via libera, allora, al festival dei peggiori luoghi comuni: trionfo del verde, festoni alle pareti con la faccia di San Patrizio, cappellini col tricorno verde, birra come non ci fosse domani e, ciliegina sulla torta, l’arpista. La quale deve aver visto l’Irlanda solo su Facebook e, peggio, l’arpa solo sulle monete da un euro. Perché suona malissimo, essendo una lontana parente di Concetta, detta Cetty, la donna delle pulizie, che di giorno lavora in un call-center e come hobby suona l’arpa, grazie alle lezioni di un vicino di casa. Si è fatta (da sola, a casa, metto la mano sul fuoco) due ciocche rosso magenta per essere in tema, ma l’effetto è devastante. Io, che ve lo dico a fare, promuovo ad attività principale della serata il controllo serrato del solito tavolino, il “suo”. Tavolino che in condizioni normali viene occupato da 107


due persone e che stasera, dopo solo tre minuti dall’apertura, è assalito da un gruppo di cinque, dico cinque sgallettate universitarie tutte urletti, Tiffany e Prada, extension fino al sedere e cappellino verde autoprocurato, che fa tanto Irlanda. Le odio, una per una e in gruppo. Lei non c’è. E certamente non verrà. Non è venuta ieri, serata di routine, figuratevi se si lascia agganciare dalla tristissima serata a tema finto-Irlanda. Mentre l’arpista dalle ciocche magenta sta assassinando una giga, due muscolosi gay assorbono con avidità un misterioso cocktail dallo stesso bicchiere ma con due cannucce diverse, cercando di rubarsi l’ombrellino decorativo, una tardona dalla probabile chioma canuta, qui mimetizzata da una colorazione rosso-menopausa (ma che sta succedendo ai parrucchiere, ops, agli “hairstylist” di questa città?) mi si struscia addosso completamente ubriaca pregandomi di ballare con lei (con accompagnamento di una giga irlandese deturpata dalle mani di una centralinista? Pura follia), mentre tutto questo accade simultaneamente, come in un horror di serie C, ecco che La vedo apparire dal marciapiede opposto al locale. Il Destino, Dio, la mamma, la vendetta di Montezuma, il Karma negativo che ce l’ha con noi, possono talvolta essere spietati, al di là di ogni pessimistica previsione. Il mio, di Karma, deve essere particolarmente pesante, poiché si materializza in un palestratissimo ragazzotto sui venticinque, bello, certamente ricco e certamente laureato in fisica nucleare, che cinge la spalla del “mio” Angelo con presa sicura, da laureato. Vorrei morire. Vorrei non essere mai nato. Vorrei essere figlio di un agricoltore della bassa padana, lavorare la terra quindici ore al giorno senza pensare ad altro, sposare Gina, la contadina, e fare sette figli. Vorrei ucciderlo. 108


Vorrei ucciderli entrambi e finire così sui giornali, per la gioia di mio padre. E invece rimango lì, a bocca aperta, come un baccalà, ignorando le sette/otto ordinazioni che mi vengono urlate da più parti, mentre il cinese mi insulta. Uccidimi, Bruce Lee, e fai scempio del mio cadavere. EIFERSUCHT è la parola di oggi, terribile da ascoltare e inarrivabile nella pronuncia. Gelosia. Sabato Apro il frigorifero alla ricerca di un limone. Mi sono ubriacato, qualcosa dev’essere successo perché ho un martello pneumatico nella testa e l’alito di un alcolizzato al punto di non ritorno. Limoni, naturalmente, neanche a parlarne. Solo un paio di boxer in fase di congelamento direttamente nel freezer: ma che ci fa, mi chiedo, il mio co-inquilino, con i ghiaccioli-mutanda? Devo farmi dare qualche lezione, evidentemente, mancano dei tasselli fondamentali a un’educazione sentimentale che fa acqua da tutte le parti. Assisto al progressivo sgretolamento delle mie mal riposte speranze: mi scruto senza pietà allo specchio Ikea e vedo un bambino viziato, incapace di guardare al mondo con un briciolo di concretezza, incapace di laurearsi, incapace di vestirsi, incapace di trovarsi un lavoro serio, incapace di ribellarsi al cinese. Insomma, cosa vedo? Un incapace. Chiamàti a raccolta i brandelli di me stesso sparsi un po’ ovunque, cerco di rimettermi in sesto e di presentarmi al cospetto di Bruce Lee come Dio comanda. Da quelle parti ci sarà un sacco da fare dopo la nottata esplosiva di ieri, e quel poveretto da solo proprio non ce lo vedo, neanche se si appella a Confucio, Lao-Tsu o chi per essi. Infatti: devastazione ovunque, resti di cibo e bevande in luoghi insospettabili, bicchieri con residui di cocktail azzurro-verde abbandonati sul marciapiede, l’irlandese K.O. a letto col mal di testa, Bruce Lee depresso, col 109


timore di non farcela. Rimboccate le maniche (si fa per dire: le mie sono maniche corte di una maglietta OVS con la scritta “Keep calm &…drink water!”. Per il cinese quelle, inesistenti, di una canottiera da lavoro che avrebbe gran bisogno di una doppia ripassata in lavatrice, visto il fetore che emana…) e messe da parte le nostre insoddisfazioni cosmicoesistenziali (comunanza che me lo rende in qualche modo più simpatico) ci mettiamo all’opera e, in men che non si dica, operiamo la resurrezione. Comincia ad arrivare gente. Non voglio illudermi, non voglio sperare, non voglio neppure voltarmi in direzione di “quel” tavolino. La mia vita deve andare comunque avanti, a dispetto di mio padre, del cinese, del palestrato, degli angeli botticelliani e dell’asse Italia-Germania, che è talmente lontano dall’attuarsi in politica, figuriamoci qui, nel pub. Mi destreggio tra cocktail e birre, urla, schiamazzi e musica a palla, mentre Bruce Lee mi sorride dal bancone. Forse ho riacquistato la sua fiducia, forse mi stima, forse mi assume e mi chiede di diventare suo socio, forse mi ama. La serata pare volgere al meglio. Ed eccola. Non me n’ero neppure accorto, si era seduta a un altro tavolo, è stata fatta accomodare dal cinese, oppure si è mossa autonomamente, si sente a casa, ormai. Mi lancia un’occhiata, corro. Le chiedo se vuole una birra, come al solito, mi fa cenno di sì con la testa. Non devo essere invadente, devo essere professionale, ma al tempo stesso carino e accattivante. “Keep calm & drink water”. Lo ripeto come un mantra a me stesso e, mentre le servo la birra, la mia curiosità/ammirazione/venerazione è alle stelle. Perché non mi parla? Chiedimi qualcosa, dimmi il tuo nome, proponimi un appuntamento! Mi sorride, e questo basta a riempirmi la serata, forse la vita stessa. 110


