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Roberta Amirante

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Glossario

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Roberta Amirante Autrice del libro Il progetto come prodotto di ricerca. Un'ipotesi Allegra Maria Albani e Francesca Filosa

Allegra Maria Albani e Francesca Filosa: Quando e come il progetto può essere considerato il risultato di un’attività di ricerca? E cosa signifca, per un architetto progettista, autovalutare il proprio lavoro? Roberta Amirante: Un progetto può essere considerato un prodotto di ricerca quando è in grado di fornire consapevolmente un incremento di conoscenza. Quest’ultimo deve essere individuato e reso visibile dall’autore del progetto (o dagli autori, anche separatamente l’uno dall’altro) e la sua presenza deve essere attestata dalla comunità scientifca di riferimento attraverso dei valori prestabiliti che consentano di statuire la qualità dell’apporto che il prodotto fornisce alla disciplina.

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Dunque, parlare di autovalutazione signifca chiamare subito in causa il ricercatore progettista che si assume la responsabilità della scelta alternativa tra i suoi prodotti progettuali in funzione della loro qualità diferenziata, ovvero dell’attitudine dei progetti di produrre conoscenza trasferibile ad altri. L’approccio è esattamente lo stesso che viene messo in campo quando bisogna scegliere i contributi testuali più rilevanti per la Vqr o per la partecipazione a un concorso universitario. Esplicata la questione in questi termini, potrebbe sembrare semplice stabilire se e quando un progetto contribuisce ad accrescere la conoscenza, ma non lo è afatto.

Anche se è innata nell’uomo la capacità di esprimere un giudizio di valore sull’interesse del progetto di architettura, individuandolo con

logiche personali, intuitive e frammentarie, questo processo di indagine fatica ad assumere la dimensione costruttiva, ampia e condivisa, che è tipica delle acquisizioni della ricerca scientifca.

Nel libro provo ad afrontare questo problema, rivolgendomi solo a coloro che insegnano la progettazione architettonica, perché mi sembra che a questo nucleo duro sia richiesta una rifessione collettiva. Se non altro per qualifcare la sua presenza ormai secolare nell’Università (e non più nelle Accademie di Belle Arti) e per segnalare la sua maniera originale di essere una comunità scientifca fondata sulla cultura del progetto.

Questo perché la pratica della progettazione non è basata sulle tradizionali procedure di “inferenza” della scienza, cioè sui metodi di deduzione e induzione che muovono da certezze o puntano a costruirle, ma poiché essa è sempre legata al caso singolo, non può che essere fondata su ipotesi e non può che produrre conoscenze incerte. Di conseguenza non è difcile proiettare questa condizione su quella di un progettista che, partendo da ipotesi incerte, cerca di rispondere ai bisogni e ai desideri del committente, producendo delle scelte che si discostano, inevitabilmente, da quelle già realizzate nel passato - recente o remoto - creando ogni volta soluzioni “singolari”.

AA: Come si può considerare il valore di un progetto? RA: Nel libro ho rifettuto solo su come un progetto possa essere sottoposto a valutazione e non su quali dovrebbero essere i parametri con cui esso debba essere valutato. Non credo, infatti, che sia possibile istituire classifcazioni astratte. La mia idea consiste, piuttosto, nel provare ad estrarre i protocolli della valutazione da una sperimentazione collettiva. Per farlo credo che il metodo migliore sia redigere una rivista. Quest’ultima, nella prima fase della sua esistenza, dovrebbe accogliere i progetti che gli autori considerano rilevanti dal punto di vista della ricerca.

Tra l’altro, da alcuni esperimenti fatti negli ultimi due anni, ho tratto la conclusione che la capacità di ricostruire il processo progettuale, di esibire i materiali disciplinari che lo hanno animato e le tecniche progettuali che ne hanno consentito lo sviluppo, non è afatto così difusa come potremmo pensare. Per altri versi ho anche potuto verifcare che coloro che si prestano a costruire questo racconto si limitano, quasi sempre a singoli capitoli. Per esempio, dal rapporto tra le richieste della committenza o le prescrizioni e le scelte del concept; o al contrario, tendono a muovere da scelte formali date per scontate senza alcuna consapevolezza

della loro originaria incertezza, con una evidente difcoltà, cioè quella di “mettere in discussione”, come scrive François Jullien nel suo libro Essere o vivere (Feltrinelli, 2016).

