OFFICINA* 27

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ISSN 2532-1218

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n. 27, ottobre-novembre-dicembre 2019

Profano


Ritiziano Bis B di Davide Spillari Davide Spillari è graficoide


Stefania Mangini

Entropia del sacro Negli anni ’20 del XIX secolo il fisico Sadi Carnot, noto per i suoi studi termodinamici da cui prende il nome il celeberrimo ciclo di Carnot, osserva un fenomeno spontaneo legato a molti esperimenti da lui condotti. Se in un sistema ordinato due gas, contenuti in contenitori separati, vengono messi a contatto mediante una valvola tendono spontaneamente a mescolarsi in modo del tutto casuale; allo stesso modo, se in un contenitore d’acqua viene versata una goccia di inchiostro, questa non mantiene la sua forma originale ma tende a espandersi in modo repentino fino a mescolarsi totalmente con l’acqua. Questa graduale e spontanea degenerazione di un sistema verso il massimo disordine viene definita da Rudolf Clausius nel 1864 come Entropia, dal greco έυ en, “dentro”, e τφοπή da tropé, “cambiamento”. L’entropia è quindi una grandezza che può essere interpretata come la misura del disordine presente in un sistema fisico qualsiasi, incluso l’universo. Oggi le regole dell’entropia, con i dovuti accorgimenti, vengono applicate in svariati ambiti che vanno dalla meccanica quantistica per arrivare alle teorie dell’informazione e alla sociologia. In quest’ultimo ambito, in particolare, l’entropia si manifesta come un progressivo livellamento dei sistemi sociali e sfocia nella tendenza all’annullamento delle articolazioni e delle gerarchie del sistema: una propensione a violare e infrangere le regole imposte da contesti preordinati, siano essi sociali, politici o economici. L’entropia descrive la nascita del profano come “naturale” trasformazione del sacro, un cambiamento interno al sistema, la rottura dell’equilibrio divino. Il recinto sacro, metafora di una struttura ordinata e costante, si fa troppo stretto e, così, luoghi e tempi della sacralità si mescolano, come l’inchiostro in acqua, con nuovi riti profani; i vecchi immortali dèi soccombono alle divinità del contemporaneo, eroi in calzamaglia prima, influencer poi. Ma in un sistema in continua trasformazione non c’è più tempo per dèi e miti, la storia muta rapidamente, tutto passa in un istante. Ma è proprio in quell’attimo che, secondo Søren Kierkegaard, si manifesta Dio all’uomo, in una subitanea e disordinata inserzione di verità nella vita dell’uomo. Che il profano disordine dell’entropia possa dunque essere il vero spazio per la sacralità del futuro? Emilio Antoniol


Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Paolo Borin, Laura Calcagnini, Piero Campalani, Fabio Cian, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Damiana Paternò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Silvia Santato, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte (copy editing), Paola Careno (impaginazione), Letizia Goretti (photo editing), Stefania Mangini (grafica), Silvia Micali (traduzioni), Arianna Mion, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari (impaginazione) Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari

OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.27 ott-dic 2019

Profano

Proprietario Associazione Culturale OFFICINA* e-mail info@officina-artec.com Editore anteferma edizioni S.r.l. Sede legale via Asolo 12, Conegliano, Treviso e-mail edizioni@anteferma.it Stampa Press Up, Roma Tiratura 200 copie Chiuso in redazione il 20 novembre 2019 durante una seduta spiritica Copyright opera distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’editore si solleva da ogni responsabilità in merito a violazioni da parte degli autori dei diritti di proprietà intelletuale relativi a testi e immagini pubblicati.

Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2019 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Gli articoli di ricercatori, selezionati e valutati dal comitato scientifico, si affiancano a esperienze professionali, per costruire un dialogo sui temi dell’architettura, tra il territorio e l’università. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. Hanno collaborato a OFFICINA* 27: Federico Alcaro, Alessandro Bonesini, Silvia Cegalin, Sara Codarin, Federico Dallo, Cinzia Didonna, Marco Felicioni, Gian Andrea Giacobone, Lorenzo Gigante, Vincenzo Latina, Levi Alumni, Fabio Merotto, Monica Manicone, Fabiano Micocci, Stefano Mudu, Francesca Pietropaolo, Davide Spillari, Danae Thomaidis, Chiara Varese, Monique Voz, Elisa Zatta.


Profano Profane n•27•ott•dic•2019

Ritiziano Bis B Davide Spillari

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La “sacralità” del profano The “sacredness” of the profane Vincenzo Latina, con le illustrazioni di Federico Alcaro

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La profanazione dell’Acropoli The Profanation of the Acropolis Fabiano Micocci

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Koinè profana Profane Koinè

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ESPLORARE Fabio Merotto

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Sotto il segno a cura di Stefania Mangini con Emilio Antoniol e Margherita Ferrari

Stefano Mudu, Danae Thomaidis

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PORTFOLIO

La nuova memoria di un cimitero New Memory of a Cemetery

Cristo si è fermato a Roma Christ stopped in Rome Chiara Varese

Quasi estranei Nearly foreigners Elisa Zatta

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Il clima in una scatola Federico Dallo, Francesca Pietropaolo I CORTI

Numero d’oro: la continuazione di Fibonacci Golden number: Fibonacci suite L’ARCHITETTO

User Redemption User Redemption Sara Codarin, Gian Andrea Giacobone

Riuso di chiese sconsacrate Reuse of Deconsecrated Churches Cinzia Didonna

L’IMMERSIONE

Il museo tra sacro e profano The Museum between the Sacred and the Profane Monica Manicone

IN PRODUZIONE

Monique Voz

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INFONDO

Alessandro Bonesini

Levi Alumni

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Sacri rituali in spazi profani Sacred Rituals in Profane Spaces

Estetiche, estatiche, ero(t)iche Aesthetic and Ecstatic, Heroic and Erotic Lorenzo Gigante

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Il gioco profanatore A profaning Play Marco Felicioni

La Natura tra sacro e profano The Sacred and Profane in the Nature Silvia Cegalin

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CELLULOSA

Chi vuol esser lieto sia a cura dei Librai della MarcoPolo (S)COMPOSIZIONE

Feelings

Emilio Antoniol


Il Rinascimento di Pordenone con Giorgione, Tiziano, Lotto, Correggio, Bassano, Tintoretto 25 ottobre 2019 - 02 febbraio 2020 Galleria d’Arte Moderna, Pordenone www.mostrapordenone.it

Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone. San Martino, 1528 - 1529. Venezia, Scuola Grande Arciconfraternita di San Rocco

Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone è considerato uno tra i principali protagonisti di tutto il Rinascimento. Siamo alla fine del Quattrocento e un pittore friulano giunge prima a Venezia per scrutare le opere di Tiziano e Giorgione, e poi a Roma a studiare Raffaello e Michelangelo. Per l’abilità nel disegno e nell’affresco, per la velocità di esecuzione e il talento narrativo il Pordenone è obiettivamente considerato un grande maestro alla pari di Tiziano suo eterno rivale per lo meno a Venezia, il quale ambito era ben diverso da quello romano che comunque conosceva e ammirava e di cui si è fatto interprete al suo ritorno in Friuli. In merito alla sua superba tecnica pittorica, le sue pitture sono composizioni articolate e dinamiche per dare profondità alle scene rappresentate, con scorci prospettici, architetture e spazi architettonici dipinti. Ritraeva figure di

scorcio, per dare rilievo ai volti e ai gesti, agli atteggiamenti e agli sguardi che divergono e convergono in ogni direzione. Veniva prima di tutto la vera questione della pittura; il disegno, il colore e la luce. A prescindere! Poi veniva il soggetto. Non dipinse solo santi e scene sacre ma si dedicò anche alla ritrattistica e alla rappresentazione di soggetti e figure mitologiche. È interessante come talvolta inserisse figure ed elementi profani, che non hanno un carattere propriamente sacro, come nel ritratto di San Rocco, in cui si suol riconoscere l’autoritratto dell’artista, o nella rappresentazione dei committenti dipinti in dimensioni molto ridotte e inginocchiati davanti alla Vergine nella Pala della Misericordia, entrambi conservati nel duomo di Pordenone. La mostra, a cura di Caterina Furlan e Vittorio Sgarbi, si svolge nella sede principale della Galleria d’Arte Moderna (PN) e prosegue negli spazi del Museo Civico d’Arte di Palazzo Ricchieri e nel duomo cittadino. È d’obbligo e necessario, per approfondire questa importante mostra, intraprendere anche un percorso ulteriore nei luoghi in cui sono conservate altre sue importanti opere per scoprire i capolavori del Pordenone dislocati nel territorio friulano. Inoltre alla Galleria Bertoia uno specifico allestimento racconta, attraverso un consistente corpus di opere digitali, l’intera attività pittorica del Pordenone che si è svolta non solo nella sua città natale. Fabio Merotto

Dagli impressionisti a Picasso – capolavori della Johannesburg Art Gallery 11 ottobre 2019 - 02 febbraio 2020 Palazzo Sarcinelli, Conegliano TV www.artikaeventi.com

Questa mostra è la dimostrazione di quanto e come gli artisti europei abbiano guardato l’arte africana e viceversa, e la testimonianza della qualità degli sguardi che i pittori africani ed europei si sono rivolti vicendevolmente. Uno scambio di storie e culture che ha permesso di scrivere importanti brani di storia dell’arte moderna e contemporanea, dalla pittura impressionista e post-impressionista fino alle avanguardie europee del Novecento.

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D’altronde il secolo scorso è stato teatro di terribili eventi storici di segregazione, oppressione e isolamento tanto in Europa quanto in molti paesi dell’Africa. Entrati a Palazzo Sarcinelli una scalinata introduce timidamente il pubblico verso le sale allestite della mostra per poi imbattersi con forza in mille storie personali e collettive dipinte. I temi centrali sono la figura umana con la sua necessità di libertà e il paesaggio intenso quasi fosse poesia. Lo si nota nella stesura vigorosa e quasi già espressionista dei colori pastosi, grumosi, colmi di rabbia e orgoglio, di emozioni indelebili. Sono evidenti le masse cromatiche ben distinte e le campiture che non si riferiscono più ai colori che si vedono ma che si sentono e percepiscono, con la necessità quindi di dare sfogo a un’interiorità per troppo tempo repressa. Oltre a importanti pittori africani, le cui opere sono esposte nelle prime sale, la mostra prosegue con i lavori dei principali pittori preraffaelliti e alcuni grandi maestri della pittura francese di metà Ottocento, dal Realismo ad alcuni esponenti della Scuola di Barbizon. Mancano oramai pochi anni alla prima mostra degli impressionisti del 1874, che ha messo da parte la pittura pedissequamente realista per dare spazio all’arte fatta di emozioni e sensazioni. Ma solo per pochi anni! La luce e il colore stavano spalancando le porte della ricerca verso nuovi orizzonti e gli esiti saranno inaspettatamente grandiosi. Nel frattempo si è riaccesa una nuova luce per dimenticare il buio sconfinato e spegnere ogni tentativo di dissoluzione della condizione umana. Uno dei risultati più affascinanti è la scomposizione dello spazio e della luce attraverso un approccio scientifico ancorché profano nelle vicende personali che sottendono ogni singolo artista e la vicinanza ormai stretta con la pittura rivoluzionaria del secondo Novecento. Fabio Merotto

Climate ChanCe 2019 Cambiamenti climatici 29 novembre 2019 Auditorium Santa Margherita e Chiesa dei Carmini, Venezia www.cut.it

ESPLORARE


Introduzione di Vincenzo Latina. Contributi di Alessandro Bonesini, Fabiano Micocci, Stefano Mudu, Danae Thomaidis, Chiara Varese, Elisa Zatta.


La “sacralità” del profano di Vincenzo Latina

The “sacredness” of the profane di Vincenzo Latina

Il profano, parte del sistema dualistico che fin dall’antichità regola le azioni degli umani, è generalmente legato al riconoscimento delle bipolarità che consentono di riconoscere e codificare i comportamenti. Buono-infame, bello-brutto, pulito-sporco, ordinato-disordinato, regolatocaotico, sacro-profano, puro-impuro sono soltanto alcuni opposti che regolano le nostre esistenze. Se il sacro è la virtù dell’uomo “elevato” a spirito, il profano rappresenta invece le pulsioni, gli istinti e l’irrazionale. La profanazione richiede la conoscenza esatta dell’opposto, del rito sacro, affinché si possa contaminare e possibilmente sovvertire. Le religioni monoteiste hanno sacralizzato la rinuncia, la castità, l’inviolabilità, valori fondamentali che in alcuni casi hanno radicalmente sovvertito, trasformando in profana, la sacralità di alcuni ancestrali riti orgiastici e propiziatori della fertilità e dell’abbondanza della natura. I pozzi nuragici, i culti lunari, i raduni nei boschi sacri delle “sacerdotesse di culti antichi” (trasformate in streghe da mandare al rogo), un tempo Riti Sacri, sono diventati blasfemi. Le Metamorfosi di Ovidio sono legate tra loro dal tema della trasformazione. Ogni motivo religioso svanisce. Il mito si umanizza e diventa favola. Dèi, semidei, eroi, ninfe popolano la fantasia del poeta. Gli amori degli dèi sono perversi, paradossali, scandalosi. Il maestro delle mutazioni è Giove, il sovrano degli dèi, che prende varie forme per possedere le creature di cui si invaghisce. Tale opera qualche secolo fa e persino di recente scandalizza ed è oggetto di censura in quanto opera “profana”. Il profano è interdipendente al sacro. Senza il luogo sacro, il “recinto”, non si potrebbe rappresentarne la sua profanazione, il sovvertimento delle regole. La sacralità è generalmente ricondotta all’ambito della “fede”, del mistero, del rito metafisico della trasmutazione. Ha bisogno di un preciso, ordinato e riconosciuto “processo”, di funzioni che rinnovino la rappresentazione del mistero. Tutto ciò non avviene in un luogo qualunque. Si individuano o si costruiscono appositamente dei dispositivi, delle ambientazioni, le quali si rendono necessarie affinché si possa perpetrare il rito. I luoghi, come se fossero delle cas-

The profane, as part of the dualistic system that since ancient times regulates the actions of humans, is generally linked to the recognition of bipolarities that allow to recognize and codify behaviors. Good-infamous, beautiful-ugly, cleandirty, tidy-messy, regulated-chaotic, sacred-profane, pureimpure are just some of the opposites that govern our lives. If the sacred is the virtue of the man "elevated" to spirit, the profane instead represents the impulses, the instincts and the irrational. The profanation requires the exact knowledge of the opposite, of the sacred rite, so that it can be contaminated and possibly subverted. The monotheistic religions have sacralized sacrifice, chastity, inviolability, fundamental values ​​of the monotheistic religions that in some cases have radically subverted into profane and turned the sacredness of some ancestral orgiastic and propitiatory rites of fertility and abundance of nature. The nuraghic wells, the lunar cults, the gatherings in the sacred woods of the "priestesses of ancient cults" (transformed into witches to be burned at the stake), once Sacred Rites,they have become blasphemous. Ovid's Metamorfosi are linked together by the theme of transformation. Every religious reason fades. The myth is humanized and becomes a fairy tale. Gods, demigods, heroes, nymphs populate the poet's imagination. Gods’ loves are perverse, paradoxical, scandalous. The master of mutations is Jupiter, the king of gods, who takes various forms to possess the creatures he falls in love with. Some centuries ago and even recently this work scandalizes and is object of censorship as a "profane" work. The profane is interdependent on the sacred. Without the sacred, the "fence", its profanation and the subversion of the rules couldn’t be represented. Sacredness is generally traced back within the context of the "faith", the mystery, the metaphysical rite of transmutation. It needs a precise and recognized "process", functions that renew the representation of the mystery. This doesn’t happen anywhere. Devices or settings are identified or built specifically and are necessary to perpetrate the ritual. The places, as if they were sound boxes, multipliers

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Sacro Federico Alcaro

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se di risonanza, dei moltiplicatori di emozioni dei medium, sono essenziali alla rappresentazione della sacralità del rito. Il sacro non si riduce soltanto alla rappresentazione dell’ordine ma aggiunge qualcosa di misterico, di profondamente irrazionale che è la fede a qualcosa o a qualche entità. Non sempre il sacro è bene e il profano è la rappresentazione del male. Leonardo da Vinci facendo largo uso della profanazione dei cadaveri compie un vero e proprio miracolo, scopre alcuni segreti del corpo umano che nessuno, sino ad allora, aveva mai rappresentato con dovizia di particolari anatomici. Eppure, compie dei reati punibili con severe pene perché dissezionare un corpo umano era da sempre stato considerata una profanazione. Tiziano Vecellio, nel celeberrimo dipinto Amor Sacro e Amor Profano, propone una metafora così ampia di interpretazioni nella quale, negli ultimi quattro secoli, molti critici nella loro interpretazione hanno più volte invertito le “figure” del sacro e profano. La nudità è purezza e il vestito nuziale è prossimo alla “profanazione del rito del matrimonio”, eppure in tanti immaginerebbero il contrario. Oggi la casa di Curzio Malaparte a Capri verrebbe percepita come una straordinaria “profanazione” di Punta Massullo. Francis Bacon, nei suoi dipinti, rappresenta il disfacimento del XX secolo, la profanazione corpi, dell’uomo. La profanazione delle chiese, dei luoghi di culto, dei cimiteri, dei corpi avviene soventemente come è successo a una chiesa sconsacrata, diventata cinema porno: Mignon. Cinema a Luci Rosse. Ogni cultura opera per dogmatismi e preconcetti, per cui a volte sacro e profano della purezza e dell’impurità, a volte si scambiano così come le mani destra e sinistra. È storicizzato l’immaginario popolare che vuole che “la destra è la mano pura, la mano dei saluti e dei giuramenti, mentre alla sinistra sono affidate tutte le funzioni impure e immonde. La prima è associata a ciò che è forte e legittimo, la seconda a ciò che è debole e malefico, così che un'eccessiva abilità della mano sinistra può essere interpretata come segno di un'indole “perversa e demoniaca” (Robert Hertz, La preminenza della destra: uno studio sulla polarità religiosa 1909, trad. ita Einaudi, Torino, 1994, p. 151), eppure è risaputo che alcuni geni dell’umanità erano mancini, proprio come Leonardo da Vinci.*

of emotions of the mediums, are essential to the representation of the ritual’s sacredness. The sacred is not reduced only to the representation of the order but adds something mysterious and profoundly irrational as the faith in something or in some entity. The sacred is not always good nor the profane is the representation of evil. Leonardo da Vinci, making extensive use of the profanation of corpses, performed a veritable miracle, discovering some secrets of the human body that no one, until then, had ever represented in abundance of anatomical details. However, he commited crimes punishable by severe penalties since dissecting a human body has always been considered a profanation. Tiziano Vecellio, in the famous painting "Amor Sacro e Amor Profano" proposed a metaphor with a wide range of interpretations in which, in the last four centuries, many critics in their interpretation have repeatedly inverted the "figures" of the sacred and the profane. Nudity is purity and the wedding dress is close to the "profanation of the rite of marriage", however there are many who would imagine the opposite. Today the house of Curzio Malaparte in Capri would be perceived as an extraordinary "profanation" of Punta Massullo. Francis Bacon, in his paintings, represented the disintegration of the 20th century, the profanation of bodies, of man. The desecration of churches, places of worship, cemeteries and bodies often happens as took place to a deconsecrated church, turned into red-light cinema: Mignon. Red-Light Cinema. Every culture works through dogmatism and preconceptions, so that sacred and profane of purity and impurity, sometimes exchange themselves like the right and left hands The popular imagination according to which "the right hand is the pure hand, the hand of greetings and oaths, while to the left one are entrusted all impure and unclean functions” is historicized. The right hand is associated with what is strong and legitimate, the second one to what is weak and evil, so that excessive skill of the left hand can be interpreted as a sign of a “perverse and demonic” character (Robert Hertz, “The Pre-Eminence of the Right Hand: a Study in Religious Polarity” 1909, trad. ita Einaudi, Torino, 1994, p. 151), even though it is known that some human geniuses were left-handed, like Leonardo da Vinci.*

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Profano Federico Alcaro

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Fabiano Micocci Docente a contratto presso l’Università della Tessaglia, Grecia. fabianomicocci@gmail.com

La profanazione dell’Acropoli

01. Athens by Hills. Point Supreme

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PROFANO


la profanazione come atto di negligenza è la vera opposizione all’improfanabile

I

n Età Classica l’Acropoli era il sacro luogo degli dèi, distinto da quello degli uomini perché inaccessibile. Solo il rito metteva in contatto gli uomini con il divino, seppur mantenendo la loro appartenenza a sfere separate. L’Acropoli diventava però accessibile ai cittadini di Atene che cercavano un rifugio nei momenti di pericolo, a tutti coloro che, come le vergini e le matrone, fuggivano da altri tipi di profanazioni che potevano verificarsi in città, e anche agli effetti personali e altri oggetti sacri di valore che potevano trovare tutela sulla collina (Nuttall, 2019) il cui accesso era infatti impedito a vagabondi, schiavi e ladri (Carpenter, 1979). Ma benché da secoli l’Acropoli abbia perso il suo significato religioso, le proiezioni e interpretazioni che suscita ancora oggi confermano il suo stato di esclusività (Augé, 2004). Attraverso la lettura di Profanazioni di Giorgio Agamben è possibile comprendere meglio la permanenza di tale separazione dal mondo degli uomini. L’Acropoli, divenuta nella società capitalista oggetto di spettacolo e di consumo, rappresenta quell’ambiguità tra sacro e pagano che Agamben individua nel capitalismo come culto: seppur non ci troviamo più di fronte a un luogo religioso, l’Acropoli non può essere restituita all’uso comune poiché nessun altro uso o trasformazione può essere previsto o solamente pensato. Se profanazione significa, infatti, ignorare la separazione tra le divinità e gli uomini attraverso la possibilità di usare diversamente ciò che era inizialmente escluso dalla vita degli uomini, per Agamben nella società capitalista si sancisce l’impossibilità stessa della profanazione, in altre parole l’improfanazione: perso il suo status di luogo sacro, l’Acropoli conserva una dimensione separata poiché il suo significato trascende lo spettacolo di se stessa come semplice rovina, una dimensione che testimonia appunto un’irriducibile incorruttibilità che sembra non poter esser profanata. Durante la crisi economica Atene è precipitata in una condizione di rovina, mentre l’Acropoli, in un continuo