Il tempo di servire un paio di tavoli più in là e Lei non c’è più, scomparsa. Ha lasciato una banconota sul tavolino, neanche il tempo di darle il resto. NEUGIER è la parola di oggi: “Curiosità”. Facile intuire che a questo punto io sia molto, molto curioso. Domenica Una settimana di notti insonni, di sentimenti e umori letteralmente shakerati sugli alti e bassi di montagne russe esistenziali, hanno trovato pace questa notte, il fine settimana più altalenante, entusiasmante, inquietante di tutta la mia vita. Ho dormito, finalmente. Il sonno dei giusti, direbbe qualcuno. In pace con me stesso, mi avvio saltellante verso il pub. Ci starebbe bene un sottofondo di “I’m singing in the rain”, ma non piove e, soprattutto, non sono Gene Kelly, grandissimo. Il cinese non è in buona, deve avere grane con l’irlandese, poveretto. Più avanti cercherò di capire il perché. Sistemo i tavoli, pulisco, ammazzo, per così dire, il tempo, in attesa della Sua venuta. Perché, ne sono certo, Lei verrà. E infatti eccola. Da sola. Senza neppure darle il tempo di scegliere il “suo” tavolo la faccio accomodare, costringendola a sedersi, a guardarmi e ad ascoltarmi. “La solita birra?” le chiedo, con una voce metallica che ricorda tanto quella di Zed, l’uomo-robot, impastata dall’emozione e dal terrore di vederla dissolversi come un ologramma. Mi sorride, senza proferire parola, accennando a un “Sì” con la testa. Birra, birra, birra, arrivo subito, la birra più buona della tua vita, birra, birra, birra, Petra, birra, ecco qua. 111


Torno al “suo” tavolo, Lei non c’è. Al suo posto, la solita banconota king-size, fuori misura per una birra che non ha neppure bevuta. Corro fuori come un pazzo, travolgendo un paio di tavolini con palestrati e cocktail annessi. Il cinese mi fulmina, mentre mi lancia improperi nella sua lingua: la scena di un film noir con Jean Reno in lotta contro la mafia, appunto, cinese. Corro, corro a più non posso. La vedo, la raggiungo e la blocco: “Chi sei? Come ti chiami? Perché scappi? Ti devo due resti. Aspetta. Non te ne andare. NON TE NE ANDARE!!!”. Le sto urlando addosso, mi auguro solo che non passi una volante della Polizia perché mi piglierebbero per uno stalker o per un lanciatore seriale di acido muriatico. “NON TE NE ANDARE!!! I O T I A M O O O O !!!”. Ecco, l’ho detto. Ho imboccato la strada del non-ritorno. Sono paonazzo, sto urlando e con la coda dell’occhio mi sembra di scorgere in lontananza il cinese che brandisce un coltello. Lei, l’Angelo, sorride con invidiabile calma e predispone le mani, bellissime e bianchissime, in una serie di gesti incomprensibili. Stupido, rozzo, cafone, ignorante: ecco cosa sono! Petra mi fornisce, in pochi preziosi secondi, la chiave dell’intera vicenda, del mistero dei suoi meravigliosi silenzi. Petra, il mio Angelo, la mia Venere, la mia Petra, è una fantastica, meravigliosa, ineguagliabile ragazza sordomuta. Accenno anch’io, maldestramente, a un gesto del linguaggio dei segni che ho visto fare a Marlee Matlin nel film “Figli di un Dio minore”: mignolo, indice, pollice = “I love you”, mentre scavo nella mia mente limitata e nel mio ridottissimo patrimonio lessicale nel tentativo di trovare un termine più aggraziato e “politically correct” per definire la sua stupenda disabilità. Non mi viene in mente niente. La troveremo insieme, questa parola – penso – mentre l’abbraccio, la bacio, la stringo a me così forte da toglierle 112


il respiro. Arriva il cinese. Abbraccio anche lui e piangiamo tutti e tre, di felicità, in un amplesso “globalizzato” cino-italogermanico. Chissà cosa direbbe la Merkl… Certamente sarebbe d’accordo con me nella scelta della parola del giorno: LIEBE. A voi la traduzione.

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Assegna il Premio Speciale “IPLAC” Alla poesia inedita “CONSONANZE” di Egizia Malatesta Con le seguenti motivazioni La lirica è sapientemente costruita attraverso un gioco di rimandi metaforici attraverso i quali viene raffigurata la fragilità umana che accomuna, nella solitudine, nel dolore e nell’inganno della Morte, persone apparentemente lontane. Le immagini evocano intensamente lo sconforto della poetessa e, allo stesso tempo, grazie alla riduzione all’essenziale degli aggettivi e ad efficaci sostantivazioni, mantengono margini indefiniti: così viene lasciato ampio spazio per l’immedesimazione al lettore che, nel giro di pochi versi, già ne respira l’atmosfera densa, si identifica in quell’”io” (isolato all’inizio del verso, ma tenace e propagante), si distacca con la foglia e scende nella pioggia, si adagia sugli strati d‘Autunno su cui si china un angelo di pietra: “Lì sotto ho nascosto un dolore / e tu lo sai perché mi somigli”. Originale lo svolgimento del finale che unisce ineluttabilmente in un destino comune l’autrice (coi suoi tarli a contare le sere), il lettore e il barbone (che annega nel vino i pensieri), ma è il solo che riesca comunque a sognare: “forse dovremmo brindare insieme”…

Deborah Coron www.circoloiplac.com

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Consonanze Premio IPLAC Egizia Malatesta 16

Scorre il silenzio tra le foglie di questo Autunno lento che avvolge i filari già spenti in un intreccio sottile di pioggia. La nebbia si veste d'opaco, avvolge i confini e li spoglia: io sono nell'aria un distacco di foglia che cade e la pioggia che bagna, che scende dagli occhi di pietra di un angelo chino su strati d'Autunno. Lì sotto ho nascosto un dolore e tu lo sai perché mi somigli, così pronto a cercare migrando il tuo senso, così fragile (in fondo) quando anneghi nel vino i pensieri e ricadi sconfitto sui tuoi passi incerti.

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Egizia Malatesta vive, risiede e lavora a Massa da moltissimi anni pur mantenendo un attaccamento particolare per il paese e la terra d’origine (Caprigliola e la Lunigiana). E’ insegnante presso la Scuola dell’Infanzia e, dopo aver coltivato inizialmente la pittura, si dedica alla poesia, ottenendo importanti consensi di critica nel panorama letterario nazionale ed internazionale. Le sue poesie, più volte premiate in tutto il territorio nazionale, sono state presentate in numerose rassegne e pubblicate in sillogi ed antologie. Recentemente le è stato attribuito dal Centro Road il Premio alla Carriera. Al suo attivo anche alcune pubblicazioni.

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In queste consonanze d'Autunno forse dovremmo brindare insieme all'inganno dell'ombra che insegue il destino, io coi miei tarli davanti al camino a contare le sere, tu che riesci comunque a sognare sotto una coperta di cartone e ti scaldi al fuoco del bicchiere.

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Assegna il Premio Speciale “LA LUNA E IL DRAGO” al racconto inedito “LA CENA FILOSOFICA” di Maria Felicetti con le seguenti motivazioni Come trovarsi di notte in un museo e assistere, non visti, alla magia di uno splendido, prezioso affresco del ‘300 che prende vita. Questa la sensazione che si prova nel vedere scorrere il narrato come una pellicola i cui colori, dapprima sfumati, divengono man mano più brillanti e reali, annullando il tempo, quasi fosse cronaca dei nostri giorni. Il sommo Dante, Cavalcanti, Lapo… insieme nella finzione letteraria di una “cena filosofica”, come auspicato nella proiezione in sogno del Sonetto celeberrimo dell’intera produzione dantesca: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio…” … con un corollario di personaggi altri, tra profumi, colori, pietanze, ruoli, cerimoniali, ambientazioni che ci riportano ad un’epoca dal fascino antico che abbiamo vissuto soltanto di riflesso, attraverso le parafrasi di scolastica reminiscenza.