Credo quindi che un buon punto di partenza per il consolidamento di una comunità scientifca che voglia valutare il progetto potrebbe essere prima di tutto un accordo sulla forma del racconto che lasci liberi i singoli progettisti sulla sua articolazione. Ad esempio, penso che si potrebbe partire dall’inizio o dalla fne. Più che ricostruire - magari forzatamente - una verità del percorso, si potrebbe decidere di darne semplicemente una versione convincente. Quello a cui bisognerebbe puntare è individuare tutti quei punti in cui il progetto si è dovuto basare su delle ipotesi più che su delle certezze, là dove, nel suo percorso, si è trovato di fronte a più possibilità di scelta. La segnalazione di questi bivi, trivi, quadrivi, dà conto della consapevolezza e della eventuale rischiosità delle ipotesi che hanno guidato la singola scelta o la loro successione. Fare questo aiuterebbe a moltiplicare la quantità e il valore dei materiali che vengono tirati in ballo per sostenere le scelte insieme alla possibilità di falsifcare il progetto. In questo caso la falsifcazione ottenuta diventerebbe produttiva: scegliendo a ogni bivio, trivio, quadrivio, altri percorsi rispetto a quelli del progetto originario, altri progettisti potrebbero costruire nuovi esemplari che somiglino solo in parte a quello di partenza. A ben pensare, questo è quello che ciascuno di noi fa, in maniera molto più frammentaria, quando sceglie un progetto - o parte di esso - come riferimento, dimostrando implicitamente che esso ha prodotto un aumento di conoscenza.

Vorrei che la valutazione dell’aumento di conoscenza prodotto da un progetto possa essere frutto di un’autovalutazione incardinata su un programma comune capace di consentire alcuni tipi di comparazione fondati proprio sulla costanza della forma racconto.

Nei mesi che sono passati dall’uscita del libro ho rifettuto a lungo sulla logica di valutazione. Peirce diceva “hope to guess right” (la speranza di indovinarci). Forse io scommetterei sul fatto che i progetti fondati su più ipotesi successive, quelli più ricchi di materiali e di tecniche messi in gioco, abbiano più possibilità di produrre un maggiore aumento di conoscenza. Per fare questo però bisognerebbe intendersi sul senso e sul valore di questa ricchezza, ma visto che non è questo il luogo per farlo, prendetela solo come una scommessa azzardata.

Quello che si potrebbe dire con relativa certezza è che i progetti capaci di aumentare la conoscenza in modo più consistente, sono quelli

capaci di afrontare un compito strano o quelli capaci di interpretare come strano un compito solo apparentemente banale. Quelli capaci di muoversi, dunque, su percorsi non tracciati prima o solo in parte tracciati in precedenza.

Peirce, quando parla di "abduzione", fa ricorso al termine strano e sostiene che l’abduzione può essere espressa come un “ma vuoi vedere che …?”. Per fare un esempio possiamo pensare a Le Corbusier che si chiede: “ma vuoi vedere che una casa può somigliare a un transatlantico?”. Naturalmente più l’ipotesi è strana, più è difcile dimostrarla, soprattutto quando questa dimostrazione non può avvenire con un’evidenza scientifca tradizionale, ma deve porsi il problema di essere convincente per la comunità che deve accoglierla. In questo senso, la stranezza dell’ipotesi può anche essere meno esasperata. Ancora per fare un esempio, possiamo pensare al modo con cui Wright modifca il concetto di tipologia domestica con le Prairie Houses o quello di museo con il Guggenheim. Nel tentativo di rifettere su questi spostamenti - ricordo che il termine abduzione signifca spostamento laterale - ho cominciato a ipotizzare che l’aumento di conoscenza dipenda anche dalla capacità di alcuni progetti di proporre degli accostamenti inusuali tra immagini che appartengono a universi tradizionalmente distanti, ma anche su questo sono appena all’inizio.

FF: La parola abduzione nel libro è al centro del suo ragionamento. Ci potrebbe spiegare meglio in quali termini va intesa? RA: Il riferimento all’abduzione è utile soprattutto per collocare in una dimensione scientifca la narrazione del progetto. Il ricorso a questa parola consente di allargare il campo della scientifcità anche al caso e, soprattutto, serve per conquistare quei progetti (e quei progettisti) che non credono che il progetto possa muoversi nell’ambito di sistemi logico-deduttivi e che ne valorizzano invece solo gli aspetti creativi, memoriali, analogici, casuali, automatici. Massimo Bonfantini, uno dei principali studiosi dell’abduzione, la defnisce come “movimento di pensiero che introduce una novità per risolvere un problema o per far fronte a una difcoltà o per dare soddisfazione a un desiderio”. Problema, difcoltà, desiderio, sono tre parole chiave per defnire l’origine del progetto, così come la parola novità che segnala la tendenziale unicità dell’esperienza progettuale. L’abduzione, infatti, viene considerata dai flosof della scienza, insieme alla deduzione e all’induzione, una forma di inferenza.