The Profanation of the Acropolis Today the Acropolis stands with its imperturbably over Athens, a city condemned to ruination by the economic crisis. The profanation of the sacred stone of the Acropolis means to rethink the history of a city, of a country and of all the Western tradition. A history of profanation is told using the works by some architects that with negligence deal with the past, the present and the future of the Acropolis. Crossing the modern history of the monument, the image of the Acropolis is constantly reshaped, shattered and rebuilt, profaning what seems that cannot be profaned.* L’Acropoli si erge imperturbabile su Atene, una città condannata dalla crisi economica a uno stato di rovina. La profanazione della sacra roccia dell’Acropoli è un tentativo di ripensare la storia della città, dell’intero paese e di tutta la tradizione dell’Occidente. Una storia di profanazione è raccontata utilizzando il lavoro di alcuni architetti che con negligenza hanno affrontato il passato, il presente e il futuro dell’Acropoli. Attraversando la storia moderna del monumento, l’immagine dell’Acropoli è rimodellata, distrutta e ricostruita profanando quello che sembra non possa essere profanato.*

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02. A Disturbance of the Memory. Alexandros Maganiotis

e dispendioso processo di manutenzione e ricostruzione, risplende altezzosa e noncurante di ciò che accade ai suoi piedi. Resistendo così a ogni forma di vendita, l’Acropoli si sottrae al libero uso e al commercio, in completa antinomia con le politiche di austerity e di privatizzazione degli asset statali1. Monumento intoccabile, l’Acropoli è una delle poche cose da preservare mentre tutto è permesso ai suoi piedi. Secondo Agamben, il principale obiettivo delle nuove generazioni diventa la profanazione dell’improfanabile, ovvero la possibilità di invadere quel dispositivo che

sua prima visita ad Atene, Schinkel cominciò il progetto del palazzo senza averla neanche mai visitata. L’architetto tedesco disegnò nella parte sudorientale dell’Acropoli un complesso edificio a un livello al fine di non competere in altezza con i templi, mescolando codici che ricordano la Domus Augustana dell’Imperatore Flavio o la Collina del Palatino costruita per l’Imperatore Domiziano (Bastea, 1999). Il progetto in ogni caso invadeva il perimetro religioso e stabiliva un contatto immediato con le rovine dei templi. La proposta comunque fu rifiutata dal re Ludwig che proibì la contaminazione dell’antico con nuovi edifici (Bastea, 1999). L’architetto e artista greco Alexandros Maganiotis in A Disturbance of the Memory rielabora l’ambizione di Schinkel partendo dal disegno del prospetto laterale del progetto originario (img. 02). Lo stato di separazione/sacralità è sancito dalle parole che Sigmund Freud scrisse nel 1934 ricordando la sua prima visita ad Atene del 1904: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?”. Queste parole, iscritte come una linea orizzontale di cesura nel disegno di Maganiotis, separano la collina dalla città, o meglio l’attualità della visione dal tempo passato. La realtà storica imparata dai libri di scuola sembrava infatti solo un’illusione nel momento in cui ciò che Freud vedeva non sembrava vero perché l’Atene e l’Acropoli storiche non avevano nulla a che fare con quello che stava visitando (Augé, 2004). Allo stesso tempo, Maganiotis rappresenta la cima della collina invasa da simboli, incisioni e oggetti che echeggiano al fascino delle icone della ricchezza e del benessere importati dall’esterno, come ad esempio le macchine tedesche, ultimando quel processo di conquista del suolo e di ri-simbolizzazione ipotizzato da Schinkel. Se la profanazione presuppone di oltrepassare il limite sacro, allo stesso tempo questa può avvenire anche attraverso l’estensione di questo limite. Lo studio greco Point

l’Acropoli è una delle poche cose da preservare mentre tutto è permesso ai suoi piedi apparentemente difende il sacro da una vera intenzione profanatoria. Invadere l’Acropoli significa dunque ripensare alla storia della città di Atene, della Grecia e di tutta la tradizione Occidentale. Per fare ciò, secondo Agamben, occorre un atteggiamento negligente, libero e distratto “di fronte alle cose e al loro uso, alle forme della separazione e al loro significato” (Agamben, 2005). La profanazione dell’Acropoli può avvenire attraverso l’arte e la fantasia che, incuranti della legge, non esitano a demolire, ricostruire, e ri-formare operando un attacco al dispositivo mediatico - politico, turistico e culturale - che rappresenta l’Acropoli. Il primo che osò profanare l’Acropoli come evocazione e costruzione della storia (Augé, 2004) fu l’architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel. Nel 1834 fu incaricato da Maximilian, il fratello di Otto di Baviera, neoeletto re del nuovo Stato Greco, di progettare il palazzo reale sullo scarno e pietroso altopiano dell’Acropoli (img. 03). Il progetto nasceva da una singolarità: mentre per Maximilian quella fu la

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03. Progetto per la residenza del re sull’Acropoli. Project for the king’s residence on the Acropolis. Karl Friederich Schinkel

Supreme nel progetto Athens by Hills ipotizza l’urbanizzazione delle emergenze fisiche circostanti, oggi sporadicamente utilizzate, per generare un network di attrazioni per il divertimento e il tempo libero (img. 01). Mentre le altre colline vengono ri-funzionalizzate attraverso l’istallazione di nuovi monumenti e attrazioni, l’Acropoli, simbolo del consumo turistico e dell’edonismo globale, perde sia la sua supremazia storico-culturale sia la sua eccezionalità geografica. La vista a volo d’uccello di Athens by Hills riproduce la prima impressione che si ha arrivando con un aeroplano nella capitale greca e ridisegna una nuova geografia in cui il miracolo geografico dell’Acropoli (Brandi, 2012) è definitivamente dissolto. Se un nuovo modello geografico non riconosce più la sacralità della topografia, la collina dell’Acropoli diventa un semplice piedistallo che sostiene i monumenti per renderli visibili.

Kit Stiby Harris con il progetto Athens is a Ruin propone il prestito del Partenone al British Museum per risanare il debito dello stato Greco attraverso la ri-localizzazione del tempio nel quartiere di Bloomsbury a Londra (img. 04). Irriverente e apparentemente banale, la proposta intende denunciare la contraddizione tra lo stato di rovina e di abbandono della città afflitta dalla crisi economica e i dispendiosi interventi high-tech sul Partenone che, con lo scopo

il gioco è un atto di profanazione che però non abolisce ciò che vi è di sacro di mantenere il suo corrente stato di rovina, lo condannano a essere una copia di se stesso. Athens is a Ruin racconta soprattutto la definitiva perdita della sacralità del luogo condannando l’Acropoli a essere sostituibile e de-localizzabile nella società globale.

04. Athens is a Ruin. Kit Stiby Harris

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05. Acropoli, su un’immagine di Livio Marino Atellano. Acropoli, on the picture of Livio Marino Atellano. Beniamino Servino

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06. Archeo Fun. Carmelo Baglivo

La profanazione come atto di negligenza è la vera opposizione all’improfanabile, poiché non ne insulta la sacralità, ma piuttosto intende ri-utilizzare quello che si suppone esser sacro (Agamben, 2005). In Unfinished concrete frame as national monument Andreas Angelidakis sostitu-

Se il lavoro di Angelidakis è chiaramente un atto polemico nei confronti della costruzione della città moderna, Beniamino Servino invece sembra provare lo stesso sentimento che il filosofo francese Jean Grenier, vissuto troppo lontano dalla Grecia, lo lega, e allo stesso tempo, lo distanzia dall’Acropoli (Grenier, 2003). Servino opera una contaminazione attraverso la superiposizione di oggetti, superfici ed elementi assemblati in un disegno disomogeneo che rilegge le forme senza alcuno scrupolo per quelle formule da osservare per rispettare la separazione tra sacro e profano (Agamben, 2005). Nella sua visione dell’Acropoli i nuovi monumenti sembrano indicare la necessità del nuovo per abbandonare le certezze del passato (img. 05). Questa negligenza per Carmelo Baglivo è attuata attraverso il gioco, ovvero quel dispositivo che Agamben spiega come un uso incongruo del sacro che ipotizza una nuo-

la profanazione come atto di negligenza è la vera opposizione all’improfanabile isce la rovina del Partenone con quella di una struttura abbandonata in pilastri e solai di cemento armato di una comune palazzina residenziale. L’urbanizzazione della città moderna, e i suoi vizi edificatori guidati dal potere e dalla speculazione, negligentemente invade il suolo sacro dell’Acropoli che viene trattato come un lotto edificabile, innalzando una nuova rovina rappresentativa della contemporaneità (Angelidakis, 2011).

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07. Tempio e Struttura. Temple and Structure. Carmelo Baglivo

08. Cartolina da Atene. Postcard from Athens. Luca Galofaro

va dimensione dell’uso della rovina. Il gioco, infatti, libera l’immaginazione e distoglie l’umanità dalla soggezione alla sfera del sacro. E così gli scivoli policromi ad acqua che scendono dall’Eretteo (img. 06), l’aggiunta di un’enigmatica scatola nera che trasforma il Partenone in un piedistallo, o la moltiplicazione delle colonne su una griglia che ricorda il gioco da tavola Forza 4 (img. 07), sfidano la forza di gravità schiacciando verso il basso quello che sembrava rivolgersi verso il divino. Il gioco, come ritorno al rito perduto, restituisce all’uso comune gli spazi che erano stati confiscati. La modernità dell’Acropoli risiede dunque nell’interpretazione e nell’uso che se ne fa come atto di riscrittura. A questo proposito Luca Galofaro non esita a inserire all’interno del periptero del Partenone un frammento di un’architettura contemporanea, invadendo così i confini del sacro ed entrando in contatto fisico con la rovina stessa (img. 08). Questa inversione del rapporto di dipendenza del contemporaneo dall’antico viene esercitata attraverso l’uso del montaggio che, secondo Galofaro, seppur utilizzando immagini tra loro in collisione, riscrive una sorta di nuovo ordine (Galofaro, 2015) facendo un uso particolare della separazione tra sacro e profano. In questo caso vale la pena ricordare un passo del geografo Pausania il Periegeta in uno dei libri di Periegesi della Grecia. Citando un passo dello storico Filocoro di Atene, Pausania racconta un episodio di profanazione avvenuto nel 306 a.C. quando un cane salì sull’Acropoli ed entrò addirittura all’interno della cella est dell’Eretteo. Il cane, probabilmente sbadato, negligente secondo Agamben, sicuramente non fu neanche sorpreso di scoprire dove si trovava.*

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NOTE 1 – Nel 2017 il Consiglio Archeologico della Grecia (KAS) boccia la proposta, con un’offerta ipotizzata intorno ai 2 milioni di euro, della casa di moda Gucci per farsi affittare l’Acropoli per una sfilata di una notte. BIBLIOGRAFIA - Agamben G., “Profanazioni”, 2005, Nottetempo Edizioni, Milano, 2005. - Augé M., “Rovine e macerie. Il senso del tempo”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. - Βastea E., “Τhe Creation of the Modern Αthens. Planning the Myth”, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. - Brandi C., “Viaggio nella Grecia Antica”, Giunti, Firenze, 2012. - Carpenter R., “Gli Architetti del Partenone”, Einaudi, Torino, 1979. - Galofaro L., “An Atlas of Imagination”, Damdi, Seul, 2015. - Grenier J., “Ispirazioni Mediterranee”, Mesogea, Messina, 2003. - Nuttall P. A., “A Classical and Archaeological Dictionary of the Manners, Customs, Laws, Institutions, Arts, Etc. of the Celebrated Nations of Antiquity, and of the Middle Ages.”, Whittaker and Co., London, 1840.

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Alessandro Bonesini Dottorando in Filosofia, Direttore Ufficio Scuola Consolato Francoforte. alessandro.bonesini@phil.uni-halle.de

Koinè profana

01. Europaviertel, Francoforte, angolo Europa Allee e Schwalbacherstrasse. Europaviertel, Frankfurt am Main, corner Europa Allee and Schwalbacherstrasse. Alessandro Bonesini

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il tramonto del sacro e la lingua urbana della metropoli Profane Koinè The essay tries to show how the category of “profane” in the contemporary city has reworked the characters that were typical of religious architecture and sacred space. The buildings’ materials, the seriality of the modules and the refusal of the duration, confine the buildings in a present time that in fact exhausts its meaning. A new residential district of Frankfurt and an infrastructural redevelopment of Stuttgart are analyzed, as examples, in the current urbanistic fervor of Germany, of the tendency to the generalization of profane language, the so called “profane koinè”.* Il saggio cerca di mostrare come la categoria di “profano” nella città contemporanea abbia rielaborato i caratteri che furono tipici dell’architettura religiosa e dello spazio sacro. I materiali delle costruzioni, la serialità dei moduli e la rinuncia alla durata confinano gli edifici in un presente che di fatto ne esaurisce il significato. Si analizzano un nuovo quartiere residenziale di Francoforte e una riqualificazione infrastrutturale di Stoccarda, quali esempi, nel fervore urbanistico attuale della Germania, della tendenza alla generalizzazione del linguaggio profano, la koinè profana.*

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un ipotetico viaggiatore proveniente dal passato, la città contemporanea, nelle sue fasi evolutive che attraversano l’espansione periferica, la città policentrica e la metropoli reticolare (Pizzigoni, 2017), offrirebbe l’impressione di un interlocutore ambiguo1. Non sarebbe del tutto difficile, gettati nel XXI secolo, riconoscere nel tessuto urbano le funzioni dell’abitare, del dislocarsi, del comunicare2. Il viaggiatore avrebbe invece difficoltà a cogliere un sistema gerarchico nelle relazioni funzionali e organizzative espresse dalle forme della città, poiché l’aspetto degli edifici, anche dei più prominenti, non lascia più trasparire chiaramente l’appartenenza civile o religiosa, con la seconda largamente minoritaria nell’insieme urbano. Tracciare un profilo del profano nella storia e nella facies della città è questione aperta e vertiginosa. Inoltre, ragioni antropologiche, storiche e materiali impongono allo sguardo sul profano una dipendenza essenziale dal paradigma del sacro. È evidente che gli ultimi due secoli hanno decostruito più di qualsiasi altra l’architettura dello spazio sacro. Pur nella difficoltà attuale a distinguere spazi sacri nella città, si possono riscontrare alcuni caratteri distintivi che la tradizione degli edifici dedicati alla divinità ha in qualche modo consegnato al profano odierno. La città della tradizione occidentale (ameno fino agli inizi del XX secolo) identificava il sacro architettonico con gli attributi della preminenza, dell’intoccabilità, dell’accessibilità selettiva. Per quanto gli edifici simbolici del potere abbiano da sempre tentato di appropriarsi di questi caratteri, l’architettura fino alla fine del XVIII secolo li ha riservati sostanzialmente agli edifici sacri. Oggi si può sostenere che il profano abbia consumato la sua rivincita. Difficilmente un luogo di culto gode della prominenza nella forma urbis. La funzione del topos civile ha preso il sopravvento, leggibile innanzitutto nella sua visibilità. Nello spazio urbano contemporaneo, il nucleo identitario e immaginario della città si identifica sempre più spesso con le strutture immense realizzate dai gruppi di potere

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02. Europaviertel, Francoforte, edifici a schiera da Europa Allee a Tel Aviv Platz. Europaviertel, Frankfurt am Main, terraced buildings, Europa Allee. Alessandro Bonesini

internazionali (Mumford 2018)3. Le sedi delle multinazionali e dei gruppi bancari (e in minor misura quelle delle istituzioni politiche) diventano spazi a cui si accede con difficoltà, disegnando una gerarchia funzionale che si riflette nella differenziazione fra cittadini. La natura stessa di questa ibridazione di sacro e profano diventa problematica e conflittuale. Fra di essi la metropoli contemporanea opera rovesciamenti. La dimensione elitaria dell’accesso ai simboli della metropoli si allinea sempre più a fratture censuarie all’interno della cittadinanza. Tali spazi inoltre risultano per

La natura modulare e seriale delle cellule compositive, la replicabilità industriale dei componenti, l’origine altamente specializzata dei materiali li allontana, per paradosso, dalla possibilità di appropriarsi di un significato permanente. L’obsolescenza prevedibile, legata non tanto al tempo che si aspetta, ma all’analisi costi-benefici che si pianifica, depotenzia il valore materiale del costruito, installandovi, insieme alle finiture, anche una finitezza di natura utilitaristica. L’edificio è profano dentro perché la sua ragion d’essere è indistinguibile dal presente. In questa prospettiva, accadrà presto che spesso il progetto, come processo di conoscenza e come oggetto culturale, avrà un valore superiore alla sua trasfigurazione in oggetto architettonico. Questa natura occasionalistica del materiale tende ad accomunare le diverse tipologie formali, pur pensate per funzioni diverse. La dimensione del profano dunque si generalizza e diventa linguaggio interpretativo urbano globale. Anche negli edifici residenziali le tecniche costruttive sono sempre più seriali e sostanzialmente prive di qualsiasi carattere distintivo che offra riferimenti a una differenza topologica e antropologica. La qualità generale dei materiali tende a decadere, secondo una funzione per cui l’efficienza è inversamente proporzionale alla differenziabilità. L’accezione profana dell’abitare si riveste pertanto di significati diluiti e immiseriti. Lo spazio per la personalizzazione dell’abitazione si restringe a episodi superficiali, delimitati dai regolamenti civici e condominiali, e dalla scadenza dei contratti d’affitto. Un quartiere pianifica non soltanto lo spazio, ma anche il modello di vita degli abitanti. Ne è un esempio l’Europaviertel di Francoforte, progetto implementato dalle società di sviluppo Aurelis e Vivico che ospiterà 10 mila persone e 30 mila lavoratori nel luogo dove fino ai primi anni 2000 esisteva uno scalo merci. L’intervento incerniera i distretti di Gallus e Kuhwaldsiedlung, fino ad ora interrotti dalla linea ferroviaria.

è nella sua declinazione materiale che il profano si compromette con la qualità della percezione lo più intoccabili, indisponibili per utilizzi non codificati, e per questo protetti da cordoni di sicurezza fisici o tecnologici. Accanto dunque all’occupazione dello spazio simbolico, le cattedrali laiche si appropriano di una distanza reverenziale, che ne ricostruisce la funzionalità templare, ben riflessa nel linguaggio spesso utilizzato per riferirvisi. “Si cerca, nel sacro - nella Distanza assoluta - l’immobilità e l’immutabilità del valore” (Tadini, 1998). Accanto all’omologazione delle dimensioni e delle forme, il carattere ormai generalmente profano della città si esprime nella natura seriale dei materiali e nella rinuncia alla durata. La pretesa di sacro da parte di un profano trionfante si declina in un linguaggio equivoco che tradisce un’identità non raggiunta. È nella sua declinazione materiale che il profano si compromette con la qualità della percezione che l’uomo sperimenta nei confronti dell’architettura. Questo confronto è parte costitutiva della disciplina stessa, dato che l’architettura è la sola arte la cui fruizione si impone a prescindere dalla volontà degli individui.

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03. Europaviertel, Francoforte, angolo Tel Aviv Platz ed Europa Allee. Europaviertel, Frankfurt am Main, corner Tel Aviv Platz and Europa Allee. Alessandro Bonesini

Si tratta di un’espansione destinata a residenza di alto livello, con la presenza di tutti i servizi alla vita familiare in loco. La facies degli edifici ripropone la serialità e l’uniformità tipica della “tecnocittà”. Non sono ammessi altri colori se non il bianco, il nero e le sfumature di grigio. Al di sotto della apparente neutralità del messaggio iconico, sarebbe interessante indagare i sottesi etici di una tale scelta percettiva, che certo non rimangono estranei alla dialettica della fruizione. Anche qui, il fenomeno distorsivo della tensione fra profano e sacro si ripropone, nel nome della rappresentazione Europea, dislocandosi al polo ovest della città, specularmente all’ombra vigile del tempio della torre (gemella) della Europäische Zentralbank a Ostend. Protetto da più accorto investimento nel business plan e indizio del crescente pragmatismo germanico, l’Europaviertel addomestica lo Streben utopico palaziale che fu della “Neue

Stadt Wulfen” (Nordrhein-Westfalen, 1973-1975). Incarnazione mancata del simbolismo critico verso le sperimentazioni seriali degli anni ’50 e ’60, la Metastadt rimase un’operazione urbanistica da tavolino, in cui la componente utopica non riuscì a mantenere le promesse risolutive dello strumentario

il carattere profano si esprime nella natura seriale dei materiali e nella rinuncia alla durata

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tecnologico4. Segmento urbano di eccellenza, l’Europaviertel archivia invece la qualifica architettonica dell’oggetto, declinando il compromesso del conformismo censuario, e sopravvive come disegno di una città quantitativa. Altre sezioni significative della metropoli scivolano progressivamente nell’alveo del profano. Si legga la reviviscen-

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04. P. Bonatz e F. Scholer, Stoccarda, Stazione Ferroviaria, vestibolo (1911-1928). P. Bonatz and F. Scholer, Stuttgart, Railway Main Station, hall (1911-1928). Alessandro Bonesini

za della stazione ferroviaria di Stoccarda, che sorse fra il 1911 e il 1928 su progetto di Paul Bonatz e Friedrich Scholer, anticipazione della “Nuova Oggettività” (Hajdu e Seeger, 2011). Si tratta di un esempio della trasposizione del linguaggio sacro in una infrastruttura che oggi sta compiendo un altro passo della sua evoluzione5. Il disegno ad arcate a tutto sesto, il tessuto murario in conci di pietra lavorati

seldorf prevede l’isolamento paesaggistico del complesso edificato, con l’interramento dei binari e dei servizi. Ne risulterà una sostanziale rilettura dell’intera area viabilistica circostante, con una valorizzazione dell’edificio monumentale quale porta urbica per il centro cittadino. Il contenuto del volume storico evolve in un polo multiservizi a disposizione della mobilità e della città, accentuando le funzioni commerciali (Heissenbüttel 2017). Il risultato percettivo sarà una riaffermazione dell’ambiguità linguistica, nella cristallizzazione dell’immagine non tanto di un sacro profanato, quanto di un profano divenuto koinè espressiva6. Il profano generalizzato diventa il linguaggio utilizzabile anche per il sacro. In questo senso, costruire il sacro sfocia in una pretesa contraddittoria. Riferendosi all’episteme filosofica e teologica grecocristiana, Severino esclude che si possa declinare il sacro

il profano generalizzato diventa il linguaggio utilizzabile anche per il sacro e non e in laterizio, i vestiboli dal volume monumentale, la torre quasi campanaria, rappresentano un utilizzo di moduli dismessi del linguaggio ecclesiastico creando una sorta di ecclesia del pellegrinaggio su rotaia. Il progetto di riqualificazione a cura dello Studio Ingenhoven di Düs-

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06. P. Bonatz e F. Scholer, Stoccarda, Stazione Ferroviaria, corpo sud-est (1911-1928). P. Bonatz and F. Scholer, Stuttgart, Railway Main Station, south-east unit (1911-1928). Alessandro Bonesini NOTE 1 – Per Pizzigoni, “l’esperienza contemporanea del contesto urbano va verso la dimensione della non-territorialità”. 2 – Nella Carta di Atene, a queste tre funzioni si aggiunge la funzione del lavorare, questa pure di difficile riconoscimento nell’ipotesi adottata. 3 – Mumford individua nelle forze economico-finanziarie uno dei motori dello sviluppo della metropoli industrial e post industriale. 4 – Nel numero 2 del 2019 di “der arkitekt”, dedicato a “Tipi e serie. Tradizioni, possibilità, limiti”, Andreas Denk esamina la prima versione della Metastadt, partendo dal valore seriale e tipizzato del costruito residenziale. 5 – Il progetto dello Studio Ingenhoven ha comportato l’abbattimento dell’ala nord del prospetto ovest, per fare spazio ai nuovi binari, disposti a 90 gradi rispetto all’assetto attuale. 6 – Heissenbüttel analizza il cantiere ed il progetto nel contesto di una lettura dello stato di avanzamento dei lavori, che peraltro viene aggiornata periodicamente dalle autorità. 7 – Il riferimento non sembri eccessivo. Comprendere la dialettica sacro-profano nell’intervento del pensiero umano sul mondo che è l’architettura, implica una filosofia. Diversamente, si decora il linguaggio.