Anna Montella www.caffeletterariolalunaeildrago.org

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La cena filosofica Premio La Luna e il Drago Maria Felicetti 17 Non tutti i mali vengono per nuocere, non tutte le ciambelle vengono col buco, non tutti i vini hanno lo stesso colore, non tutte le cene sono uguali. Al castello del conte Baldovino il veronese si preparava un banchetto davvero singolare. - Mani in alto, questa è una... - Cucina! E qua si lavora! Su, va’ di là che abbiamo da fare! - ribatté donna Dora, la cuoca di pasta, a uno sguattero sbucato all’improvviso alle sue spalle. - Quanto fumo! Più che una cucina, sembra una fucina! Cosa state preparando? - L’ira di Dio! - disse il marito della donna, il cuoco Isidoro. - Ehi, non nominare il nome del buon Dio invano! Se ti sentisse la padrona! - E che mi senta pure! Sono stanco di tornei, feste e banchetti! Noi lavoriamo e loro mangiano col sudore delle nostre mani e della nostra fronte! - Il conte ci dà vitto e alloggio e in questi tempi di carestia è una gran cosa! - Se riducesse i servizi da rendergli sarebbe una gran cosa! - Quale festa, mamma? - Stasera il conte darà un banchetto importante. Una cena speciale. Verranno poeti e scrittori famosi di Firenze e ci sarà pure un cavaliere! 17

Maria Felicetti è nata a Taranto nel 1981. Diplomata in lingue, ha svolto ruolo di educatrice c/o scuola dell'infanzia “Re Leone” di Taranto. Ha praticato tirocinio redazionale c/o cooperativa “Corriere del Giorno” di Taranto, scrivendo articoli di cronaca locale. Autrice di fiabe e poesie inedite, attualmente frequenta il corso di alta formazione “Il Piacere della Scrittura” organizzato dall'Università Cattolica.

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- Un cavaliere?! - E cominciò a brandire per aria un lungo mestolo di legno. - Poeti, scrittori, sognatori! Una cena filosofica! - disse la cuoca mentre spennava il pollo. - Filo che? - ripeté il bambino. In quel momento entrò il siniscalco. - Santo cielo! Più che una cucina, sembra una latrina! – disse guardando inorridito pentolame accatastato, stracci e schizzi sparsi qua e là. - Ecco il menu - disse traendo fuori di tasca un foglietto di carta. - Antipasti: frutta, verdura e pollo con miele, poi tripudio di arrosto, uva passa, mele, pere e prugne snocciolate, polenta e farinata, torta d’aglio, zuppa di ceci in crostone di martellino, zuppa d’orzo e di farro, minestra d’avena, morsini di pane bianco con duretti di porco, e per finire dolcini di egano con vin dolce di Peronella. Il siniscalco era un nobile a completo servizio del conte. Era l’architetto della tavola. Sovrintendeva tutta l’organizzazione del banchetto e suo compito era quello di renderlo spettacolare per gli ospiti. Si occupava del servizio in tavola delle vivande e delle bevande e coordinava il lavoro del credenziere e del sopracuoco. - Prendi insalate, formaggi freschi, salumi, caviale, torte salate, biscotti, confetti e confetture di frutta, poi apparecchia la tavola! - disse al credenziere. Il credenziere serviva le vivande fredde ad inizio e a fine pasto. In fretta aprì la cassapanca dove si conservavano farina, pane, scorte di viveri, piatti e scodelle. Rivolgendosi poi al sopracuoco, ordinò. - Oltre all’arrosto di pollo, prepara zuppe e minestre come rinforzo agli altri piatti! Svelto! - Subito, messer Cristoforo! Il sopracuoco si occupava del servizio di cucina. Preparava lessi, fritti ed arrosti di carne e pesce. Sottoposta al sopracuoco c'era poi un’allegra brigata di sottocuochi, cuochi di pasta, sguatteri. Donna Dora pose sul fuoco un grande pentolone 121


attaccato con ganci a una catena che pendeva dal soffitto e mise a bollir l’acqua per la zuppa e le minestre. Al centro della cucina vi erano vari focolari dove a fuoco vivo o sulla brace del camino si cucinavano bolliti e arrosti alla griglia o allo spiedo. Vi era anche un forno in mattoni di cui pochi potevano disporre dove si cuoceva il pane, segno distintivo che si trattava di un’abitazione nobiliare. - Ah! Un topo! Maledetti topastri! Al rogo, barbari! - urlò Donna Dora. - Sì, un bel rogo purificatore! Non solo alle povere streghe, ma anche a quei delinquenti! - confermò Donna Lisa. - Basta chiacchiere! Al lavoro! Prendimi la mezena! ordinò il sopracuoco ad uno sguattero. La mezena era un maiale svuotato delle interiora e salato, conservato tutto intero, appeso. - Ah! Prendi pure tutta la selvaggina che trovi nei magazzini del conte! Lo sguattero scese al piano terra e con l'aiuto di altri garzoni prese tutta la cacciagione che c'era. - Vuoi spostarti, per cortesia? - disse la serva che si occupava della minestra. - Sposarti? Anche subito monna Lisa! - rispose Terenzio, il cuoco che arrostiva la carne. - Ho detto spostarti! Sempre con la testa dietro ai racconti dei trovatori! Te l’ho detto. Non mi piaci! E non starmi sempre dietro come un cane! Devo bollire le verdure e i cereali. Il bollito era affidato alle donne, mentre gli arrosti erano compito degli uomini. - Per dorare il pollo - disse il sopracuoco ad un garzone. Prendi una gran quantità di tuorli d’uovo, sbattili bene con un po’ di zafferano, e metti la doratura in un piatto. Quando il pollo sarà cotto, gettaci sopra la doratura e rimetti sul fuoco finché la doratura si rapprenda. Bada che il fuoco non sia troppo forte, sennò si brucerà la doratura! 122


- Ricorda, Martino, il vino deve essere più forte con il pesce che con la carne, così da correggere i sapori. - D’accordo, messer Cristoforo! Era il bottigliere che sceglieva i vini da portare in tavola. Dopo averli assaggiati per evitare i temuti rischi d’avvelenamento. Si posizionò in un angolo del salone dove c’erano le caraffe, i bicchieri e i vasi di cristallo e d’argento e cominciò a preparare l’acqua aromatizzata. Per l’aperitivo mischiò vino rosso con zenzero, noce moscata e chiodi di garofano, scaldò e versò il vino da un vaso di vetro a una coppa di terracotta che diede al coppiere, il servo che portava le coppe ai commensali. Poi prese l’acqua piovana raccolta nelle cisterne e preparò un vino speziato con more e melograno ed anche l’idromele, un sidro di pere e mele che veniva servito come digestivo, accompagnato a pezzi di formaggio stagionato. Intanto all’ingresso del castello, la contessa accoglieva gli invitati con un sorriso gentile ed abiti raffinati ed eleganti, seguita dalle dame di compagnia anch’esse avvolte in veli fluenti. - Donna Isotta! Lusingato! - Illustrissimo, reverendissimo cardinal Farnese! Cavalier Fusoritto! - I miei omaggi, signora! Dell’invito vi son grato! Questa è la mia consorte Ermenegilda! - Benvenuti nel mio castello. Avete fatto buon viaggio? Abate Benedetto! - Che Iddio vi benedica, donna Isotta! Insieme a loro entrarono anche tre uomini. - Chi sono quelli? - domandò uno sguattero affacciato a curiosare. - Non lo so. - ammise il cuoco Terenzio. - Uno porta un copricapo rosso e una corona d’alloro sulla testa! Mamma, che naso! Deve avere fiuto quello! - Dev’essere il poeta di cui tanto si parla a Firenze! aggiunse donna Lisa. - E il cavaliere? Lo vedi? - Sì! Ha la corazza, l’elmo e la spada dei cavalieri! 123