La deduzione parte da una regola data per certa, ne fa discendere conseguenze o conclusioni e si conclude con una tesi. L’induzione muove dall’osservazione dei fenomeni e tende ad associarli: la sua fnalità è la defnizione di una regola valida fno a prova contraria. L’abduzione parte, invece, da un caso singolo che è strano - o che viene visto come tale - e non va alla ricerca di una regola ma solo delle spiegazioni di quel caso: la sua conclusione è un’ipotesi, relativamente incerta, ma sulla base della quale è possibile aprire nuovi orizzonti per la rifessione o per tipologie diverse di azione. L’abduzione è l’inferenza tipica dell’indagine, che nella congiunzione di tracce e d’indizi possono formare una prova e, per questo motivo, alcuni flosof della scienza la chiamano "retroduzione".

Nel libro faccio un esempio volutamente estremo: secondo la scienza tradizionale Eva, messa di fronte alla morte di Adamo, non avrebbe potuto inferire nulla, non c’era una casistica precedente che determinasse una ragionevole certezza. Eppure Eva, a partire dalla morte di Adamo, può fare almeno una cosa, può ipotizzare (l’abduzione si chiama anche ipotesi) che anche lei potrebbe morire. Questa ipotesi - evidentemente incerta - la metterebbe in condizione non solo di provare a capire il perché e il come Adamo sia morto, ma anche come potrebbe ritardare la propria morte, evitando per esempio, di fare ciò che Adamo ha fatto in prossimità della propria morte. E sempre basandosi sulla capacità di cogliere una somiglianza tra un caso singolo e altri casi, Eva potrebbe scorgere una somiglianza, certamente più labile, tra Adamo e un leone e formulare una nuova ipotesi, certamente più incerta della precedente, ma proprio per questo ancora più potenzialmente produttiva: se anche il leone fosse mortale, come Adamo, forse lei potrebbe riuscire a farlo morire. Questa ipotesi potrebbe portarla ad aprire un nuovo orizzonte, attraverso la costruzione di una catena di ipotesi con la quale Eva può arrivare a trovare o a costruire gli strumenti per uccidere il leone.

L’abduzione nasce proprio dalla capacità di vedere una stranezza che altri non vedono, dalla capacità di cogliere la potenziale produttività dell’ipotesi che può spiegarla e soprattutto dalla capacità di convincere altri (per esempio la comunità scientifca, o coloro che devono fnanziare una ricerca) della validità di quell’ipotesi.

Un’esemplifcazione molto utile è presente nel flm Il mio amico Einstein che racconta la storia di quest’ultimo e della sua collaborazione con lo scienziato inglese Eddington, che lo aiuterà sperimentalmente a dimostrare la teoria della relatività. Non fu facile per lo scienziato inglese

convincere la comunità scientifca di riferimento che l’ipotesi di Einstein era valida. Soprattutto perché Einstein apriva una breccia nella validità della teoria della gravitazione universale di Newton, a partire dalla capacità di considerare strana una piccola anomalia dell’orbita di Mercurio. Una cosa che tutti consideravano normale, visto che la teoria di Newton aveva funzionato per tanto tempo, spiegando tanti fenomeni.

Tomas Kuhn, a proposito di casi come questo parla di rivoluzioni scientifche: potremmo dire che tali rivoluzioni nascono sempre da un’inferenza abduttiva, da un pensiero laterale, da uno sguardo capace di vedere l’eccezionalità, come per noi architetti ha detto Le Corbusier. Poter accostare lo sviluppo di un progetto all’inferenza abduttiva è stato utile per formulare l’ipotesi di una rivista specialistica che potesse ospitare dei racconti illustrati, pubblicati da ricercatori-progettisti disponibili a presentare il progetto come portatore di un aumento di conoscenza. Il racconto dovrebbe allora esplicitare le ipotesi (incerte per defnizione, come l’inferenza abduttiva ammette) che hanno guidato le scelte, con lo scopo di concatenanarle logicamente e di segnarle quando sono intervenuti degli automatismi o delle casualità e mettere in mostra i materiali che sono intervenuti a orientare queste scelte o a praticarle. Il tutto tirando in ballo il più possibile i termini di quella "disciplinaria" che per Tomas Kuhn rappresentava il patrimonio comune, quell’insieme di credenze, di principi, di materiali, di regole, di tecniche, di esempi che dovrebbe rappresentare la piattaforma di una comunità disciplinare