05. Europaviertel, Francoforte, torri di ingresso alla Europa Allee. Europaviertel, Frankfurt am Main, entrance towers to Europa Allee. Alessandro Bonesini

nel presente. “La ‘figura’ (Gestaltung) che l’architettura conferisce allo spazio rispecchia cioè in se stessa l’Ordinamento eterno che viene mostrato da tale sapienza”7. Nessuna percezione dell’eterno caratterizza l’essenza dell’architettura odierna. Ciò che il profano indossa occasionalmente sono frammenti funzionali che esprimono gerarchie finite a carattere compensativo. Una seppur parziale conclusione di quanto qui discusso, porta a pensare che il profano nella costruzione della città abbia occupato ormai gran parte dei linguaggi espressivi dell’architettura. Questo linguaggio dalla sostanza consumistica e indistinta rischia tuttavia di compromettere la permanenza di significato del profano stesso. Il sacro invece, come carattere antitetico al profano, non appartiene ormai più al disegno della città.*

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BIBLIOGRAFIA - CIAM, “La carta d’Atene” (Le Corbusier), con un discorso preliminare di Jean Giraudoux (Traduzione dal francese di C. De Roberto), Milano, Edizioni di Comunità, 1960. - Denk A., “Gescheitertes Symbol. Die Metastadt in der Neuen Stadt Wulfen”, in “der architekt, Bund Deutscher Architekten BDA”, 2-2019, typ und serie. traditionen, möglichkeiten, grenzen, pp. 44-45. - Mumford E., “Designing the Modern City. Urbanism Since 1850”, Yale University Press, New Haven and London, 2018. - Hajdu R., Seeger U., “Hauptbahnhof Stuttgart. Ein Wahrzeichnen in Bildern”, Thorbecke, 2011. - Heissenbuettel D., (Fotos: Achim Birnbaum; Arnim Kilgus), “Von der Hand in den Mund. Stuttgart 21 - Über den Stand der Dinge”, in “Deutsche Bauzeitung, Zeitschrift für Architekten und Bauingenieure”, 2017, n. 10, pp. 32-38. - Pizzigoni A., “La città ostile. Realtà dell’architettura urbana nelle sue contraddizioni storiche”, Christian Marinotti Edizioni, 2017, p. 24. - Severino E., “Tecnica e architettura”, Raffaello Cortina editore, 2003, p. 89. - Tadini E., “La distanza”, Einaudi, 1998, p. 65.

Quelle proposte non sono fotografie. Tutte le immagini sono ottenute tramite una personale tecnica di ritocco a mano a partire da scatti in bianco e nero. La fotografia originale viene prima elaborata, poi trasposta su carta, successivamente ritoccata a inchiostro e a matita, e infine riacquisita. La ragione di questa scelta, consiste nel restituire una percezione di movimento interno e di “imprecisione” all’immagine, quasi avvicinandola al disegno, o meglio, spostandola leggermente dalla precisione della riproduzione, per allineare la visione riprodotta alla dimensione rappresentativa “confusa” della memoria. Lo scopo è quello di evocare la dimensione del ricordo e della soggettività, più che affidarsi semplicemente ad una fedeltà che risponde al misurabile. Il rapporto con il testo è dato dal soggetto rappresentato, che viene trattato nel testo stesso. La tecnica non ha che vedere con il testo specifico, come qualsiasi altra rappresentazione. Si tratta di una scelta dell’autore.

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Stefano Mudu Dottorando in Arti Visive e Cultura Visuale, Università Iuav Venezia. smudu@iuav.it

Danae Thomaidis Dottoranda Storia dell’arte, Università Ca’ Foscari, Venezia. danai.thomaidis@unive.it

Sacri rituali in spazi profani

01. The Modern Procession 2002. Francis Alÿs, Amy Elliot

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la migrazione delle immagini folkloristiche nell’arte contemporanea Sacred Rituals in Profane Spaces This work aims to underline the constants and changes that the religious processional model underwent through the centuries before being recovered by contemporary art. Starting in the 2000s, it began to operate as a critical and aesthetic choice that re-enacted its religious iconography and brought its sacredness into crisis.What follows is a critical reading of the performance The Modern Procession (conceived by Francis Alÿs in 2002) in light of theories on folklore developed by cultural studies in recent years.* Questo lavoro vuole individuare le costanti e i mutamenti che il modello processionale religioso ha attraversato nei secoli prima di essere recuperato dall’arte contemporanea che, a partire dagli anni Duemila, ha operato la scelta critica ed estetica di ri-mettere-in-scena l’iconografia sino a metterne in crisi la sacralità. Segue la rilettura critica della performance The Modern Procession (prodotta da Francis Alÿs nel 2002) alla luce delle teorie sul folklore sviluppate dagli studi culturali negli ultimi anni.*

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i dice memorabile qualsiasi evento il cui ricordo sia destinato a rimanere e durare nel tempo, modificando, influenzando e addirittura costruendo, la percezione individuale o collettiva sullo stesso. L’esito di una guerra, l’inizio di una stagione, un’occorrenza religiosa, hanno sempre suggellato la propria unicità tramite manifestazioni di grande partecipazione popolare o collettiva e attraverso attività performative che hanno spesso coinciso con processioni o parate; momenti rituali che hanno ripetuto per secoli i medesimi percorsi nel tentativo di ribadire il legame con l’oggetto da omaggiare. La celebrazione corale ha sempre mirato a un rafforzamento identitario, tanto necessario al riconoscimento nell’altro, quanto funzionale alla condivisione dell’emozione relativa all’occasione commemorata: il dolore per il sacrificio di Cristo, la gioia per la sua resurrezione, l’orgoglio per l’esito positivo di una guerra o la disperata richiesta di un intervento divino. La ritualità processionale religiosa, nella fattispecie, ha sempre avuto come obiettivo ribadire la veridicità di una narrazione dominante, la possibilità di riviverla, ri-metterla-in-scena e, così facendo, ristabilire la legittimità di un passato nel quale i partecipanti si riconoscano1. Non a caso queste prerogative hanno portato alla costruzione di eventi dalle condizioni estetiche peculiari, modulati su sequenze di azioni in grado di associare gli stimoli visivi a esperienze multisensoriali potenti e conturbanti. Secondo gli studi demologici2 d’altronde, l’eccezionalità o l’importanza di un fatto è proporzionale alla vividezza con cui esso è trasmesso; condizione che fa del rito, rispetto alla tradizione orale, lo strumento efficace per il perpetrare di particolari “ideologie di senso”. In generale le processioni hanno sempre fornito una trasposizione teatrale della struttura sociale, in cui ogni componente è cosciente del proprio ruolo (Haarmann 2014, p. 157) e qualsiasi variante risponde alle alterazioni e alle modificazioni subite dal gruppo sociale che vi appartiene.

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02. Il percorso processionale. The processional route. David Allison

Basti pensare alle heortaì3 celebrate nella Grecia classica in occasione delle festività in onore di Demetra. La processione che da Atene portava al tempio della dea a Eleusi, si svolge ancora oggi nella versione cristiana, i cui fedeli, devoti alla Vergine (protettrice del raccolto), omaggiano un’i-

il passaggio al monoteismo comportò estremi cambiamenti sociali a cui corrispose una generale ridefinizione della processione in termini simbolici e relazionali pur salvando la configurazione estetica. I momenti principali della vita di Cristo vennero abbinati a un calendario civile differente da quello pagano ma il ruolo della comunità nella costruzione del momento performativo rimase pressoché invariata. Per quanto definisca e rafforzi l’aspetto identitario e relazionale del gruppo umano che vi prende parte infatti, la sopravvivenza di un momento processionale deve fare i conti con la sua prospettiva diacronica (Mugnaini, 2001). Pur rispettando una scansione temporale ripetitiva, fedele e scrupolosa, la processione o la parata – e in generale la maggioranza degli oggetti rituali – si aggiorna e adatta ai significati che le attribuisce il contesto socioculturale in atto. Cioè, di volta in volta, inserisce una variante

la ritualità processionale religiosa ha sempre avuto come obiettivo ribadire la veridicità di una narrazione dominante cona “aggiornata”. O si pensi ancora alle ricorrenze festive migrate dal contesto greco a quello romano imperiale dove l’oggetto processionale si adattava alle esigenze della communitas di riferimento, aggiornando le proprie icone ma mantenendo il carattere poli-sensoriale della processione4. Con l’affermazione e la diffusione del Cristianesimo invece,

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alla ripetizione (Deleuze, 1997) che si imposta solitamente sul piano estetico per rettificarne una su quello ideologico: dalla “pratica al discorso” (Mugnaini, 2001). Le forme processionali sono tutt’oggi la manifestazione esemplare della resistenza e dell’aggiornamento della cultura popolare tanto da definire un materiale antropologico complesso e utilizzabile come “risorsa sociale disponibile” (Mugnaini, 2008): aggiornabile, occorrente in altri ambiti e contesti, impregnata di significati mutabili. A partire dal tardo Novecento ad esempio, mentre l’antropologia riservava un ambito specifico agli studi folklorici (Dei, 2012), l’arte contemporanea – mossa come tante altre discipline da una generale democratizzazione della cultura5 – iniziava a interpretarne simboli e icone piegandoli al proprio regime estetico e spesso producendo oggetti artistici complessi e simbolicamente stratificati. Il risultato è stata la produzione di uno strano sincretismo i cui re-enactment antropologici, operati da artisti etnografi (Foster, 1995), si impostano come sintomi (Deleuze, 1989) di immagini migrate e ri-messe-in-forma in nuovi contesti; “emergenze” (Dei, 2012) estetiche di un passato irriproducibile nella struttura sociale corrente e pertanto produttrici di uno slittamento semantico da cui non è esclusa la dimensione religiosa. L’artista contemporaneo si appropria della sua configurazione estetica e la mette al servizio della sua produzione perlopiù laica; crea ambiziose interpretazioni della stessa e le riproduce in contesti liminali per ridefinire il rapporto tra sacro e profano, quotidiano e straordinario (Turner, 2006). La mattina del 23 giugno del 2002 un gruppo di centocinquanta persone marciò per il Queensboro Bridge accompagnato da una fanfara ufficiale e trasportando su appositi fercoli tre capolavori artistici – Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, la celebre Ruota di bicicletta di Duchamp, lo Stan-

03. Il passaggio della processione sul ponte. The passage of the procession on the bridge. Francis Alÿs, Amy Elliot

la mattina del 23 giugno 2002 un gruppo di centocinquanta persone marciò per il Queensboro Bridge accompagnato da una fanfara ufficiale

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ding Man di Giacometti – e l’artista Kiki Smith in persona. The Modern Procession, organizzata da Francis Alÿs (Anversa, 1959) in collaborazione con il Dipartimento di Public Art Fund del MoMA (Museum of Modern Art, New York), consistette in una cerimonia processionale in occasione del temporaneo spostamento del museo dalla sua storica sede a quella di Long Island City, nel Queens.

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04. L’artista Kiki Smith e l’opera di Picasso “Les Demoiselles d’Avignon” trasportati durante la processione. The artist Kiki Smith and the Picasso’s work “Les Demoiselles d ‘Avignon” carried during the procession. Francis Alÿs, Amy Elliot

La solennità della rappresentazione e la particolarità degli oggetti devozionali trasportati, non solo confermano quanto affermato sul recupero della configurazione processionale, ma sottolineano i disallineamenti di cui i nuovi esempi sono investiti sul piano simbolico-ideologico: The Modern Procession si presenta allo spettatore come un rituale urbano sincretico che simula la tradizionale funzione spaziale e temporale della cerimonia ma ne affronta la manifestazione come sintomi di un terreno di stratificazioni ideologiche decodificabili tramite le soggettività che lo determinano (Mugnaini, 2001). L’esperienza di communitas generata dal paseos6 collettivo descrive infatti un modello di società che va oltre quelli precedentemente descritti: la fede per le icone religiose è rimpiazzata dalla venerazione per altre “reliquie”, ora moderne e contemporanee, prodotte dall’uomo e a loro modo mistiche. La processione newyorkese sottolinea come la migrazione delle immagini folkloriche coincida con la legit-

tima estensione del culto ad altri aspetti del vivere sociale: l’oggetto artistico diventa un simulacro (Bourriaud, 2004), la performance un pellegrinaggio e il museo, istituzione laica per eccellenza, rappresenta uno spazio ecclesiastico in cui il fedele-spettatore esperisce l’apice della venerabilità. The Modern Procession descrive un “transfert di sacralità” (Mugnaini, 2001) dimostrando contemporaneamente l’attualità dei riferimenti sacri, l’omaggio agli stessi tramite il loro opposto ed evocando il ruolo che l’arte assume nella sensibilità individuale. Ma più in generale, del già citato equilibrio tra “pratica e discorso” nel modello processionale religioso, l’arte contemporanea preserva invariata la configurazione estetica per investirla di ideologie – o significati – altri: definisce un nuovo folklore o “folklorismo” (Dei, 2012) che, come un inedito immaginario, descrive l’arte come un deposito di segni e oggetti di culto, venerabili e riposizionabili nella loro sincronia.

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05. Il passaggio della processione sul ponte. The passage of the procession on the bridge. Francis Alÿs, Amy Elliot

Solamente il legame con una produzione materiale ordinata secondo temporalità plurime e coeve (denial of coevalness: Fabian,1980) permette la costruzione di momenti occasionalmente sincronici come quelle di The Modern Procession e sempre più comuni per l’arte contemporanea. Il prodotto etnografico, il rituale e il popolare sono diventati oggetti di contemplazione estetica e la loro riproposizione nel sistema artistico ha ingrossato le fila di un folk revival (Dei, 2012) in grado di annullare “l’alterità sociale e spaziale” a favore di una generale valorizzazione – talvolta appropriazione – dei fenomeni folklorici.*

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NOTE 1 – Luis Marin definisce la processione come un “apparatus in the art of memory”. Marin L., “Notes on a semiotic approach to parade procession”, in Falassi A. (a cura di), “Time Out of Time: Essays on the Festival”, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1967, p. 227. Sullo stesso argomento nel mondo greco si veda Ashley K.M., “Moving Subjects”, Rodopi, Amsterdam-Atalanta 2001, p.44. Le parole e i gesti della processione servivano a ri-attualizzare l’evento originale che la processione voleva commemorare. 2 – Quell’ambito dell’antropologia che si focalizza sulle specificità relative al folklore, alle tradizioni popolari o all’etnologia regionale. 3 – Gruppi di fedeli partecipanti alle celebrazioni processionali, poi riconosciuti come gruppi teatrali. 4 – I busti delle divinità venivano accompagnati da musiche, canti e incensi profumati. 5 – Il folklore non è più, solamente, un caso di studio specialistico ma un oggetto d’interesse per il consumo di massa. 6 – Francis Alÿs è conosciuto per i suoi paseos, delle passeggiate performative in cui l’azione della camminata diventa un viaggio urbano. BIBLIOGRAFIA - Clemente P., Mugnaini F. (a cura di), “Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea”, Carocci, Roma, 2015. - Dei F., “Antropologia culturale”, Il Mulino, Bologna, 2012. - Deleuze G., “Differenza e ripetizione”, Cortina Raffaello Editore, 1997. - Foster H., “The Artist as Ethnographer?”, in Marcus G.E., Myers F.R. (a cura di), “The traffic in culture. Refiguring art and anthropology”, University of California Press, Londra, 1995, pp. 302-308. - Haarmann H., “Roots of Ancient Greek Civilization: The Influence of Old Europe”, McFarland, 2014. - Montgomery H., Pellizzi F., “Project 76: Francis Alÿs’s The Modern procession, The Museum of Modern art”, Department of Prints and Illustrated Books, New York, 2002. - Turner E., “Communitas. The Anthropology of Collective Joy”, Palgrave, Macmillan New York US, 2002, https://doi.org/10.1007/978-1-137-08286-2.

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Chiara Varese Studentessa triennale in DAMS (discipline delle arti, della musica, dello spettacolo). chiara.varese@edu.unito.it

Cristo si è fermato a Roma

01. La dolce vita (Federico Fellini, 1960), scena del miracolo. La dolce vita (Federico Fellini, 1960), scene of the miracle. Fotogramma del film

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idoli di ieri e di oggi: dalla Roma de La dolce vita a quella contemporanea Christ stopped in Rome Through the analysis of some sequences of a fundamental movie such as Fellini’s “La dolce vita”, and referring also to other contemporary film works, the contribution aims to reflect on how the economic miracle (an expression in itself emblematic because it combines the idea of the sacred with something outside its borders) changed the face of the country - and the landscape - in the years after the Second World War, and how cinema has been able to bring about this change, documenting the reality to invent a new one. In the central part, ample space is dedicated to the figure of the film star as the survival of a religious ferment in a society on the verge of “desacralization”.* Attraverso l’analisi di alcune sequenze di un film summa di un’epoca come La dolce vita di Fellini, e facendo riferimento anche ad altre opere cinematografiche coeve, il contributo intende ragionare su come il miracolo economico (un’espressione di per sé emblematica in quanto accosta l’idea di sacro a qualcosa che sta fuori dai suoi confini) abbia cambiato faccia al paese – e al paesaggio – negli anni del secondo dopoguerra, e a come il cinema sia stato capace di farsi portatore di questo cambiamento, documentando la realtà per plasmarne una nuova. Ampio spazio è dedicato alla figura del divo cinematografico come sopravvivenza di un fermento religioso in una società in via di “desacralizzazione”.*

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oma, esterno acquedotto Claudio. Giorno. Due elicotteri volano in direzione della macchina da presa. Il primo trasporta la statua di un Cristo con le braccia spalancate, il secondo lo segue a distanza ravvicinata. Il cielo è terso, l’ombra della statua si proietta sulle pareti delle rovine. La prima immagine de La dolce vita (Federico Fellini, 1960) è un ossimoro visivo di straordinaria forza, è l’incontro/scontro tra la modernità e la tradizione, la mobilità del velivolo e la fissità, la ieraticità del simbolo cristiano. Dissolvenza incrociata su un gruppo di ragazzini che rincorrono gli elicotteri con le braccia alzate al cielo: la vita misera e anonima aspira a raggiungere la grandezza di quella cinematografica. Urlano, si esaltano, si accalcano in prossimità di un cantiere, poi spariscono dietro a un mucchio di casoni bianchi. Il campo visivo s’allarga: ancora palazzoni, abbozzi e scheletri di palazzoni; due operai smettono di lavorare e guardano in su. Dopo un’ideale benedizione dei nuovi quartieri periferici, efflorescenza del miracolo economico, il velivolo procede in direzione del centro e lo scenario cambia. Un gruppo di ragazze prende il sole su una terrazza, una fonte non visibile riproduce un pezzo di musica leggera. Indossano bikini audaci e una regge in mano un bicchiere con una bibita che pare Coca Cola – le mode americane dilagano dopo il digiuno autarchico del ventennio fascista e degli anni della guerra. “Guarda, è Gesù!”, salutano con la mano. Il secondo apparecchio compie un giro su se stesso, Marcello Mastroianni e i suoi paparazzi guadagnano un campo medio e ricambiano i saluti. Marcello appare immediatamente diverso dai due colleghi, ha le connotazioni del divo. Indossa un paio di Persol neri, un accessorio di moda che grazie a lui – li ritroviamo in Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961) e 8½ (Federico Fellini, 1963) – diventa un must di quegli anni, un oggetto-feticcio denso di riferimenti semantici. “Dove la portate?”, non si sente niente, il rumore è sovradimensionato: “La portano dal Papa”.

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02. L’elicottero con la statua del Cristo vola sulla città di Roma catturando l’attenzione di un gruppo di ragazze in bikini. The helicopter with the statue of Christ flies over the city of Rome capturing the attention of a group of girls in bikinis. Fotogramma del film

dopo un’ideale benedizione dei nuovi quartieri periferici, efflorescenza del miracolo economico, il velivolo procede in direzione del centro e lo scenario cambia Finito il breve colloquio, il dio e il divo cinematografico ripartono alla volta di San Pietro (img. 02). Si sentono le campane suonare a festa. Il primo elicottero, con la statua dondolante al disotto, volteggia intorno alla cupola e si libra sulla piazza gremita di gente. Stacco netto sull’interno di un locale notturno: un ballerino, mascherato da idolo di una religione orientale (è lo stereotipo della religione orientale in una città-mondo occidentale che fagocita tutto, trasforma tutto e di tutto fa spettacolo) si esibisce in un numero alquanto bizzarro, circondato da un’umanità altrettanto bizzarra: principi, attori, mantenute, celebrità varie del sottobosco romano e gli immancabili, sfacciatissimi paparazzi. Riecco anche Mastroianni. Marcello è Marcello, un bel giornalista inetto e insoddisfatto che campa con le cronache mondane, frustrato dall’imbastardimento della propria vocazione letteraria e in attesa di un riscatto intellettuale e spirituale che non avverrà mai. Si è tolto gli occhiali da sole ma ha in bocca una sigaretta, svogliata-

mente appoggiata tra le labbra, e in mano regge un taccuino. Una posa naturale e al contempo costruita. Costruita perché è un vezzo da divo o da intellettuale quello di tenere la sigaretta a quel modo, un gesto di cui lo spettatore/ consumatore si appropria per appropriarsi implicitamente di un certo stile di vita, naturale perché nella realtà Mastroianni è effettivamente un divo. Il cortocircuito semantico è più che evidente. La dolce vita è un’opera aperta che potrebbe proliferare all’infinito, avendo essa infinite cose da dire. Allo stesso tempo però, proprio in virtù di questa sua struttura e di questa sua forza espressiva, ogni sequenza, ogni affresco, gode di un’autosufficienza sconosciuta non solo ad altre pellicole, ma anche ad altre opere d’arte in generale. Quello che queste prime immagini sembrano voler dire e che il resto del film pare confermare – e tutto senza quasi battute di dialogo a veicolare il messaggio, senza cioè che allo spettatore sia richiesto nulla se non di

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una forma di alterità completa ed esclusiva è impensabile in società altamente razionali, individualiste, consumiste

03. Statua di San Francesco in piazza San Giovanni, Roma, 1960. Statue of St. Francis in Piazza San Giovanni, Rome, 1960. Paolo di Paolo 04. In “Divorzio all’italiana” (Pietro Germi, 1961) si va al cinema a vedere La dolce vita di Fellin. Anita Ekberg si scatena in un ballo prima di fuggire dalla festa ed essere inseguita da Marcello. In “Divorzio all’italiana” (Pietro Germi, 1961) people go to the cinema to see La dolce vita by Fellini. Anita Ekberg goes wild in a dance before escaping from the party and being chased by Marcello. Fotogramma del film

guardare – è che Dio, il Completamente Altro, non abita più a Roma: forme di alterità complete ed esclusive sono impensabili in società altamente razionali, individualiste, consumiste. Nelle culture arcaiche, al di fuori dello spazio della città, rigidamente protetto da mura (effettive o ideali) e ordinato intorno al tempio/cattedrale e ai suoi sacri riti, al di là cioè del fanus, del luogo consacrato, non vi è che disordine e confusione. Chi tenta di oltrepassare il confine fra l’uno e l’altro mondo è bollato come eretico e profano, e di conseguenza punito più o meno rigidamente. Man mano che le società si evolvono, e che il corpo urbano si trasforma e rimodella confondendo città consolidata e periferie in espansione, edificato e non costruito, naturale e artificiale, questo confine diviene sempre più labile e imprecisato, arrivando persino ad annullarsi nella condizione di postmodernità, in cui sacro e profano non si escludono più a vicenda ma paiono anzi essere uniti in un groviglio inestricabile (img. 03).