- Oh, che meraviglia! Com’è romantico! - disse languida la serva. - Con un’armatura come quella farei diventare i Bianchi... neri d’invidia! Ah, ah! - Anch’io voglio diventare cavaliere! - esclamò il piccolo. - Zitto tu! Solo chi nasce feudatario, muore feudatario! Il cavaliere portava una cotta di maglia intessuta di numerosissimi piccoli anelli di ferro intrecciati. Il suo cavallo era rivestito di una gualdrappa decorata con le insegne araldiche del casato. La castellana condusse gli invitati al piano superiore. Entrarono nella grande sala dove si allestivano i banchetti. Alle pareti vi erano tappezzerie e pellicce, archi e balestre. Sul grande tappeto tavoli, panche, sgabelli. La tavola era disposta a forma di U ed era ricoperta da grandi, sontuose tovaglie che arrivavano fino alle gambe dei cavalletti che la sostenevano, dove pure vi erano semplici decori. - Accomodatevi, signori! - disse la contessa. Vado a chiamare il conte! Subito arrivò il credenziere ad offrir agli ospiti catini con acqua di rose e asciugamani di lino perché potessero lavarsi le mani. Spiegò poi la seconda tovaglia, piegò artisticamente i tovaglioli, profumò la biancheria della tavola e la ornò di fiori freschi. Il coppiere vi pose l’acqua, i vini e gli aperitivi. - Che magnifica tavola profumata, linda e colorata! - Ah! Dissetante questo vino! E’ allungato con acqua! osservò il cavaliere. - Non abbiamo ancora mangiato e giù subito a bere! Che figura! E senza nemmeno aspettar il conte! Un giorno ti verrà la gotta! - borbottò la moglie. La gotta era una malattia diffusa, causata da un eccesso di acidi nello stomaco. - Su licenza del conte... - disse il cavaliere, sollevando la coppa di vino verso il conte che sopraggiungeva. - Accomodatevi, cavalier Fusoritto! Avete fatto buon 124


viaggio? - Solo qualche brigante cammin facendo! - Briganti? - Sì, mio marito! - Ah! Ha, ha! - Donna Ermenegilda ha un bel senso dell'umorismo e il buon umore mette appetito. Allora, possiamo cominciare! - disse, allungandosi i baffi. Il banchetto era organizzato in tre portate, ognuna delle quali comprendeva servizi differenti, un primo servizio di credenza (freddo), un primo servizio di cucina (caldo), un secondo servizio di cucina e un terzo servizio di cucina, un secondo servizio di credenza, dopo il quale, levata la tovaglia, si procedeva al terzo ed ultimo servizio di credenza. Le pietanze vennero servite su piatti da portata in coccio. - Buon Appetito! E che Dio ci benedica tutti! - disse il cardinale, segnandosi prima degli ospiti col segno della croce. Il pasto, come di solito avveniva nei grandi banchetti, iniziò con frutta digeribile come le mele, seguite da verdura come lattuga, cavolo, portulaca, dell’altra frutta umida, carni leggere come pollo arrosto con miele, e poi minestre e brodo. Dopo arrivavano le carni pesanti. - Questa sera abbiamo in tavola un vero tripudio di arrosto! - disse il conte. Detto ciò, il servo addetto al taglio cominciò a sfilare con una pantagruelica portata. - Un cervo ripieno di un cinghiale, ripieno di un capriolo, ripieno di un vitello, ripieno di un cappone, ripieno di una lepre, ripiena di un’anatra, ripiena di un fagiano, ripieno di una pernice, ripiena di un tordo, ripieno di un piccione, ripieno di una quaglia. Il trincere, muovendosi con artistico e studiato cerimoniale, cominciò a maneggiare coltelli affilatissimi come armi. Poi sollevò in aria il ripieno di animali arrostiti e con una forchetta li trinciò dall'alto e li ripartì in pezzi per i commensali. Erano vere e proprie sculture raffiguranti figure zoomorfe. 125


- Che arte sublime! - esclamò la signora Isotta. - Spettacolare! - soggiunse Ermenegilda. Aiutandosi con il cucchiaio di legno, a turno presero ciascuno la propria parte di arrosto e la misero su grosse fette di pane raffermo. - Cottura perfetta! Cibo moderatamente caldo e umido. precisò il conte. - Come gli umori della natura umana! - asserì l’abate. - E’ intinto con una salsa allo zafferano. - spiegò il sopracuoco. La carne veniva spesso accompagnata da salse aromatiche e speziate, di solito il biancomangiare o la peverata negra. Il colore era un aspetto fondamentale della tavola e la cucina giocava sui contrasti di agrodolce. - Eccezionale il mio cuoco mastro! - esclamò il conte. Tutti gli abitanti del castello, inclusi i servi, sedevano a tavola, così tutti, anche se nel tavolo ad ognuno riservato, mangiavano idealmente assieme. Al tavolo della servitù i commensali condividevano coi vicini scodella, tagliere e boccale e spezzavano il medesimo pane. Così, anche in tempi di divisioni e lotte sociali, la mensa era espressione di convivialità ed unità. I contadini però mangiavano, su panche, pane d’orzo, maiale salato, stufato di verdure e zuppa di legumi e cereali. Il tavolo dei nobili era invece più alto. Serviva a indicare l’importanza del rango. I nobili mangiavano su sgabelli, eretti e raffinati. Le donne usavano una forchetta bidente. Era indecoroso per una dama macchiarsi. Per gli uomini invece mangiare senza mani era segno di poca virilità. - Non parlare con la bocca piena. Mastica piano, senza far rumore. Asciugati la bocca prima di bere. Non bere tutto d’un fiato. Non pulirti le mani sui vestiti. Non sta bene mangiare così raggomitolati! Sta' eretto! Ah, figlio mio, così non sarai mai un cavaliere! - ammise sconsolata donna Dora. - E’ impossibile restare vivi a fine pasto! - commentò il cardinale! 126


- Oggi è bandita la moderazione! - decretò il conte. Al centro della sala si apriva un grande spazio vuoto dove trovatori, giullari e giocolieri inscenavano danze, canzoni, pantomime, spettacoli per intrattenere gli ospiti tra una portata e l’altra. - Il tema di questa sera è l’amore cavalleresco - esclamò il giullare. I commensali si pulirono la bocca e le mani alla tovaglia e stettero ad ascoltare. - Oh, Lancillotto non andar giappiù al seguito di re Artù! - disse con voce effeminata. - Mia amata Ginevra, voi che per gli occhi mi passaste il core, vi prego, non dite, non fate così! Devo andar col mio signore. Cavalier son! Bramo con ardor il vostro amor, come pure la gloria e l’onor di ritrovar il traboccante calice del sangue di nostro Signor! - Ma qui son calici di vino speziato e prelibato a rallegrar il palato e il cor! - Oh, Ginevra, Ginevra! Non trattenetemi ancor! La spada è affilata, la briglia sciolta, scalpita il cavallo! - Tu fuggi! Fuggi! E il giullare, ripiegandosi come in una conchiglia, mimò un pianto. Poi subito si rialzò in piedi e ad alta voce disse: - Lancillotto! Sai che ti dico? Prendi questa! E questa! E questa! E tirò in aria una serie di palline colorate che giravano in tondo. Tutti i commensali risero a crepapelle. Intanto il credenziere toglieva la prima tovaglia, lasciando quella sottostante pulita. - Ah, l'amore! Nobile e folle e pericoloso sentimento... sentenziò Lapo Gianni. - Già! - asserì sottovoce donna Lisa, lanciando un'occhiata al suo pretendente. - Amore si manifesta in maniera diversa nelle creature disse d'un tratto l’uomo dal copricapo rosso e la corona d’alloro che sino ad allora era rimasto silente. - Si diffonde nel mondo degli angeli e nel mondo degli esseri materiali: vegetali, minerali ed animali. Tutto è 127