AA: Dalla lettura del suo testo si evince la necessità di trovare un codice condiviso che permetta una valutazione il più possibile oggettiva dei progetti di architettura intesi come prodotti scientifci, quindi capaci di dare un contributo alla disciplina. Quale potrebbe essere il format da utilizzare? RA: Più che di codice condiviso parlerei di piattaforma condivisa. La quale però non deve essere costruita all’inizio ma alla fne di un processo. Come già ho accennato, penso che la prima cosa da fare, non sia costruire questa piattaforma, ma piuttosto invitare tutti i componenti della comunità scientifca dei progettisti, prima a scegliere poi a valutare o autovalutare un progetto, nella forma che più sembra loro adatta a mettere in luce l’aumento di conoscenza che il progetto contiene. È superfuo sottolineare che, come non tutti i nostri scritti sono dotati di una connotazione di ricerca, così probabilmente non tutti i nostri progetti la possiedono. Ne consegue che la scelta dei progetti da presentare alla valutazione è già di

per sé signifcativa. Credo che non sia molto utile pensare di proporre (e tanto meno di imporre) in prima battuta un format da usare per questo racconto. Meglio sarebbe provare a estrarlo man mano a partire dalle proposte dei singoli. In riferimento alla vostra Scheda valutativa credo quindi che, più che dei parametri per la valutazione, le parole che voi avete inserito nella scheda potrebbero essere una buona base di partenza per impostare il racconto, un po’ come delle parole chiave da suggerire per rendere i diversi esperimenti tra loro confrontabili.

Come ho già detto in precedenza, il primo passo deve venire dalla comunità, che deve dimostrarsi pronta a iniziare questo lavoro, iniziando a ragionare sulla propria capacità inventiva, per poi condividerla con gli altri, nella convinzione del valore che questa operazione potrebbe avere per la comunità stessa, e non solo. Successivamente sarebbe necessario che qualcuno o più d’uno, mettano insieme questo materiale e mostrino l’esistenza di temi condivisi. Rivelando quei coordinamenti a distanza, quei protocolli impliciti di cui semplicemente non siamo consapevoli, anche perché non siamo abituati a scambiarceli.

Solo allora si potrebbe costruire una piattaforma comune, o un format, a partire dal materiale ricevuto. Tale format va quindi inteso non come punto di partenza ma come punto di arrivo.

FF: È possibile parlare di ricerca in un progetto realizzato che si è dovuto confrontare con i “condizionamenti” inevitabili della prassi architettonica? RA: A mio avviso sì. Si può certamente parlare di ricerca nell’ambito di progetti realizzati. Ovviamente non per tutti i progetti realizzati così come non per tutti i progetti non realizzati. Quando un progetto viaggia in conformità con una serie di materiali, di strumenti, di tecniche già praticati, e ripercorre pedissequamente strade già battute, senza mettersi in discussione, si parla più di esercizio di stile che di ricerca. Al contrario quando il progettista ragiona per ipotesi più o meno incerte, per risolvere le prescrizioni indicategli dalla committenza, è possibile trovare ricerche molto interessanti.

Nel caso di progetti realizzati infatti, una volta trascritti i termini della prescrizione, i professionisti possono intraprendere strade diverse: possono ricorrere a soluzioni già sperimentate proponendone delle variazioni; possono usare cose pensate da altri, chiamandoli riferimenti; possono appoggiarsi a soluzioni certe (gli archetipi, le tipologie) e così via. Al contrario potrebbero decidere di confrontarsi con la necessità di

intravedere quello che gli studiosi dell’abduzione proiettiva chiamano "l’assente possibile": un assente che può essere più o meno adiacente a quanto già esiste.

Nella progressiva ricerca dell’assente possibile, la necessità di dare corpo a una catena d’ipotesi diviene evidente e con essa la necessità che queste ipotesi si dispongano secondo una sorta di coerenza interna che può essere materia di argomentazione, può portare a evidenziare l’aumento di conoscenza prodotto sul caso singolo e la sua possibilità di incidere su casi somiglianti.

Pensate in quest’ottica, molte opere realizzate presentano spesso una quantità di materiali inventivi molto più corposa rispetto ai progetti non realizzati. Un arricchimento spesso dovuto a tutti i passaggi che il progetto ha dovuto afrontare dall’ideazione fno alla costruzione. Quei passaggi che sono ben spiegati da Alessandro Armando e Giovanni Durbiano nel loro testo Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli efetti (Carocci, 2017), che a volte si dimostrano così complessi da mettere in discussione il ruolo stesso dell’architetto all’interno del progetto. È interessante che l’argomentazione da loro usata per mettere in discussione il concetto stesso di autorialità possa essere integrata, e non contraddetta, dalla precisazione dei limiti dell’autorialità che il racconto del progetto come ricerca potrebbe contenere.

Nel racconto del progetto, infatti, l’architetto si pone in una posizione centrale ma solo per segnalare il proprio ruolo di coprotagonista: solo se sarà in grado di sottolineare quali e quanti sono stati i materiali predefniti nei quali si è dovuto imbattere, i problemi ai quali solo altri specialisti potevano dare soluzione, le questioni che potevano essere affrontate su base scientifca servendosi di metodologie consolidate.

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