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Nell’Italia de La dolce vita, una parvenza di religiosità sopravvivere e si reinventa tra banalizzazione e spettacolarizzazione. L’intensità del mito si è abbassata1: gli dei implacabili, potenti e granitici non esistono più, ma “Chi cerca Dio lo trova dove vuole”2 perché la sua essenza, depotenziata e parcellizzata, è assimilata “da milioni di persone non [più] attraverso la solennità del rito bensì attraverso la ripetizione spesso inconsapevole degli atti di consumo”3. Nell’Olimpo della cultura di massa, le figure più prossime a un dio sono quelle dei divi cinematografici, ispiratori di un culto “che si situa in una zona mista e confusa, tra fede e divertimento”4. Pur restando idoli dello schermo, partecipano della vita dei comuni mortali (img. 04). Fellini fa interpretare ad Anita Ekberg una parodia di se stessa, le fa vivere la sua stessa vita. Sylvia è la summa della star americana: i capelli dorati, un corpo scultoreo e trionfante, il volto spersonalizzato dal trucco per raggiungere una bellezza ideale: una “super-personalità”5.

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05. Sylvia, avvolta in una pelliccia bianca, regge tra le mani un gattino. Marcello, appoggiato a due manifesti pubblicitari, la osserva. Sylvia, wrapped in white fur, holds a kitten in her hands. Marcello, leaning against two advertising posters, observes her. Fotogramma del film

È una diva d’amore come Marilyn, eroina di una femminilità erotica e giocosa, meno pura e sublime rispetto alle dive del muto o del periodo d’oro, ma pur sempre divina nel suo abito bianco e nero, il cui panneggio rimanda a quello tipico d’una statua greca. Non partecipa solo del divino e dell’umano, ma anche del regno animale: ulula ai cani nel bel mezzo della campagna, si mette in testa un gattino bianco e lo bacia teneramente (img. 05); come una ninfa, si bagna nelle acque della Fontana di Trevi – l’acqua come brodo primordiale, serbatoio di forze mitiche. Mastroianni la raggiunge stregato dall’eco di un richiamo entrato ormai nella storia: “Marcello, come here!”. Però non è l’unica voce che ascolta e segue: c’è quella di Emma (Yvonne Forneaux), la fidanzata all’antica, materna e collosa, emblema della mentalità piccolo-borghese; c’è Maddalena (Anouk Aimée), ricca e annoiata, portatrice d’un altro tipo ancora di femminilità, più moderna e nevrotica, e infine Paola (Valeria Ciangottini), la ragazzi-

na semplice e innocente che incontra in una trattoria in riva al mare quando è in cerca di ispirazione e che rivede come in sogno nel finale, sempre in riva al mare. Il cinema ha scoperto l’indecisione, l’insoddisfazione. Al mito del benessere si è sostituito il problema del benessere; alla ricerca della felicità, il problema della felicità. La realtà è sempre più complessa e multiforme, la religione è incapace di contenerne le mille sfaccettature. La parola del Signore, un tempo chiara e inesorabile, è ora debole e inerte. Anche la figura paterna perde la propria autorità, non è più capace di porsi come guida. Bruno Cortona (Vittorio Gassman) ci prova, ne Il Sorpasso (Dino Risi, 1962), a fare il padre modello, ma “la pupa” (Catherine Spaak6), come la chiama lui, gli confessa di amarlo così com’è, eterno bambino. Il 1960 è l’anno d’oro del cinema della crisi. Anche Antonioni, benché diverso da Fellini sul piano della forma, coglie ne L’avventura il principio d’emorragia del miracolo economico (img. 06).

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nel cinema contemporaneo la scintilla religiosa e il fermento mitico si accendono sempre più spesso nelle esistenze tristi e banali dell’uomo qualunque 06. Scena conclusiva de “L’ avventura di M. Antonioni”. Final scene of “The adventure of M. Antonioni”. Fotogramma del film

I rapporti umani si rivelano in tutta la loro desolazione. I personaggi, relegati ai margini dell’inquadratura, non riescono più ad abitare lo spazio che occupano (difficoltà adattiva che caratterizza anche l’abitare contemporaneo ai margini della città consolidata)7. C’è poi tutto un cinema popolare e di genere che ha dato prova di grandi capacità di penetrazione sociale e che, con figure come quelle di Maciste, Ercole o Sandokan, ha saputo fornire ritratti vividi e fedeli dei nuovi stili di vita e modelli di comportamento8. Guardando al panorama cinematografico italiano contemporaneo, notiamo la presenza forte dell’immaginario felliniano in quella che è – Guadagnino a parte – la produzione del regista forse più esportato ed esportabile oltre i confini nazionali: Paolo Sorrentino. Anche il gusto per il fiabesco – e per i suoi risvolti grotteschi – di Matteo Garrone (Reality, del 2012, Il racconto dei racconti, del 2015 e Pinocchio, di prossima uscita) ha qualcosa del Maestro. Il processo di “decristianizzazione”, di fusione tra terreno e ultraterreno, tra l’alto e il basso, innescato dall’avvento della cultura di massa e catturato dall’obiettivo dell’antropologo Fellini, pare ormai giunto a compimento. Morti gli idoli di legno e pietra e agonizzanti quelli di carne e sangue, nel cinema contemporaneo la scintilla religiosa e il fermento mitico si accendono sempre più spesso nelle esistenze tristi e banali dell’uomo qualunque (l’apparizione della Madonna a Lucia, professione geometra, in Troppa Grazia di Gianni Zanasi, 2018), dell’abitante delle periferie (il supereroe borgataro di Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti, 2015), delle province e dei margini in generale (il documentario del 2013 di Gianfranco Rosi, Sacro GRA, ambientato in prossimità del grande raccordo anulare), e quanto più è ordinario o sordido l’ambiente descritto, tanto più grande e sorprendente sarà il “miracolo” che in esso prenderà forma.*

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NOTE 1 – Per un approfondimento del concetto di mito a bassa intensità: Ortoleva P., “Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana”, Einaudi, Torino, 2019. 2 – Una battuta del dialogo tra Emma (la compagna di Marcello, Yvonne Forneaux) e una donna straniera in merito alla presunta apparizione della Madonna. 3 – Ortoleva P., “Miti a bassa intensità”, Einaudi, Torino, 2019, p. XVIII. 4 – Morin E., “Le Star”, Edizioni Olivares, Milano, 1995. 5 – Morin E., “Le Star”, Edizioni Olivares, Milano, 1995, p. 65. 6 – Anche la Spaak, come Anita Ekberg, recita la parte di sé stessa, adolescente ribelle alle prese con la liberazione dei costumi. Molto interessante, a tal proposito, è l’intervista che Oriana Fallaci (inviata per “L’Europeo”) le fece appena un anno dopo, raccolta, insieme ad altre interviste a personaggi del mondo dello spettacolo e in particolare della cosiddetta “Hollywood sul Tevere” (tra cui Federico Fellini) in Fallaci O., Gli antipatici, BUR Rizzoli, 2009. Della stessa autrice si segnala anche “L’Italia della Dolce Vita”, Rizzoli, 2017. 7 – Per un’analisi più approfondita del film si veda: Tinazzi G., “L’Avventura di Michelangelo Antonioni” in Bertetto P. (a cura di) “L’interpretazione dei film. Dieci capolavori della storia del cinema”, Marsilio, Venezia, 2003. 8 – Per uno studio delle figure di Maciste, Ercole e Sandokan e per una prospettiva più ampia delle ripercussioni sul piano culturale del boom economico italiano: Manzoli G., “Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976)”, Carocci, Roma, 2012. BIBLIOGRAFIA - Costa A., Federico Fellini., “La dolce vita”, Lindau, Torino, 2010. - Crainz G., “Storia del miracolo italiano”, Donzelli, Roma, 2005. - Fallaci O., “Gli antipatici”, BUR Rizzoli, 2009. - Fallaci O., “La dolce vita”, Rizzoli, 2017. - Fellini F., “Fare un film”, Einaudi, Torino, 2006. - Manzoli G., “Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976)”, Carocci editore, Roma, 2012. - Morin E., “Le Star”, Edizioni Olivares, Milano, 1995. - Ortoleva P., “Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana”, Einaudi, Torino, 2019. - Tinazzi G., “L’Avventura di Michelangelo Antonioni” in Bertetto P. (a cura di) “L’interpretazione dei film. Dieci capolavori della storia del cinema”, Marsilio, Venezia, 2003.

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Elisa Zatta Dottoranda in Nuove Tecnologie e Informazione per l’Architettura, la Città e il Territorio, Università Iuav di Venezia. ezatta@iuav.it

Quasi estranei

01. Vista dall’alto del bivacco Gervasutti. The Gervasutti bivouac seen from above. Diego Stolfi – CAI Chivasso (TO)

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dialoghi tra montagna e architettura in alta quota Nearly Foreigners As punctual and temporary settlements in unknown territories, refuges and bivouacs allowed men to violate the sacredness of the mountain heights. Analysing the steps of the dare to the Alpine peaks it is possible to understand how the signs of this colonization gradually changed depending on both technical knowledge and users, treasuring the lessons that the nature’s “sublime” taught. Nevertheless, the minimum shelters, as symbolic outposts, still preserve some room for silent talks between the small human constructions and the mountain vastness.* Puntuali tracce di un abitare temporaneo in territori sconosciuti, rifugi e bivacchi hanno permesso all’uomo di infrangere l’inviolabilità dell’alta quota. Seguendo i passi della sfida alle vette alpine si può leggere come i segni di questa colonizzazione, memore degli insegnamenti impartiti dal “sublime” della natura, siano gradualmente mutati in base alle conoscenze tecniche e all’utenza del proprio tempo. Tuttavia, le architetture dell’abitare minimo, simbolici avamposti, conservano ancora la possibilità di conversazioni silenziose tra le piccole costruzioni dell’uomo e la vastità della montagna.*

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olonizzare l’ascesa: i pionieri di un immaginario Le capitali europee scoprono le Alpi nel corso della seconda metà del Settecento (Menini, 2017). L’esplorazione muove da due prospettive differenti, entrambe tese alla comprensione di territori “altri”: se le prime spedizioni geologiche evidenziano un carattere scientifico, la sensibilità romantica influenza la produzione artistica e letteraria del tempo riflettendo un’immagine di queste montagne declinata dal “pittoresco” al “sublime”. Nascono concezioni ibride, in cui “il sublime geologico diventa un medium attraverso cui cogliere nuove e inedite dimensioni del mondo che ci circonda, […] attribuendo valore all’alterità, al senso del non umano, una sorta di fisicità aliena che rimanda a logiche e grandezze temporali inesplicabili” (De Rossi, 2014). È il caso dei tentativi di Ruskin di riconoscere leggi e principi per rappresentare questi rilievi cogliendone i fondamenti generativi1 (img. 02), oppure degli studi di Viollet-le-Duc sul Monte Bianco2, nei quali indaga i caratteri costitutivi del massiccio come se il lavorio del tempo ne avesse celato una originaria e ideale forma cristallina. La sete di conoscenza che alimenta questi grand tour alternativi e il neonato alpinismo conduce a sfidare l’inviolabilità delle vette, ma si scontra con le condizioni avverse imposte dai caratteri morfologici, climatici e logistici costitutivi delle stesse. L’uomo cerca rifugio da una Natura avversa: tuttavia, in territori inesplorati non vi è alcun modello di riferimento per costruire un riparo, alcuna esperienza costruttiva pregressa a cui ricorrere (Dini et al., 2018). Se ad altitudini inferiori l’ideale romantico ha eletto nello chalet3 la propria iconica rappresentazione – intrappolando le Alpi nell’equivoco tra archetipo e stereotipo – le prime costruzioni in alta quota sono ricoveri funzionali espressione della necessità. I materiali sono reperiti in loco: pietre impiegate per costruire a secco muri incapaci di preservare l’interno da umidità e neve, vittime in primavera delle fessure causate dal disgelo, addossati inefficacemente a una quarta parete rocciosa. Il progressivo incremento di devoti dell’alpini-

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02. Individuazione delle linee “dominanti” della Aiguille Blaitière. Identification of the “leading” traits of the Aiguille Blaitière. John Ruskin, Pittori Moderni, vol. V, cap. XIV

smo determina la codificazione di soluzioni costruttive più adeguate: di fronte a necessità di capienza, comfort e flessibilità le strutture diventano volumi edilizi indipendenti; i muri acquisiscono spessori considerevoli e sono rivestiti di un tavolato interno; il numero dei vani aumenta4. Gradualmente, entro la fine del XIX secolo, gli edifici in alta quota sono esito di una reale progettazione. Tattiche e tecniche evolutive Dal primo Novecento, l’ubicazione si dimostra fattore determinante nella diversa evoluzione che caratterizza i punti di appoggio per gli alpinisti, divenuti col tempo proprietà dei club nazionali. I rifugi, collocati lungo le principali vie di ascesa e più fruiti, iniziano a offrire un maggior numero di servizi. I collegamenti con il fondovalle sono potenziati, progressivamente resi carrabili, rendendo le vette accessibili a un pubblico sempre più vasto, antesignano degli odierni escursionisti: all’utenza in aumento rispondono solide realizzazioni in pietra a più piani, spesso legate ai caratteri formali dell’ideale “baita alpina”. L’impiego dell’elicottero per il trasporto dei materiali, inaugurato nel 1957, riduce notevolmente i tempi di cantiere e ne facilita la gestione, aprendo la strada all’utilizzo di soluzioni prefabbricate industriali. Sistemi a secco e rivestimenti metallici consentono l’ideazione di forme che allontanano l’immagine del rifugio da una legata all’immaginario romantico per avvicinarla a quella dell’oggetto di design (Gibello, 2011a).

in territori inesplorati non vi è alcun modello di riferimento per costruire un riparo

03. Fasi di montaggio di un “tipo Ravelli” (bivacco fisso G. Antoldi del CAAI, 2920 m slm), 1935. Assembly phases of a “Ravelli” type (G. Antoldi bivouac, CAAI, 2920 m asl), 1935. Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna - CAI Torino

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04. Nuovo Monte Rosa Hütte (Bearth & Desplaze, 2009, 2883 m slm). The new Monte Rosa Hut (Bearth & Desplaze, 2009, 2883 m asl). Wikimedia Commons

05. Bivacco Ferrario, vetta della Grigna Meridionale (1968, 2178 m slm). The Ferrario bivouac on the southern Grigna peak (1968, 2178 m asl). Wikimedia Commons

Nonostante permangano per decenni forme ascrivibili all’ideale archetipico, gradualmente prevale un’interpretazione del genius loci figlia del proprio tempo. I rifugi contemporanei sorgono come simbolici landmark di presidio del territorio montano, sensibili alle tematiche di efficienza delle risorse, nonché all’offerta del maggior comfort possibile agli utenti (img. 04). Alle altitudini maggiori, dove l’orografia comporta itinerari impegnativi, vedono la luce i bivacchi fissi, le cui caratteristiche sono mutuate dai baraccamenti militari del primo conflitto mondiale. Velocità di cantiere, facilità di montaggio, reversibilità, adeguatezza alle condizioni climatiche: requisiti che solo tecniche di prefabbricazione leggera consentono di soddisfare. Si dimostra essenziale in questo ambito il contributo di L. Borelli e A. Heiss, membri del CAAI (Club Alpino Accademico Italiano), i quali, in collaborazione con il laboratorio artigianale Ravelli, progettano negli anni Venti una struttura prefabbricata e interamente smontabile (img. 03), che determina i tratti del bivacco fisso per i decenni successivi. L’evoluzione del profilo a semi-botte del “tipo Ravelli” sarà quello del bivacco “a nove posti”5, la cui accorta ottimizzazione degli spazi ne determinerà la larga diffusione. Il bivacco diviene oggetto di ricerca architettonica: dapprima nell’ambito dell’existenzminimum (ne sono esempio i sistemi costruttivi progettati da Charlotte Perriand) e, dagli anni Sessanta, avvicinandosi a forme “aliene” di colonizzazione sull’onda della fascinazione aerospaziale (img. 05) o ricorrendo a soluzioni audaci grazie a prefabbricazione ed elitrasporto, come nel caso del bivacco Mischabel (1965, Alpi Pennine, 3855 m slm).

logico. È il caso del nuovo Bivacco Gervasutti di Gentilcore e Testa (2011, Monte Bianco, 2835 m slm), che si proietta a sbalzo verso il ghiacciaio del Freboudze come l’esito di un allunaggio (img. 01). La struttura è composta di quattro anelli modulari prefabbricati di sezione ellittica, assemblati in situ su una trave metallica ancorata alla roccia. Il guscio è in materiale composito di vetroresina con isolamento termo-riflettente, dotato di pannelli fotovoltaici integrati alla scocca, ed è rivestito

velocità di cantiere, facilità di montaggio, reversibilità, adeguatezza alle condizioni climatiche

Avamposti contemporanei Gli esempi più recenti sono esito di un’attenta ricerca interdisciplinare, sensibile a soluzioni innovative, e sperimentano con successo esperienze di trasferimento tecno-

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all’interno con pannelli sandwich di semilavorati di legno; uno dei prospetti circolari è vetrato e si affaccia sul paesaggio. A dispetto delle ridotte dimensioni, questo spazio, ideato come modello replicabile, ospita fino a 12 persone. Sulle Alpi di Kamnik, il Bivacco Pavla Kemperla di Miha Kajzelj (2009, 2102 m slm) appare come un monolite scuro appoggiato su una ridotta base di cemento: un prisma irregolare che si staglia in un anfiteatro roccioso (img. 06). Il guscio esterno in lamiera coibentata, ritagliato per alloggiare le aperture vetrate, è accoppiato a una pannellatura interna lignea studiata per agevolare la fuoriuscita dell’umidità dall’abitacolo. L’inedito sviluppo in altezza genera una distribuzione degli spazi intorno a un vuoto centrale, servito da una scala a pioli, sul quale si affacciano 8 posti letto. La percezione di un elemento in equilibrio viene ripresa e accentuata dal Bivacco sul monte Kanin (OFIS Arhitekti, 2016, 2260 m slm) (img. 07), la cui posizione permette una vista a 360° sui versanti italiano e sloveno. Compatto volume prismatico con struttura portante in legno e rivestito esternamente di alluminio, si sviluppa su tre livelli ospitando fino a 9 persone;

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06. Il Bivacco Pavla Kemperla e la parete rocciosa del Grintovec. Bivouac Pavla Kemperla and the Grintovec rocky side. Matevž Paternoster

l’involucro metallico si apre verso valle, dotando il bivacco di una generosa vetrata a tutta altezza. La ricerca della minima impronta di base fa sì che il modulo sia parzialmente a sbalzo e, per far fronte ai forti venti, è assicurato alle

rendo un deciso rifiuto della mimesi figurativa e, anzi, un dialogo quasi conflittuale delle costruzioni con il contesto. Se la tecnica impiegata dall’uomo è in costante evoluzione, restano immutati nel tempo gli specifici requisiti necessari per “costruire” dove la Natura osteggia l’abitare transitorio. Così le architetture contemporanee rispondono con altre soluzioni e altri materiali alle stesse necessità di resistenza strutturale, leggerezza, sicurezza, durabilità e ottimizzazione cui doverono far fronte i pionieri delle Alpi. Memore degli insegnamenti impartiti nei secoli dalla montagna stessa, la graduale e puntuale colonizzazione delle vette sfida il “sacro” con consapevolezza, dimostrando la capacità dell’ingegno umano di impiegare le risorse più recenti per rispondere, in modo sempre più efficiente, ad antichi quesiti.

essi conservano l’eco di un valore quasi sacrale nel dialogo con l’alta quota, come ultimi avamposti rocce circostanti da tiranti di acciaio, che sottolineano inavvertitamente la sua natura di oggetto quasi estraneo al contesto in cui si trova. Linguaggio secondo L’impiego della prefabbricazione si dimostra fondamentale per l’evoluzione delle architetture in alta quota, favo-

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07. Bivacco sul Monte Kanin. Bivouac on the Mount Kanin. Janez Martinčič for OFIS Arhitekti