fatto ed esiste per Amore. Senza la divina bontà nessuna cosa potrebbe esistere. E l’uomo è al centro di questi due mondi, immerso nell’acqua, dalla quale solo la sua testa fuoriesce. Vi sono uomini tanto vili e di così bassa condizione da non sembrar altro che bestia; allo stesso modo vi sono uomini tanto nobili da sembrare che non siano altro che angelo. - La donna è angelo! - disse la moglie del cavaliere. - Beh, insomma... - bisbigliò il marito. - Da un lato Amore è beatitudine, eleva e avvicina a Dio, ma dall’altro sconvolge gli spiriti, annichilisce le facoltà umane e ostacola il raggiungimento del sommo bene, che è la perfezione della ragione! - ribatté il Cavalcanti. - I priori ci hanno condannato all’esilio. Siamo esuli ormai, Guido, umiliati. Ho amato Beatrice, le ho dedicato sonetti, ballate, canzoni, dolci rime d’amore. Ma come la donna da vecchia non può vestirsi come vestiva da giovane, così ora io devo usar nuovi strumenti confacenti alla mia età. Ho compreso che la salvezza dell'anima non si può raggiungere con l’ascesi, né con l’amore, ma attraverso la ragione, il sapere, che indagando la realtà conduce l'uomo alla verità. Dico e affermo che la donna di cui io mi innamorai fu la bellissima e onestissima figlia dell’imperatore dell’universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia. E’ lei la donna gentile che mi consolò dopo la morte di Beatrice e mi conquistò attraverso il De Consolatione Philosophiae di Boezio e le opere di Cicerone. - Si è innamorato di Sofia! - fraintese Terenzio, incrociando lo sguardo di donna Lisa. Intanto fu portato in tavola il caldo pane bianco. L'abate lo prese in mano e disse: - Questo pane vi racconta la nostra storia. Siete nati nel campo del Signore che doveva esser trebbiato e siete stati raccolti. Mentre aspettavate la Buona Novella eravate come grano chiuso nel granaio. Al fonte battesimale siete stati modellati come una singola forma di pane. Nel forno dello Spirito siete stati trasformati nel buon pane 128


di Dio. Sant’Agostino! - aggiunse. - Davvero? Mamma, non sapevo che l'abate prima di esser abate faceva il contadino! - Ma no, tesoro! Sta parlando del pane che si dà in Chiesa. Si chiama Eucarestia. - Beati coloro che siedono alla mensa dove si mangia il pane della scienza e poveri coloro che come bruti, come pecore, si nutrono solo di cibo materiale - intervenne Dante. - Come dice Aristotele nella Metafisica, tutti gli uomini naturalmente desiderano conoscere. Ogni cosa per natura tende alla sua perfezione e poiché la scienza è la massima perfezione dello spirito umano, tutti vi siamo sospinti dalla nostra natura. Tuttavia molti non raggiungono mai tale perfezione. - Alcuni sono impediti dalla natura, ad esempio coloro che hanno malformazioni - soggiunse il Cavalcanti. - Altri sono ostacolati invece dalle cattive inclinazioni, la pigrizia e la malizia - definì il cardinale. - Altri sono ostacolati dalla mancanza di tempo a causa dell’impegno civile e delle questioni famigliari! - asserì il cavaliere, pungolato dalla consorte. - Già, sono tante le cause che allontanano l’uomo dalla cultura - ribadì il poeta. Di conseguenza pochi sono coloro che si dedicano alla sapienza e alla propria coscienza e innumerevoli quelli che ne sono privati e che restano sempre affamati. - Allora non c'è soluzione? - domandò Lapo. - Oh, no! Poiché ciascun uomo all’altro è naturalmente amico ed ogni vero amico si duole del difetto di colui che egli ama, coloro che non senza misericordia sono nutriti a questa mensa, liberamente porgono la loro ricchezza ai poveri di spirito che vi si dissetano come ad una fontana d’acqua viva. Ed io, che non son filosofo di professione, mosso da misericordia, raccolgo gli avanzi caduti dalla tavola dei sapienti e li distribuisco a tutti i poveri affamati di scienza. E tutti prendano questa vivanda col pane, ché io la farò loro gustare e digerire. 129


- Ma che cos’è questa vivanda che vuoi farci gustare, messer Alighieri? - domandò il conte con interesse. - La Teologia, il vero cibo dell’uomo, il pane degli angeli, un pane che essi mangiano quotidianamente e continuamente. E’ una difficile vivanda questa ma, mangiata col pane, sarà facilmente assimilata. - E qual è il pane, invece? - Il pane senza il quale la vivanda non potrebbe essere mangiata è il Volgare! Le opere di Filosofia e Teologia sono in latino. La lingua della cultura quindi non permette che si acceda a questioni che interessano tutti. - Guido, se tu, Lapo ed io si scrivesse un trattato sul Volgare! Un convivio come questo, una sorta di convivio letterario dove tutti possano cibarsi della Verità. Io considero il volgare superiore al latino quanto a bellezza e nobiltà! E’ capace di trasmettere concetti altissimi per l’agevolezza delle sillabe, la proprietà della costruzione. - Sono d'accordo! L’uomo di lettere deve essere attivo! confermò Guido. - Come il filosofo nel mito della caverna, una volta vista la luce del sole, vuol rendere tutti partecipi di tale bellezza, così io desidero condividere con voi il pane della sapienza. - Messer Alighieri, allora potremo comprendere anche noi? - intervenne il cuoco Isidoro. - Certo! Questa è una mensa che ho apparecchiato per tutti voi. Solo al banchetto della sapienza non si accosti nessuno che abbia predisposizioni viziose, poiché il suo stomaco non la sopporterebbe. In quel mentre furono serviti i dolcini di egano. Ma nessuno dei commensali sembrava aver voglia di concludere la cena. A quelle parole era calato un grande silenzio e gli invitati erano a bocca aperta, ma non per fame. Non avevano ascoltato mai nulla di simile. Erano tutti rimasti ammaliati. Il cavaliere pensò che avrebbe lasciato guerre, armi ed eroi per buttarsi sui libri col beneplacito della moglie. Il conte comprese che la vera nobiltà non dipende dalle condizioni sociali, ma da un 130


animo virtuoso. Il servo, che odiava e disprezzava la nobiltà pensò che, nonostante le differenze, mangiava lo stesso pane del suo padrone. Provò un senso di gioia e si sentì libero ed eguale. L'abate sorrise compiaciuto. Il bambino sognò che sarebbe diventato un dotto cavaliere. Per ognuno quella cena ebbe un sapore indimenticabile.