In montagna più che altrove la natura manifesta la propria presenza e il proprio carattere di “anteriorità” rispetto all’uomo le cui architetture, in questo contesto, parlano più chiaramente “un linguaggio secondo” (Vitale, 2017). I bivacchi, adottando la grammatica elementare del riparo, dell’abitare minimo e reversibile, dimostrano di perpetuare la fedeltà all’originaria istanza di necessità espressa dai primi ricoveri. Immuni sia dal riferimento a un archetipico passato, sia dall’ossequio alla pervasiva religione delle masse, essi conservano l’eco di un valore quasi sacrale nel dialogo con l’alta quota, come ultimi avamposti, capsule lanciate nel vuoto cosmico (Meschiari, 2013). Per contro, viene spesso sottolineato come le recenti architetture dei rifugi guardino sempre meno a ciò che sta in alto e sempre più alla valle che sale (Camanni, 2011), dichiarando la loro natura di luoghi di consumo a servizio di chi non ha interesse a ciò che c’è “oltre” il rifugio6. In questo senso, essi riflettono la più recente fase di una stratificazione dell’immaginario alpino costruita dall’uomo: da un’appropriazione simbolica (Azzoni, 2013), timorosa dell’alterità, alla graduale “profanazione” compiuta a partire dall’ottocentesca intensificazione di presenze. Quest’ultima difficilmente sembra potersi arrestare e la scarsa consapevolezza dell’utenza contemporanea rappresenta forse, al giorno d’oggi, la più sottile violazione perpetrata alle vette.*

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NOTE 1 – Gran parte del volume V di “Pittori Moderni” è dedicata alle montagne e termina con la loro celebre definizione di “cattedrali della terra”. 2 – Questa interpretazione geologico-formale è contenuta ne “Le Massif du Mont-Blanc” (1876). 3 – Nella prospettiva del Romanticismo l’architettura tradizionale viene ritenuta depositaria dei valori identitari di un luogo, gettando le basi del tradizionalismo legato al concetto di heimat. 4 – Esempio di questa codificazione è il Vittorio Emanuele II al Gran Paradiso (1885, 2775 m), ancora ubicato nei pressi dalla nuova struttura (1931-61). Una esaustiva trattazione della storia costruttiva di rifugi e bivacchi alpini dal Settecento a oggi si trova in “Cantieri d’alta quota” di Luca Gibello. 5 – Il primo prototipo del “tipo Ravelli” (2,25m x 2m x 1,75m) risale al 1925: due facciate semicircolari, fissate a un doppio telaio di base, e i correnti che le connettono ne determinano la forma a semi-botte, rivestita da un tavolato e una lamiera di zinco. Il successivo bivacco “a nove posti” progettato dall’ ing. Giulio Apollonio ne rettifica il profilo e aumenta l’altezza interna a 2,30 m. 6 – A questo aspetto si rifanno le polemiche emerse in seguito alla costruzione del refuge du Goûter (2013) su un Monte Bianco già soggetto a livelli critici di affollamento. BIBLIOGRAFIA - Azzoni G., “Terre, luoghi e vie”, in: Azzoni G., Mestriner P. (a cura di), “Abitare minimo nelle Alpi”, Lettera Ventidue, Siracusa, 2013, pp. 54-67. - Calzavara M., “Imparare dal vuoto”, in “Domus”, 2011, n. 952, pp. 48-53. - Camanni E., “Introduzione”, in Gibello L., “Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi”, Lineadaria, Biella, 2011, pp. 8-9. - De Rossi A., “La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (17731914)”, Donizelli, Roma, 2014. - Dini R., Gibello L., Girodo S., “Rifugi e bivacchi: gli imperdibili delle Alpi”, Hoepli, Milano, 2018. - Gibello L., “Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi”, Lineadaria, Biella, 2011a. - Gibello L., “I cantieri estremi del Monte Bianco” in “ArchAlp”, 2011b, n. 2, pp. 5-7. - Menini G., “Costruire in cielo: l’architettura moderna nelle Alpi italiane”, Mimesis, Milano, 2017. - Meschiari M., “Primo abitare”, in: Azzoni G., Mestriner P. (a cura di), “Abitare minimo nelle Alpi”, Lettera Ventidue, Siracusa, 2013, pp. 84-89. - OFIS, “OFIS/Winter Cabin”, in “Area”, 2017, n. 151, pp.132-137. - Ruskin J., “Pittori Moderni II”, Einaudi, Torino, 1998. - Vitale D., “L’aquila e la roccia”, in Menini G., “Costruire in cielo: l’architettura moderna nelle Alpi italiane”, Mimesis, Milano, 2017, pp. 9-17.

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Sotto il segno L’attitudine a cercare un significato alle vicende umane nelle stelle è una pratica molto antica. Fin dal III millennio a.C. l’uomo ha cercato nel cielo risposte a dubbi e difficoltà della vita quotidiana, combinando fasi lunari, costellazioni e pianeti in calendari astronomici e assegnando alle stelle un ruolo attivo nella propria vita. Per millenni, nascere sotto un dato segno ha caratterizzato attitudini e qualità di un individuo fino a che la scienza, ancor più profana dell’astrologia, ha spazzato via ogni credibilità dell’oroscopo. Eppure, ancor oggi, sono milioni le persone che quotidianamente leggono, chi con curiosità chi con scetticismo, le previsioni delle stelle. E chi tra le stelle cerca luoghi e architetture. a cura di Stefania Mangini, con Emilio Antoniol e Margherita Ferrari

Vergine DAL MILLIMETRO PONDERATO BALKRISHNA VITHALDAS DOSHI 26 agosto 1927

Capricorno COI PIEDI NEL CEMENTO GIOVANNI MICHELUCCI 2 gennaio1981 JOHN NASH 18 gennaio 1872

RENZO PIANO 14 settembre 1937

Scorpione DAGLI SPIGOLI TENACI ZAHA HADID 31 ottobre 1950 REM KOOLHAS 17 novembre 1944

Bilancia Acquario DAL TRATTO IMPULSIVO ALVAR AALTO 3 febbraio 1898 LEON BATTISTA ALBERTI 14 febbraio 1404

Sagittario DAI TRASPORTI ECCEZIONALI ADOLF LOOS 10 dicembre 1870 LINA BO BARDI 5 dicembre 1914

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IN ATTESA DI CONCESSIONE EDILIZIA LE CORBUSIER 6 ottobre 1887 RICHARD MEIER 12 ottobre 1934

INFONDO


Pesci SFERE AD ANGOLO RETTO

Cancro UNA CAZZUOLA LUNATICA

Toro A MODULO FISSO

ALEJANDRO HARAVENA 22 giugno 1967 ÁLVARO SIZA 25 giugno 1933

PETER ZUMTHOR 26 aprile 1943

DALLA CASSAFORMA IRREQUIETA A SPASSO CON L’AMBIENTE

FRANK LLOYD WRIGHT 8 giugno 1867 NORMAN FOSTER 1 giugno 1935

SHIGERU BAN 5 agosto 1957 GLENN MURCUTT 25 luglio 1936

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FRANK GEHRY 28 febbraio 1929

WALTER GROPIUS 18 maggio 1883

Gemelli

Leone

LUIS BARRAGÁN 9 marzo 1902

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Ariete CON IMPAZIENTE MINUZIA MIES VAN DER ROHE 27 marzo 1886 JAMES STIRLING 22 aprile 1926


Levi Alumni - CombinAzioni festival Associazione culturale, Montebelluna (TV)

levialumni.it

P

er scorgere qualche lapide occorre spostare l’edera, che ormai sovrasta tutto quel che resta del cimitero napoleonico, rendendolo quasi irriconoscibile. L’area del cimitero si estende per oltre 5.000 mq sulla collina a nord di Montebelluna, realizzato nel primo Ottocento accanto alla Chiesa di Santa Maria in Colle, la quale è tuttora in uso. Per necessità di spazio, nel 1930 si realizza il nuovo cimitero, e questo luogo nel corso dei decenni cade in completo abbandono, lasciando spazio alla natura e al vandalismo delle persone. Il cimitero, luogo dedicato alla memoria dei defunti, sembra pian piano svanire la propria memoria, parte della storia di quel territorio. E proprio da questo valore, l’associazione culturale Levi Alumni costruisce un progetto culturale giunto ormai alla sua terza edizione. Il progetto prende forma all’interno del festival ”CombinAzioni” che si svolge ogni settembre in diversi luoghi del territorio montebellunese. Tra gli obiettivi del festival, uno è dedicato al riappropriamento di quei luoghi ormai caduti in stato di abbandono, ma intrinsechi di una propria storia e un proprio valore culturale, parte della comunità. Il festival non si limita alla conoscenza di questi luoghi, ma anche ad agire su questi attraverso iniziative che possano loro conferire una nuova funzione e tornare ad essere parte della comunità locale. Il cimitero di Santa Maria in Colle si trasforma così in una sala da concerti a cielo aperto, facendo risuonare all’interno della cinta muraria le musiche di Mario Brunello (2017), di Erica Boschiero (2018) e di Faber Antiqua (2019). Duecento gli ospiti presenti in ciascuna delle edizioni, muniti di coperte e di curiosità, con la volontà di vivere

un luogo abbandonato e conferire ad esso nuova memoria. Dopo i concerti, gli ospiti sono accompagnati a visitare lo spazio del cimitero e a conoscerne la storia attraverso la sua architettura e le lapidi rimaste, quali testimonianza di una sacralità passata, profanata dal vandalismo degli scorsi decenni. E forse, proprio sulle note di queste iniziative, questo luogo sta ricostruendo la propria sacralità in qualità di luogo per la comunità.* New Memory of a Cemetery The cemetery area covers over 5,000 m2 on the hill north of Montebelluna (Treviso). It was built in the early 19th century next to the Church of Santa Maria in Colle, which is still in use today. Due to the need for space, a new cemetery was built in 1930, and over the decades the Old Cemetery fell into complete abandonment, leaving space to the nature and vandalism of people. The cemetery, a place dedicated to the memory of the dead, seems to gradually fade own memory, part of the history of that territory. And from this value, the cultural association “Levi Alumni” builds a cultural project now in its third edition. The project is a part of “CombinAzioni” festival, which takes place every September in various places in the Montebelluno area. Among the objectives of the festival, one is dedicated to the re-appropriation of those places that have now fallen into a state of neglect, but they have an historic and cultural value. The festival is not limited to the knowledge of these places: the festival wants to act on these through initiatives that can give them a new function and return to being part of the local community.* 01. Il Vecchio Cimitero in occasione del concerto all’alba di settembre 2019. Maria Conte


La nuova memoria di un cimitero


nel corso dei decenni cade in completo abbandono, lasciando spazio alla natura e al vandalismo delle persone 02

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02. Alcuni resti delle lapidi sulle mura di cinta del Vecchio Cimitero. Chiara Semenzin 03. Graffiti sulla cappella mortuaria al centro del Vecchio Cimitero. Maria Conte 04. Resti del Cimitero Vecchio. Chiara Semenzin 05. Il Vecchio Cimitero in occasione del concerto all’alba di settembre 2019. Pietro Fabris


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06. Visita guidata al Vecchio Cimitero. Pietro Fabris 07. Il Vecchio Cimitero in occasione del concerto all’alba di settembre 2019. Leonardo De Azevedo 08. Visita guidata al Vecchio Cimitero. Pietro Fabris 09. Il muro tra le due aree del Vecchio Cimitero. Leonardo De Azevedo 10. Resti del Cimitero Vecchio. Chiara Semenzin 07


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la volontà di vivere un luogo abbandonato e conferire ad esso nuova memoria

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Federico Dallo federico.dallo@unive.it

Francesca Pietropaolo fpietropaolo@yahoo.com

Il clima in una scatola

Scienza e arte all’interno della Chiesa delle Penitenti a Venezia enerdi 27 settembre, in quella che è ormai da anni la notte europea della Ricerca, arte, scienza e religione si sono incontrati in un spazio unico, la Chiesa delle Penitenti a Venezia, per un esperimento di divulgazione scientifica e sensibilizzazione sul tema dei cambiamenti climatici oggi in atto. Organizzato da Venice Climate Lab, The Brooklyn Rail, l’Università Ca’ Foscari e Venice Calls, l’esperimento “Il clima in una scatola” ha avuto luogo nella cornice della mostra d’arte contemporanea Artists Need to Create on the Same Scale that Society Has the Capacity to Destroy: Mare Nostrum (curata da Francesca Pietropaolo e Phong Bui). Presentata nel Complesso della settecentesca Chiesa delle Penitenti a Venezia, ed evento collaterale della Biennale di Venezia 2019, la mostra affronta il tema dell’urgenza della crisi ambientale nell’epoca del cambiamento climatico – con uno sguardo rivolto in particolare al Mediterraneo. In dialogo tra loro e con lo spazio dell’architettura che le contiene, le opere scelte di 74 artisti internazionali realizzate in una vasta gamma di mezzi espressivi (pittura, scultura, installazione, arte sonora,

video, disegno) evocano, con inflessioni poetiche e formali diverse, la fragilità della natura e, al contempo, la capacità di rigenerazione di sistemi viventi. Come il titolo della mostra sottolinea, l’arte ha un ruolo fondamentale nella società contemporanea, come potenziale veicolo di trasformazione delle coscienze. L’arte apre a nuove emozioni e nuovi pensieri, permettendoci di mettere in discussione convinzioni e visioni divenute limitate. La mostra vuole inoltre suggerire la necessità di un nuovo senso di interconnessione – tra individui, e tra l’umanità e il pianeta.

l’arte ha un ruolo fondamentale nella società contemporanea, come potenziale veicolo di trasformazione delle coscienze

VCL Venice Climate Lab info@veniceclimatelab.net 01. La scatola climatica arriva nella Chiesa delle Penitenti. Margherita Ferrari

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IN PRODUZIONE


02. Introduzione all’esperimento. ©VeniceDocumentationProject

L’opera Passageway (2013) dell’artista tedesco Wolfgang Laib, installata al centro dello spazio in cui l’esperimento “Il clima in una scatola” ha avuto luogo, crea un’atmosfera di meditazione e contemplazione. Barche in ottone giacciono su piccoli cumuli di riso, posizionate in modo da creare una composizione regolare di minimale bellezza. È una riflessione sul tema della fugacità della vita, nella sua metafora di viaggio. Al centro, una piccola montagna di riso – materiale naturale scelto per evocare il nutrimento e dunque la vita – indica simbolicamente la tensione tra cielo e terra, tra dimensione spirituale e realtà quotidiana. In quest’atmosfera che invita alla contemplazione e al dialogo, campi diversi del sapere si incontrano, attraverso il programma pubblico interdisciplinare dal titolo 1001 Storie per la sopravvivenza che accompagna la mostra per tutta la sua durata unendo poesia, musica, scienza, filosofia, e arte: come nel caso dell’esperimento “Il clima in una scatola” durante il quale i linguaggi della scienza, dell’arte, e dell’architettura hanno creato un bellissimo corto circuito.

mica proveniente dal Sole (es. la CO2 è responsabile per ~15% dell’effetto serra naturale). Le variazioni di concentrazione dei gas serra in atmosfera sono regolate da un delicato equilibrio di cicli naturali. Un’adeguata concentrazione di gas serra in atmosfera garantisce una temperatura ottimale per la presenza e lo sviluppo della vita sulla Terra. Lo studio della variazione della composizione atmosferica in relazione al clima attuale e del passato (paleo-clima) è fondamentale per capire come le attività umane possano destabilizzare l’equilibrio naturale del Sistema Terra

L’esperimento L’effetto serra è un fenomeno naturale di regolazione della temperatura della Terra. È garantito dalla presenza in atmosfera di gas serra capaci di accumulare una parte dell’energia ter03. Introduzione all’esperimento. ©VeniceDocumentationProject

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04. La scatola climatica durante l’esperimento. ©VeniceDocumentationProject

questo studio diviene urgente dal momento che le emissioni legate all’attività umana, come quelle dovute all’uso di combustibili fossili, sono in costante aumento

e predire come il clima potrebbe evolvere nel futuro. Questo studio diviene urgente dal momento che le emissioni legate all’attività umana, come quelle dovute all’uso di combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale), sono in costante aumento. Obiettivo dell’esperimento è stato mostrare l’effetto serra causato dalla presenza della CO2, utilizzando una camera climatica. Per l’esperimento sono stati utilizzati sensori, controllori e materiale a basso costo, così che la camera climatica possa essere replicata facilmente. Allo stesso modo sono stati utilizzati software Open Source (Python e R) per il controllo, l’acquisizione e la visualizzazione dei dati.

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Descrizione dell’esperienza Nella camera climatica, costituita dalla vasca di un acquario, sono stati installati dei sensori per misurate la temperatura (T, °C), l’umidità relativa (RH, %), la pressione (P, hPa) e la concentrazione di anidride carbonica (CO2, ppm). Per simulare la radiazione solare è stata utilizzata una lampada LED che copre lo spettro elettromagnetico del visibile (dal rosso ~800 nm al violetto ~380 nm). Per garantire il ricircolo dell’aria all’interno della camera è stata installata una piccola ventola e infine è stato installato un sistema di immissione (e uscita) del gas attraverso il quale è possibile modificare la concentrazione di CO2 all’interno della

IN PRODUZIONE


05. Da sinistra: Federico Dallo, Andrea Spolaor, Daniele Zannoni. ©VeniceDocumentationProject

06. L’esperimento ha rappresentato l’occasione per raccontare alcune iniziative sull’ambiente a Venezia, a cura di Venice Climate Lab e di Venice Calls. ©VeniceDocumentationProject

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camera. Il fondo della camera climatica è stato rivestito con del cartoncino nero per simulare il comportamento della superficie terrestre che si comporta idealmente come un corpo nero: un oggetto che assorbe la radiazione nel visibile (più “fredda”) ed emette radiazione infrarossa (più “calda”). L’esperimento è composto da tre distinte fasi: nella prima vengono registrate le condizioni iniziali del sistema all’equilibrio (temperatura, umidità assoluta e concentrazione di CO2), mentre nella seconda fase della durata di 30 minuti viene accesa la lampada e monitorato l’innalzamento della temperatura e la variazione degli altri parametri. La terza e ultima fase comincia con lo spegnimento della lampada e termina con il ritorno della camera alle condizioni iniziali o a una nuova condizione di equilibrio. L’esperimento è stato replicato diverse volte nei laboratori del CNR presso il Campus Scientifico dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, variando la concentrazione di CO2 per ottenere una statistica (media e incertezza) del fenomeno. Obiettivo della prova era evidenziale il ruolo della CO2 nel fenomeno dell’effetto serra, verificando il maggior innalzamento della temperatura all’interno della camera climatica con l’aumento della concentrazione di CO2. L’esperimento è stato ripetuto come parte centrale della performance artistico-scientifica svoltasi il 27 settembre 2019 all’interno della chiesa delle Penitenti a Venezia, dove un pubblico di curiosi ha potuto assistere all’esecuzione della prova e apprendere le basi scientifiche del funzionamento dell’effetto serra grazie alla preziosa collaborazione di Daniele Zannoni e Andrea Spolaor.*



Numero d’oro: la continuazione di Fibonacci Golden number: Fibonacci suite

Monique Voz Creator. Mathematic teacher. Human sciences & theology student. Creator of the MobiluM MuduM MuseuM (mobile technology museum). mmvoz@skynet.be

Scatola. Ceramica, carta velina, carta, pittura. Questa scatola sacra/profana, in cui l’artista ha nutrito il suo gusto per il mistero, contiene in una serie di libri di ceramica, il segreto dello sviluppo della vita. Monique Voz

Box. Ceramic, tissue, paper, painting. This profane/sacred box, in which the artist nourished his taste for the mystery, contains in a serie of ceramic books, the secret of the development of life. Monique Voz

I CORTI

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Surrealist contemporary ceramic creation As belgian creation, this surrealist contemporary ceramic creation ask questions to the nature of the world. The mystics of any religion, including the rhenan mystic Nicolas de Cues, thinker of the rich 16th century, consi-

Creazione ceramica surrealista contemporanea Come creazione ceramica belga, questa creazione surrealista contemporanea pone domande alla natura del mondo. I mistici di ogni religione, compreso il mistico rhenan Nicolas de Cues, pensatore del ricco XVI secolo, consideravano la creazione con nozioni matematiche. Il sufi musulmano Ibn ‘Arabî (XIII secolo), in un pensiero che andava oltre ogni dogma religioso, usava numeri o lettere per descrivere la cosmologia. “Proprio come l’uomo è un microcosmo in cui si riflette l’universo, così il linguaggio umano fornisce la chiave di tutto ciò che può essere detto o sussurrato sotto i nove cieli L’uomo è l’unica creatura che ricapitola in sé la totalità dei Nomi Divini”. Nello stesso periodo, Leonardo Pisano Fibonacci, scrive il suo Liber Abaci. Introducendo numeri arabi e metodi di calcolo in tutta Europa, descrive l’evoluzione numerica del mondo vivente attraverso la serie di numeri che portano il suo nome: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, ... in cui ogni numero non solo segue i due precedenti, ma consente di costruire il “Numero d’oro”, chiamato anche la proporzione divina. Una gran parte delle creazioni realizzate dall’artista contiene numeri e misure, legate alla cosmologia e alla filosofia. L’installazione escatologica denominata Apolo 22 descrive la saga dell’umanità che sfugge dalla terra alle 7 stelle più vicine del nostro sistema solare, legate alla problematica del riscaldamento globale. “Ascolta te stesso e guarda nell’infinito dello spazio e del tempo, risuonano il canto delle Astres, la voce dei Numeri, l’armonia delle Sfere. Ogni Sole è un pensiero di Dio, e ogni Pianeta è una modalità di quel pensiero“. L’installazione Colonne della cattedrale mostra grandi banner dipinti associati a scatole e video. Questa scatola matematica profana/sacra - in cui l’artista ha nutrito il suo gusto per il mistero - contiene, in una serie di libri di ceramica, il segreto dello sviluppo della vita. Ogni libro è composto da pagine di ceramica (5 x 5 cm), collegate da un materiale tessile, un dipinto murale, su cui sono stati disegnati i segni: simboli/formule matematiche, tipi di codifica segreta relativi alla sezione aurea. La scatola, realizzata dall’artista, contiene anche la sezione aurea nelle sue misure.

BIBLIOGRAFIA - De Cues N., “La docte ignorance”, coll. “Rivages poche petite bibliothèque”, Paris, Payot, 2011. - Ibn ‘Arabi, “Les illuminations de la Mecque”, AbdAllah Penot (traduction), Paris, Entrelacs, 2009. - Lory P., “Le symbolisme des lettres et du langage chez Ibn ‘Arabî, Cosmologie et image du Monde”, “Connaissance des Religions”, octobre-décembre 1999, p. 98-99. - Fibonacci L.P., “Fibonacci’s liber abaci”, Sigler L.E. (traduction), Berlin, Springer, 2003. - SHURE (Ed.), “Les grands initiés”, Paris, Perrin, 1960.

dered the creation with mathematics notions. The sufi muslim Ibn ‘Arabî (13th century), in a thought that was beyond any religious dogma, used numbers or letters to describe the cosmology. “Just as man is a microcosm in which the universe is reflected, so does human language provides the key to all that can be said or whispered under the nine heavens. Man is the only creature recapitulating in him the totality of the Divine Names“. During the same period, Leonardo Pisano Fibonacci, wrote his Liber Abaci. Introducing arabic numerals and methods throughout Europe, he describes the numerical evolution of the living world by means of the series of numbers bearing his name: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, ... in which each number is not only following the two preceding ones, but allows to build the “Golden number”, also named the divine proportion. A large part of creations made by the artist contains numbers and measures, linked with cosmology and philosophy. The eschatological installation named Apolo 22 describes the saga of humanity that escapes from the earth to the 7 closest stars of our solar system, linked with the problematic of global warming. “Listen to yourself and look into the infinity of space and time. There resound the song of the Astres, the voice of the Numbers, the harmony of the Spheres. Each Sun is a thought of God, and each Planet a mode of that thought”. The installation Cathedral columns shows large painted banners associated with boxes and video. This profane/sacred mathematical box - in which the artist nourished her taste for the mystery - contains, in a series of ceramic books, the secret of the development of life. Each book is composed of ceramic pages (5 x 5 cm), connected by a textile material that is a really mural painting, on which signs have been drawn: symbols/mathematical formulas, sorts of secret coding related to the golden ratio. The box, made by the artist, also contains the golden ratio in its measures.*


Sara Codarin Dottoranda IDAUP presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara. cdrsra@unife.it Gian Andrea Giacobone Dottorando IDAUP presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara. gcbgnd@unife.it

User Redemption In the past, the traditional duo designer-user has maintained a tacit separation between the roles: the first one was the single expert in designing the project, while the second one was a simple and passive tester on which the final product was optimized. By the evolution of participatory design, from being a “profane” of the sector, the importance of user itself has been further strengthened towards a “sacred” conversion as active element in conceptual phases of the artifact. This contribution reflects on the evolution of the user and questions his role in today's design.* or consumers Nella cultura del progetto, la figura dell’utente, o nondesigner, ha spesso mantenuto un ruolo marginale, per così dire “profano”, nella progettazione degli artefatti. Considerato un semplice attore passivo del processo, l’utente è stato posto al di fuori del ciclo di sviluppo di un bene o servizio, poiché agiva unicamente come consumatore. Ma a partire dagli anni ‘70, grazie alla diffusione degli artefatti interattivi, le modalità di fruizione di tali pro-

01. Xerox Star è la prima workstation dotata della tradizionale interfaccia WIMP (Windows, Icons, Menus, Pointer). Il suo sviluppo è uno degli esempi che introdusse la necessità di un approccio progettuale user-centered. Esso era legato alla creazione di prodotti digitali usabili per gli utenti non esperti. Xerox Star is the first workstation with the traditional WIMP interface (Windows, Icons, Menus, Pointer). Its development is one of the examples that introduced the need of a usercentered design approach. It was aimed to design usable digital products for non-expert users. Digibarn Computer Museum

User Redemption

L’evoluzione dei non-designer nella progettazione contemporanea

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L'ARCHITETTO


02. Sessione di un workshop di co-design in cui vengono usati diversi toolkit come strumento creativo per la generazione di nuove idee innovative. Session of a co-design workshop in which many toolkits are utilized as a creative tool for generating innovative ideas. Design Innovation Centre de Compétence

nel UCD, l’esperto è il designer mentre gli utenti finali sono semplici elementi da osservare dotti cambiarono radicalmente e con ciò, evolsero anche le metodologie di progettazione, incluso il ruolo stesso del non-designer. La necessità di rendere più intuitiva la complessità di interazione degli artefatti digitali, diede origine allo User Centered Design (UCD), ovvero il primo approccio

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di progettazione centrata sugli utilizzatori finali (Norman e Draper, 1986). Il consumatore iniziò a prendere parte alla progettazione, ma tramite un ruolo secondario e distante dalla figura competente del designer. La sua importanza fu considerata solo per scopi prettamente funzionali, come un elemento da osservare, in termini di compiti e obiettivi da raggiungere (Gould e Lewis, 1985). In questo caso il focus era il progetto e il designer il suo unico artefice. Gli utenti servivano per testare e validare se il prodotto concettualizzato dai progettisti corrispondesse realmente al grado di funzionalità richiesto per le proprie attività.

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With users Ben presto l’UCD spostò il punto di vista oltre l’usabilità oggettiva (beyond usability), giungendo a determinare che ogni interazione producesse, per l’utente, un’esperienza soggettiva, unica e irripetibile (Jordan e Servaes, 1995). Allo studio funzionale dei prodotti si aggiunsero caratteristiche qualitative ed emozionali (estetica, piacere e coinvolgimento), finalizzate ad accrescere lo sviluppo della user experience (Norman, 2004). Pertanto, la figura del non-designer acquistò maggior rilievo agli occhi dei progettisti, in quanto egli era il diretto testimone delle proprie esperienze. Nonostante ciò, l’utente, o per meglio


03. Fasi di sviluppo della cultura progettuale nel Design nelle ultime decadi. Nel passaggio da User-Centered Design al Co-design, alla previsione futura dei Collective Dreams, si assiste ad un cambiamento sempre e più centrale del non-designer. Development phases of Design culture over the last decades. The role of non-designer has been changing throughout the shifting from User-Centered Design to Co-design and to the future scenario of Collective Dreams. Sara Codarin, Gian Andrea Giacobone

dire user, fu nuovamente trattato da attore esterno, da cui soltanto il designer – unico esperto interprete – poteva comprendere il significato profondo delle relazioni che l’individuo era in grado di sentire e vivere a contatto con determinati artefatti (Rizzo, 2009). L’etnografia applicata diventò il devoto metodo in grado di estrapolare diversi insights o linee guida progettuali per soddisfare i principali bisogni degli utenti, individuati nel contesto d’indagine (Talamo et al., 2011). Tuttavia, la complessità che presentava sia la società odierna, sia l’estensione del Design nel produrre soluzioni progettuali a diverse scale (prodotti, servizi o sistemi), fece emergere come la pratica sviluppata fino a quel punto presentasse dei limiti per l’innovazione. In quest’ottica, l’utente non fu più soltanto visto come soggetto da cui estrarre informazioni, ma viceversa, come un reale partner che poteva contribuire al progetto con il proprio punto di vista. Per tale ragione, un diverso approccio maggiormente inclusivo prese piede col nome di design partecipativo,

tuttora conosciuto come co-design. Sviluppatosi in Scandinavia negli stessi anni dell’UCD in ambito informatico ed emerso successivamente negli anni ’90 in ambito del Design, il co-design pose la sua forza nella reale integrazione degli utenti nei vari processi decisionali della progettazione (Sanders e Stappers, 2012). In questo approccio, il non-designer è parte del progetto ideativo e partecipa attivamente nel processo di envisioning, mentre il progettista si limita al ruolo di coordinatore, chiamato a fornire delle linee guida metodologiche (toolkits) per abilitare l’utente a sviluppare nuove ipotesi attraverso workshop pratici (Rizzo, 2009). Il risultato – frutto della collaborazione tra designer e utenti – è la generazione di concept o prototipi tangibili che mostrano una sintesi del prodotto atteso. By people Nell’ultimo decennio, il co-design si è affermato a scala globale ed è diventato pratica frequente nei processi di progettazione. Tra le principali ricadute di tale approccio vi è l’aver reso l’utente

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il co-design abilita gli utenti a essere partner attivo del processo ideativo un saldo fulcro dell’innovazione progettuale, ponendo quest’ultimo sullo stesso livello di expertise del designer. L’emergente partecipazione attiva delle persone ha portato la co-progettazione a focalizzarsi anche su altri aspetti del progetto come la produzione, la quale ha innescato processi di co-creazione. Inoltre, la diffusione di sistemi open source e peer-to-peer, hanno reso oggi la collaborazione tra i non-designer maggiormente facile e accessibile, rendendo dunque inevitabile la progettazione collettiva. Secondo Manzini (2015), oggi ci troviamo in una condizione di design diffuso, in cui l’interdisciplinarietà richiesta da progetti complessi come quelli a carattere sociale, necessita l’indispensabile partecipazione di un ampio spettro

L'ARCHITETTO


il futuro sarà co-progettato interamente dalle persone attraverso collective dreams

di persone. Da questo punto di vista, ogni utente può assumere la veste di designer amateur, il quale è chiamato a dare il proprio contributo, non solo per l’ideazione di singoli oggetti, ma oggi in modo preponderante rispetto al passato, per la realizzazione di un insieme prodotti, servizi o sistemi legati alla comunità (Manzini, 2015). A partire da questo stato di avanzamento culturale nell’ambito del Design, è possibile intravedere come la figura del non-designer sia stata convertita da utente “profano” (e non in grado di contribuire al progetto), al ruolo “sacro” di partecipante attivo e competente, in quanto essenziale al designer per affrontare la complessità progettuale odierna e futura. Su questa evoluzione, Elizabeth Sanders e Pieter Stappers (2014 a), noti promotori del co-design, sostengono che il Design, e soprattutto i non-designer, avranno un grande impatto non solo nella scienza applicata, ma anche sulla gestione della vita sociale futura. Dal momento che la società stessa contornata da eventi di vita domestica, lavorativa, educativa e così via, secondo

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04. Toolkit metodologico focalizzato sulla progettazione centrata sugli utenti. La guida fornisce un processo metodologico ed esperienze pratiche per aiutare i non-designer a pensare e progettare come esperti progettisti. Methodological toolkit focused on Human Centered Design. The guide provides a methodological design process and practical experiences that help non-designers to think and design like expert designers. IDEO

05. Sessione di un workshop di co-design in cui vengono usati diversi toolkit come strumento creativo per la generazione di nuove idee innovative. Session of a co-design workshop in which many toolkits are utilized as a creative tool for generating innovative ideas. Design Innovation Centre de Compétence

il punto di vista dei due designer, ogni individuo è il reale esperto e beneficiario di tali esperienze e dunque deve essere totalmente coinvolto nei processi creativi del Design, essendo esso stesso la principale voce delle necessità che la collettività esplicita (Sanders e Stappers, 2012). In questo caso, è possibile scorgere come il non-designer assume una sorta di “redenzione” che lo vede largamente inserito in una progettazione sempre e più condivisa con il suo oppositore ed esperto designer. In conclusione, dall’analisi dello stato dell’arte emerge come il non-designer assumerà sempre e più il ruolo di ideatore del futuro che potrà essere svolto attraverso collective dreams (Sanders e Stappers, 2014a), ovvero tramite idee collettive frutto di esperienze reali di vita generate in collaborazione con altri simili. Contrariamente, al designer spetterà un ruolo di supporto, più specificatamente di toolmaker (Sanders e Stappers, 2014b), il cui compito sarà quello di produrre generative tools, ovvero strumenti pratici che possano stimolare la creatività degli utenti e rendere chiare le proprie idee.*

BIBLIOGRAFIA - Gould J. D., Lewis C., “Designing for usability: key principles and what designers think”, in “Communications of the ACM”, 1985, vol. 28, n. 3, pp. 300-311. - Jordan P.W., Servaes M., “Pleasure in product use: beyond usability”, in Robertson S.A. (a cura di), “Contemporary ergonomics”, Taylor & Francis, London, 1995. - Manzini E., “Design, when everybody designs: an introduction to design for social innovation”, Mit Press, Cambridge, 2015. - Norman D.A., Draper S.W., “User-centered system design: new perspectives on human-computer interaction”, Lawrence Erlbaum, Hillsdale, 1986. - Norman D.A., “Emotional design: Why we love (or hate) everyday things”, Basic books, New York, 2004. - Rizzo F., “Strategie di co-design. Teorie, metodi e strumenti per progettare con gli utenti”, Franco Angeli, Milano, 2009. - Sanders E.B.-N., Stappers P.J., “Convivial Toolbox: Generative Research for the Front End of Design”, BIS Publisher, Amsterdam, 2012. - Sanders E.B.-N., Stappers P.J., “From designing to Codesigning to collective dreaming: three slices in time”, in “Interactions”, 2014a, vol. 21, n. 6, pp. 24-33. - Sanders E.B.-N., Stappers P.J., “Probes, toolkits and prototypes: three approaches to making in codesigning” in “CoDesign”, 2014b, vol. 10, n. 1, pp. 5-14. - Talamo A., Mellini B., Giorgi S., “Ergonomia sociale”, in Di Nocera F. (a cura di), “Ergonomia cognitiva”, Carocci editore, Roma, 2011, pp. 251-281.

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Cinzia Didonna Dottoranda di ricerca in Architettura presso Università Federico II, Napoli. c.didonnacinzia@gmail.com

Reuse of Deconsecrated Churches Deconsecrated churches are ever more numerous and it is inevitable to wonder about their future. To transform a building, that was a religious building, is an operation that must take on the use value, architectural value and symbolic value of the building; it is a delicate operation that must operate in respect of the construction. What could be the project actions and new functions? The article wants to investigate the possible uses, so that “the Mass is over” for the last time becomes the beginning of a new story.* l riuso degli edifici sacri è un argomento delicato che interessa non solo la condizione di degrado degli edifici ma anche il loro essere luogo di assemblea e di accoglienza, il valore religioso e la funzione polarizzante nella trama urbana. L’analisi intende concentrarsi sul tema del riuso di edifici sacri, nella fattispecie di chiese dismesse1, per cui “la Messa è finita”, questa volta per sempre, ponendo attenzione al loro destino, i possibili usi futuri, le strategie di intervento, affinché diventino nuovi luoghi possibili con una nuova identità. Con l’espressione “riuso degli edifici di culto”, si intende designare la possibilità di adibire l’edificio a un uso profano “non indecoroso” (Conferenza Episcopale Italiana, 1992), dal momento in cui

è cessata la sua destinazione religiosa; la trasformazione mette in campo due questioni principali: da un lato si è in presenza di un edificio monumentale, dall’altro, è l’espressione di una volontà simbolica di un’epoca, che va oltre la funzione, espressa attraverso l’arte, la forma, la luce, lo spazio. Aldo Rossi scriveva: “Un fatto urbano che è intrinsecamente determinato solamente dalla sua funzione […] se perduta la funzione

questo fatto è ancora vivo, il motivo è da ricercarsi nella straordinaria qualità della forma” (Rossi, 1995). Una chiesa sconsacrata continuerà a esprimere la sua funzione, la sua deputatio ad cultum. È possibile prevedere per le chiese sconsacrate nuovi usi, affinché diventino nuovi luoghi possibili per la comunità? L’architettura da sempre si è posta la questione: così templi e basiliche romane sono diventate chiese cristiane, chie-

01. Interno della Chiesa Domenicana di Maastricht trasformata in libreria. Interior of the Dominican Church of Maastricht transformed into a library. Roos Aldershoff

Riuso di chiese sconsacrate Spazi sacri: luoghi possibili con una nuova identità

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se cristiane sono diventate moschee e poi trasformarsi in magazzini, teatri, ecc. Sottrazioni, aggiunte, riutilizzo sono state le pratiche per sfruttare al massimo gli edifici. Con il XIX secolo, le teorie del restauro di Ruskin hanno posto l’attenzione sulle tematiche di continuità, conservazione e riconoscibilità degli interventi, portando a una maggiore consapevolezza dell’eredità culturale. Oggi, più che mai, il tema è attuale e in futuro gli architetti si troveranno dinnanzi a chiese “dismesse” o che sono obsolete per quanto riguarda gli standard di utilizzo moderni (materiali, comfort, norme di sicurezza ecc.), qualsiasi intervento sollecita un largo spettro di conoscenze e competenze, che vanno dal restauro al progetto architettonico. All’estero, l’approccio al tema è più disinibito che in Italia, il distacco dalla religione ha portato a un uso sempre più commerciale, con l’inserimento di nuovi elementi architettonici che modificano l’assetto spaziale della chiesa. Un esempio è la chiesa Domenicana di Maastricht (img. 01), sconsacrata nel 1796, trasformata in una scuderia, deposito, archivio e in una sala per feste, dal 2007 è una libreria, per un progetto di Merkx+Girod. Con una struttura in acciaio nella navata centrale, la libreria risponde alla nuova funzione e conferma l’asse longitudinale della chiesa, permettendo di godere della spazialità gotica dell’edificio. L’inserimento di nuovi elementi è una tendenza che a volte maschera l’incapacità di relazionarsi con le preesistenze: diventa un problema di design e non architettonico, come tale viene affrontato rispondendo ai caratteri di funzionalità, leggerezza, innovazione, reversibilità e contrasto con la tradizione. Il pericolo è quello di cedere a scelte dettate dal mercato o dall’estetizzazione, alterando l’identità spaziale e la sua percezione. In Italia circa 25.000 chiese sono sconsacrate e il dibattito sul riutilizzo è vivo, spinto anche dalla Chiesa stessa, che chiede un uso decoroso e consono alla sacralità dei luoghi2. Rispetto all’atteggiamento estero, più audace, in Italia si nota un approccio basato sulla purezza delle forme e sul tentativo di stabilire un dialogo con la preesi-

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stenza. La ricerca di compatibilità tra contenuto e contenitore ha promosso attività culturali, ma non mancano casi dettati dal marketing e dal gusto del contrasto con la tradizione, con l’inserimento di funzioni come palestre, bar, ecc. Di solito questo tipo di scelta viene giustificata dal principio della reversibilità, ma riflette la scarsa riflessione sulla metodologia di intervento riguardo l’identificazione di nuovi usi appro-

la chiesa sconsacrata continuerà a esprimere la sua funzione, la sua deputatio ad cultum

02. Interno della Chiesa Domenicana di Maastricht trasformata in libreria. Interior of the Dominican Church of Maastricht transformed into a library. Roos Aldershoff

priati e alle modifiche che servono agli edifici per adattarsi. Un altro aspetto che spesso si trascura è l’impatto che questi edifici hanno a livello urbano. In qualità di “fatti urbani” hanno svolto un ruolo chiave nella città: il cambiamento d’uso e la perdita di centralità altera un equilibrio instaurato da secoli, da polo catalizzatore, la chiesa sconsacrata diventa un oggetto alieno. Invece, può svolgere un ruolo che la città pubblica ha perso, quello di creare polarità: essere uno spazio di incontro, soprattutto per la rigenerazione delle periferie. L’obiettivo, infine, è ricucire il rapporto con la città e riproporre questi spazi con una nuova “veste” funzionale, affinché siano capaci di ospitare una nuova storia.*

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NOTE 1 – In riferimento al Canone 1214 del Codice di Diritto Canonico 2018, con il termine chiesa si intende: “Edificio sacro destinato al culto divino, ove i fedeli hanno il diritto di entrare per esercitare soprattutto pubblicamente tale culto”. 2 – Per quanto concerne l’aspetto giuridico il Codice di Diritto Canonico, prevede norme circa la “riduzione permanente a usi profani non indecorosi” (Conferenza Episcopale Italiana, 1992); “il nuovo uso dovrà comunque risultare[…] tale da non far venir meno il significato primario della chiesa, la preesistente immagine e l’originaria disposizione funzionale”(Pontificia Commissione per l’Arte Sacra, 1987). BIBLIOGRAFIA - Conferenza Episcopale Italiana 9 dicembre 1992, “I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti”, n. 35, Can. 1222, comma 1 e comma 2. - Rossi A., “L’architettura della città”, CittaStudi Edizioni, Milano, 1995. - Art. 831, “Codice civile - Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto”. - Pontificia Comm. per l’Arte Sacra in Italia, “Carta sulla destinazione d’uso degli antichi edifici ecclesiastici”, Roma, 1987, nn. 6-7. - Benjamin W., “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi, Torino, 2011. - Coomans T. et al., “Loci Sacri, Understanding sacred places”, Leuven University Press, vol. 9, Leuven University Press, 2012.