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Il viaggio stellare Opera prima classificata Guido Zavanone Commento critico a cura di Rodolfo Vettorello

Guido Zavanone, uno dei maggiori poeti contemporanei, ha reso omaggio al Premio Energia per la Vita con l’opera intitolata Il Viaggio Stellare e il Premio Energia per la Vita è particolarmente fiero di poter rendere omaggio alla poesia di Zavanone. L’opera dal solido impianto ha una dimensione poetica di grande respiro. Conte, nella sua dotta prefazione, la paragona a una cattedrale gotica per il movimento, il gusto della dismisura e della difformità. Noi che ci siamo fatti travolgere dal grande respiro lirico del poema, riconosciamo a Zavanone una vocazione mitica sempre attuale nella nostra cultura così vocazionalmente mediterranea. La lettura di un’opera come questa, traboccante di potenza epica, ci arricchisce e ci rende partecipi di un sogno cosmico di inaudita profondità.

Guido Zavanone, nato ad Asti vive e lavora a Genova. L’esercizio poetico risale alla seconda metà degli anni Cinquanta. Al suo attivo decine di pubblicazioni in Italia e all’estero, oltre a poesie, racconti e note critiche. Nell’ampio arco della sua attività letteraria ha vinto numerosi premi. Redattore delle riviste letterarie “Resine” e “Satura” e condirettore di “Nuovo Contrappunto”, cura, per l’editore De Ferrari, la collana di poesia “Chiaro-Scuro”.

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Campo lungo Opera seconda classificata Ivan Fedeli Commento critico a cura di Rodolfo Vettorello Poesia epica questa di Fedeli, un’epica di persone semplici, quasi insignificanti, di gente dai minimi gesti, dai giorni uguali, di sconfitte e delusioni. E’ il racconto di un popolo irrilevante e delle sue battaglie quotidiane e in questo racconto il poeta si nomina artefice di una rivalsa che assomiglia a una preghiera. La poesia di Fedeli si è scelta il compito di raccontare delle realtà marginali, la povertà e il vuoto di chi vive al margine e, in questo ruolo che abbiamo chiamato epico, il poeta diventa consigliere dei propri personaggi partecipando in modo compassionevole alle loro vicende dolorose. Poesia rigorosa e compatta. Poesia vera ed onesta, in due parole.

Ivan Fedeli (1964) insegna lettere e si occupa di didattica della scrittura. Ha pubblicato diversi percorsi poetici, tra cui Dialoghi a distanza in Sette poeti del Premio Montale (Crocetti), A bassa voce (Cfr edizioni), Virus (ed. Dot.Com.Pres.). Per i tipi "Fiori di torchio" è uscito, a tiratura limitata con incisione di V. Persico, Polveri sottili, poemetto ora inserito in Campo lungo. Gli sono stati assegnati il Premio <E. Montale> e il Premio <M. Luzi> per I'inedito, il Premio <Lerici-Pea> sezione giovani, il Premio <G. Gozzano>. È redattore della rivista Le voci della luna, per la quale dirige la collana di poesia Cantiere.

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La giostra Opera terza classificata Paolo Senna Commento critico a cura di Rodolfo Vettorello

I poeti devono leggere assiduamente i poeti e i più grandi possibilmente. E’ chiaro che leggere molto arricchisce e moltiplica gli strumenti della poesia e poco importa se la lettura lascia dentro di noi dei segni, delle stigmate significative e significanti. Senna denuncia le sue letture e pregevoli sapori aleggiano nelle sue parole. Sapori di Sbarbaro, di Montale, di Erba ma non importa perché il suo linguaggio, alla fine, è personale e unico. Un linguaggio pulito e musicale privo di punti di contatto con tante avanguardie autoreferenziali e di troppo ardua lettura. La Raccolta è in fondo un canzoniere d’amore: “Cadrà il giglio e la rosa. Che fai?/ Scappi veloce verso casa o resisti con me/ a osservare l’assenza, la fine d’ogni cosa.”

Paolo Senna, nato nel I973, vive a lavora a Milano. È autore e curatore di volumi e saggi sulla letteratura italiana. Ha collaborato a vario titolo con diverse case editrici, ha scritto per la terza pagina di quotidiani nazionali e ha allestito antologie, testi e apparati per le edizioni scolastiche. Sue liriche sono apparse su alcuni periodici a stampa e online. La giostra è la sua prima raccolta di poesie.

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La curva di Gauss Opera quarta classificata Vanes Ferlini Commento critico a cura di Deborah Coron L’autore sperimenta un componimento poematico concepito in modo straordinariamente coerente, organico e originale: il diagramma della vita, rappresentata con la curva gaussiana (la funzione matematica che intitola il libro), si sviluppa nelle singole poesie attraverso la progressione degli anni del poeta, dall’anno 1 all’ultimo, sia nei titoli che nei contenuti. La struttura dialettica di ogni poesia è ripetuta sistematicamente: contestualizzazione descrittiva iniziale e sintesi metaforica finale in cui l’affermazione “io sono” viene spesso completata con un ossimoro; questo artificio, tipico del paradossismo, genera un inatteso circuito che conferisce ai termini opposti una sorprendente “energia di senso” in grado di colpire il lettore e di stimolarne la riflessione. La dissociazione risulta quindi lo schema di pensiero dominante non solo nella poetica dell’autore, ma con cui raffigura l’intera esistenza. Ne viene generato un accentuato simbolismo, arricchito da osservazioni metaforiche, elementi onirici e memoriali e soprattutto da una grande qualità linguistica.

Vanes Ferlini, 48 anni, impiegato, vive e lavora tra Bologna e Imola. Dopo aver svolto studi tecnici ha coltivato interessi in campo letterario e delle scienze umane, soprattutto in psicologia. Ha ricevuto significativi riconoscimenti in premi letterari nazionali per opere inedite e ha pubblicato volumi di poesia: “Ritratti” (Edizioni ETS, Pisa); “Schegge di silenzio” (Edizioni Carta e Penna, Torino); “Duetto” (Ibiskosulivieri, Empoli); Epifania negra (Ediz. Simple, Macerata, 2013). E’ autore di un testo di novelle “D’oltresogno – raccolta di novelle per ragazzi” (Edizioni Montedit, Melegnano); e di testi narrativi presenti all’interno del Giallo Mondadori (2009).

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Come fosse giovedì Opera quinta classificata Michele Paoletti Commento critico a cura di Deborah Coron Quella di Michele Paoletti è una poesia formalmente sintetica ed essenziale, che si distingue per uno stile definito e caratteristicamente riconoscibile; spicca per la sua densità e per l’essersi solidificata nella stratificazione di significati e associazioni, per cui la rilettura si rende spesso necessaria per scavarne ulteriori ampiezze. Le metafore a sfondo teatrale sono le più frequenti, ma gli stessi pezzi del gioco degli scacchi non sono altro che attori che seguono le direttive di due registi: tutte le esperienze vengono teatralizzate, ribadendo costantemente le sofferenze e gli inganni della vita. Molte liriche, in un raffinato gioco estetico, sono costruite come “macchine sceniche” in cui l’azione, spostandosi da un dettaglio all’altro, di parola in parola, catalizza l’attenzione dello spettatore-lettore verso uno spettacolo di tragica umanità in cui non c’è spazio per altri percorsi o punti di vista, per emozioni diverse da quelle che prova il poeta/attore; tra queste il “gioco di specchi” della contraddizione tra gli opposti in ultima di copertina: “Sono il tiranno / il faro sul soffitto / la botola sul palco / l’attore, lo sconfitto”.

Michele Paoletti è nato nel 1982 a Piombino dove vive e lavora. Si occupa di teatro per passione da sempre. Questa è la sua raccolta d'esordio.

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Vertigine Premio della Giuria Ignazio Gaudiosi Commento critico a cura di Rodolfo Vettorello Gaudiosi ci regala una raccolta organica e coerente, con il fascino di un viaggio dentro la naturalezza delle stagioni. Stagioni climatiche e oggettive e stagioni dell’anima e del cuore. Il suo viaggio ha per scopo la scoperta del ritmo alterno dell’esistenza, il disvelarne il senso attraverso il potere della parola, una parola spesso sussurrante e suadente. Una parola controllata e personale, classicamente contemporanea ed efficace per esprimere i diritti della vita e dell’amore. Sul vissuto ricco e vario di Gaudiosi, al di là delle spinte metafisiche, continua a giocare un ruolo essenziale lo spettro della morte e più oltre, trova spazio e respiro la voce accorata e consolatoria della sua alta poesia.

Nato a Circhina (GO), ora Slovenia, nel 1931, lgnazio Gaudiosi è laureato in giurisprudenza. Ha esordito con un volume di liriche: “Respiri in semiluce” (Ed. Carpena, Sarzana, 1983) che ha avuto echi nei testi critici di Francesco De Nicola (Università di Genova) e Giuliano Manacorda (Università di Roma). Numerosissimi sono gli altri nomi di prestigio che hanno espresso favorevoli giudizi sulla poesia di questo autore. I suoi testi sono tutti vincitori di primi premi. E’ inserito in vari volumi di letteratura italiana e in più antologie. Numerosi i riconoscimenti alla carriera. E’ membro di numerose giurie in concorsi letterari.

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Nostalgiche alchimie d’infinito Premio della Critica Mario Viola Commento critico a cura di Hafez Haidar

Colorito e commovente appare il linguaggio di questo poliedrico poeta, che dimostra una indubbia originalità e presenta, con notevole forza descrittiva, immagini realistiche che tratteggiano il cammino dell'umanità tra la luce e l'oscurità, il bene e il male. In questo mondo attanagliato dalle paure e dall'incertezza, il poeta Mario Viola sogna la guerra a colori, ma anche l'amore puro infranto dall'amaro destino. Il suo messaggio finale è un invito solenne ad amare la pace, la vita e la natura incontaminata, madre di tutte le creature.

Mario Viola è nato a Volpiano, in provincia di Torino, nel 1961. Diplomato Ragioniere, lavora come impiegato presso una grande industria torinese. Scrive poesie per passione dai primi anni Ottanta. L’autore ha partecipato a vari Concorsi Letterari ottenendo vittorie, premi, validi consensi critici e significativi riconoscimenti. Sue poesie sono state inserite in molte antologie letterarie di pregio. Al suo attivo più pubblicazioni. L'autore si è sempre interessato alla Letteratura e alla Pittura, due forme d'arte che consentono di esprimere le emozioni e le sensazioni più profonde, dando senso liberatorio all'animo e aprendolo all'infinito.

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Il canto del desiderio (Song of longing) Premio del Comitato d’Onore Giusy Frisina Commento critico a cura del Comitato d’Onore Per la ricerca poetica attraverso cui l’autrice, oltre a seguire gli echi dei testi e del modello musicale, tenta strade autonome e originali in cui si alternano “visione e riflessione, intuizioni e fascinazioni, mito e natura, ricordi autobiografici e geografici e l’osservazione quotidiana della vita” in un dialogo immaginario con un mito del nostro tempo dalla profonda spiritualità nel quale l’autrice riconosce un compagno di strada sulla via di una ricerca poetica comune in una vicinanza filosofica e spirituale - «older brother met on the way from the nook of longing» - dopo aver assistito ad un suo concerto a Verona nel settembre 2012. Il volume si presenta con testo a fronte, in italiano e in inglese, con traduzione dei propri testi poetici dall’italiano all’inglese e traduzione in italiano di tre liriche di Leonard Cohen (Take this Waltz, Love Itself, Amen). Il disegno di copertina, opera della stessa autrice, scaturita da un suo vecchio schizzo va a legarsi all' immagine riportata sul volume di Cohen “Il libro del desiderio”, di cui lo stesso cantautore è autore

Giusy Frisina è nata in Magna Grecia. Abita a Firenze dove insegna Filosofia. Ha collaborato, con articoli e racconti, alla rivista online Domani Arcoiris TV. Appassionata di scrittura e di disegno fin da bambina, negli ultimi anni si è dedicata in particolar modo alla poesia, e diversi suoi testi sono stati inseriti all'interno di varie antologie. Ha pubblicando "Il canto del desiderio" (Edarc,2013), una raccolta ispirata dalla poesia e dalla musica di Leonard Cohen e, sempre nel 2013, la raccolta "Onde interne", distribuito da LaFeltrinelli, in precedenza selezionata, con altro titolo, al premio Letterario Ibiskos 2012. Di recente è uscita la silloge “Dove finisce l’amore” (Teseo editore, 2015)

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Vosi de batisésoe (Voci di fiordalisi) Autore Primo Classificato Nico Bertoncello Commento critico a cura di Deborah Coron L’autore dà voce agli innumerevoli spezzoni del film della memoria, personale e collettiva, che altrimenti giacerebbero muti e privi di un filo conduttore verso il futuro, per poterlo lasciare in eredità; ne costituisce una colonna sonora poetica in cui quelle dei fiordalisi chiacchieroni, che spiccano azzurri tra le spighe dorate, sono le voci più delicate, nostalgiche e sempre più rare, tra le tante a cantare la vita e la natura, proprio come quella dei poeti dialettali. Abile direttore, orchestra versi, immagini e sentimenti di un coro di voci sempre armoniche, caratterizzate da timbro nitido e personale, colore chiaro-scuro spesso velato, di intensità moderata, con qualche vibrato ben studiato: certamente a prevalere non sono potenti voci di gola o acute voci di testa, ma profonde voci di petto, anzi… voci di cuore!

Nico Bertoncello è nato il 1948 a Bassano del Grappa, dove risiede. Da oltre vent'anni scrive poesie in lingua e in dialetto veneto. La natura, la gente e l'intimo spirituale sono i temi più ricorrenti delle sue poesie. Ha pubblicato sette raccolte di poesie tra dialetto veneto e in lingua italiana. Nel 2001 ha edito una cartella artistica “Omaggio a Marostica” contenente otto sue poesie e sei grafiche di Ugo Munari. Partecipa con successo a numerosi concorsi regionali e nazionali ottenendo lusinghieri riconoscimenti.

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Pìgliami li mani (Prendimi le mani) Opera prima classificata Giuseppe Tirotto 18 Pìgliami li mani, accarizzègghjali sighendi la lìnia di la vidda e macarri podarai intindivvi la missaddògghja e lu marteddu cun tutti li chjodi ficcuddi i’ la carri di li dì. Macarri podarai cuntavvi li mattoni sirvuddi a frabbiggammi lu dumani, e li bulloni avviddaddi, e li righi e li squadri e li camini disignaddi a làpisi, e li tasti pistaddi cun tutti li bit e li byte chi vi stagiani drentu. Pìgliami li mani e ascòltali, macarri podarai acchjappavvi lu sfraizzu di li pàgini di li libri letti, di chissi scritti, lu prufummu di li vessi e di li vini chi distillu pinsendi a ca' in chiss’aiggiu amu. Pìgliami li mani e mussighègghjali, i' lu meli di li me’ marmellati gustarai lu soli chi furu a la pulpa di l’istiu, pìgliali e raffiègghjali di rabbia, bàttili pa' tutti li tradimenti, pa' li strinti indiffarenti, pa' li troppi volti imbaraddi tèttari, parò ti pregu, no t'ismintiggà di li carizzi... 18