Monica Manicone Architetto. PhD Composizione Architettonica e Urbana, Sapienza Università di Roma. monica.manicone@gmail.com

The Museum between the Sacred and the Profane The Center Pompidou in Paris became the emblem of the museum transformation from the art temple to the cultural center for a mass audience. At the end of the last Century, the museum of contemporary art represented an object of art in itself, a simulacrum able to attract spectators for the building rather than for its content. The museum of today tends to be a commissioner of art, transforming the museum building into an art laboratory.* a trasformazione del museo da luogo riservato a una élite di fruitori selezionati a quello per un pubblico di massa è uno dei motivi che hanno contribuito a ridisegnare profondamente l’istituzione museale, con la sua architettura, partecipando, soprattutto nel Novecento, anche a determinare la perdita di parte di quell’aura sacra che caratterizzava il museo. Questo, inteso come istituzione di interesse pubblico a partire dall’Illuminismo, ha rappresentato per lungo tempo l’idea di luogo destinato alla conservazione dei valori storici, alla educazione dei cittadini, alla rappresentazione della gloria della patria; il suo ruolo consisteva, tra l’altro, nel giudicare e selezionare cosa si dovesse intendere per Arte. L’accesso a questo

luogo, sacrale in quanto dedicato alla cultura più elevata, era una vera e propria iniziazione rappresentata dalla grande scalinata d’ingresso, presente già a partire dal modello durandiano, ripresa in seguito sia da Karl Friedrich Schinkel nell’Altes Museum di Berlino (aperto al pubblico nel 1830), sia da Leo von Klenze nella Gliptoteca di Monaco di Baviera (realizzata a partire dal 1815 sulla base degli schizzi di Karl von Fischer). La scala monumentale, caratterizzante, in seguito, anche le architetture museali delle capitali del Nord America, fu introdotta da Pio

Piacentini nel progetto per il Palazzo delle Esposizioni di Roma (inaugurato nel 1883) e, nel 1911, da Cesare Bazzani nel progetto della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Una volta giunti all’interno, attraverso la scalinata, il museo, al pari di un tempio sacro, assumeva le caratteristiche di un luogo contemplativo, rarefatto, solitario, in cui lo studioso poteva avvicinarsi alle opere d’arte come a tesori gelosamente custoditi. Il valore simbolico del museo era inoltre evidenziato dalla figura della rotonda, presente già nei musei di Étienne-Louis Boullée e Jean-Nicolas-

01. Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou, Parigi, 2013. Monica Manicone

Il museo tra sacro e profano Il museo di arte contemporanea da tempio delle Muse a meta turistica

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il museo, al pari di un tempio sacro, assumeva le caratteristiche di un luogo contemplativo, rarefatto, solitario Louis Durand ma, ancora prima, nella sala circolare del museo Pio Clementino progettata nel 1772 da Michelangelo Simonetti ispirandosi al Pantheon. Niente di tutto questo, invece, si ritrova nell’impianto architettonico del Centre Georges Pompidou progettato da Richard Rogers e Renzo Piano a Parigi, più simile al Fun Palace di Cedric Price. Il museo parigino, inaugurato nel 1977, divenne in breve tempo l’emblema di una nuova idea di museo, un centro per l’arte del presente rivolto a un pubblico di massa, un luogo, in cui trascorrere il tempo libero e svolgere attività di tipo culturale, composto da spazi ampi e funzionalmente flessibili, affiancati da ambienti destinati allo studio e allo svago. Si trattò di una trasformazione che non ottenne pareri del tutto favorevoli. Secondo Jean Baudrillard esso si configurava come una “macchina” che avrebbe divorato l’energia culturale lasciando al suo posto un enorme vuoto (Baudrillard, 1977). L’edificio, che non si erge più su un podio raggiungibile attraverso una scalinata, come i musei classici, estende i suoi spazi interni alla piazza esterna che, inclinandosi in direzione dell’ingresso, si fonde quasi con il Forum, la grande hall interna. Si verificava una sostanziale evoluzione e trasformazione di senso dell’uso e della funzione del museo. Ancora più innovativo e provocatoriamente dissacrante il Guggenheim Museum progettato da Frank O. Gehry a Bilbao, sin dalla sua apertura alla fine degli anni Novanta, si rivelò

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02. Guggenheim Museum, Bilbao, 2013. Monica Manicone

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il museo tende a evolversi ulteriormente e a somigliare sempre più a un laboratorio

03. Guggenheim Museum, Bilbao, 2013. Monica Manicone

un’attrazione per un pubblico internazionale, richiamato in modo particolare dall’edificio ancor più che dalle opere esposte, riuscendo a ottenere un effetto tanto positivo economicamente da far riprendere la città, dopo la dismissione del suo sito industriale, rendendola una località a vocazione prettamente turistica. Il museo basco risponde alla definizione di “museo dell’iperconsumo”1. Questo modello di museo, secondo Vittorio Gregotti più simile a uno shopping mall destinato al tempo libero2, non risponde alle modalità tradizionali di relazione con il contesto ma si pone rispetto a esso come un oggetto estraneo. Una icona, però, in grado di affermarsi all’interno delle città globali come immagine della presenza dell’arte in città e, allo stes-

04. Macba, Barcellona, 2013. Monica Manicone

so tempo, talmente esuberante nell’aspetto esterno da entrare in competizione con la città stessa e con le opere d’arte contenute al suo interno. La dimensione contemplativa, nei musei dell’iperconsumo, risulta decisamente ridotta, perdendo anche quell’aura di sacralità che aveva distinto fino ad allora i musei dagli altri edifici pubblici. Venendo ai nostri giorni si può osservare che, mentre nel mondo occidentale la deriva spettacolare e performativa degli ultimi anni sembra diminuita in favore di interventi più misurati e legati al contesto, che spesso interessano il riuso di edifici dismessi, sono stati inaugurati o sono ancora in costruzione musei sovradimensionati e dalle forme più originali possibili nei paesi ricchi del Medio Oriente, come

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05. Macba, Barcellona, 2013. Monica Manicone

il Museo del Louvre di Abu Dhabi e il National Museum of Qatar firmati da Jean Nouvel, il Guggenheim Abu Dhabi, progettato da Gehry, lo Zayed National Museum disegnato da Norman Foster. La logica del marketing e della cultura come intrattenimento hanno, dunque, cambiato nel profondo il museo (Clair, 2004). Nei musei di arte contemporanea possiamo oggi partecipare a eventi e rassegne cinematografiche, gustare i piatti di chef stellati, praticare yoga e, alla fine, visitare le gallerie espositive. Un altro aspetto interviene nell’evoluzione del museo di arte contemporanea. Poiché la distanza critica tra il momento della creazione di un’opera e il momento della sua esposizione si è assottigliata sempre di più, il museo tende a evolversi ulte-

L’IMMERSIONE


la dimensione contemplativa, nei musei dell’iperconsumo, risulta ridotta, perdendo anche quell’aura di sacralità che aveva distinto fino ad allora i musei dagli altri edifici pubblici

05. MAXXI, Roma, 2015. Monica Manicone

riormente e a somigliare sempre più a un laboratorio. L’opera d’arte, infatti, non viene sempre soltanto acquisita dal museo dopo che esso ne ha riconosciuto la sua artisticità ma è il museo stesso a commissionare agli artisti opere d’arte specifiche e, talvolta, lascia che il pubblico assista alla generazione dell’opera, mettendo in mostra l’atto stesso della creazione artistica. Questo intervento mette a rischio il ruolo critico che il museo svolge nei confronti dell’arte compromettendone l’oggettività del giudizio. In questa evoluzione continua, il museo di arte contemporanea rivela la sua contraddittorietà: in quanto museo svolge il compito di conservare le opere come patrimonio artistico e come tale destinato al futuro, dall’altra parte

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l’arte a cui è dedicato è attuale e valida in quanto contemporanea. I musei di arte antica e moderna rispondono a criteri di selezione dell’arte secondo canoni accreditati che, però, nell’ambito dell’arte contemporanea non risultano più sufficienti perché essa è in divenire e non è decodificabile attraverso categorie fisse e storicizzate, anzi avrebbe forse la necessità di spazi e tempi di decompressione attraverso cui le opere possano essere osservate con la giusta oggettività di giudizio prima di poter essere annoverate tra i beni inalienabili dell’umanità.*

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NOTE 1 – La definizione è di Giancarlo De Carlo. Per sua iniziativa nel 2002 si tenne il convegno internazionale “I Musei dell’Iperconsumo”, presso la Triennale di Milano, curato da Franco Purini, Pippo Ciorra e Stefania Suma, organizzato dalla Accademia Nazionale di San Luca di cui De Carlo era Presidente. 2 – Gregotti V. in Ciorra P., Suma S., (a cura di), “I musei dell’Iperconsumo, Atti del convegno internazionale”, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 2002. BIBLIOGRAFIA - Baudrillard J., “L’effet Beaubourg. Implosion et dissuasion”, Éditions Galilée, Paris, 1977. - Ciorra P., Suma S. (a cura di), “I musei dell’Iperconsumo, Atti del convegno internazionale”, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 2002. - Ciorra P., Purini F., Suma S., “Nuovi musei. I luoghi dell’arte nell’era dell’Iperconsvumo”, Libria, Melfi, 2008. - Clair J., “La crisi dei musei, La globalizzazione della cultura”, Skira, Milano, 2008. - Di Giacomo G., Valentini A. (a cura di), “Che cosa è il museo oggi?”, Clueb, Bologna, 2012. - Zuliani S. (a cura di), “Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del museo di arte contemporanea”, Bruno Mondadori, Milano, 2007. - Zuliani S. (a cura di), “Atelier d’artista: gli spazi di creazione dell’arte dall’età moderna al presente”, Mimesis, Milano, 2013, pp. 3-5.


Lorenzo Gigante Dottorando, Università Ca’ Foscari, Venezia. gigante.lorenzo@gmail.com

Aesthetic and Ecstatic, Heroic and Erotic Two different paintings, one copied from the other more than a century later, show the same composition. The subject is unespectedly different. One is a sacred allegory, the other a profane heroine. Both these paintings, however, represent a wider tradition of depictions of a woman in the same pose: from time to time a saint, a heroine, an allegory. The contrast between Sacred and Profane is only apparent, because the real subject is hidden between ecstasy and aesthetics: a possible way to eternity.*

el 2005 compare sul mercato antiquario un dipinto assegnato a Carletto Caliari, figlio del celebre Veronese: un’enigmatica figura femminile a mezzo busto, piuttosto discinta, ingioiellata, lo sguardo al cielo, il petto scoperto, un seno stretto nella mano destra (img. 01). Attribuibile alla prima attività del pittore, attorno all’inizio dell’ultimo decennio del XVI secolo, l’opera appare un problema iconografico per il catalogo d’asta, che la definisce Figura femminile allegorica (La Carità?). Spesso la Carità è in effetti impersonata da una florida figura allattante2 (Ripa 1992 [1593], pp. 48-49). La scomparsa dei putti solitamente associati potrebbe

01. Carletto Caliari, Figura allegorica (la Carità?), fine XVI secolo, già Udine, mercato antiquario. Carletto Caliari, Figura allegorica (Charity?), end of XVI century, formerly Udine, antiques market. Auction catalogue Semenzato, 2005

Estetiche, estatiche, ero(t)iche

Mezzibusti veneziani tra sacro e profano

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L’IMMERSIONE


imputarsi alle dimensioni da cavalletto del dipinto, ma anche alla preferenza per una certa ambiguità erotica che non doveva dispiacere al mercato dell’epoca anche in un soggetto che, seppure allegorico, appartiene comunque alla sfera del sacro. Un curioso destino porta sul mercato, appena un anno più tardi, un altro dipinto che nella sua storia doveva aver incrociato questa Carità. Perché la Cleopatra che si fa mordere dall’aspide, assegnata al pittore veneziano Angelo Trevisani e risalente agli inizi del XVIII secolo, altro non è che una copia di quest’ultima eseguita poco più di un secolo dopo2 (img. 02). Non proprio una copia esatta: la stoffa si alza, trattenuta dalla mano destra, copre il seno e regge l’aspide che identifica la figura, senza dubbio, con la regina egiziana. Lo stesso Carletto, tuttavia, aveva ripreso un’opera tarda del padre realizzata attorno al 1580, la Sofonisba già presso l’antiquario Scarpa di Venezia, oggi in collezione privata (Pignatti e Pedrocco 1995, p. 424, n. 315; Pignatti e Pedrocco 1991, n. 199; Pignatti 1976, p. 447) (img. 03). L’inquadratura è più ampia, tagliata sopra le ginocchia, ma la composizione è ancora la medesima. Come per la Cleopatra di nuovo il soggetto è un’eroina profana, la mitica regina di Numidia che si avvelenò pur di non subire l’onta di sfilare in catene. La stessa figura ritorna però in un suo altro dipinto di quegli anni, oggi nelle collezioni del Castello di Praga, raffigurante Santa Caterina con un angelo5 (Pignatti e Pedrocco 1995, p. 360, n. 246; Fučíková 1994, pp. 52-53) (img. 04). Ancora una volta, in bilico tra sacro a profano. Questo binomio era ancora attuale al tempo della Cleopatra attribuita a Trevisani, come dimostra la contemporanea Sant’Orsola di Antonio Zanchi a Braunschweig: una diversa attrice, un soggetto sacro, ma sempre la stessa figura (Jacob, König–Lein 2004, pp. 150-151) (img. 05). In un secolo cambiano molte cose, non solo l’identità di una figura. La Carità cinquecentesca era una creatura manierista, ancora sorretta dalle solide certezze di un Rinascimento che si avviava al tramonto. Per oltre un seco-

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l’eterno contrapporsi tra sacro e profano si scioglie davanti alla più umana delle paure

02. Angelo Trevisani (attr.), Cleopatra che si fa mordere dall’aspide, inizi XVIII secolo, già Venezia, mercato antiquario. Angelo Trevisani (attr.), Cleopatra bitten by the asp, beginning of the XVIII century, formerly Venice, antiques market. Auction catalogue San Marco, 2006

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lo l’uomo era stato misura di tutte le cose, e il solido impianto del dipinto di Caliari ne testimonia ancora la fiducia, precisa nel suo contorno come un’idea platonica. Cleopatra ora è invece la protagonista di un grande dramma barocco, l’oscurità intorno a lei si è fatta più densa, e ciò che le brilla negli occhi non sono più certezze, ma lacrime. Gli occhi sono arrossati, lo sguardo più interrogativo. Nonostante il seno ora coperto, la sua figura è ammantata di un languore più estenuato, complici le labbra vermiglie, la luce più morbida. Forse davvero è la stessa figura, prima modella concreta e distante, ora attrice umana e partecipe, scesa da un cielo razionale a un teatro terreno3. Se una figura poteva interpretare senza problemi, più o meno discinta, una santa, un’allegoria sacra o un’eroina profana, viene spontaneo riflettere su quale sia allora il vero soggetto di questa “formula di pathos” di warburghiana memoria4. Una mano sul petto, uno sguardo languidamente perso verso una dimensione altra. Nata dalla sublimazione del dolore dei modelli classici antichi, siano essi Niobe o Laocoonte, questa forma convenzionale ora è l’estasi, “dal lat. tardo ecstăsis, gr. ἔκστασις ‘turbamento o stato di stupore della mente [...]’, der. di ἐξίστημι ‘mettere fuori’ e, come intr. e nel medio ‘uscire di sé’. – Genericam., stato di isolamento e d’innalzamento mentale dell’individuo assorbito in un’idea unica o in un’emozione particolare [...]”5. Queste figure stanno effettivamente “uscendo di sé”, abbandonando il proprio corpo alla morte: le eroine classiche come le sante prossime al martirio. Escono da sé, e da questa dimensione terrena, trascendono la vita quanto la morte raggiungendo l’eternità assorbite dalla loro virtù: divina o morale, sacra o profana. Nella retorica aristotelica che può di volta in volta movere, docere o delectare, base mentale in questi secoli per ogni uomo dotato di cultura, poi presupposto fondamentale per l’estetica barocca (Morpurgo Tagliabue, 1955; Snyder 2005, pp. 29-34), sono i primi due termini qui a sembrare determinanti: Cleopatra come Orsola, Sofoni-

sba come Caterina sono exempla capaci di assumere un valore universale anche oltre il loro ambito culturale, classico o religioso, di appartenenza. Soggetti nati nel segno dell’eternità, non puntano ad altro anche in quanto oggetti. Sotto il segno, stavolta, dell’estetica: “dal lat. mod. aesthetica (coniato da A. G. Baumgarten, 1735), femm. sostantivato del gr. αἰσϑητικός: [...] – Letteralmente, dottrina della conoscenza sensibile [...]. Nel sec. XVIII, con senso specifico e tecnico, dovuto al filosofo tedesco A. G. Baumgarten, la dottrina del bello, naturale o artistico, e quindi l’esperienza del bello, della produzione e dei prodotti dell’arte [...]”6. Le qualità intrinseche dell’opera, all’occhio del collezionista di ieri come di oggi, sono esse stesse viatico per l’eternità: a gloria di chi l’ha dipinta, stavolta. Rientrando nell’ambito della retorica aristotelica, ecco stavolta, animato dai più terreni istinti umani, il delectare. Tutto si compie attraverso l’eccitamento dei sensi di chi guarda. Come indica la terminologia stessa, si torna sul piano della sensualità: anche un seno scoperto o accennato, un languido abbandono quasi erotico sono allora, attraverso le riconosciute qualità artistiche del dipinto, armi che permettono di beffare la morte7. Se per Warburg la Pathosformel è il risultato di una situazione intensa, sovraeccitata, quasi di scontro, persino etimologicamente nata da una contraddizione antinomica (pathos, l’emozione instabile vs. formel, la forma stabile) (Settis, 2012), non deve stupire come di fatto questi mezzibusti rappresentino una formula che vive sospesa in un contesto liminare: tra la vita e la morte, tra la caducità della materia e l’eternità della gloria, sopravvivendo indenne al passaggio di epoche storiche, dal Rinascimento al Barocco. Così, con assoluta coerenza, una cortigiana veneziana può essere allo stesso tempo creatura sacra e profana: quel che conta è vincere il tempo. L’eterno contrapporsi tra sacro e profano si scioglie davanti alla più umana delle paure: quella della morte.*

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queste figure stanno effettivamente “uscendo di sé”, abbandonando il proprio corpo alla morte

03. Paolo Caliari, il Veronese, Sofonisba, 1580 ca., collezione privata. Paolo Caliari, il Veronese, Sofonisba, 1580 ca., private collection. Scarpa Antichità, Venice

L’IMMERSIONE


04. Paolo Caliari, Il Veronese, Santa Caterina e l’angelo, 1575 ca., Praga, Narodni Galerie. Paolo Caliari, Il Veronese, Saint Catherine with the Angel, 1575 ca., Prague, Narodni Galerie. Prague Castle Photo Library

05. Antonio Zanchi, Sant’Orsola, 1690 ca., Braunschweig, Herzog Anton-Ulrich Museum. Antonio Zanchi, Saint Orsola, 1690 ca., Braunschweig, Herzog Anton-Ulrich Museum Herzog Anton-Ulrich Museum.

NOTE 1 – Asta dell’arredamento antico di Villa Gorgo, seconda parte, Semenzato Casa d’Aste, Nogaredo di San Vito al Torre, Udine 15 maggio 2005, lotto 795: Carletto Caliari, Figura femminile allegorica (La Carità ?), olio su tela, cm. 58,5x47. Non si entrerà qui nel merito delle attribuzioni dei dipinti citati, per cui si rimanda ad uno studio più approfondito in corso da parte dello scrivente. 2 – Dipinti di antichi maestri, San Marco casa d’aste, Venezia, Ca’ Vendramin Calergi, 17 dicembre 2006, lotto 29: Angelo Trevisani, Cleopatra che si fa mordere dall’aspide, olio su tela, cm. 52x47. A parere di chi scrive, l’attribuzione a Trevisani, dovuta a Egidio Martini, non sembra pienamente condivisibile. 3 – Non apparirà casuale come, in quella stessa Venezia barocca, la figura di Cleopatra godesse di grande fortuna anche come soggetto teatrale (Urbini 1993, pp. 209-210). 4 – Sul concetto di Pathosformel, Bredekamp 2015, pp. 238-249. Sulla figura del suo scopritore, Aby Warburg: Cieri Via 2011. 5 – http://www.treccani.it/vocabolario/estasi/, presa visione settembre 2019. 6 – http://www.treccani.it/vocabolario/estetica/, presa visione settembre 2019. 7 – Sull’immagine agente, capace di esistenza propria ed interazione attiva con l’osservatore, e sul suo potere

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esiste un’importante tradizione di studi recentemente sintetizzati e compendiati da Bredekamp 2015 [2010], cui si rimanda per ulteriori approfondimenti bibliografici. BIBLIOGRAFIA - Bredekamp H., “Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015 (ed. orig. Suhrkamp, Berlin 2010). - Cieri Via C., “Introduzione a Aby Warburg”, Laterza, Bari, 2011. - Fučíková E. (a cura di), “Capolavori della pittura veneta dal Castello di Praga”, Electa, Milano, 1994. - Jacob S., König–Lein S., “Die Italienischen Gemälde des 16. bis 18. Jahrhunderts”, Hirner, Brauschweig München, 2004. - Morpurgo Tagliabue G., “Aristotelismo e Barocco”, in Castelli E. (a cura di) “Retorica e Barocco”, Bocca, Roma, 1955. - Pignatti T., “Veronese”, Alfieri, Venezia, 1976. - Pignatti T., Pedrocco F., “Veronese. Catalogo completo dei dipinti”, Cantini, Firenze, 1991. - Pignatti T., Pedrocco F., “Veronese”, Electa, Milano, 1995. - Ripa C., “Iconologia”, a cura di Piero Buscaroli, Tea, Milano, 1992 (ed. orig. Gigliotti, Roma, 1593). - Settis S., “Aby Warburg, il demone della forma. Antropologia, storia, memoria” in “Engramma. La tradizione classica

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nella memoria occidentale”, ottobre 2012, n. 100, http:// www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1139. - Snyder J. R., “L’estetica del Barocco”, il Mulino, Bologna, 2005. - Urbini S., “Il mito di Cleopatra. Motivi ed esiti della sua rinnovata fortuna fra Rinascimento e Barocco”, in “Xenia Antiqua”, 1993, II, pp. 181-222.


Marco Felicioni Dottorando in Storia dell’architettura, Università Iuav di Venezia. marco.felicioni94@gmail.com

A profaning Play Play is a profaning act, capable of neutralizing the aura of the sacred, by opening any objects to new possible uses. It features a form of virtuous, differential repetition, thus alternative to the “eternal return of the same” which, besides mythical rituals, also characterizes capitalist modes of production. Precisely because of its ability to oppose these trends, play has become a privileged object in avant-garde architectural research of the last century.* alle ironiche provocazioni di Piero Portaluppi, alle giocose utopie di Ettore Sottsass, fino agli esperimenti di Bruno Munari, nel Novecento la speculazione progettuale sovente ricorre alla dimensione ludica, quale terreno fecondo di sperimentazione creativa. Eppure prettamente distruttiva è, in realtà, la natura del gioco, come dimostra il tentativo di Hermann Finsterlin di screditare la tradizione architettonica accademica mitteleuropea che lo precede, riducendola a un banalissimo e vuoto gioco formale di stili: lo “Stilspiel”1. Il gioco implica una distruzione creatrice, come sembrano suggerire gli infanti quando fanno a pezzi i propri giocattoli, per poi cercare di ricomporli. Ma il vero carattere dell’esperienza ludica risiede, in verità, nel

suo situarsi precisamente nel mezzo di un conflitto tra due polarità: il sacro e il profano. In Homo Ludens, Johan Huizinga dimostra la derivazione della sfera del gioco da quella del sacro: i giochi di palla non sarebbero altro che l’evoluzione di antichi rituali mitici, che un tempo rievocavano la contesa tra divinità per il possesso del sole (Huizinga, 1938). Del resto, qualora finisse tra le mani di un bambino, una qualsiasi statuetta utilizzata in riti propiziatori diventerebbe una bambola, un giocattolo. Ma allo stesso tempo, come precisa il linguista

Émile Benveniste, il gioco si discosta dal sacro perché mantiene soltanto una metà dell’operazione religiosa: esso ne conserva la struttura, ovvero il “rituale”, ma inesorabilmente ne dimentica il senso, cioè il “mito” (Benveniste, 1947). Nel gioco Walter Benjamin individua una forma di reiterazione alternativa a quella sacra (Montanelli, 2017). Se da un lato, infatti, le religioni cultuali ripetono in modo eternamente uguale (basti pensare alla ciclicità delle feste religiose, che scandiscono chiari intervalli temporali), dall’altro il bambino ripete compulsivamente quando, instancabile, non

01. The Naked City. Illustration de l’hypothèse des plaques tournantes en psychogeographique. Permild & Rosengreen, Copenaghen, 1957. Guy Debord & Asger Jorn

Il gioco profanatore

Il progetto del ludico come strumento politico di evasione

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L’IMMERSIONE


02. New Babylon, Constant Niewenhuis, 1971, matita, acquarello, fotomontaggio.Tom Haartsen, Collection Gemeentemuseum Den Haag, NL

vuol proprio smettere di giocare: ma il suo è un ripetere virtuoso e creativo, in modo sempre diverso, imputabile a un puro desiderio di apprendimento. Il gioco viene compreso da Benjamin come misura difensiva contro le insidie di una forma sacrale di ripetizione dell’eterno ritorno, proprio per il fatto che è in grado di neutralizzare l’aura, ovvero di riportare il sacro alla dimensione dell’uso. Si tratta di un’operazione desacralizzante, profanatoria. Parafrasando la definizione che ne dà Giorgio Agamben: profanare significa compromette il carattere sacro di qualcosa, aprire a nuove possibilità di utilizzo (Agamben, 2005). Ma dove si insinua oggi la minaccia di una ripetizione ciclico-sacrale? Sebbene la religione vada oggi inevitabilmente perdendo la sua capacità di strutturare i valori delle società contemporanee, il carattere sacrale nondimeno permane a un livello ancora più intrinseco di organizzazione della nostra società: il sistema economico capitalistico infatti, nel modo in cui ripete eternamente l’uguale, denuncia il comportamento di una vera e propria religione mitica2. La ricerca costante e fantasmagorica di

04. Finsterlin, Il Gioco degli Stili, 1921. Staatsgalerie Stuttgart. Archiveofaffinities

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un’illusoria novità si traduce in un circolo vizioso di produzione e consumo che non prevede mai possibilità di variazione nei sistemi produttivi. L’atteggiamento ludico è forse l’unico in grado di mettere sotto scacco tali logiche, seppure anche solo nella frazione di un secondo. Per tale motivo il gioco diviene oggetto privilegiato della speculazione architettonica: per questo Aldo Van Eyck individua nel playground un nuovo modo di appropriazione dello spazio urbano, in grado di rilanciare i concetti di “luogo” e “occasione” contro quelli modernisti di “tempo” e “spazio” della città funzionalista tanto decantata nei CIAM; per questo Cedric Price trascorre dieci instancabili anni a cercare di dar forma a un edificio - il Fun Palace che sia in grado di soddisfare le esigenze del divertimento dell’uomo contemporaneo; per questo Constant Nieuwenhuys dà forma a New Babylon, una città pensata per accogliere le esigenze dell’homo ludens, il quale dedica la propria vita interamente alla sperimentazione di attività per il tempo libero. Il caso più emblematico di questo impiego di strategie ludiche finalizzate allo scardinamento (profanazione) di un sistema dal carattere sacrale, è forse quello dell’Internationale situationniste, le cui stesse opere d’arte - il détournement3, la dérive e l’esplorazione psicogeografica4 - si configurano come vere e proprie situazioni di gioco. Solo in tal modo l’opera rifugge la forma oggettuale, difendendosi dalla mercificazione e dal proprio appiattimento sull’altare del valore di mercato.

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03. Dijkstraat Playground, Aldo van Eyck, 1954. Gemeentearchief Amsterdam

il gioco conserva la struttura del sacro, il rituale, ma ne dimentica il senso, cioè il mito È un voler sfuggire a logiche altresì ineludibili, che dettano il funzionamento di una società che è costitutivamente “seria”. E se fosse possibile rinunciare a questa serietà, in nome di una rifondazione ludica del mondo? Il gioco profanatore apre il progetto d’architettura a nuovi scenari: diventa così un chiaro strumento politico di evasione.* NOTE 1 - Concetto teorizzato da Finsterlin nel saggio “La genesi dell’architettura mondiale o la derivazione delle cattedrali come giochi di stili” pubblicato nel terzo numero di Frühlicht, nel 1922. 2 - W. Benjamin, “Capitalismo come religione” (a cura di C. Salzani), Il Nuovo Melangolo, 2013. 3 - Il détournement (“dirottamento”) è una tecnica che mira a intervenire su un supporto mediatico (come la pubblicità di un giornale o una mappa) operando su di esso una variazione giocosa che ne sconvolge il senso originale. 4 - L’esplorazione pratica del territorio attraverso un cieco divagare (deriva). BIBLIOGRAFIA - Agamben G., “Profanazioni”, Edizione Nottetempo, Roma, 2005. - Benjamin W., “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Arte e società di massa”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1991. - Benveniste É., “Il gioco come struttura”, in “Deucalion”, 1947, n. 2, pp.159-167. - Debord G.E., “La società dello spettacolo”, Massari Editore, Bolsena, 2002. - J. Huizinga, “Homo Ludens” (1938), by Routledge & Kegan Paul Ltd, London, Boston and Henley, 1949. - Montanelli M., “Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin”, Edizioni Mimesis, Milano, 2017.


Silvia Cegalin Giornalista e critica freelance, ricercatrice indipendente. cegalin_silvia@hotmail.it

The Sacred and Profane in the Nature With the advent of secularization and the emergence of capitalism, the human being has transformed the occupied space in a significant place destructured in its intrinsic and morphological characteristics. The Nature, as consequence, has been included within a structured human planning in which, from an inviolable and sacred phenomenon as it was considered, for example, in pre-medieval times, it has become a worldly object for human use and consumption. Nature, therefore, within the sacred /profane dichotomy is redefined, and opens up to new meanings.* e fiamme che il 15 aprile 2019 illuminarono come un’ombra la città di Parigi sono il ruggito rassegnato degli oggetti che si arrendono alla temporalità, a quel loro destino di “esserci per poi non esistere più”. L’incendio della cattedrale di Notre Dame (img. 01), oggi più di ieri, è l’immagine ideale per rappresentare la fluidità con cui mutano le cose, a ribadire che la cultura non resiste perché posta al confine tra l’imminente divenire e una possibile sua distruzione, collocandosi in quel territorio dell’incertezza che anche la techné umana più evoluta non riesce combattere. Natura e cultura, intrecciandosi, dialogano all’interno di una cornice

costruita ad hoc dagli uomini, in cui la prima, soccombendo ai ritmi estenuanti della seconda, si degenera e viene obbligata a ristrutturarsi in base ai bisogni umani. All’interno di questo contesto prevalentemente antropocentrico la natura ha progressivamente perso valore e, divenuta contenitore di pratiche umane spesso aggressive, è stata desacralizzata. Da soggetto dell’espressione del sacro, in quanto opera di dio com’era considerata soprattutto in epoca premedioevale, con la secolarizzazione del cattolicesimo e la successiva nascita dell’era Antropocene1 (Crutzen, 2000), la natura è diventata oggetto mondano ad uso e consumo per

e dell’uomo. E ciò si può constatare dalla proliferazione delle costruzioni di massa, dall’ingente cementificazione edilizia, nonché dal recente diboscamento della foresta Amazzonica che altro non è che lo specchio delle azioni distruttive dell’uomo, e di un non rispetto che pone la natura in una posizione subordinata in confronto al potere umano. E tale disintegrazione della visione sacra della natura e la conseguente affermazione del paradigma profano (ben visibile ad esempio nella trilogia filmica qatsi di Godfey Reggio), ha condotto a ciò che Max Weber in La scienza come vocazione del 1919 definisce: “disincanto” del mondo, ossia di una

01. La Cattedrale di Notre Dame prima dell’incendio, 2007. The Notre Dame Cathedral before the fire, 2007. Pascal Le Segretain

La Natura tra sacro e profano

La progressiva profanazione nell’era antropocentrica

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L’IMMERSIONE


02. Emblematica scena del film Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio (1982), primo film della trilogia “qatsi” che riflette sulle conseguenze della civilizzazione e sul potere invasivo dell’uomo nei confronti della natura. Emblematic scene from the Koyaanisqatsi movie by Godfrey Reggio (1982), the first film of the “qatsi” trilogy that reflects on the consequences of civilization and on the invasive power of man towards nature.

realtà spogliata dalle proprie qualità selvagge e magiche (img. 02). Ma la natura non è stata sempre senza dèi (Schiller, 1788), il concetto di natura è infatti mutato nel tempo. A tal proposito lo studioso delle religioni Mircea Eliade in Il Sacro e il profano, asserisce che nella visione cristiana biblica il mondo naturale è sempre stato concepito come espressione del divino, e mai soltanto come semplice elemento naturale. La natura, perciò, rientrando all’interno delle componenti generate dalla forza trascendentale, assumeva valore sacrale. In Trattato delle religioni inoltre Eliade ritorna sul concetto di sacro, asserendo che quando esso si manifesta nel mondo fenomenico, quest’ultimo, pur conservando il proprio statuto, si fa ierofania2 elevandosi pertanto a un grado superiore dal suo essere materiale. Ed è sempre all’interno di questa accezione sacra di natura che Heidegger per indagare la nozione di natura riprende idee provenienti sia dalla filosofia classica greca che dal periodo Romantico in cui, come è ben noto, la natura ha vissuto un momento di grande esaltazione. Per il filosofo tedesco il termine natura va ricondotto alla physis greca - originariamente phyomai, ossia origine e principio di ogni cosa che ha provenienza naturale e non divina come spesso si pensa. Mentre in La poesia di Hölderlin, scrive: “La natura, risvegliandosi, svela la sua

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03. Victor Moriyama, Incendio della foresta amazzonica brasiliana, 2019. Victor Moriyama, The Amazon rainforest fire, 2019.

propria essenza in quanto sacro” (Heidegger 1994, cit p. 72); ed è seguendo le orme del poeta romantico che Heidegger riveste di importanza la componente naturale, asserendo che essa è espressione del sacro, in quanto esiste prima di tutte le cose compresi gli dei. Nella natura, di conseguenza, è rintracciabile sia il concetto di Lichtung3, sia di inizio, in quanto la natura si è generata prima di tutti i tempi dal caos sacro. Per questo motivo, così come descritto in La questione della tecnica Heidegger consiglia all’uomo di deporre le proprie “armi” culturali e lasciare indisturbato l’ambiente naturale. A parte l’eccezione di Heidegger e del pensiero classico/romantico, con il radicarsi del Medioevo la natura assume un significato diverso. In merito è interessante citare gli studi di Lynn White junior, che in The historical roots of our ecological crisis, afferma che è proprio nell’età medioevale che si inizia a “svalutare” l’importanza della natura, perché la graduale sostituzione delle credenze pagane con i principi cristiani introduce al dualismo tra uomo e natura, stabilendo la superiorità dell’essere umano in quanto pura espressione di Dio. L’uomo, seguendo il ragionamento di White, è legittimato da Dio, a sfruttare e a usufruire come meglio vuole delle risorse naturali e animali che il creatore gli ha donato, ponendo le basi a una visione antropocentrica che nonostante i molti sforzi perdura ancora

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Natura e cultura, intrecciandosi, dialogano all’interno di una cornice costruita ad hoc dagli uomini

oggi. La progressiva marginalizzazione della natura all’interno di un contesto culturale e ideologico che, partendo dal Medioevo, si fa sempre più moralistico, razionale e individualistico, comporta l’inevitabile sviluppo, scrive sempre White, della tecnologia e delle scienze: strumenti congeniali all’uomo per soddisfare le proprie esigenze. E non è un caso se il momento storico di massima esaltazione della techné corrisponda con la rivoluzione industriale ottocentesca e l’affermarsi della politica capitalistica. Periodi in cui, esattamente come sottolinea Vittorio Hosle in Filosofia della crisi ecologica, a causa della frantumazione dei valori religiosi e filosofici e dell’assenza di una visione unitaria del mondo, si radicalizza l’epistemologia del dominio (img. 04). La maggiore causa della subordinazione della natura è dunque l’affermarsi di un’economia di stampo capitalistico in cui qualsiasi elemento, sia esso naturale, sociale o artificiale, sottostà alle regole scandite della produzione, produzione che generalmente è caratterizzata da un lavoro sfruttante e dalla costante creazione di bisogni spesso inesistenti. In merito, nei Manoscritti economico filosofici del 1844, Marx asserisce che la natura non è la sola a essere violata nei propri aspetti morfologici e intrinseci, ma lo è anche l’uomo che - distaccatosi dall’ambiente circostante - si trasforma in un alienato incapace di leggere lucidamente la realtà.


04. Edward Burtynsky, Dandora Landfill #3 Plastics Recycling Nairobi Kenya, 2016

è proprio nell’età medioevale che si inizia a “svalutare” il valore della natura

Da tali riflessioni si deduce che con il capitalismo l’uomo e la natura subiscono il medesimo tragico destino perché, continua sempre Marx, vengono entrambi depredati. L’equazione merce-terra è di conseguenza reversibile a quella di merce-forza/lavoro, e in questo sfondo ideologico la separazione tra il fattore culturale e la natura si fa sempre più evidente. E a far da eco a queste teorie, c’è anche il politico e ambientalista Giorgio Nebbia che definisce queste idee pre-ecologiste. Se la capitalizzazione è constatabile nelle devastazioni paesaggistiche, in un’incessante urbanizzazione di massa e in un consumo del suolo simboleggiato da un’estensione in orizzontale delle

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città. È anche vero che a partire dagli anni 60 alla tendenza sprawl4 si affianca una graduale “presa di coscienza” riscontrabile nello sviluppo di movimenti architettonici nati sulla base di una maggiore considerazione della natura e a un suo coinvolgimento attivo all’interno delle costruzioni. È in questa cornice di pensiero che emerge il concetto di architettura come “seconda natura”, non è più intesa come mero prodotto dell’homo faber, o riflesso di un’esaltazione della supremazia antropocentrica, ma di un’architettura che è il risultato della congiunzione tra elementi naturali e artificiali. La definizione di seconda natura compare in molti scritti inerenti la disciplina archi-

L’IMMERSIONE


tettonica. In Viaggio in Italia, ad esempio, Goethe in merito all’acquedotto di Spoleto asserisce che l’arte architettonica degli antichi è una seconda natura conforme agli usi e agli scopi civili, e che essa non si articola attraverso modelli astratti ma seguendo principi d’esistenza in cui natura e cultura sono presenti allo stesso livello. Idea ripresa da Costantino Dardi che in Semplice, lineare, complesso, proprio in riferimento all’acquedotto di Spoleto, ribadisce che l’architettura, pur formandosi per venire incontro alle esigenze umane, mantiene una relazione intrinseca con l’Universo, perché il paesaggio essendo uno spazio aperto si presta a essere modificato e a essere reinventato attraverso l’immaginazione umana. In linea con questo pensiero è anche Paolo Portoghesi che in Natura e architettura riutilizza il termine “seconda natura artificiale” evidenziando il legame intimo delle costruzioni con la terra, riaffermando l’importanza di instaurare con la natura scambi autentici in cui far emergere le peculiarità del territorio; mentre in Vite, Giorgio Vasari riferendosi alla Villa Farnesina di Baldassare Peruzzi volendone lodare la grazia la definì: un edificio che sembrava non murato ma veramente nato. E prima e seconda natura, intrecciandosi, conducono a ciò che viene denominata architettura verde o dell’ascolto, entrambe basate sull’integrazione del mondo vegetale nelle costruzioni. Ed è da questa attitudine innovativa che il termine ambientazione assume un significato rinnovato in cui viene ripristinato un dialogo armonico con l’ambiente originario. Una strategia edilizia che, dunque, proprio per queste caratteristiche diviene sostenibile. Negli stessi anni, precisamente nel 1964, Patrick Blanc, ideatore del muro vegetale, conia il termine biofilico per ribadire l’attitudine degli architetti, come ad esempio Herzog & De Meuron (img. 05) o Jean Nouvel, ad essere attratti da tutto ciò che è organico, non a caso il principale obiettivo della biophilia è quello di riprodurre in un contesto artificiale le condizioni naturali controllabili, e celebrarle rendendo al massimo le loro potenzialità.

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l’arte architettonica degli antichi è una seconda natura conforme agli usi e agli scopi civili 05. Herzog & De Meuron, CaixaForum, Madrid, 2007. Esempio di muro vegetale: concetto ideato da Patrick Blanc, simbolo di una natura che riconquista gli spazi. Exemple of vegetal wall: concept created by Patrick Blanc, symbol of extreme nature that regaining the spaces. Foto da web

In concordanza con questo filone di pensiero è anche il geografo Jay Appleton che in The Experience of Landscape, individua nell’architettura la pura estensione della natura, sottolineando come spesso vi sia corrispondenza tra forme e simboli naturali e artificiali. Le opere costruite dall’uomo possono, perciò, essere considerate come la reinterpretazione soggettiva delle forme esteriori presenti in natura. In base a ciò, la sacralità della natura non si perde, ma viene formalizzata e rivestita di valori culturali prima assenti. Ciò che emerge da tali esempi e dissertazioni è uno scenario contraddittorio di due forze che spingono in direzioni opposte, e questo conflitto è visibile nelle nostre città in cui convivono stili di vivere diversi, identificabili sia in una profanazione della natura dettata dai criteri consumistici esplicati in precedenza, sia in una sua venerazione attuata attraverso pratiche in cui viene ristabilita un’armonia che attualmente per raggiungere una stabilità solida ha ancora bisogno di maggior impegno.*

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NOTE 1 - Antropocene è un termine coniato informalmente dal biologo Eugene F. Stoermer nei primi anni 80 e ripreso nel 2000 dal premio nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen, noto a indicare come le azioni umane e industriali influiscano sull’ambiente terrestre, mutandolo. Tale denominazione usata per ribadire come l’habitat naturale si sia trasformato in habitat culturale, brutalmente urbanizzato, è stata adottata anche da ecologisti come James Hansen, mentre Jason Moore, preferisce parlare di Capitalocene. 2 - Il termine ierofania fu introdotto da Mircea Eliade ed esprime il senso della presenza o della manifestazione del sacro, ma non necessariamente di una divinità; una realtà quindi che che pur non appartenendo al mondo materiale si rivela in oggetti che sono parte integrante del nostro mondo naturale profano. 3 - Il Lichtung è un concetto di derivazione heideggeriano che esprime la coesistenza della luce e dell’ombra. Un chiaroscuro, un’apertura che rivela ciò che non è più nascosto; l’essere stesso che si manifesta aldilà dei limiti che l’uomo gli impone. 4 - Con il termine anglosassone sprawl (o sprinkling) si indica quel fenomeno urbanistico rivolto ad una progressiva e disordinata crescita delle città. È caratterizzato da occupazione aggressiva del suolo e da edificazioni di massa in orizzontale in cui gli spazi verdi e la mobilità e le infrastrutture alternative sono considerevolmente penalizzate. BIBLIOGRAFIA - Appleton J., “The Experience of Landscape”, John Wiley & Son Ltd, 1996. - Blanc P., “The Vertical Garden: From Nature to the City”, Norton, New York, 1964. - Crutzen P., “Benvenuti nell’Antropocene”, Mondadori, Milano, 2005. - Dardi C., “Semplice, lineare, complesso. L’Acquedotto di Spoleto”, Magma, Roma, 1976. - Eliade M., “Il sacro e il profano”, Bollati Boringhieri, Torino, 1967. - Eliade M., “Trattato di storia delle religioni”, Bollati Boringhieri, Torino, 1976. - Goethe J W., “Viaggio in Italia”, Mondadori, Milano, 1987. - Heidegger M., “La poesia di Hölderlin”, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano, 1994. - Heidegger M., “La questione della tecnica”, in “Saggi e discorsi”, Mursia, Milano, 1976. - Hosle V., “Filosofia della crisi ecologica”, Einaudi, Torino, 1992. - Marx K., “Manoscritti economico filosofici del 1844”, Feltrinelli, Milano, 2018. - Moore J., “Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologiamondo nella crisi planetaria”, Ombre corte, Verona, 2017. - Nebbia G., “L’uomo e l’ambiente”, Tamburini, Milano, 1971. - Portoghesi P., “Natura e architettura”, Skira, Losanna, 2002. - Schiller. F, “Poesie filosofiche”, L’altra biblioteca, Milano, 1990.


Chi vuol esser lieto sia

Il nuovo illuminismo radicale Marina Garcés Nutrimenti, 2019

l nostro tempo è il tempo del ‘tutto finisce’. Abbiamo visto finire la modernità, la storia, le ideologie e le rivoluzioni. Abbiamo visto come finiva il progresso: il futuro come tempo della promessa, dello sviluppo e della crescita. Ora vediamo come finiscono le risorse, l’acqua, il petrolio e l’aria pulita, e come si estinguono gli ecosistemi e la loro diversità. In definitiva, il nostro tempo è quello in cui tutto finisce, perfino il tempo stesso. Non siamo in regressione. Alcuni dicono che ci troviamo in una fase di esaurimento o di estinzione. Forse non sarà vero in termini di specie ma lo è per quanto riguarda una civiltà basata su sviluppo, progresso ed espansione.

a cura di

La quotidianità dei mezzi di comunicazione, dei dibattiti accademici e dell’industria culturale ci impongono l’obbligo di pensare noi stessi a partire dall’esaurimento del tempo e quindi dalla fine dei tempi. Cerchiamo pianeti esterni. I nomi di coloro che li esplorano sono i nuovi Colombo e Marco Polo del ventunesimo secolo. Gli eroi del cinema non conquistano più il West ma Marte. C’è chi, fiduciosamente, ha già comprato il biglietto di andata. Le vie di fuga sono tracciate e i ricchi di questo mondo finito fanno già la fila. Di fatto, è già da tempo che è stata decretata la morte del futuro e dell’idea di progresso. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso, quando il futuro si trasformò in un’idea del passato, tipica di vecchi illuministi, di visionari e di rivoluzionari nostalgici. La globalizzazione prometteva un presente eterno, una stazione d’arrivo a cui pian piano anche i paesi in via di sviluppo sarebbero giunti e dove tutti i cittadini del mondo, progressivamente, avrebbero finito per connettersi. Tuttavia, negli ultimi tempi la fine della storia comincia a cambiare segno. Ciò che abbiamo davanti non è più un presente eterno né un luogo d’arrivo, ma una minaccia. È stato detto e scritto che con l’11 settembre del 2001 la realtà e la storia si sono messe in

moto nuovamente. Ma anziché chiederci “verso dove”, la domanda che ci poniamo oggi è: fino a quando? Fino a quando avrò un lavoro? Fino a quando vivrò in questa coppia? Fino a quando ci saranno le pensioni? Fino a quando l’Europa sarà bianca, laica e ricca? Fino a quando ci sarà acqua potabile? Fino a quando crederemo ancora nella democrazia? E così via. Dalle questioni più intime a quelle collettive, dal livello personale a quello globale, tutto si fa e si disfa sotto l’ombra lunga di un ‘fino a quando’. Per quanto la storia si sia rimessa in moto, restiamo orfani di futuro. Ciò che è cambiato è la relazione col presente: prima era ciò che doveva durare per sempre, ora è diventato ciò che non può più durare. Ciò che è letteralmente insostenibile. Viviamo, così, in un precipitarci nel tempo dell’imminenza, cioè in cui tutto può cambiare radicalmente o tutto può concludersi definitivamente. È difficile sapere se questa imminenza contiene una rivelazione o una catastrofe. La fascinazione per l’apocalisse domina la scena politica, estetica e scientifica. Si tratta di una nuova ideologia dominante che dev’essere isolata e analizzata prima che, come un virus, penetri nelle zone più profonde delle nostre menti”.*

Permafrost Eva Baltasar Nottetempo, 2019

Il cuore non si vede Chiara Valerio Einaudi, 2019

sullo scaffale

Il solco Valérie Manteau L’Orma editore, 2019

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CELLULOSA


Feelings “‘Cause I may be bad but I’m perfectly good at it”. Rihanna, S&M, Loud, 2010 Immagine di Emilio Antoniol

(S)COMPOSIZIONE



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