Giuseppe Tirotto è nato a Castelsardo (SS) nel 1954, paese dove ha sempre vissuto. Laureato in lettere all’Università di Sassari con una tesi sulla narrativa in lingua sarda, scrive dai primi anni Novanta prendendo parte ai concorsi letterari sardi e nazionali. Ha scritto vari romanzi in lingua sarda e italiana

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Traduzione in lingua Prendimi le mani Prendimi le mani, accarezzale lungo la linea della vita e forse potrai sentirvi la falce e il martello con tutti i chiodi piantati nella carne dei giorni. Forse potrai contarvi i mattoni con cui ho costruito il domani, e i bulloni avvitati, e le righe e le squadre e i sentieri disegnati a matita, e i tasti schiacciati con tutti i bit ed i byte che ci stavano dentro. Prendimi le mani e auscultale, magari potrai trovarvi il fruscio delle pagine dei libri letti, di quelli scritti, il profumo dei versi e dei vini che distillo pensando a chi in quell’istante amo. Prendimi le mani e mordile, nel miele delle mie marmellate gusterai il sole che rubo alla polpa dell’estate, prendile e graffiale di rabbia, picchiale per tutti i tradimenti, per le strette indifferenti, per le troppe volte rimaste inette, però ti prego, non ti dimenticare le carezze…

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Pìgliami li mani (Prendimi le mani) di Giuseppe Tirotto Commento critico a cura di Fabiano Braccini Oggi si dà più importanza all’immagine esteriore che alla sostanza delle persone. In questa poesia l’Autore tende invece a riqualificare il valore di chi dovendo profondere la gran parte delle energie in lavori totalizzanti - forse scarsamente attraenti ma essenziali per assicurarsi un dignitoso futuro - poco fa per dare visibilità alla propria cultura e alla dote di sensibilità di cui è ricco interiormente. Ebbene, anche quelle ruvide mani laboriose, colpevolmente avare di messaggi e di slanci e talvolta apparentemente indifferenti a manifestazioni sentimentali, hanno bisogno di tanta comprensione e soprattutto di carezze affettive e consolatorie. Il dialetto sassarese/castellanese, di particolare struttura, di non facile elaborazione e di forte timbro, viene qui sapientemente e magnificamente forgiato dal Poeta Giuseppe Tirotto, fino a farne un esemplare modello di lirismo armonioso oltre che altamente espressivo e penetrante.

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Er domigno de l’omo (Il dominio dell’uomo) Premio del Comitato d’Onore Luigi Salustri 19 L'Omo se penza d'esse onnipotente, perché ha piegato a se madre natura l'ha sivizziata e messa a la tortura, l'ha sfruttata sta Tera, enormemente. Ma proprio qua ce sta la fregatura, la magnera che adopra è iriverente, così ste prepotenze, come gnente, se pagheranno in epoca futura: L'Omo se crede er re de la foresta, je piace d'esse forte e fa er leone, aggisce da galletto, arza la cresta. Adora er dio quatrino e, da padrone, diventa re, un re de cartapesta, che domina s'un monno de cartone.

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Luigi Salustri è nato e vive ad Anzio. E’ stato vincitore di premi importanti, nazionali ed internazionali. Tutta la sua vita l’ha dedicata alla poesia, alla sua città e alla famiglia. E’ sempre stato un uomo innamorato della sua città natale e del suo mare, infatti ne descrive, in dialetto ed in italiano, i tramonti ed i luoghi più caratteristici. Il suo stile tenue e delicato è sempre attento agli accadimenti della vita ed ai sentimenti degli uomini.

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TRADUZIONE IN LINGUA Il dominio dell'uomo L'uomo pensa di essere onnipotente, perché ha piegato a se madre natura, l'ha seviziata e messa alla tortura ha sfruttato questa nostra Terra enormemente: Ma proprio questo è il raggiro, la maniera che adopera è irriverente, così, queste prepotenze, come niente, le pagheremo in un’epoca futura: L’uomo si crede il re della foresta, gli piace d'essere forte e fa il leone, agisce come un galletto, alza la cresta. Adora il dio denaro e, da padrone, diventa re, un re di cartapesta, che domina su di un mondo di cartone!

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Er domigno de l’omo (Il dominio dell’uomo) di Luigi Salustri Commento critico a cura di Fabiano Braccini L’uomo ha utilizzato intelligenza e perspicacia per trarre dalla terra ogni risorsa utile al suo sostentamento e conforto. Ma badando soltanto al proprio immediato tornaconto - e compiaciuto per questo suo potere - ha sconvolto i perfetti equilibri della natura fino a pregiudicare la futura sopravvivenza del nostro pianeta. Il Poeta Luigi Salustri, con un sapiente uso del dialetto romanesco, ha affrontato un tema così importante sintetizzandolo magistralmente in una composizione lieve: un sonetto di delicata fattura e di ariosa musicalità capace di assurgere anche a severo ed accorato monito.

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INDICE NOTA a cura di Rita Iacomino ........................................... 8 POESIA INEDITA Casette d’ete di Tullio Mariani ....................................................................... 13 C’è la nebbia, Piero di Angelo Taioli ..........................................................................16 Quando arriverai avvertirò il tuo profumo di Michele Paoletti ....................................................................19 Notte di luci di Lida De Polzer ....................................................................... 21 Spioveva dalle gracili spighe di perla di Maria Grazia Frassi ............................................................ 23 Ho bussato alla tua porta di Dario Marelli ........................................................................ 26

NARRATIVA INEDITA L’odore della neve di Daniela Raimondi ............................................................... 30 La torta di compleanno di Bianca Paola Leone ............................................................ 38 Destinazione Paradiso di Anastasia Laurelli ............................................................... 46 Lo chiamavano Pinnacolo di Filippo Taddia ...................................................................... 53 L’uomo di vetro di Antonio Bonelli.................................................................... 65 Il robivecchi e il pescatore di Francesco Destro .................................................................77 La ricezione della parola poetica come elemento autonomo di Carlo Costanzelli ................................................................. 87

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Phyllicia nel paese delle meraviglie di Phyllis Margaret Dyason .................................................. 95

ORGANISMI CULTURALI OSPITI PREMIO THESAURUS Una parola al giorno di Nicoletta Romanelli ......................................................... 102 PREMIO IPLAC Consonanze di Egizia Malatesta.................................................................. 116 PREMIO LA LUNA E IL DRAGO La cena filosofica di Maria Felicetti .................................................................... 120

POESIA EDITA Il viaggio stellare di Guido Zavanone .................................................................134 Campo lungo di Ivan Fedeli ............................................................................ 135 La giostra di Paolo Senna .........................................................................136 La curva di Gauss di Vanes Ferlini ....................................................................... 137 Come fosse giovedì di Michele Paoletti ................................................................. 138 Vertigine di Ignazio Gaudiosi.................................................................139 Nostalgiche alchimie d’infinito di Mario Viola ......................................................................... 140 Il canto del desiderio (Song of longing) di Giusy Frisina ....................................................................... 141

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POESIA DIALETTALE EDITA Vosi de batisésoe (Voci di fiordalisi) di Nico Bertoncello .................................................................144

POESIA DIALETTALE INEDITA Pìgliami li mani (Prendimi le mani) di Giuseppe Tirotto ............................................................... 146 Er domigno de l’omo (Il dominio dell’uomo) di Luigi Salustri ...................................................................... 149

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2015 da: Marchio Leditur Via Valera, 16 • 20017 Passirana di Rho (MI) E-mail: leditur@pec.it

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